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La seduta è aperta ( ore 9,32 ). Si dia lettura del processo verbale. SAGGESE ,
segretario, dà lettura del processo verbale della seduta antimeridiana del 5
marzo. Signor Presidente, chiedo la votazione del processo verbale, previa
verifica del numero legale. Verifica del numero legale Invito il senatore
Segretario a verificare se la richiesta risulta appoggiata dal prescritto numero
di senatori, mediante procedimento elettronico. (La richiesta risulta
appoggiata). Invito pertanto i senatori a far constatare la loro presenza
mediante procedimento elettronico. (Segue la verifica del numero legale). Il
Senato è in numero legale. Ripresa della discussione sul processo verbale
PRESIDENTE. Metto ai voti il processo verbale. È approvato. L'elenco dei
senatori in congedo e assenti per incarico ricevuto dal Senato, nonché ulteriori
comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicati nell'allegato B al Resoconto
della seduta odierna. Avverto che nel corso della seduta odierna potranno essere
effettuate votazioni qualificate mediante il procedimento elettronico. Pertanto
decorre da questo momento il termine di venti minuti dal preavviso previsto
dall'articolo 119, comma 1, del Regolamento (ore 9,37). L'ordine del giorno reca
il seguito della discussione del disegno di legge n. 1209. Ricordo che nella
seduta antimeridiana del 5 marzo la relatrice ha integrato la relazione scritta
e ha avuto luogo la discussione generale. Ha facoltà di parlare la relatrice.
Signor Presidente, onorevoli senatrici e senatori, se la parte un po' tumultuosa
alle mie spalle mi lascia parlare , risponderò al senatore Falanga, che si è
molto lamentato di aver dovuto svolgere il proprio intervento in discussione
generale prima della scadenza dei termini per la presentazione degli
emendamenti. È vero, ma questo naturalmente agevola la relatrice, cioè la
sottoscritta, che in tal modo, nella replica, può in buona sostanza prendere
posizione e spiegare perché i pareri sugli emendamenti proposti saranno di un
determinato segno. Comincerò dall'emendamento 1.1 del senatore Falanga (che
peraltro non vedo, è un vero peccato, ma procederò ugualmente). Egli, nel suo
intervento in discussione generale, ha insistito nel parlare di un provvedimento
sul quale non si era sufficientemente discusso in Commissione. Su questo tema,
invece, abbiamo discusso molto in Commissione, e in quella sede il senatore
Falanga ha sostenuto una posizione diametralmente opposta a quella di cui agli
emendamenti che ha proposto in Aula, ossia di fissare un termine rigido di
ventiquattro mesi per la durata del periodo dell'affidamento (vedo adesso
davanti a me il senatore Falanga e me ne compiaccio vivamente). Il problema su
cui si è concentrata la discussione svolta in Commissione - che è stata molto
approfondita, attenta ed assolutamente bipartisan, poiché tutte le forze
politiche vi hanno partecipato senza divisioni o preclusioni ideologiche - è
incentrato sulla necessità o meno di intervenire su quanto previsto
dall'articolo 4 della legge n. 184 del 1983. Questa stabilisce un termine
ordinatorio di ventiquattro mesi per la durata dell'affidamento, ma in casi
particolari concede al giudice la possibilità di un suo prolungamento. Molti
degli emendamenti presentati dal senatore Falanga hanno esattamente questo
scopo: stabilire un termine rigido, ventiquattro mesi e non di più. Dovrò dare
parere contrario a questi emendamenti, così come ho fatto in Commissione, perché
proprio in quella sede abbiamo ragionato sul fatto che ci debba essere una
discrezionalità nel fissare questo periodo, in quanto i casi personali ed umani
sono diversi. Il giudice deve avere la libertà di valutare la situazione del
minore nel suo superiore interesse. Se mi perdonate la citazione disneyana, se
la carrozza diventa zucca allo scadere del dodicesimo rintocco della mezzanotte,
non è che un affidamento che va bene fino al ventiquattresimo mese,
improvvisamente diventa il male assoluto al venticinquesimo. Ribadisco che deve
essere valutato ciò che è il superiore interesse del minore. Il senatore Falanga
ha suscitato inoltre un problema che esiste rispetto al tema che riguarda
l'articolo 6. Vorrei spiegare di che cosa si tratta. L'articolo 6 della legge n.
184 fissa i requisiti che una coppia deve possedere per poter accedere
all'adozione, che consistono, in buona sostanza, nel fatto che sia una coppia
coniugata, anche con una stabilità di rapporto e che sussista una determinata
differenza d'età fra la famiglia che adotta e il minore che viene adottato. Il
senatore Falanga aveva posto il problema, ma non ha trasformato questo suo
dubbio in un emendamento, altri invece lo hanno fatto, proponendo che sia
soppresso il riferimento ai requisiti di cui all'articolo 6 nel disegno di legge
di cui oggi ci occupiamo. Ebbene, io invito al ritiro degli emendamenti che
vertono su questo punto, e spiego perché. Sono personalmente convinta che la
legge n. 184 del 1983 su affidi e adozioni abbia bisogno di un tagliando e che
debba essere rivista perché - mi rivolgo al senatore Uras, che ha svolto in
discussione generale un intervento toccante dal punto di vista umano - è passato
molto tempo e sicuramente i requisiti devono essere rivalutati. Io invito tutti
i colleghi ad affrontare questa discussione in modo approfondito, cercando di
riflettere sulla necessità o meno di cambiare i requisiti: ad esempio, se siamo
sicuri, come prevedeva un emendamento presentato dal senatore Uras, che il
requisito dell'età debba passare dagli attuali quarantacinque anni ai
cinquant'anni. Su questo tema non ci sono direttive per così dire governative,
quindi affrontiamolo laicamente, confrontiamoci con le associazioni, con i
giudici che si occupano di minori, vediamo se realmente quei requisiti di cui
all'articolo 6 hanno bisogno di essere cambiati, ma facciamo una riforma
organica e non usiamo questo provvedimento, che ha un altro obiettivo, cioè
quello di preservare la continuità affettiva dei minori in stato di affidamento,
per scardinare altre cose. Preservare la continuità affettiva dei minori in
stato di affidamento è la ragione per cui dobbiamo sottolineare comunque
l'importanza dell'affido. Non può essere snaturato l'istituto dell'affido, non
può essere trasformato in una sorta di corsia privilegiata, di prenotazione del
minore da adottare. L'affido disciplinato dagli articoli 4 e 5 della legge n.
184 è uno straordinario dono di sé che le famiglie affidatarie fanno: esse
assicurano ai bambini in difficoltà un luogo sicuro in cui crescere, ma lo fanno
con assoluta generosità, perché l'obiettivo è che quel bambino o quella bambina
torni a casa sua. Di conseguenza, non possiamo trasformarlo in un mezzo per
svicolare dalle norme sull'adozione, prenotare quel minore e tenerselo come
figlio, perché vorrebbe dire che abbiamo completamente stravolto l'obiettivo
dell'affidamento. L'affidamento è prezioso per la gratuità del dono delle
famiglie affidatarie, ma soprattutto per i minori, nel loro superiore interesse,
perché l'obiettivo principale è che il minore torni a casa, non che trovi una
seconda famiglia. Ci sono però situazioni in cui questo non è possibile. È
possibile che qualche volta il bambino non possa tornare a casa, e allora cosa
ne facciamo? Se è possibile, se quella famiglia ha i requisiti di cui
all'articolo 6, allora è giusto che il bambino resti lì. È a questo che serve
questo disegno di legge, a dare la possibilità alle famiglie affidatarie, in una
situazione di prolungato affidamento, di presentare la domanda di adozione. Si
preserva la continuità affettiva, perché l'obiettivo principale è sempre e
soltanto il superiore interesse del minore. PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il
rappresentante del Governo. Signor Presidente, signori senatori, ringrazio la
relatrice, senatrice Filippin, per aver toccato tutti i punti del provvedimento.
Anche il Governo vuole evidenziare in quest'Aula l'importanza e l'equilibrio
raggiunto nel testo base, che affronta tutte le questioni. La stella polare che
ha guidato la Commissione giustizia, che ringrazio, e che il Governo ha seguito
è stata proprio quella di porre al centro l'interesse del minore. Quindi, oggi,
in questa sede, legiferiamo per rafforzare l'interesse del minore, per
salvaguardare l'equilibrio tra i vari passaggi e istituti giuridici che nel
nostro ordinamento hanno un significato determinato e sono ben distinti e la cui
distinzione oggi vogliamo accentuare non per snaturare l'altro istituto, ma per
rafforzarlo, delineandone i confini e creando anche una certa continuità. Oggi
l'affidamento è un passaggio centrale che va sottolineato perché, sempre
nell'interesse del minore, è il momento che aiuta non solo a curare il minore
contribuendo alla crescita dei suoi affetti, ma anche a tenere un collegamento
essenziale con la famiglia di origine. Quindi, la famiglia di origine durante
l'affidamento occupa una posizione centrale accanto alla famiglia affidataria e
insieme devono fare squadra tenendosi in contatto nell'interesse del minore.
Questo è quanto vuole recepire questo testo. Al tempo stesso però, qualora poi
non fosse più possibile il ritorno del minore nella famiglia di origine, si
cerca di valorizzare il ruolo della famiglia affidataria, che è stato centrale e
importante nel percorso di crescita del minore, al momento dell'adozione.
Pertanto, una volta superato il periodo dell'affidamento, se non è più possibile
il rientro nella famiglia di origine, si cerca di garantire il ruolo della
famiglia affidataria nel procedimento di adozione. Questo è lo spirito condiviso
dal Governo, che è contrario a porre in essere atteggiamenti rigidi perché su
questa materia non si può procedere con delle rigidità. Infatti, proprio perché
le situazioni cambiano da caso a caso, nell'interesse del minore non si possono
fissare paletti troppo rigidi. Occorre consentire da un lato all'autorità
giudiziaria, nel rapporto con i servizi sociali, un confronto costruttivo e un
dialogo in cui ciascuno mantenga la propria autonomia e libertà di valutazione,
senza porre - ripeto - rigidità cui il Governo è contrario; dall'altro lato
anche in termini di tempo non ci possono essere rigidità, perché vi possono
essere situazioni che richiedono un periodo limitato di affidamento e altre che
necessitano di un prolungamento. Pertanto, anche su questo aspetto è opportuno
lasciare agli operatori e alla magistratura la possibilità di valutare caso per
caso. Il Governo quindi vuole segnalare che l'affidamento familiare comporta la
raccolta di disponibilità da parte di famiglie non originariamente orientate
verso l'adozione. Quindi è anche un modo per mettersi a disposizione del minore
per poi eventualmente maturare un convincimento che potrebbe rivelarsi utile
nella fase di adozione, una volta dichiarato lo stato di adottabilità.
L'istituto dell'affidamento mira a garantire al minore un ambiente sereno ed
idoneo durante il tempo necessario alla sua famiglia biologica per ricostruire
le condizioni per riaccoglierlo; la famiglia affidataria deve collaborare in
questo progetto, favorendo i rapporti tra il bambino e la sua famiglia. Un
progetto adottivo presente fin dall'inizio dell'accoglienza rischia fortemente
di pregiudicare il compito assegnato dalla legge agli affidatari. Occorre quindi
che questo passaggio ci sia; tuttavia, superato questo, è giusto che si affermi
una priorità e si consenta alla famiglia affidataria di continuare questo
percorso. Pertanto, no alle rigidità e sì alle elasticità, guidate però con
degli istituti che siano ben delineati e rafforzati. Comunico che sono pervenuti
alla Presidenza - e sono in distribuzione - i pareri espressi dalla 1ᵃ e dalla
5ᵃ Commissione permanente sul disegno di legge in esame e sugli emendamenti, che
verranno pubblicati in allegato al Resoconto della seduta odierna. Passiamo
all'esame dell'ordine del giorno G100, su cui invito la relatrice ed il
rappresentante del Governo a pronunziarsi. Signor Presidente, il contenuto
dell'ordine giorno è assolutamente condivisibile, sia nelle premesse, sia nelle
sue conclusioni. Al fine di esprimere un parere positivo, chiedo però che venga
riformulato nel seguente modo: «Impegna il Governo a valutare l'opportunità di».
PRESIDENTE. Senatrice Mussini, accetta la proposta di riformulazione avanzata
dalla relatrice? Accetto la proposta riformulazione perché il tema è troppo
importante. Tuttavia, siccome è capitato molte volte che l'ordine del giorno
venisse ignorato (sia che si trattasse di un impegno forte, che di un impegno a
valutare), chiedo veramente che ci sia da parte di tutti - del Governo, in
primis - la sensibilità per garantire (soprattutto con gli strumenti che oggi
vengono messi a punto all'interno del Ministero del lavoro) quello che la
relatrice stessa ha detto dover rimanere l'obiettivo principale, cioè che la
famiglia venga messa nelle condizioni di poter riavere il proprio bambino.
PRESIDENTE. Invito il rappresentante del Governo a pronunziarsi sull'ordine del
giorno, così come riformulato. Il Governo è favorevole all'ordine del giorno,
nel testo riformulato. Desidero solo aggiungere che presso il Ministero del
lavoro e delle politiche sociali, che ha la delega anche sulle pari opportunità,
è stato istituito un Osservatorio sui minori. Ci sono dei gruppi di lavoro
proprio a ciò dedicati; il primo è indirizzato al tema del sostegno per la
genitorialità. Grazie a questo Osservatorio, già istituito, si stanno studiando
alcune misure. Ne parlo per evidenziare la sensibilità di questo Governo sul
tema dell'aiuto ad essere genitori e, quindi, della genitorialità. L'altro
gruppo di lavoro (anch'esso già istituito presso il Ministero del lavoro)
riguarda un sostegno alla povertà, e si propone di aiutare chi non è in
condizioni economiche tali, a volte, da poter svolgere questo ruolo. Mi
riferisco a chi è impedito a svolgere questo ruolo a causa della povertà. Il
Governo dunque è già presente sul tema. Ci tenevo a segnalare queste iniziative.
Ad ogni modo, ben venga questo ordine del giorno, perché consentirà al Governo
di approfondire ulteriormente questi temi, nei quali crede. Signor Presidente,
condividiamo totalmente lo spirito, l'inquadramento e l'impostazione dell'ordine
del giorno G100. Infatti, se l'obiettivo primario è veramente poter ricostruire
il nucleo originario della famiglia, è proprio la famiglia originaria che va
aiutata. Abbiamo visto più volte che nelle comunità familiari gli affidamenti
hanno costi sociali esorbitanti, arrivando anche a 3.000 euro al mese per
ragazzo minore affidato. Possiamo pensare che, con la minima parte di queste
cifre di aiuto alla famiglia, si potrebbero mettere effettivamente i nuclei
originari in condizione (se non lo erano) di poter provvedere all'accudimento,
alla formazione e a quant'altro dei propri figli. La Presidenza ne prende atto.
Essendo stato accolto dal Governo, l'ordine del giorno G100 (testo 2) non verrà
posto ai voti. Passiamo all'esame degli articoli del disegno di legge, nel testo
proposto dalla Commissione. Procediamo all'esame dell'articolo 1, sul quale sono
stati presentati emendamenti, che invito i presentatori ad illustrare. Signor
Presidente, gli emendamenti che ho proposto convergono tutti verso l'obiettivo
di limitare, ovvero di predeterminare, la durata dell'affidamento (senatrice
distratta Filippin, io l'ho ascoltata quando ella ha parlato di me, adesso
vorrei che lei mi ascoltasse). Solo l'ultimo emendamento dà un suggerimento
meramente tecnico. Infatti, a questo disegno di legge avete dato come titolo:
«Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di adozioni (...)», ma
poiché la norma prevista non interviene affatto a modificare l'istituto
dell'adozione, bensì quello dell'affidamento, con l'emendamento Tit.101 vi ho
sommessamente suggerito di modificare il titolo del provvedimento in: «Modifiche
alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di affidamento di minori». Insisto
ancora affinché si affermi una durata predeterminata del periodo di affidamento
per evitare la confusione tra i due istituti. L'istituto dell'affidamento,
infatti, vede la famiglia affidataria, ovvero il soggetto affidatario (perché
anche un single può essere soggetto affidatario di un minore) a fianco della
famiglia di origine con un ruolo di sostegno al minore per garantire un
recupero, se si tratta di un recupero, o comunque, nel periodo di difficoltà
della propria famiglia di origine, per garantire che il minore venga cresciuto,
educato e accudito in sostituzione della famiglia di origine, in vista,
comunque, di un ritorno del minore nella famiglia di origine. Questo è il punto:
il giudice che dispone l'affidamento di un minore deve compiere un'operazione
elementare, semplice, di presunzione. Il giudice, cioè, deve prevedere se la
famiglia d'origine del minore potrà, in tempi brevi, dare nuovamente al minore
quell'assistenza di cui il minore necessita. Nell'ordine del giorno della
senatrice Mussini, che io condivido, direi quasi che sono stati tipizzati i casi
in cui il giudice deve procedere all'affidamento: la carcerazione di uno dei
genitori o di entrambi o un momento di separazione e di disgregazione della
famiglia d'origine. Sono casi in cui il giudice deve prevedere che per un
determinato periodo di tempo il minore avrà bisogno di un soggetto affidatario
che lo sostenga. Ecco perché propongo di evitare il prolungato periodo di
affidamento. In discussione generale vi ho citato casi in cui gli affidamenti si
sono prolungati per quindici anni: noi non possiamo non operare una netta,
decisa e convinta distinzione tra l'istituto dell'affidamento e l'istituto
dell'adozione. Ecco quindi che ho chiesto, con l'emendamento 01.1, che il
soggetto che chiede l'affidamento del minore deve dichiarare la sussistenza dei
presupposti previsti dall'articolo 6 della legge n. 184. È evidente, infatti,
che se un minore viene affidato ad un soggetto o comunque ad una famiglia che
non ha i requisiti previsti dall'articolo 6, noi possiamo scrivere le favole più
belle del mondo e dire che il giudice deve tener conto dei legami affettivi, ma
in assenza dei suddetti requisiti è inutile: il giudice, per quanto ne voglia
tener conto, ha davanti una barriera, lo scoglio dell'impossibilità di procedere
all'adozione di quel minore da parte di quei soggetti affidatari. Io voglio
responsabilizzare il giudice. Credo che i giudici abbiano la possibilità, le
capacità, la saggezza e l'equilibrio per poter assumere questa responsabilità.
Io do in affidamento un minore, quando ho la certezza che quest'ultimo potrà
sicuramente ritornare nella famiglia di origine, salvo casi eccezionali. Ma, nel
momento in cui abbiamo visto, con l'esperienza dei casi in corso in questi anni
sulla base dell'attuale norma, che questa incertezza della durata
dell'affidamento ha comportato che l'affidamento stesso si sia protratto per
sedici anni, si è realizzata di fatto un'adozione, in violazione dei requisiti
che sono richiesti dall'istituto dell'adozione per poter adottare un minore.
Senatrice Filippin, ha trovato in qualche modo contraddittori rispetto a quanto
da me asserito in Commissione alcuni emendamenti che ho sottoscritto. Per la
verità, a differenza di lei e di altri, ho la capacità di modificare i miei
convincimenti sulla base di osservazioni che mi vengono da altri. Presto molta
attenzione ai suggerimenti che mi vengono dai miei interlocutori e
frequentemente si verifica anche che, se il mio interlocutore è intelligente ed
afferma cose condivisibili, io veda il mio pensiero modificato. Lei sa bene che
gli emendamenti che ho fatto miei erano di mano e di mente diversa; erano
infatti della senatrice Alberti Casellati, che io stimo molto anche sul piano
scientifico, perché in materia è particolarmente attenta e preparata. La
senatrice Alberti Casellati aveva immaginato questa norma, mi ha convinto e
quindi ho fatto miei questi emendamenti. Non si tratta di cadere in
contraddizione: semplicemente, a differenza sua o di altri, se qualcuno mi
convince nell'interesse preminente, in questo caso del minore (quindi capisce
quanta attenzione dobbiamo prestare all'argomento), modifico il mio pensiero.
Lei probabilmente no, ma io sì. Per concludere, signor Presidente, sul termine
prefissato di due anni per l'affidamento io ribadisco il mio convincimento circa
l'opportunità che il giudice, nel momento in cui dichiara affidato un bambino a
terzi (cioè ad altri soggetti), preveda il periodo dell'affidamento. Infatti, se
non vi è la possibilità del recupero, trascorso un tempo limitato di
affidamento, allora il giudice deve procedere all'adozione e al decreto di
adottabilità. È chiaro che, così facendo, si elimina quella confusione per cui i
due istituti che, comunque sia e per quanto ci sforziamo di tenere distinti (qui
comprendo ed apprezzo lo sforzo della senatrice Filippin), vanno necessariamente
l'uno a fianco all'altro, per la loro natura e per la loro funzione sociale; e
spesso può capitare che si confondano l'uno con l'altro, anche nel
convincimento, anche nel rapporto, anche nel legame affettivo. Il genitore cui
viene affidato un bambino, dopo dieci anni, si è convinto che quello è suo
figlio - credetemi - ed è un bene che sia così per il minore. Il minore che
viene affidato per un periodo limitato di tempo deve sapere che egli è ospite in
quella famiglia in quanto da essa accudito e sostenuto, ma che la sua famiglia è
un'altra. Il minore che viene adottato, invece, deve entrare nella famiglia
nella veste di figlio, sentirsi figlio e sentire padre e madre i due genitori
che l'hanno adottato. Per queste considerazioni, insisto perché vengano
approvati i miei emendamenti ed intanto chiedo alla senatrice Mussini di poter
sottoscrivere il suo ordine del giorno, che nei contenuti posso dire di
condividere. Signor Presidente, ho presentato alcuni emendamenti che sono basati
su un concetto: la legge in vigore, molta parte del cui testo resta immutato
anche qualora il disegno di legge in esame fosse approvato, distingue in modo
radicale l'affidamento dall'adozione. L'affidamento - e non lo afferma
un'opinione, bensì l'articolo 5 della legge n. 184 del 1983 - non è un'adozione
provvisoria, non è un atto prodromico all'adozione o un suo succedaneo: è parte
di un progetto volto, ove possibile, a ripristinare le condizioni tali per cui
il minore può ritornare nella sua famiglia di origine. La famiglia affidataria
dovrebbe essere, anzi, è il principale ma non l'unico protagonista di questo
progetto, oltre naturalmente al minore. Per questo, fin dall'inizio la famiglia
affidataria dovrebbe essere cosciente di questa differenza: non deve
precostituire le condizioni perché questo affidamento diventi stabile ovvero
diventi un'adozione, ma dovrebbe fare esattamente l'opposto. Per queste ragioni
è opportuna la distinzione ora vigente tra l'affidamento e l'adozione.
L'articolo 5 della legge n. 184, al comma 2, afferma che: «Il servizio sociale,
nell'ambito delle proprie competenze, su disposizione del giudice ovvero secondo
le necessità del caso, svolge opera di sostegno educativo e psicologico, agevola
i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore,
secondo le modalità più idonee avvalendosi anche delle competenze professionali
delle altre strutture (...)». Il comma 1 dello stesso articolo stabilisce anche
che l'affidatario deve tener conto delle indicazioni dei genitori della famiglia
di provenienza, naturalmente ove possibile, ove questi ci siano, ma se non ci
fossero non ci sarebbe un affidamento bensì un'adozione. La legge stabilisce
anche che l'affidamento dovrebbe avere un termine massimo di ventiquattro mesi,
prorogabile solo in gravi casi. Tuttavia, quanti operano realmente in questo
settore ci dicono che in realtà il termine di ventiquattro mesi viene ritenuto
minimo anziché massimo; di solito in quei ventiquattro mesi non c'è alcun reale
tentativo di reinserimento nella famiglia di origine e la proroga viene fatta in
modo quasi automatico, tanto che si hanno casi di affidamento di quattro, sei,
sette o otto anni. È chiaro che dopo un periodo così lungo viene a crearsi
inevitabilmente un rapporto tale per cui in questo senso diventa opportuno
l'inserimento del capoverso 5- bis che fa sfociare quasi naturalmente in
adozione ciò che è affidamento. Bisognerebbe applicare la legge in vigore oggi e
continuare ad applicarla: il termine di ventiquattro mesi dovrebbe essere
rispettato, ma il progetto che dovrebbe essere elaborato dai servizi sociali
nella maggior parte dei casi non c'è. E non c'è per una serie di ragioni: perché
questo progetto richiederebbe e presupporrebbe una continuità nel personale dei
servizi sociali, che spesso non c'è. Ci sono delle supplenze, dei trasferimenti,
degli spostamenti e degli avanzamenti di carriera, per cui in questo arco di
tempo, che dovrebbe durare al massimo due anni, se il bambino e la famiglia
affidataria avessero rapporti con i servizi sociali lo avrebbero con una serie
di persone diverse, la cui efficienza e buona volontà (che peraltro non possiamo
dare per scontate, perché sono esseri umani anche loro) sarebbero comunque
insufficienti a supplire al continuo ricambio. Ci troviamo in una situazione per
la quale, visto che la legge oggi non è applicata (e sarà applicata ancora meno,
se approveremo queste norme), finiamo col prendere atto di questa mancata
applicazione. L'affidamento dovrebbe essere totalmente diverso dall'adozione, e
non perché sia una misura di serie B. È un gesto nobilissimo quello delle
famiglie che accettano dei bambini in affidamento, così come quello delle
famiglie che li accettano in adozione, ma tale istituto dovrebbe essere
disgiunto dall'adozione. È la stessa differenza che intercorre tra l'insegnante
e la famiglia. Sono due istituti diversi. L'insegnante deve prendersi la massima
cura dei ragazzi che gli sono affidati, come deve fare l'affidatario, ma non
sono suoi figli e non lo diventeranno. Ma come dice la legge, giustamente, nelle
parti che non vengono modificate, l'affidamento dovrebbe fare esattamente
l'opposto dell'adozione e prevedere un progetto che consenta a questi bambini di
ritornare nelle loro famiglie originarie. Vogliamo poi dire due parole
sull'articolo 403 del codice civile e sul fatto che un impiegato dei servizi
sociali, senza che il magistrato c'entri in alcun modo, magari un assistente
sociale supplente, decide che dei bambini non vivono in un ambiente familiare
adatto (magari perché la casa non è sufficientemente pulita e comoda)? Questi
bambini vengono prelevati a scuola, perché i genitori non li vedano e loro non
vedano i genitori, portati in un luogo lontano dalla loro residenza, e quindi
strappati alla loro famiglia, alla loro scuola e poi dati in affidamento a
qualcuno. È chiaro che dopo un trauma di questo genere il problema emerge. Ma
non dovremmo piuttosto intervenire su ciò che sta alla radice, cioè
sull'articolo 403 del codice civile, prima di intervenire sulle conseguenze?
Quando parliamo di bambini in affidamento, noi parliamo col cuore e, al pensiero
di avere in affidamento un bambino, siamo d'accordo sul fatto che ci si
affezioni dopo dieci minuti. Figuriamoci quindi dopo due anni, quattro o sei,
che è il termine fino al quale spesso, illegalmente, viene protratto
l'affidamento. E qual è l'origine di questo affidamento? Il fatto che questi
bambini vengono portati via, rapiti in una scuola, senza che i genitori vengano
neanche informati su dove si trovino. E magari questi genitori hanno la sola
colpa di non avere una casa che i servizi sociali ritengano adeguata, senza
magari averla mai vista. Forse sarebbe meglio avere un po' più di cautela e
guardare all'insieme del provvedimento senza limitarci a dire: gli affidatari si
sono affezionati ai bambini, perciò lasciamoli a loro. La seduta è aperta (ore
9,32). Si dia lettura del processo verbale. CARBONE, segretario, dà lettura del
processo verbale della seduta del giorno precedente. PRESIDENTE. Non essendovi
osservazioni, il processo verbale è approvato. L'elenco dei senatori in congedo
e assenti per incarico ricevuto dal Senato, nonché ulteriori comunicazioni
all'Assemblea saranno pubblicati nell'allegato B al Resoconto della seduta
odierna. L'ordine del giorno reca: «Informativa del Ministro della giustizia
sull'attuale situazione nelle carceri». Ha facoltà di parlare il ministro della
giustizia, onorevole Bonafede. Signor Presidente, come è noto, a partire dal 7
marzo si sono verificati gravi disordini in numerose carceri di tutta Italia.
Senza usare giri di parole, gli eventi hanno riguardato trasversalmente quasi
tutte le Regioni d'Italia, declinandosi in maniera differente nei singoli casi.
Possiamo dire, infatti, che in alcune città, come per esempio Treviso, Torino,
Rovigo e Potenza, si è trattato di manifestazioni di protesta senza danni,
mentre in altri casi, come per esempio a Modena, Napoli e Foggia, si è trattato
di vere e proprie rivolte, durate ore, che hanno portato anche a drammatiche
conseguenze. Permettetemi innanzitutto di ringraziare la Polizia penitenziaria e
tutto il personale dell'amministrazione penitenziaria , perché ancora una volta
stanno dimostrando professionalità, senso dello Stato e coraggio
nell'affrontare, mettendo a rischio la propria incolumità, situazioni molto
difficili e tese, in cui ciò che fa la differenza è spesso la capacità di
mantenere i nervi saldi, la lucidità e l'equilibrio nell'intuire e scegliere in
pochi istanti la linea di azione migliore per riportare tutto alla legalità. Mi
piace sottolineare che in tutti i casi più gravi le istituzioni si sono
dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le Forze dell'ordine
sono intervenuti senza esitare, rendendo ancora più determinato il volto dello
Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando. Vorrei
soffermarmi un attimo su questo punto. Fuori dalla legalità e addirittura nella
violenza non si può parlare di protesta; si deve parlare semplicemente di atti
criminali. Lo dico anche per sottolineare che le immagini dei disordini e gli
episodi più gravi sono ascrivibili a una ristretta parte dei detenuti. La
maggior parte di essi, infatti, ha manifestato la propria sofferenza e le
proprie paure con responsabilità e senza ricorrere alla violenza. Il tempo che
mi è concesso non mi consente di riferire nel dettaglio dei singoli casi in ogni
città, pertanto trasmetterò in data odierna una relazione dettagliata del
Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, relazione che comunque non può
essere considerata definitiva, visto che la ricostruzione degli eventi, le cause
e le relative conseguenze sono tutt'ora in fase di accertamento. Si tratta di
fatti che, tra l'altro, sono all'attenzione della magistratura. Ritengo comunque
opportuno informare adesso il Parlamento sul caso di Foggia, precisando che si
tratta di informazioni emerse dalle prime relazioni di servizio e che
chiaramente verranno approfondite sotto ogni aspetto. A Foggia il 9 marzo 2020,
intorno alle ore 9,40, alcuni detenuti hanno cominciato la rivolta appiccando il
fuoco a lenzuola e materassi e danneggiando suppellettili all'interno delle
camere di pernottamento, attivando l'intervento della polizia penitenziaria. Nel
frattempo, un numero consistente di altri detenuti, circa 200, in quel momento
presenti nei cortili di passeggio a colloquio con il comandante, in massa
imboccavano il corridoio verso l'uscita dei reparti. Durante il percorso
forzavano i cancelli tra le sezioni favorendo l'uscita di altri detenuti e, dopo
un tentativo di raggiungere la direttrice, nel frattempo sopravvenuta, tentativo
fallito grazie all'intervento della polizia penitenziaria, proseguivano nella
loro azione scardinando il cancello interno della porta carraia, riuscivano a
vincere le resistenze della polizia penitenziaria e si portavano fuori dalle
mura perimetrali dell'istituto in 72. Successivamente, grazie al lavoro
congiunto della polizia penitenziaria e delle altre Forze dell'ordine,
tempestivamente allertate, 56 di loro sono stati riportati in carcere. Allo
stato risultano latitanti 16 detenuti, che erano soggetti al regime di media
sicurezza. Risultano gravi danni strutturali. Il bilancio complessivo di queste
rivolte è di oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia
vicinanza e l'augurio di pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i
detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili
all'abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini. Tali
vicende si collocano all'interno della drammatica emergenza che sta sottoponendo
il Paese a una prova durissima ed è evidente che tanti detenuti siano
effettivamente preoccupati, soprattutto in condizioni di sovraffollamento,
dell'impatto del coronavirus sulla propria salute e sulle condizioni detentive.
È bene chiarire che, fin dalle prime avvisaglie dell'epidemia, il Dipartimento
dell'amministrazione penitenziaria si è mosso per salvaguardare la salute e la
sicurezza di tutti coloro che lavorano e vivono in carcere. Con la prima nota
del 22 febbraio 2020 si disponeva l'esonero di tutti gli operatori penitenziari
residenti o dimoranti nei Comuni del primo cluster da recarsi in servizio presso
le rispettive sedi; il divieto di ingresso per chiunque (personale esterno,
insegnanti, volontari, familiari, per fare alcuni esempi) provenisse da quei
territori; la sospensione delle traduzioni dei detenuti da e verso gli istituti
penitenziari dei provveditorati di Torino, Milano Padova, Bologna, Firenze; la
costituzione di un'unità di crisi per il monitoraggio dell'andamento del
fenomeno e delle informazioni relative ai casi sospetti o conclamati e per
l'adozione tempestiva delle conseguenti iniziative. Il 25 febbraio si procedeva
all'inoltro della circolare del Ministero della salute a tutte le articolazioni
dell'amministrazione penitenziaria, invitando i provveditori e i direttori
locali a contattare le unità sanitarie locali per uniformarsi alle direttive e
adeguare il contesto penitenziario di riferimento; a predisporre negli istituti
spazi dove allocare eventualmente i detenuti per consentire l'eventuale fase di
isolamento nei casi di sospetto contagio; a interloquire con le autorità
giudiziarie competenti per concordare le modalità di eventuali traduzioni per
motivi di giustizia, valutando anche la possibilità di garantire la presenza del
detenuto con il supporto della videoconferenza. Si segnala, inoltre, la
particolare attenzione da porre rispetto ai detenuti provenienti dall'esterno, i
cosiddetti nuovi giunti, predisponendo delle piccole tensostrutture da dedicare
al cosiddetto pre -triage. Attualmente sono 83 le tensostrutture ed è stata
richiesta la fornitura, per le Regioni Emilia-Romagna, Lazio e Abruzzo, di
ulteriori 14 tende. Veniva infine fatta richiesta ai provveditorati di
individuare il fabbisogno relativo ai dispositivi di protezione, con particolare
riferimento a tutto il personale che svolge servizi operativi o attività che
possano comportare esposizione diretta al contagio; rilevazione che veniva
inviata al comitato operativo della Protezione civile il 28 febbraio. Nel
frattempo, con la nota del 26 febbraio 2020, si richiedeva ai direttori degli
istituti penitenziari di avviare una capillare attività di informazione e di
sensibilizzazione della popolazione detenuta, perché fosse informata e potesse
condividere eventuali disposizioni da adottare, soprattutto con riferimento alla
temporaneità delle stesse, per limitare le occasioni di possibile contagio o
comunque lo sviluppo e la diffusione del virus all'interno degli istituti. Si
tratta di atti amministrativi poi confluiti nei più noti e recenti decreti-legge
del 2 marzo 2020, n. 9, e del 9 marzo 2020, n. 14. È opportuno ricordare che
quest'ultimo, tra le misure a tutela della salute dei detenuti, annovera, per un
periodo di quindici giorni, una limitazione dei colloqui con i congiunti o con
altre persone cui hanno diritto i detenuti, stabilendo al contempo un'estensione
- ove possibile e anche oltre i limiti - dei colloqui a distanza. Si tratta di
un tempo tecnico necessario per affrontare tutte le cautele per consentire una
pronta ripresa dei colloqui familiari. Proprio ieri è arrivata la prima
fornitura di circa 100.000 mascherine, che sono in fase di distribuzione,
prioritariamente destinate agli operatori che accedono dall'esterno. Da oggi,
d'intesa con la Protezione civile, anche in conseguenza dell'estensione della
cosiddetta zona protetta a tutto il territorio nazionale, verranno effettuati i
tamponi ai detenuti trasferiti a vario titolo, in aggiunta alle operazioni di
pre -triage. È evidente che tutti questi sforzi, profusi dall'amministrazione al
solo scopo di evitare che l'epidemia si faccia largo nelle carceri, rischiano di
essere gravemente compromessi dalle rivolte di questi giorni che hanno causato
l'inagibilità di un numero elevatissimo di posti detentivi. A Modena, per
esempio, gran parte dell'istituto è diventata inagibile. Stiamo parlando di
rivolte portate avanti da almeno 6.000 detenuti su tutto il territorio
nazionale, quasi contemporaneamente, che di fatto hanno messo in evidenza le già
note carenze strutturali del sistema penitenziario. Ora, possiamo anche
imbatterci - come qualcuno ha fatto - in una lunga disquisizione tra visione
securitaria e visione trattamentale. A tal proposito, sarebbe abbastanza
semplice replicare che, da quando sono Ministro della giustizia, ho previsto
2.548 agenti di polizia penitenziaria in più, di cui 1.500 già in servizio e 754
prossimamente. Quanto all'area trattamentale, ho previsto un numero di
protocolli di lavoro che non ha precedenti, senza considerare gli investimenti
dell'ultima legge di bilancio, che rafforzano enormemente il profilo della
rieducazione. Sono circostanze ben note all'attuale maggioranza, ma anche a una
parte dell'opposizione, che era al Governo quando sono stati fatti gli
investimenti che sto continuando a portare avanti. E potremmo anche provare ad
avventurarci nelle responsabilità di un sistema strutturalmente fatiscente,
fingendo di non sapere che si tratta del risultato di un disinteresse per
l'esecuzione della pena accumulato nei decenni. Ma io propongo di dirci
semplicemente la verità: negli ultimi anni si sta facendo il possibile per
garantire un sistema che rispetti la dignità dei lavoratori e dei detenuti nel
mondo penitenziario. È giusto che tale impegno si intensifichi proprio in questo
periodo, in cui la salute di tutti deve essere tutelata, ed è giusto ascoltare
le rivendicazioni che arrivano anche dai detenuti che rispettano le regole e che
dimostrano di seguire un percorso di rieducazione vero. Ma dobbiamo anche avere
il coraggio e l'onestà di dire che tutto questo non ha nulla a che fare con gli
incendi, i danneggiamenti, le devastazioni, addirittura le violenze contro gli
agenti della polizia penitenziaria. Ribadisco che stiamo lavorando senza sosta
nel quadro di una più ampia battaglia contro il coronavirus. La task force
all'interno del Ministero sta preparando possibili interventi per garantire da
un lato i poliziotti penitenziari e dall'altro lato i detenuti. Ma bisogna
mantenere la calma ed essere uniti con una consapevolezza: questo è un momento
difficile per il Paese. È nostro dovere chiarire tutti insieme che lo Stato
italiano non indietreggia di un centimetro di fronte all'illegalità. Dichiaro
aperta la discussione sull'informativa del Ministro della giustizia. È iscritto
a parlare il senatore Casini. Ne ha facoltà. Signor Presidente, signor Ministro,
credo, prima di tutto in questo momento che è veramente drammatico per l'Italia,
che il nostro dibattito si debba ritrovare su un punto fondamentale: esprimere
solidarietà e gratitudine alla polizia penitenziaria e al personale che lavora
nelle carceri, che in questo momento, esattamente come i medici e gli
infermieri, meritano il plauso di tutta la Nazione. Grazie a loro possiamo
sperare di rimanere in piedi. Secondo me bisogna anche usare, per quanto ci è
possibile, un linguaggio di verità. Quando il Ministro poco fa ha ricordato un
disinteresse accumulato per anni, problemi come il sovraffollamento e condizioni
di carcerazione che tante volte non rispondono ai criteri minimi di dignità, ha
detto la verità. Purtroppo ce ne dobbiamo far carico, perché pensare che si
possa addebitare a lui o a gli ultimi Ministri una situazione che viene da
lontano è profondamente sleale, in termini personali e politici. Sleale perché
la stessa tipologia dei disordini e le morti che sono purtroppo avvenute in
queste circostanze, alcune delle quali ormai acclarate e collegate a un uso di
metadone e di sostanze stupefacenti assunte negli assalti alle infermerie e alle
strutture sanitarie, ci confermano ancora una volta che c'è una spirale tra
l'approvvigionamento delle sostanze stupefacenti, i colloqui con i familiari, la
permanenza in carcere e il sovraffollamento. Tutto questo si tiene assieme in un
unico circuito perverso, che rende le carceri molto spesso aree di produzione di
nuove emarginazioni. Pensate alle persone che hanno sbagliato, che hanno magari
gravemente sbagliato e vorrebbero semplicemente riprendere un percorso di
reinserimento nella società, come la nostra Costituzione assicura loro. Queste
situazioni vengono da lontano. In questi giorni ci sono state delle proteste.
Colleghi, qui dobbiamo intenderci su un punto; ho delle idee forse sbagliate, ma
chiare: secondo me siamo in una guerra mondiale. Questa è la terza guerra
mondiale che la nostra generazione è impegnata a vivere. Non è qualcosa di
minore, ma è destinato a cambiare le nostre abitudini assai di più che l'11
settembre. Ricordo, da presidente della Camera dei deputati di allora, come
abbiamo vissuto l'11 settembre e che cosa ci ha obbligato a fare. Certo, ci ha
obbligato a cambiare alcuni nostri comportamenti. Probabilmente da allora,
quando andiamo negli aeroporti, i controlli sono più stringenti, ma è nulla
rispetto a quello che sta accadendo oggi, che mina anche i nuclei familiari e
mette le persone nelle condizioni di non potersi vedere per paura dei contagi.
Davanti a questo scenario da guerra mondiale, il Ministro ci è venuto a riferire
di disordini che sono stati organizzati. Infatti è impossibile che potessero
scoppiare contemporaneamente sull'intero territorio nazionale e hanno diviso la
popolazione carceraria tra le persone perbene, che avevano l'autentica
preoccupazione in ordine al coronavirus e hanno fatto proteste civili,
finalizzate a colloqui con i dirigenti dei carceri (questi carcerati non vanno
abbandonati, perché si sono comportati con rispetto verso la legalità e le
istituzioni dello Stato), e gli altri, che sono come quei sabotatori che durante
le guerre mondiali agivano non contro il nemico, ma all'interno delle linee
amiche. Questi personaggi, queste violenze organizzate e questi criminali devono
avere dallo Stato la risposta di una tolleranza zero: non è possibile parlare di
atti di clemenza o di alleggerimento della pena davanti a questi facinorosi, che
devono avere una sola risposta dallo Stato: quella della fermezza nel far
rispettare le regole. Colleghi, stiamo attenti: questa è l'avvisaglia di quello
che rischiamo di veder accadere tra qualche giorno in altri settori del nostro
Stato, se la risposta non sarà ferma e decisa. Non siamo uno stato dittatoriale
e non vogliamo che il coronavirus trasformi l'Italia in uno stato dittatoriale,
perché amiamo la democrazia e perché questi banchi sono le espressioni di una
vita democratica. Anche i nostri contrasti, anche quelli che abbiamo avuto con
lei, signor Ministro, sulla prescrizione, sono figli di una vita democratica che
vogliamo rispettare. Però, colleghi, la vita democratica in momenti di emergenza
come questi, mentre i nostri vecchi rischiano di non avere la possibilità di
essere curati negli ospedali, va alimentata non solo con la comprensione, ma
anche con l'inflessibilità nel rispetto della legge. Allora, signor Ministro, mi
sento confortato dalle sue parole e ancor più mi sento confortato dai suoi
comportamenti nei prossimi giorni, perché credo che su questa frontiera delle
carceri, purtroppo, rischiamo di giocarci in questi momenti qualcosa che nelle
prossime ore - Dio non voglia - potremmo doverci giocare in altri ambiti. Lo
Stato ci deve essere, perché se potremo superare il coronavirus, lo dovremo
certamente all'intelligenza dei cittadini, ai comportamenti che cambiano della
gente, ma anche al fatto che lo Stato ci sia e faccia rispettare le regole.
Signor Presidente, partiamo dall'assunto che la violenza non è accettabile e non
si fanno trattative con chi devasta le strutture carcerarie, con chi evade, con
chi crea disordini o colpisce gli agenti di polizia penitenziaria, a cui va
tutta la nostra solidarietà e il ringraziamento per il lavoro che hanno svolto e
stanno svolgendo, devo dire, in pochissimi rispetto alla popolazione carceraria.
Con coloro che hanno generato tale violenza non si può aprire alcun tipo di
trattativa. Però, caro Ministro, non è accettabile nemmeno l'incompetenza, oltre
che la violenza. Il capo del DAP ha gravissime responsabilità in questa vicenda
ed è bene che vada a casa perché non si può far finta che nulla sia accaduto. La
tempesta perfetta di un'Italia zona rossa sanitaria ed economica, a cui si somma
lo tsunami che arriva dalle carceri - l'emergenza nell'emergenza - è qualcosa
che non possiamo permetterci. In quelle carceri così affollate c'è lo specchio
di quelle politiche giustizialiste che tante volte abbiamo contestato. In questi
anni, attraverso politiche sbagliate, si è reso più facile l'ingresso in
carcere; sono state rese più lunghe le condanne ed è stato reso più difficile
uscire dal carcere, con un'idea perversa che si è incuneata nella nostra
democrazia, e cioè che quanta più gente c'è in galera tanto più il nostro
sistema di giustizia e di sicurezza funziona. È l'esatto contrario, signor
Ministro: rieducare, dice la nostra Costituzione, e invece noi ci esaltiamo
quando riusciamo a dire e a gridare di mettere sotto chiave, di punire.
Sessantamila persone l'una sull'altra in quelle celle; persone costrette in
condizioni pietose, tra l'altro con una previsione di crescita della popolazione
carceraria che arriverà nei prossimi anni a 70.000 unità, in una condizione per
cui, al contrario, le strutture carcerarie cresceranno in numero e in dimensioni
in maniera inversamente proporzionale a quanta gente andrà in carcere. Non è
semplice per nessuno, ma ce la stiamo mettendo tutta. Tutto questo, tra l'altro,
quando l'indice di delinquenza - per fortuna, grazie alle Forze dell'ordine e
grazie alle azioni messe in campo in questi anni - sta calando. Non c'è più la
lotta armata in questo Paese e la mafia ha abbassato il livello della sua
violenza; quindi, aumenta la presenza di detenuti nelle nostre carceri in un
contesto in cui, invece, il nostro Paese ha dimostrato di saper mettere in campo
condizioni di sicurezza adeguate. Naturalmente, condivido quanto detto dal
presidente Casini, ovvero che non si può imputare a lei, signor Ministro, la
condizione delle carceri in questo momento, però sicuramente mi chiedo come si
faccia a non comprendere - da parte di chi dirige le carceri in Italia - che in
questa situazione così drammatica basta pochissimo per scatenare il caos. Come
si è fatto a non comprendere che, con il dilagare del coronavirus e con le nuove
misure sacrosante di sicurezza che bisognava mettere in campo (la riduzione del
contatto esterno, il divieto delle visite ai familiari, la limitazione
all'apertura delle celle) si potesse scatenare il disastro a cui abbiamo
assistito in tutta Italia. Credo che tutto questo fosse abbastanza prevedibile,
soprattutto da parte di chi - come il capo del DAP - dovrebbe avere un contatto
diretto con il personale, con il direttore delle carceri, persone straordinarie
che, se fossero state consultate, probabilmente avrebbero suggerito modalità di
applicazione degli stessi provvedimenti completamente diverse. Misure del genere
assunte in questa maniera nascono da un'idea abbastanza disumana secondo la
quale chi entra in carcere, smette di essere uomo e diventa cosa. Ebbene, credo
che l'impostazione messa in campo dal DAP abbia scatenato tutto, insieme alle
modalità utilizzate per applicare le misure. I detenuti, come dicevo, sono
considerati alla stregua di oggetti e non di persone. Al contrario, se gli
stessi fossero stati responsabilizzati e coinvolti, se si fosse detto loro che
le misure prese erano finalizzate anzitutto a tutelare le loro condizioni di
salute e le condizioni di salute dei loro familiari, probabilmente non ci
sarebbe stato tutto il caos che si è invece generato, signor Ministro. Da questo
punto di vista, abbiamo la necessità di stare sicuramente uniti; di prendere
misure straordinarie e - ripeto - anche dure nei confronti di chi si è reso
responsabile di atti di violenza all'interno delle strutture. Dall'altro lato,
però, bisogna anche riuscire a costruire condizioni affinché, in contesti così
delicati come le carceri, nella situazione in cui versano e che ho rappresentato
nel mio intervento, si sia più accorti nel prendere provvedimenti così
straordinari. Lei, Ministro, doveva anticipare ciò che è accaduto. Se chi dirige
il DAP avesse costruito, con gli operatori e con tutti coloro che vivono le
carceri giorno per giorno, i provvedimenti da assumere e le modalità per
assumerli, probabilmente ci saremmo trovati in una condizione diversa. Per
questo, signor Ministro, pensiamo che non si possa silenziosamente far finta di
nulla: bisogna agire duramente nei confronti degli autori delle violenze e dei
disordini, ma bisogna anche agire su chi è stato responsabile di tutto questo,
che è il capo del DAP, e noi chiediamo che venga rimosso. Signor Presidente,
onorevoli colleghi, signor Ministro, quale esponente del Gruppo Fratelli
d'Italia ho un atteggiamento che definisco patriottico e personalmente cerco
sempre di collaborare quando si parla di questioni che riguardano l'interesse
nazionale. Ho ascoltato la sua relazione, ma nonostante i miei sforzi, mi
perdoni, Ministro, sicuramente per un mio limite personale, non sono riuscito a
capire bene quale sia la sua linea e cosa voglia fare effettivamente per
risolvere il problema della situazione carceraria. Lei è venuto qui in Aula e ci
ha fatto un elenco di fatti che già la cronaca televisiva e i social ci avevano
ben delineato, senza darci un'idea precisa di ciò che vorrà fare in futuro. Qui
non si tratta di scaricare su di lei le responsabilità passate. Dobbiamo sapere
cosa vogliamo fare per risolvere la situazione da oggi in avanti. La sua
relazione, Ministro, poteva essere benissimo letta da un qualsiasi funzionario
che si limitasse ad una mera elencazione dei fatti. Da lei avremmo preteso e
pretendiamo qualcosa di più: una presa di posizione politica, perché lei
rappresenta la responsabilità di questo Dicastero, una posizione che andasse al
di là degli scontati ma dovuti apprezzamenti alla polizia penitenziaria e alle
forze di polizia in genere. Vogliamo, quindi, sapere cosa ha intenzione di fare
riguardo alle ormai ripetute richieste, agli appelli inascoltati di chi
quotidianamente rischia la vita al servizio dello Stato. Da tempo Fratelli
d'Italia ha sollevato la questione, richiamando la sua attenzione sulle
possibili situazioni di rischio che la vicenda del coronavirus avrebbe potuto
creare nelle carceri, se non ben monitorata e anticipata per tempo. Non che noi
di Fratelli d'Italia siamo dei grandi scienziati. Basta un minimo di buon senso
e soprattutto una conoscenza non dico approfondita, ma perlomeno generale della
situazione che c'è all'interno delle carceri italiane. Il sovraffollamento ormai
generalizzato dei detenuti in strutture non idonee, personale non adeguatamente
protetto e sotto organico e una popolazione carceraria eterogenea creano le
condizioni ideali per trasformare le carceri italiane in potenziali polveriere e
a questo si è aggiunto il coronavirus. In quella occasione le abbiamo chiesto
maggiore attenzione per gli operatori della polizia penitenziaria, che già
operano in una situazione di precaria sicurezza sia fisica che sanitaria.
Purtroppo, siamo stati facili profeti, alla luce delle rivolte che ci sono state
- perché queste sono rivolte, non sono proteste - in varie carceri da Salerno a
Modena, da Foggia a Pavia, a Roma, Napoli, Frosinone e Prato, con devastazioni e
gravissimi danni alle strutture, purtroppo con vittime (dobbiamo piangere delle
vittime), feriti e contusi. Dopo la prima avvisaglia, Ministro, dopo Salerno,
abbiamo pensato che lei potesse intervenire tempestivamente, ad esempio, come le
avevamo chiesto, sospendendo tutti quei provvedimenti attinenti la sorveglianza
dinamica. Chiedevamo risposte certe e forse si sarebbe potuto evitare il peggio.
Lei doveva essere il primo a preoccuparsi di questo e non l'ha fatto. Non ha mai
ascoltato non dico noi di Fratelli d'Italia - questo lo posso anche capire - ma
quei lavoratori che, come dicevo, tutti i giorni fanno il loro lavoro, in
maniera sempre più precaria, creando persino una spaccatura fra lei e loro. Non
a caso, tutte le più importanti sigle sindacali hanno deciso - se non sono stato
informato male, Ministro - di non partecipare al tavolo che lei aveva convocato,
di fatto delegittimando la sua persona in questo ruolo.