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IL NOSTROMO
emmeciquadro
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dicembre 2001
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IL COMPUTER USATO BENE
INTERVISTA A ROBERTO BUSA S.J.*
a cura di Maria Cristina Speciani e Vittorio Sacchi
Una vita lunga e feconda quella di padre Busa, il gesuita
ottantottenne che è riconosciuto come il pioniere della
linguistica computazionale. Usando il computer come
nessuno aveva mai fatto prima, con pazienza, coraggio e
ostinazione, ha approfondito il suo rapporto con l’infini-
to riscoprendo sul fondo «la luce di Dio che illumina
ogni uomo e lo chiama». Oggi la sua avventura continua
prospettando nuove analisi dei fatti e nuove metodologie
di ricerca per ottenere dalla tecnologia del computer
tutte le sue potenzialità e metterle al servizio dell’uomo.
Sono passati più di cin-
quant’anni da quando incontrò
Thomas Watson, il fondatore
dell’IBM, convincendolo a rac-
cogliere la sfida dell’analisi
computerizzata del linguaggio
di san Tommaso. Nello svilup-
po del suo lavoro ha attraver-
sato i principali nodi della rivo-
luzione informatica. In partico-
lare, come ha vissuto, a partire
dal desiderio iniziale, il rappor-
to tra ricerca e tecnologia?
È meglio che racconti un po’ di
storia. Il mio sogno, quando sono
diventato gesuita era di andare in
missione, invece i superiori mi
hanno chiesto di fare il professo-
re di filosofia scolastica con spe-
cializzazione in san Tommaso.
Durante la guerra, dopo aver
fatto il cappellano per un anno,
mi hanno mandato a fare la libe-
ra docenza alla Gregoriana e poi
il Ph.D. Vi racconto la storiella
della recluta che, ricevuto l’ordine
«avanti marsc», non si ferma in
attesa del contrordine; il sergente
si dimentica di lui e due giorni
dopo quello da Padova ha rag-
giunto Chioggia e «segna il
passo» davanti al mare in attesa
di nuovi ordini. Io son quello: mi è
stato dato l’ordine di studiare san
Tommaso, son partito, mi sono
rimboccato le maniche e non ho
più abbandonato la filosofia.
Anche se oggi troppa filosofia è
una passerella di estetismi verba-
li e non la ricerca della Verità.
Mi venne l’idea di cercare nei
testi di san Tommaso la docu-
mentazione originaria e probato-
ria delle affermazioni che chia-
miamo filosofiche; così è nato il
progetto dell’Index Thomisticus.
Il linguaggio mi ha messo a con-
tar parole e mi sono reso conto
che il nostro parlare, alle sue
radici, non lo conosciamo anco-
ra. Ho usato il computer come
*Nato a Vicenza nel 1913,
è tuttora in piena attività. Ha
insegnato alla Pontificia
Università Gregoriana, al-
l’Aloisianum di Gallarate e
all’Università Cattolica di
Milano. Dal 1995 al 2000
ha insegnato al Politecnico
di Milano nell’ambito dei
corsi di Intelligenza Arti-
ficiale e robotica tenuti da
Marco Somalvico. «1261
momenti di pensiero distilla-
ti» da questo corso sono
stati pubblicati nel 2000 da
ITACAlibri in Dal computer
agli angeli.
Autore di numerosissimi
saggi. La sua opera fonda-
mentale, l’Index Thomisti-
cus, pubblicato tra il 1974 e
il 1980 in 56 volumi e oggi
disponibile anche su cd-
rom, è il risultato della ela-
borazione computazionale
dei testi di san Tommaso e
ha costituito la base di qual-
siasi ulteriore ricerca di
informatica linguistica.
IL NOSTROMO
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emmeciquadro
strumento che permette di
andare più in profondità median-
te l’osservazione statistica e pro-
babilistica. E mi sono accorto
che le parole non hanno confini
precisi: sul fondo c’era la luce di
Dio che illumina ogni uomo e lo
chiama.
Oggi molti pensano che con il
computer si possano risolvere
tutti i problemi. A suo parere,
quali sono le potenzialità del-
l’informatica dal punto di vista
didattico ed educativo?
Gli aspetti educativi dell’informa-
tica linguistica sono legati alla
possibilità di rendersi conto che
c’è un «pensiero», una «espres-
sione esteriore» e una «espres-
sione interiore».
La mia impressione è che oggi
troppa didattica è basata sulla
memorizzazione: si concepisce il
nucleo del pensiero umano
come una banca di dati e allora
l’obiettivo dell’apprendimento
diventa sapere tutto.
Invece, i principi sono questi: le
strutture dell’espressione scritta
riflettono il fatto che c’è un pen-
siero originario il quale può
dominare la moltitudine delle
cose perché le classifica, le riuni-
sce e le esprime con le parole.
C’è un pensiero la cui caratteri-
stica è di non reagire soltanto
allo stimolo che c’è, ma anche e
soprattutto agli stimoli che non ci
sono ancora o non ci sono più.
Per esempio: se si iscrive un
bambino a scuola è perché si
pensa che tra dieci anni, che
non ci sono oggi, questo bambi-
no avrà bisogno di avere un
lavoro. E i nostri desideri punta-
no sempre su quello che non
c’è, su quello che non si ha (l’uo-
mo è l’unico animale che ha
inventato le distillerie!). In questo
senso, il linguaggio, soprattutto il
linguaggio scritto, non è una
ripetizione continua, ma la crea-
zione di architetture sempre
nuove.
L’espressione esteriore è quella
che noi chiamiamo realtà virtua-
le: un’immagine non nel senso
stretto della parola, iconico, ma
immagine come segno e simbo-
lo i quali vengono fatti sussistere
in un altro soggetto che non è
l’uomo che le pronuncia. Per
esempio, la musica della marcia
trionfale dell’Aida, creata dalla
mente di Verdi, esiste per conto
suo, ma sussiste oggi in un’or-
chestra, domani in un’altra.
C’è anche una espressione inte-
riore: vuol dire che le frasi che si
pronunciano sono costruite
prima dentro di noi e poi «buttate
fuori» mediante la voce. Ma
come si costruisce l’espressione
dentro di noi è ancora terra sco-
nosciuta.
Può fare un esempio?
Lo spiego con questa storia.
All’inizio degli anni Cinquanta,
alcuni anni dopo che avevo
cominciato, è nata la traduzione
automatica (al MIT si pubblicava
allora lo MT
Mechanical
Translation). Il Penta-gono
aveva finanziato tutti i centri che
si offrivano di lavorare sulla tra-
duzione dal russo all’inglese e io
avevo collegato il gruppo di
Leon Dostert e Peter Toma di
«Agli inizi l’obiettivo primo
erano 12 milioni di schede
perforate con stampato sul
dorso un contesto di 11
righe. Ne sarebbe risultato
uno schedario unico di 90
metri di fronte, 1,20 di altez-
za e 1 di profondità: peso
complessivo 500 tonnellate.
Dopo che ne ebbi perforato
sei milioni, la misericordia
del Signore ha fatto inven-
tare agli uomini i nastri
magnetici. [...] Ebbi da allo-
ra in lavorazione un parco
di 1800 nastri magnetici, di
2400 piedi cioè 800 metri
ciascuno: erano circa 1500
kilometri di nastro, presso a
poco la distanza tra Milano
e Palermo o tra Parigi e
Lisbona. [...] Per cui la
prima epoca fu quella delle
500 tonnellate di schede, la
seconda fu quella dei 1800
nastri magnetici. Terza
epoca è ora quella di 1 solo
cd-rom.»
(Dal computer agli angeli,
pp. 25-26)
IL NOSTROMO
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Georgetown, università dei miei
confratelli di Washington DC con
l’Euratom di Ispra per tradurre
abstract di biochimica e biofisica
russi: per questo abbiamo perfo-
rato un milione di parole in cirilli-
co. Anche il progetto su san
Tommaso, a cui lavoravo sui
computer dell’Euratom, era lega-
to a questa iniziativa. Alla metà
degli anni Sessanta, a seguito
del famoso rapporto ALPAC, il
Pentagono improvvisamente
sospese i finanziamenti procla-
mando l’insuccesso della tradu-
zione automatica; tale insucces-
so era dovuto non a mancanza
di velocità o di memoria dei com-
puter, ma alla mancanza di infor-
mazioni filologiche sul nostro par-
lare, delle quali il computer ha
bisogno.
La «vecchia» filologia è basata
solo sulla campionatura, sulla
massa dei grandi numeri e delle
parole che noi cerchiamo; questo
non è sufficiente per il computer
che ha bisogno di avere dati in
percentuale molto approssimati e
formalizzati, cioè traducibili in
byte. Per far questo è necessario
che sia chiaro in base a quali
logiche si parla, logiche che si
manifestano con la morfologia,
con la sintassi e con il lessico.
Dal computer, dal mostro d’ac-
caio, dalla tecnologia usata per
l’industria dell’informazione viene
la richiesta che si conosca
meglio in base a quali elementi e
a quali logiche si parla. Se l’uma-
nesimo è la scienza dell’espres-
sione umana in tutte le sue mani-
festazioni, allora il computer
esige che noi uomini abbiamo un
umanesimo più spinto.
Dunque il computer chiede
all’uomo di conoscere meglio
se stesso. Allora quali posso-
no essere i vantaggi nell’impa-
rare attraverso lo strumento
informatico piuttosto che con
un altro supporto?
Studiare con il computer, in
realtà è comunicare: dal mio
osservatorio comunico dei bit di
informazione agli altri. Quando si
tratta di studiare occorre introdur-
re due elementi: raccogliere dati
di fatto, il maggior numero possi-
bile, dalla realtà, mediante l’os-
servazione; poi questi dati vanno
sintetizzati. Questa elaborazione
è il lavoro specifico del pensiero,
ma per sintetizzare bisogna
prima di tutto classificare.
In questo senso io ho fatto due
ricerche originali, che non ho tro-
vato in nessuna parte: la prima è
sulla eterogeneità delle parole e
la seconda sui segni grafici delle
parole.
La ricerca sull’eterogeneità
delle parole in sanTommaso
durò ben otto anni, dal 1983 al
1991. Quali furono i criteri del
lavoro? E quali i risultati?
Si trattava di classificare le parole
secondo «tipi di semanticità»,
ossia secondo le diversità dei
rapporti tra segno e significato. E
richiese alcune migliaia di ore-
uomo e molta pazienza anche
solo per far emergere il criterio
per distinguere le categorie delle
parole. Perché i rapporti tra signi-
ficante e significato sono diver-
sissimi in relazione alla semanti-
cità delle parole.
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Porto qualche esempio.
Ci sono i nomi deittici, come per
esempio i due pronomi personali
«io» e «tu». Essi hanno come
significante due lettere, rispetti-
vamente i-o e t-u, ma il significa-
to di queste parole è che sono
segni della conoscenza di una
presenza; non sono concetti,
perché un concetto prevede una
formula. Ma quando io dico «io»
la presenza è diversa da quando
un altro dice «io». Pensate,
anche il Signore, che pure ha
inventato padre Busa, non può
dire di essere padre Busa.
Un'altra categoria sono i nomi
propri; essi sono nomi etichetta e
indicano un oggetto preciso; non
esprimono che cosa sia, ma
anch’essi sono la conoscenza di
una singolarità. Per esempio,
sentendo qualcuno che chiama
Cicci si sa che c’è un Cicci ma
non si sa se sia un gatto, una
bambina o un ragazzo. Poi ven-
gono i nomi di oggetti (un tavolo,
un cavallo) che gli antichi chia-
mavano sostanza; sono il sog-
getto e il complemento oggetto di
quei verbi che significano attività
e produzione. Anche questi sono
nomi etichetta. Quando dico
tamarindo so che voglio dire una
certa pianta o una certa bibita,
anche se non dico niente delle
sue proprietà. Poi vengono final-
mente gli aspetti delle cose:
dimensioni, forme, temperatura,
peso, movimento eccetera, che
solitamente chiamiamo aggettivi.
Son quelli in cui sta tutta la cultu-
ra perché sono vere e proprie
immagini mentali, veri e propri
concetti. Poi vengono le parole
che esprimono relazioni e corre-
lazioni cominciando con le pre-
posizioni; infine ci sono parole
vicarie come i pronomi relativi e
simili.
Ho fatto il censimento di tutte
queste parole. Negli 11 milioni di
parole dell’Index Thomisticus
(siccome Dio l’ho messo tra i
nomi propri), con tutti gli altri
nomi propri arriviamo al 3%; gli
oggetti e le cose arrivano al 6-
8%; la maggior parte dei restanti
sono le parole di correlazione.
A questo proposito, mi ricordo
che in un congresso un gruppo
di scienziati sosteneva che metà
delle parole di san Tommaso
esprimessero le realtà religiose
invisibili. Invece il nome Cristo
non è un nome invisibile; è invisi-
bile come è invisibile Socrate. Le
realtà invisibili sono poche e
sono alla radice del cosmo: Dio,
gli angeli, i demoni e i nostri
morti. Ma invisibili sono anche le
forze di base della natura, dalle
forze cosmiche di base (l’elettri-
cità, la gravità, le onde hertziane)
ai loro programmatori che sono
gli angeli, i software del Signore
Dio loro creatore. Questo c’è in
san Tommaso, con altre parole
naturalmente.
Invece, come ha strutturato la
ricerca sui segni grafici?
Avevo 11 milioni di parole latine;
riepilogate secondo «forme» di
parola graficamente diverse
erano circa 150 000; poi avevo
«lemmatizzato» ciascuna di esse
trovando 20 000 lemmi. Il lemma
è quella parola che nei vocabola-
ri rappresenta tutte le proprie
flessioni secondo una certa unità
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che io chiamo unità lessicale
che con le flessioni viene arric-
chita, ma non contraddetta (il
lemma è come il corpicino della
bambola Barbie e le flessioni
sono come gli abitini che le si
mettono intorno).
Ho preso tutti i lemmi, li ho divisi
in un massimo di tre segmenti
(iniziale, centrale e finale), in
qualche senso a caso, senza
badare al significato e meno
ancora alla glottologia, alle deri-
vazione o alle trasformazioni, ma
proprio graficamente. Una stessa
stringa di quattro caratteri si trova
ripetuta in tante parole all’inizio,
come iniziale assieme ad altre
stringhe diverse, ma anche in
posizione centrale o finale. Ho
fatto una classificazione e la mia
sorpresa è stata che 11 milioni di
parole sono la combinazione di
un massimo di 1 500 stringhe
diverse di caratteri. Solo 1 500.
Naturalmente ci sono le stesse
stringhe con significati diversi.
Nel suo libro Dal computer agli
angeli auspica che la statistica
linguistica tenga conto della
eterogeneità delle parole di un
testo e di quella che lei defini-
sce «doppia struttura del lessi-
co». Può spiegare il significato
di questa espressione?
Da sempre è risaputo che quan-
do si parla o si scrive ci sono
poche parole diverse, di solito
corte, moltissimo ripetute. Poi ci
sono tante parole, relativamente
poco ripetute, tra le quali tutte le
parole lunghe. Questo l’ho sem-
pre riscontrato e oggi li chiamo i
due emisferi del lessico.
Il primo lessico, quello delle paro-
le frequenti e brevi, le particelle
che a scuola venivano chiamate
grammaticali, oggi sono definite
dagli inglesi function words e
anche close class words perché
non aumentano. Esse sono con-
trapposte a quelle di contenuto,
chiamate content words e anche
open class words perché cam-
biano e crescono. Le prime sono
quelle che esprimono la logica
con cui ciascuno cerca di parla-
re. Le seconde sono quelle che
specificano la cultura, cioè i con-
tenuti che specificano il messag-
gio. I due emisferi sono questi:
la logica e la cultura. E tra le per-
sone non c’è differenza nella
logica di base, ma nella cultura.
Io non ho lavorato solo le parole
di san Tommaso, ma altrettanti
milioni di parole in altre 22 lingue
e alfabeti diversi: i rotoli di
Qumrân, che sono in alfabeto
ebraico ma in tre lingue (ebraico,
aramaico e nabateo), tutto il
Corano in arabo, il finnico, il cirilli-
co, il boemo e ovviamente tutte
le lingue europee e il greco; le
ultime sono state l’albanese e il
giorgiano e poi l’alfabeto foneti-
co. In tutte queste cose ci sono i
due emisferi del lessico.
Nell’oralità non ho fatto calcoli,
perché i media espressivi sono
tanti e perché nell’oralità il lin-
guaggio è ridotto al minimo. Per
esempio, se ordino una birra e
dico «cameriere me ne porti
un’altra», in questo caso «altra»
è la birra; invece, se avessi ordi-
nato una zuppa, «altra» avrebbe
un altro significato.
Invece il linguaggio educato è
quello scritto.
Pagine dei Rotoli di Qumrân
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In questa direzione, la critica
di un libro si fa al suo interno.
Di fronte a un libro non biso-
gna mettersi con l’idea di con-
futarlo, ma vedere se quello
che dice è coerente con la
logica con cui lo dice.
Recentemente mi hanno chie-
sto perché lavorare su san
Tommaso e non su un testo
moderno. Trent’anni fa mi
hanno invitato a Mosca per
lavorare sui testi di Lenin con
lo stesso metodo. E ho prova-
to a farlo, nei ritagli di tempo,
anche sul libro di Jacques
Monod (Il caso e la necessità)
e poi su quello di Stephen
Hawking (Dal big bang ai
buchi neri) e in passato l’ave-
vo fatto con il behaveourista
Skinner. Si riesce a vedere il
momento in cui i testi di un
autore sono illogici: non per-
ché
contraddicono
san
Tommaso o san Bonaventura,
ma perché sono illogici in se
stessi.
Recentemente i giornali
hanno parlato di lei definen-
dola «informatico di scienze
umane», invece ci sta
facendo una riflessione sul-
l’uomo. Queste categorie
valgono in tutti gli ambiti?
Anche nel fare scienza?
Facciamo riferimento ai due
emisferi. Nel primo emisfero,
quello della logica, si vede la
luce di Dio che illumina ogni
uomo. In tutti i congressi
sostengo che tutte le anime e
le intelligenze non vengono
per evoluzione: le anime sono
fatte tutte dal Signore Dio, una
per una. È un paradosso, ma
utile per chiarire: non ci vuole
meno di Dio tutto intero per
fare un’intelligenza d’uomo,
per fare uno spirito. La luce di
Dio è la logica e la logica sono
le leggi dell’essere.
Io vedo tre livelli di logica.
Quella che si insegna all’uni-
versità, la logica formale, è il
rapporto tra contenente e
contenuto, fra tutto e parte.
Un’altra logica, che non viene
così studiata, è quella del rap-
porto tra autore e opera, tra
attivo e passivo che è un rap-
porto strano, perché è a
senso unico: nessun figlio è
padre del proprio padre, nes-
suna statua è l’autrice del
proprio scultore. Tutti lo
sanno: chi ha scritto un’opera
va dalla SIAE a farsi dare la
percentuale e non dice mai
che la sua opera è fatta per
caso.
Il terzo livello è quel rapporto
tra pensiero ed espressione
che è il principio di non con-
traddizione. Come dice il
nome, la contraddizione ha a
che fare con il dire, cioè con
l’espressione. Si riesce sem-
pre a pronunciare frasi con-
traddittorie: per esempio «qui
ora piove» e «qui ora non
piove», ma nessuno riesce a
pensare che ambedue siano
contemporaneamente vere,
né che ambedue siano con-
temporaneamente
false.
L’espressione non deve con-
traddire il proprio pensiero: il
che conchiude alla immoralità
intrinseca della menzogna.
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Perché oggi nel mondo
della cultura questi livelli di
logica sono più spesso
negati che affermati? Per-
ché nella comunicazione,
nel lavoro, nella scuola,
nella scienza, ci si basa di
più sul suscitare sensazioni
che non sulla logica?
Direi ignorati, moltissimo igno-
rati e poche volte negati. Nei
libri di logica non ho mai tro-
vato il rapporto attivo/passivo,
ma sempre il rapporto ve-
ro/falso e poi contenente/con-
tenuto. Ai miei studenti di filo-
sofia, preoccupati di aver letto
una gran quantità di autori,
dicevo: basterebbe sapere la
metà di quel che sappiamo
ma saperlo dire meglio il dop-
pio se no è esibizione di quel-
lo che abbiamo in magazzino
nella memoria.
La storia del linguaggio e della
cultura è in fondo storia di
anime, storia del colloquio
segreto che abbiamo con Dio.
Ed è una storia che ha più
avventure di quelle di San-
dokan e delle Twin Towers.
Perché segreto?
Perché sta nel profondo della
logica, perché la logica è data
per arrivare a capire il perché
di tutto e perché nel vocabola-
rio di tutte le persone c’è la
parola «prima» e anche la
parola «sempre». Sotto que-
sto luccichio e questo mare di
parole c’è la storia delle anime
nel tempo: dall’eternità verso
l’eternità. Si arriva dunque alla
logica come prima luce dell’a-
nima, quella che porta il
tempo all’eternità, dall’eternità
all’eternità. Un mio amico arti-
giano mi ha detto che la mag-
gior parte delle persone non
sa dove va, ma ci sta andando
di corsa. E oggi è così anche
per molta filosofia professio-
nale: dalla ragion pratica fino
alla new age, certa filosofia è
la maschera della logica.
Nel mese di ottobre, al
Circolo della Stampa di
Milano, ha presentato il pro-
getto a cui sta lavorando.
Ce ne illustra i punti chiave?
Il progetto si chiama Lessico
Tomistico Biculturale (LTB).
Lo spunto è venuto dall’analisi
dell’espressione
di
san
Tommaso ratio seminalis, che
era l’antico stoico λογοσ
σπερµατικοσ, l’anima mundi
che Virgilio ha messo in versi
latini molto belli. Sant’Agosti-
no l’ha introdotto nel pensiero
cristiano spiegando il Genesi
e a conseguenza di questo il
pensiero cristiano è stato evo-
luzionista, non nel senso
magico di oggi, fino al Rina-
scimento avanzato. Ho e-
saminato questa frase, che
san Tommaso ha usato dieci o
quindici volte più di sant’A-
gostino.con il metodo cui ac-
cennerò dopo e mi è risultato
chiaro che san Tommaso,
quando scriveva ratio semina-
lis (che ho trovato sempre tra-
dotto come ragione seminale)
aveva in mente quello che
abbiamo in mente noi quando
IL NOSTROMO
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emmeciquadro
parliamo di «programma geneti-
co». Se sostituite nelle frasi di
san Tommaso questa espres-
sione, il contesto si accende
come una lampadina. Non che
lui conoscesse il DNA, perché
ovviamente non c’erano gli stru-
menti di indagine, ma lui sapeva
che doveva esserci un program-
ma genetico che partiva da Dio
creatore e si esprimeva in ogni
individuo. Poi c’erano le forze di
base della natura; non dice quali
sono, ma dice che ci sono. Per
me sono luce, onde hertziane
gravità eccetera, queste forze
che sono a monte dell’evoluzio-
ne, che la generano.
Quando parte il progetto?
Il lessico di san Tommaso è
enciclopedico ed è una sintesi di
quaranta secoli di civiltà medi-
terranea: comincia con Abramo,
frutto della civiltà e della cultura
mesopotamica, circa 3000-3500
anni prima di Cristo, poi c’è il
pensiero greco, il pensiero
romano, il pensiero arabo e tutto
il pensiero cristiano; di questi
quaranta secoli, dodici sono di
civiltà cristiana. Adesso che ho
tutto il suo lessico, prendo in
esame san Tommaso non per
quello che lo distingue dagli altri
autori analoghi, ma per quello
che ha in comune con tutti.
Allora, si tratta di prendere le
sue parole una per una, aven-
dole già divise per categorie
semantiche, risalire da queste
parole ai concetti che esprime-
vano allora (nella cultura del
1200), venire oggi (nel 2000)
agli stessi concetti e da questi
discendere alle parole che li
esprimono e darne così la tradu-
zione in diverse lingue. Per que-
sto il progetto si chiama bicultu-
rale.
Sono già trent’anni che lavoro in
questo senso con il metodo che
spiegherò e ho analizzato deci-
ne di migliaia di contesti.
Ci sono parole come «esperien-
za» e «espressione» che hanno
circa lo stesso valore che i nostri
espressione ed esperienza.
Ci sono altre parole invece che
hanno significati molto maggiori.
Per esempio, virtus-virtutis non
si può tradurre sempre con
«virtù» perché virtus ha tutto il
vocabolario dell’energia, forza,
professionalità, potenza. E
anche la parola ordo-ordinis,
che ho analizzato in 10 000 con-
testi, non può essere tradotta
sempre con «ordine»: nel latino
di san Tommaso non voleva
ancora dire precetto, comando
e neppure in Dante Alighieri.
Ordo-ordinis esprime tutto il
vocabolario della organizzazio-
ne, pianificazione, progettazio-
ne, programmazione, tutti i con-
cetti di struttura e sistema, quelli
di tassonomia e classificazione
oltre a indicare categorie profes-
sionali. Poi spiritus: tante volte è
spirito, altre volte è spinta,
impulso, pulsione oltre che spiri-
to nel senso di spirituale o
anche fantasma.
Allora ci spiega il metodo che
propone?
Il metodo. Prendo, di una paro-
la, tutti i contesti, tutte le frasi
che la contengono; su queste
IL NOSTROMO
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frasi inserisco i codici delle cor-
relazioni sintattiche, elementari
e dirette; in parole correnti i
codici che specificano l'analisi
grammaticale e logica di questa
parola, frase per frase.
Questo è un lavoro da «sgobbo-
ni» però è la forma profonda e
solida di pensare. Mi aspetto che
qualcuno mi dica che è puerile
ma ho già la risposta pronta:
provi a farla, anche solo su 100
frasi, non su 10 000 come le ho
fatte per ordo o su 20 000 per
spiritus e si accorgerà della diffi-
coltà. Perché il pensiero e l’e-
spressione sono disparati e il
pensiero è multidimensionale,
eccentrico e a-centrato: non si
riesce mai a trovare i confini di
un concetto, se ne trova subito
un altro; per questo parlo di unità
lessicali più che di unità concet-
tuali. Invece l'espressione è
sequenziale, tabulata come le
battute di una musica, però «liofi-
lizza» un concetto.
In periferia, in tutto il mondo
dovremo trovare persone che
sappiano il latino, che siano
sgobboni, che non disdegnino
gli antichi. Se hanno queste
qualità possono partecipare al
progetto. A ognuno viene data
una parola su cui devono esse-
re eseguite tutte le sintesi di cor-
relazioni con una cascata di pro-
grammi monofunzione: non un
programma come quello per gli
stipendi che fa tutto insieme in
un colpo solo, perché questa è
ricerca. Dai collegamenti sintatti-
ci di ogni parola con i verbi di cui
è soggetto o complemento, ver-
ranno fuori i suoi significati.
Finora a me sono venuti fuori.
Poi ognuno deve fare un elenco
di questi significati nella propria
lingua: inglese, spagnolo, tede-
sco eccetera..
Poi i risultati vengono inviati a
Roma dove, per prima cosa, un
comitato certifica la qualità del
lavoro. Questo è indispensabile.
Poi, all’interno di seminari tra
esperti di vari paesi e lingue,
bisogna esaminare i significati di
questi concetti per tradurli nelle
diverse lingue e nelle diverse
culture contemporanee. Tra l’al-
tro, chi fa l’esame sintattico di
una voce deve analizzare le
desinenze: per esempio deve
dire quando veni è imperativo,
quando è passato remoto ecce-
tera, quando rosae è genitivo,
ottativo, eccetera; io segnalo
solo, in una nota, se la parola è
omografa. Questo progetto è la
continuazione di tutto quello che
ho fatto finora. Ci lavoro da
quindici anni e ora è nato a
Roma un consorzio tra sei uni-
versità: Gregoriana, Salesiani,
Pontificia Università
Gregoriana, Roma
IL NOSTROMO
dicembre 2001 132
emmeciquadro
Domenicani, Opus Dei, Servi
di Maria, Laterano, più la
Sapienza statale di Roma
con l’istituto di Tullio Gregory.
L’iniziativa si è sviluppata
piano piano e adesso è
patrocinata da due gruppi. Il
primo con Antonio Fazio,
Hans Tietmayer e Michel
Camdessous e anche i due
cardinali Re e Tettamanzi. Il
secondo è la CAEL (Compu-
terizzazione delle Analisi
Ermeneutiche e Lessicolo-
giche), continuazione del
CAAL (Centro Automazione
Analisi Linguistica) che per
trent’anni con la IBM ha
finanziato l’Index Thomisti-
cus.
Nel mese di dicembre i due
gruppi si incontreranno per
definire la forma di collabora-
zione allo stesso scopo. Si cer-
cheranno i finanziamenti con
l’intenzione di spendere il
meno possibile. Perché, diver-
samente da quanto avviene di
solito (prima i soldi, poi una
sede pomposa, poi il lavoro),
noi abbiamo cercato prima l’i-
dea, poi il lavoro e i soldi sono
sempre venuti. I progetti son
come semi che bisogna gettare
e piano piano cresceranno.
Un’altra importante novità nel
metodo di lavoro è la speri-
mentazione di una collabora-
zione internazionale tra diverse
università attraverso un lavoro
in equipe in rete (e-mail, tele-
conferenza) e i loro sviluppi. A
Roma c’è già un piccolo nucleo
di persone che sarà il centro di
questo lavoro in rete.
Per concludere, vorrei ripetere
che l’informatica e i computer
sono un dono di Dio che Lui ha
preparato dagli inizi del mondo.
Oggi purtroppo in questo
campo c’è una grande confu-
sione: primo ne parlano troppo
quelli che non ne sanno,
secondo ne parlano i sognatori
facili, che desiderano far dena-
ro velocemente.
Invece dobbiamo dire che le
potenzialità dell’informatica
non sono esaurite, stanno
ancora «cabrando». Gli aero-
plani ci hanno messo 100 anni
a perfezionarsi, queste cose
ce ne metteranno altrettanti,
piano piano.
Per contribuire solidamente a
questo sviluppo basta che
ognuno cominci a fare il poco
che è utile a lui: questo fa cre-
scere vitalmente le strutture
nuove. Però bisogna mettersi
a lavorare su una linea preci-
sa e definita.
Volete un ultimo aforisma?
Il computer può essere usato
bene per il bene, può essere
usato male per il bene e può
essere usato bene anche per il
male.
v
«Siccome il computer è
figlio dell’uomo e l’uomo è
figlio di Dio, allora il Signore
Dio guarda il computer
come un nonno guarda i
suoi nipotini. Guai a parlar-
ne male e a usarlo male.»