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Elezioni – Elezioni regionali – Sardegna - Presentazione delle liste - Alternativa alla raccolta di sottoscrizioni - Art. 21, comma 3, l. reg. Sardegna n. 1 del 2013 – Criterio di interpretazione. Elezioni – Elezioni regionali – Sardegna – Seggi - Attribuzione - Art. 18, comma 3, l. reg. Sardegna n. 1 del 2013 – Criterio di interpretazione.       L’art. 21, comma 3, l. reg. Sardegna n. 1 del 2013 - che stabilisce che una delle modalità di presentazione delle liste per le elezioni regionali, alternativa alla raccolta di sottoscrizioni, è data dall’adesione di almeno un consigliere regionale in carica alla data di indizione dei comizi elettorali - deve essere interpretato nel senso che esso non richiede alcun requisito di ultrattività (degli effetti) della dichiarazione di adesione, come non richiede neppure identità di appartenenza politica fra l’aderente e la lista, posto che il dato normativo che rileva è unicamente quello del collegamento fra presenza nel consiglio uscente e volontà di supportare la lista medesima: sicché è inammissibile un’interpretazione additiva consistente nel subordinare la validità del requisito all’adesione “dinamica” alla lista medesima da parte del sottoscrittore, che peraltro esporrebbe la validità della partecipazione alla competizione elettorale ad eventi futuri ed incerti connessi al personale percorso politico dell’aderente (1).      L’art. 18, l. reg. Sardegna n. 1 del 2013, espressiva del cosiddetto principio di territorialità, garantisce ad ogni circoscrizione elettorale l’attribuzione di almeno un seggio, e che prevede che venga attribuito un seggio al candidato più votato della lista circoscrizionale che ha la maggiore cifra tra quelle ammesse all'attribuzione dei seggi, con corrispondente detrazione dell'ultimo seggio attribuito al medesimo gruppo di liste nelle altre circoscrizioni, deve essere interpretato nel senso che esso si prefigge di garantire almeno un seggio ad ogni circoscrizione, e non già di garantire un seggio alla singola lista in ogni circoscrizione, in ossequio appunto al principio di rappresentatività territoriale, senza che tale esegesi presenti possibili profili di illegittimità costituzionale  (2). (1) Ha chiarito la Sezione che per valutazione discrezionale del legislatore regionale la descritta modalità di presentazione della lista è rappresentativa dell’esistenza di un apprezzabile e significativo legame, comunque sufficiente a legittimare la partecipazione alla competizione elettorale, fra la lista, e la struttura o area politica di riferimento, e la società civile: tale valutazione degli indici di rappresentatività non è irragionevole, e come tale rientra nei margini di discrezionalità che la Costituzione riconosce al legislatore in materia. (2) Cons. Stato, sez. III, nn. 1037 e 1039 del 2020. La Sezione ha escluso che possano trarsi argomenti di segno contrario dall’invocata sentenza della Corte costituzionale n. 35 del 2017: sia perché relativa all’elezione del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati (con individuazioni di parametri di costituzionalità relativi alla “forma di governo parlamentare disegnata dalla Costituzione”, ed evidentemente non esportabili); sia perché concernente il diverso tema del premio di maggioranza e delle soglie di sbarramento; sia, infine, perché essa specifica come“questa Corte ha sempre riconosciuto al legislatore un’ampia discrezionalità nella scelta del sistema elettorale che ritenga più idoneo in relazione al contesto storico-politico in cui tale sistema è destinato ad operare, riservandosi una possibilità di intervento limitata ai casi nei quali la disciplina introdotta risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993, ordinanza n. 260 del 2002)”. Nella citata sentenza n. 1037 del 2020 si è peraltro esaminato anche il profilo della compatibilità della disciplina in esame con la Costituzione, osservandosi che “Le disposizioni della cui legittimità costituzionale si dolgono gli odierni appellanti, e il risultato concreto della loro applicazione, contemperano pertanto il principio della proporzionalità politica con quello della rappresentanza territoriale, secondo un equilibrio, disegnato dal legislatore regionale, che non supera il limite della manifesta irragionevolezza, ma che anzi risponde ad una logica maggiormente garante del principio dell’uguaglianza del voto rispetto a quanto propugnato nel ricorso in appello (che, portato alle estreme conseguenze, determinerebbe l’attribuzione di un seggio ad un candidato che abbia riportato una percentuale del quoziente più alta rispetto a quella ottenuta, in una circoscrizione più vasta, da un candidato che sarebbe invece escluso)”. In argomento e nello stesso senso va altresì, conclusivamente, richiamata la sentenza della V Sezione di questo Consiglio di Stato, n. 3614 del 2015, nella parte in cui ha affermato che“in base all’art. 24 dello Statuto Speciale, “I consiglieri regionali rappresentano l'intera Regione”, confermandosi l’irrilevanza costituzionale del principio di rappresentanza territoriale così come dedotto dalla parte appellante. Peraltro, il principio della rappresentanza territoriale, così come configurato in appello, è privo di copertura costituzionale, rendendo così irrilevante anche le doglianze relative alla dedotta contrarietà, della censurata normativa regionale, ai principi della personalità e uguaglianza del voto”.  
Elezioni
Sanità pubblica – Sperimentazione - Sperimentazione sui macachi – Verificazione – Necessità.        Deve essere disposta una verificazione in ordine all’autorizzazione al progetto di ricerca “meccanismi anatomo-fisiologici soggiacenti il recupero della consapevolezza visiva nella scimmia con cecità corticale”, sul se: 1) il progetto in esame rispetta il principio di sostituzione, nel senso che i risultati attesi sono perseguibili soltanto mediante sperimentazione sulla specie animale “primati non umani” vivi; 2) il progetto in esame rispetta il principio di riduzione, nel senso che il numero di sei primati è quello minimo indispensabile; 3) il principio eurounitario della sostituzione è rispettato in relazione alla originalità scientifica dei risultati attesi dal progetto, e della trasmissibilità dei risultati agli esseri umani, considerato lo stato attuale della ricerca scientifica sui profili e risultati attesi dalla ricerca posta a base della impugnata autorizzazione; 4) ad avviso dei verificatori le risultanze scientifiche dei pareri tutti sopra indicati – sui quali l’autorizzazione si fonda per relationem – hanno considerato tutti e tre gli elementi che la direttiva UE e il d.lgs. n. 26 del 2014 pongono quale condizioni per la sperimentazione, altrimenti vietata, su primati vivi non umani (1).   (1) L’udienza di merito è stata fissata alla data del 28 gennaio 2021. La Sezione aveva già disposto incombenti istruttori con ordinanza 23 gennaio 2020, n. 230 
Sanità pubblica
Amministrazione dello Stato – Rapporto di lavoro – Dirigenza – Incarichi apicali – Termine di conferimento dell’incarico L’articolo 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, là dove si stabilisce che “Gli incarichi di funzione dirigenziale di cui al comma 3 cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo”, va interpretato nel senso che l’Autorità di Governo, che non intenda rinnovare nell’incarico di vertice la persona che lo deteneva prima del voto di fiducia, non deve necessariamente attendere lo spirare del termine dei novanta giorni ma può avviare il procedimento di attribuzione dell’incarico a persona diversa durante il decorso dei novanta giorni e anche molto prima dello spirare del novantesimo giorno. Infatti, le figure dirigenziali apicali derivano la propria legittimazione dall’organo politico, cui sono legate da un vincolo fiduciario; sicché già nel momento di insediamento del nuovo Governo, a seguito del voto sulla fiducia, tale legittimazione viene necessariamente meno, consentendo perciò all’organo politico il recesso dal rapporto anche prima del decorso dei novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo, da intendersi quale termine massimo decorso il quale opera la cessazione ex lege.   Non risultano precedenti in termini.
Amministrazione dello Stato
Magistrati – Magistrati ordinari - Conferimento ufficio direttivo – Passaggi da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa – Limiti introdotti dall’art. 13, comma 3, d.lgs. n. 160 del 2006 – Ambito temporale di applicazione – Individuazione.             L’art. 13, comma 3, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160 - che ha introdotto il limite numerico di quattro passaggi da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, nell'arco della intera carriera del magistrato – si applica solo con riferimento alla carriera successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 160 del 2006, atteso che prima del 206 non sussisteva alcun limite al mutamento di funzioni nella carriera del magistrato, non potendosi prevedere in alcun modo che tali mutamenti di funzione sarebbero stati in futuro pregiudizievoli (1).    (1) La Sezione ha preliminarmente chiarito, in punto di fatto, che l’appellante, ricorrente in primo grado, ha chiesto l’annullamento della procedura di conferimento di un ufficio direttivo giudicante di legittimità nella magistratura ordinaria (presidente di Sezione della Corte di cassazione), dalla quale è stato escluso.   Egli è infatti passato, anteriormente al 2006, quattro volte da funzioni di magistrato giudicante (giudice) a funzioni di magistrato requirente (P.M.), allorché la legge non prevedeva contingentamenti, né altre condizioni a tali passaggi. Secondo il Csm, il limite - normativamente operante dal 2006, ai sensi dell’art. 13, d.lgs. n. 260 del 2006 (Nuova disciplina dell'accesso in magistratura, nonchè in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera a), della L. 25 luglio 2005, n. 150) - di quattro passaggi, tra funzioni requirenti e giudicanti, dovrebbe essere parametrato sull’intera carriera del magistrato, anche se sviluppata per quasi sei lustri prima di tale riforma. Perciò, l’appellante, che oggi è magistrato requirente (Sostituto Procuratore Generale), non potrebbe aspirare ad una presidenza di Sezione in Corte di cassazione (che è "funzione giudicante").   La materia del contendere riguarda, quindi, l’operatività del limite numerico, introdotto nel 2006, di possibili passaggi tra la funzione giudicante e quella requirente.  Giova ricordare che l’art. 13, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160 (Attribuzione delle funzioni e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa), al comma 3, così recita: “Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale”.  Ha chiarito la Sezione che la disposizione normativa succitata è suscettibile di due diverse interpretazioni: secondo quella che fa riferimento al dato letterale della “intera carriera” del magistrato, ai fini del successivo passaggio di funzioni dovrebbero essere computati tutti i precedenti passaggi già effettuati durante tutta la carriera, e anche, quindi, nel periodo antecedente l’entrata in vigore della norma; secondo l’altra, che si fonda sul principio di irretroattività della legge ai sensi dell’art. 11, comma 1, disposizioni sulla legge in generale, per il cui disposto: “La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo", non risultando tale principio generale espressamente derogato nella fattispecie, l’intera carriera del magistrato dovrebbe essere considerata solo quella successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 160 del 2006.  In considerazione di tale duplice possibilità di esegesi della disposizione normativa succitata, è essenziale ripercorrere i principi che si ricavano dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di retroattività della legge.  Per la Consulta, sebbene il divieto di retroattività sancito dall’art. 25 della Costituzione sia riferibile in senso assoluto solo alle norme penali sfavorevoli, la retroattività nelle disposizioni normative concernenti gli altri settori dell’ordinamento è ammissibile solo nel rispetto dei principi generali di ragionevolezza, proporzionalità e prevedibilità, atteso che il divieto di retroattività della legge, previsto dall'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, costituisce valore fondamentale di civiltà giuridica e può essere compromesso solo per l’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) (Corte cost. 29 maggio 2013, n. 103).  Inoltre, l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce un elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto e trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non in termini assoluti e inderogabili, atteso che la tutela dello stesso non comporta che sia assolutamente interdetto al legislatore emanare disposizioni che modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito dai diritti soggettivi perfetti, salvo, nel caso di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale; tuttavia, dette disposizioni non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l'affidamento del cittadino, che postula, tuttavia, il consolidamento nel tempo della situazione normativa che ha generato la posizione giuridica incisa dal nuovo assetto regolatorio, sia perché protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere sorta in un contesto giuridico sostanziale idoneo a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento. “Se, dunque, interessi pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi in grado di comprimere posizioni consolidate, è comunque necessario, per un verso, che l'incidenza peggiorativa non sia sproporzionata rispetto all'obiettivo perseguito nell'interesse della collettività e, per altro verso, che l'intervento di modifica sia prevedibile, non potendosi tollerare mutamenti retroattivi del tutto inaspettati” (Corte cost. 26 aprile 2018, n. 89).  Dalla giurisprudenza costituzionale emergono, dunque, una serie di limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, che attengono alla salvaguardia dei principi costituzionali e di altri “fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (Corte cost. 11 giugno 2010, n. 209; 29 maggio 2013, n. 103).  Alla luce di tali principi, la seconda esegesi costituisce quella da prediligere, perché costituzionalmente orientata; al contrario, l’interpretazione retroattiva della norma travalicherebbe i succitati limiti delineati dalla giurisprudenza costituzionale.  Invero, la retroattività che verrebbe riconosciuta all’art. 13, comma 3, d.lgs. n. 160 del 2006 costituirebbe, sulla base della teoria che deriva dalla giurisprudenza costituzionale tedesca, un tipico caso di cosiddetta retroattività “propria”, cioè comportante la modifica di un assetto di interessi già interamente definito e pienamente sedimentato tra le parti o che sopprime integralmente un’aspettativa giuridicamente qualificata connessa a un rapporto di durata (Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2015, n. 1432), a differenza dalla cosiddetta retroattività “impropria”, che si limita ad introdurre per il futuro una modificazione peggiorativa del rapporto di durata e determina anche una contrazione del momento finale di quello status che si riflette negativamente sulla posizione giuridica già acquisita dall'interessato (Corte cost. 24 luglio 2009, n. 236).  Anche la Corte di cassazione, nell'esaminare gli effetti dello ius superveniens sui rapporti di durata, ha, infatti, distinto tra una normativa che si limita ad introdurre differenziazioni di status, senza produrre effetti retroattivi, o modifica tali rapporti di durata per l'avvenire, senza comunque incidere sul fatto generatore di essi (così producendo effetti retroattivi "impropri"), e, invece, una norma che incide sul fatto generatore del rapporto giuridico, nonché sugli effetti giuridici già inveratisi sulla base di tali rapporti, modificandoli in tutto o in parte (così determinando effetti retroattivi "propri") (Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1999, n. 4462).  Nel caso di specie, secondo l’interpretazione retroattiva della norma, l’intervenuto passaggio di funzioni (tra giudicanti e requirenti e viceversa) prima dell’entrata in vigore della disposizione normativa ne preclude di nuovi successivamente, in seguito all’emanazione della stessa, e impedisce, dunque, l’assegnazione di funzioni direttive giudicanti di legittimità sulla base della pregressa carriera del magistrato, elidendo, quindi, la stessa possibilità di ottenere il bene della vita, nonché compromettendo il principio costituzionale del legittimo affidamento maturato in capo al richiedente di poter concorrere per l'assegnazione di un incarico direttivo giudicante di legittimità ​​​​​​​
Magistrati
Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Trasposizione – Per opposizione dei controinteressati – Effetti.     Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Trasposizione – Per opposizione dei controinteressati – Termine – Decorrenza – In caso di prima notificazione irrituale cui sia seguita una seconda regolare.    Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Trasposizione – Per opposizione dei controinteressati – Notifica - Ritualità - Principio della sanatoria per raggiungimento dello scopo.              Notificata l’opposizione alla trattazione della controversia in sede straordinaria, consegue l’improcedibilità del ricorso straordinario, risultando l’Amministrazione ed il Consiglio di Stato in sede consultiva spogliati di ogni potere decisorio (1).              Una volta eseguita una nuova notifica, la sanatoria della prima non può essere invocata ai fini della decorrenza da essa di un termine perentorio e decadenziale che gravi su altra parte del procedimento, quale quello posto a carico del controinteressato per la proposizione dell’atto di opposizione (2).              L’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento del suo scopo legale (3).     (1) Ha ricordato il parere che l’art. 10, d.lgs. n. 1199 del 971 dispone, al comma 1, che “I controinteressati, entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione del ricorso, possono richiedere, con atto notificato al ricorrente e all’organo che ha emanato il provvedimento impugnato, che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale”.  La Corte Costituzionale, con sentenza n. 148 del 1982, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della prefata disposizione, nella parte in cui, ai fini della facoltà di scelta ivi prevista, non equipara ai controinteressati l’ente pubblico, diverso dallo Stato, che ha emanato l’atto impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.  Il Codice del processo amministrativo, poi, ha generalizzato la facoltà di opposizione, disponendo, all’articolo 48 comma 1, che “Qualora la parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario ai sensi dell’art. 8 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199, proponga opposizione, il giudizio segue dinanzi al tribunale amministrativo regionale […]”, dovendosi, pertanto, ritenere che il potere di richiedere la trasposizione spetti a qualsiasi amministrazione, anche quella statale.  Notificata, dunque, l’opposizione alla trattazione della controversia in sede straordinaria, consegue l’improcedibilità del ricorso straordinario, risultando l’Amministrazione ed il Consiglio di Stato in sede consultiva spogliati di ogni potere decisorio.    (2) Ciò in quanto, ad avviso del parere,  in primo luogo la sanatoria per raggiungimento dello scopo vale a conservare l’ammissibilità dell’atto in favore del soggetto che lo ha posto in essere per le finalità che ad esso pertengono direttamente (nella specie, la proposizione del ricorso straordinario e l’instaurazione del contraddittorio); di poi, perché il controinteressato, in presenza di una seconda notificazione del ricorso, ragionevolmente ritiene che la prima sia stata irrituale e, pertanto, pone un legittimo affidamento sulla validità della seconda, anche ai fini della decorrenza dei termini relativi a facoltà procedimentali dallo stesso esercitabili entro un lasso temporale che rinviene, come l’opposizione, il proprio dies a quo nella notifica del gravame.  In disparte dai rilievi sopra svolti, deve comunque essere evidenziato che l’effettuazione di una nuova notificazione del ricorso rinnova anche le facoltà concesse alle altre parti per effetto della stessa; dovendosi in tal modo ritenere, anche a prescindere dalla validità della prima notifica nei confronti del controinteressato, che quella effettuata successivamente a sanatoria abbia fatto nuovamente decorrere il termine per la proposizione dell’opposizione.  E tanto in conformità alla ratio che informa la normativa regolatrice del ricorso straordinario, ispirata al principio del favor iurisdictionis.    (3) Cass.civ., sez. VI, 15 giugno 2021, n. 16929.  D’altra parte, costituisce consolidato orientamento che la l. n. 53 del 1994, art. 11, laddove commina la nullità della notificazione eseguita personalmente dall’avvocato “se non sono osservate le disposizioni di cui agli articoli precedenti”, non intende affatto sanzionare con l’inefficacia anche le più innocue irregolarità – in relazione alle quali non viene in rilievo la violazione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale, bensì al più una mera irregolarità sanabile in virtù del principio di raggiungimento dello scopo – laddove la consegna telematica ha prodotto comunque il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale, per avere la parte ricevuto la notifica e compreso il contenuto dell’atto (cfr. Cass., S.U., n. 23620 del 2018 e n. 7665 del 20016; n. 14042 del 2018; n. 30927 del 2018; n. 20625 del 2017, n. 19814 del 2017; n. 19814 del 2016). 
Ricorso straordinario al Capo dello Stato
Covid-19 – Campania – Attività didattica - Scuola dell’infanzia e primaria - Introduzione attività didattica a distanza - Ordinanza n. 89 del 2020 del Presidente della Regione Campania – Non va sospesa monocraticamente.          Deve essere respinta la richiesta di sospensione cautelare monocratica, presentata da genitori esercenti la potestà su  figli minori, dell’ordinanza n. 89 del 5 novembre 2020 del Presidente della Regione Campania, nella parte in cui dispone, “la sospensione delle attività didattiche in presenza per la scuola primaria” nonchè “la sospensione… dell’attività in presenza nelle scuole dell’infanzia”, e ciò in quanto l’intervenuta emanazione del d.P.C.M. 4 novembre 2020 non esclude la persistente possibilità, per le Autorità sanitarie regionali e locali, di adottare misure più restrittive in presenza di situazioni sopravvenute (1).    (1) In senso analogo v. Tar Napoli, sez. V, 9 novembre 2020, n. 2026 e n. 2027  Ha chiarito il decreto che l’Ordinanza, successiva al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, trova fondamento nella aggiornata istruttoria circa l’andamento del contagio su scala regionale ed è motivata sul rilievo della persistente emergenza sanitaria, sul verificato effetto moltiplicatore dei contagi connessi a positività nelle fasce in età scolare e sul prevedibile impatto sul Servizio sanitario regionale, tenuto conto della peculiare densità abitativa del territorio regionale e del deficit di personale sanitario in servizio attivo e, quanto alla idoneità della misura adottata, del riscontrato aumento dei casi di positività al Covid-19 in ambito scolastico, nonché della esigenza di consolidare i risultati di contenimento della pandemia finora conseguiti, stante la verificata efficacia della detta misura a tali fini.  Ha aggiunto il decreto – in sede di comparazione di interessi – che l’“effetto moltiplicatore del contagio connesso a casi di positività nelle fasce di età solare” e il prevedibile impatto dello stesso sul Servizio sanitario regionale, con prospettive anche di “delocalizzazione” dei pazienti, inducono a valutare prevalente l’interesse pubblico al contenimento della diffusione del virus, funzionale a garantire il diritto alla salute di tutti e di ciascuno, rispetto al quale la misura adottata si è dimostrata, finora, utile ed efficiente. ​
Covid-19
Contratti della Pubblica amministrazione – Principio di equivalenza – Fornitura di dispositivi medici – Giudizio di equivalenza – Possibilità.            In sede di gara per l’appalto di fornitura di dispositivi medici trova applicazione il giudizio di equivalenza, la quale va ragguagliata alla funzionalità di quanto richiesto dalla Pubblica amministrazione con quanto offerto in sede gara, non certo alla mera formale descrizione del prodotto (1).   (1) Ha chiarito il C.g.a. che con i commi 1 e 4 dell’art. 68, d.lgs. n. 163 il legislatore - allorché le offerte tecniche devono recare per la loro idoneità elementi corrispondenti a specifiche tecniche - ha inteso introdurre, ai fini della valutazione del prodotto offerto dal soggetto concorrente, il criterio dell’equivalenza, nel senso cioè che non vi deve essere una conformità formale, ma sostanziale con le specifiche tecniche nella misura in cui esse vengono in pratica comunque soddisfatte” (Cons. St. n. 7450 del 2019). Precisa la sentenza appena citata: “La norma, in attuazione del principio comunitario della massima concorrenza, è finalizzata a che la ponderata e fruttuosa scelta del miglior contraente non debba comportare ostacoli non giustificati da reali esigenze tecniche. Il precetto di equivalenza delle specifiche tecniche è un presidio del canone comunitario dell’effettiva concorrenza (come tale vincolante per l'Amministrazione e per il giudice) ed impone che i concorrenti possano sempre dimostrare che la loro proposta ottemperi in maniera equivalente allo standard prestazionale richiesto. Il comma 4 dell'art. 68, d.lgs. n. 163, laddove prevede che le stazioni appaltanti non possono respingere un'offerta per il motivo che i prodotti e i servizi presentati non sono conformi alle specifiche alle quali hanno fatto riferimento, impone quindi che il riscontro delle stesse in una gara sia agganciato non al formale meccanico riscontro della specifica certificazione tecnica, ma al criterio della conformità sostanziale delle soluzioni tecniche offerte.” Pertanto il criterio dell’equivalenza non può subire una lettura limitativa o formalistica ma deve, al contrario, godere di un particolare favore perché è finalizzato a sodisfare l’esigenza primaria di garantire la massima concorrenza tra gli operatori economici: ovviamente l’equivalenza va ragguagliata alla funzionalità di quanto richiesto dalla pubblica Amministrazione con quanto offerto in sede gara, non certo alla mera formale descrizione del prodotto. Le specifiche tecniche hanno il compito di rendere intellegibile il bisogno che la stazione appaltante intende soddisfare con la pubblica gara più che quello di descrivere minuziosamente le caratteristiche del prodotto offerto dai concorrenti. I recenti approdi giurisprudenziali (Cons. St., sez. III, 18 settembre 2019, n. 6212) consentono di affermare che il principio di equivalenza delle offerte è attuativo del più generale principio del favor partecipationis, costituendo dunque espressione della massima concorrenzialità nel settore dei pubblici contratti. Dalla superiore affermazione la giurisprudenza fa discendere l’esigenza di limitare entro rigorosi limiti applicativi l’area dei requisiti tecnici minimi e di dare spazio – parallelamente ma anche ragionevolmente e proporzionalmente – ai prodotti sostanzialmente analoghi a quelli espressamente richiesti dalla disciplina di gara. Sul piano più strettamente applicativo deve ribadirsi che un siffatto giudizio di equivalenza sulle specifiche tecniche dei prodotti offerti in gara risulta legato non a formalistici riscontri ma a criteri di conformità sostanziale delle soluzioni tecniche offerte: deve in altri termini registrarsi una conformità di tipo meramente funzionale rispetto alle specifiche tecniche indicate dal bando (Cons. St., sez. III, 29 marzo 2018, n. 2013). Con specifico riguardo ad un appalto attinente al settore sanitario, si è ancora una volta ribadito che “(…) con particolare riferimento all’appalto per la fornitura di medicinali e dispositivi medici, (…) il principio di equivalenza permea l’intera disciplina dell’evidenza pubblica, rispondendo al principio del favor partecipationis (ampliamento della platea dei concorrenti) ai fini della massima concorrenzialità nel settore dei pubblici contratti e della conseguente individuazione della migliore offerta, secondo i principi di libera iniziativa economica e di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione nel perseguimento delle propri funzioni d’interesse pubblico e nell’impiego delle risorse finanziarie pubbliche, sanciti dagli articoli 41 e 97 della Costituzione” (Cons. St., sez. III, 14 maggio 2020, n. 3081). L’art. 68, d.lgs. n. 50 del 2016 deve essere interpretato conformemente all’art. 60, paragrafi 3, 4, 5 e 6, della direttiva n. 2014/25/UE. “Il precetto di equivalenza delle specifiche tecniche è un presidio del canone comunitario dell'effettiva concorrenza (come tale vincolante per l'Amministrazione e per il giudice) ed impone che i concorrenti possano sempre dimostrare che la loro proposta ottemperi in maniera equivalente allo standard prestazionale richiesto” (Cons. St. n. 2093 del 2020). Sotto il secondo profilo vanno richiamati i principi della giurisprudenza in ordine ai limiti del sindacato giudiziale sul giudizio valutativo della Commissione di gara nel formulare il giudizio di equivalenza tecnica delle offerte formulate dai partecipanti alla gara. Il giudizio di equivalenza costituisce legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione ed il relativo sindacato giurisdizionale deve attestarsi su riscontrati (e prima ancora dimostrati) vizi di manifesta erroneità o di evidente illogicità del giudizio stesso.  Il giudizio può essere cassato dal giudice amministrativo solo a fronte di evidenti errori di fatto o riscontrati profili di irragionevolezza ed illogicità. Ha affermato la giurisprudenza del Consiglio di Stato che “una volta che l’Amministrazione abbia proceduto in tal senso, la scelta tecnico discrezionale può essere inficiata soltanto qualora se ne dimostri l’erroneità” (Cons. St., sez. III 13 dicembre 2018, n. 7039; Cons. St. n. 2093 del 2020).
Contratti della Pubblica amministrazione
Farmaci - Farmaci biotecnologici – Identicità tra farmaci biotecnologici con medesimo principio attivo – Esclusione. Farmaci – Prescrizione - Libertà prescrittiva del medico – Dopo art. 15, comma 11 quater, d.l. n. 95 del 2012 - Sussiste.  Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto fornitura - Farmaci biologici –  Accordo quadro di cui all’art. 15, comma 11 quater, d.l. n. 95 del 2012  - Prescrizione di uno dei primi tre farmaci in graduatoria - Necessità             I farmaci biotecnologici, proprio per la complessità e la natura dei processi di produzione, non sono mai pienamente identici, ancorché si basino su un medesimo principio attivo ed abbiano le stesse indicazioni terapeutiche; infatti nel loro caso non si usa il termine “equivalente” (o “generico”), bensì “similare” o “biosimilare” (1).               Ai sensi dell’art. 15, comma 11-quater, d.l. n. 95 del 2012 (comma inserito dall'art. 1, comma 407, l. 11 dicembre 2016, n. 232, a decorrere dal 1° gennaio 2017), il medico può prescrivere il farmaco ritenuto più efficace, qualunque esso sia, purché il relativo costo non gravi sul sistema sanitario nazionale (2).             Ai sensi dell’art. 15, comma 11-quater, d.l. n. 95 del 2012 le procedure pubbliche di acquisto devono svolgersi mediante utilizzo di accordi-quadro con tutti gli operatori economici quando i medicinali sono più di tre a base del medesimo principio attivo; i pazienti devono essere trattati con uno dei primi tre farmaci nella graduatoria dell’accordo-quadro; pertanto, viene sancita la regola, in forza della quale i pazienti devono essere trattati con uno dei primi tre farmaci nella graduatoria dell’accordo quadro classificati (3).               (1) Cons. Stato, sez. III, 13 giugno 2011, n. 3572; id. 3 dicembre 2015, n. 5478. Essi si distinguono dai farmaci chimici dove “ogni prodotto è pienamente equivalente all’altro (“originator” o meno) sempreché sia accertata l’identità del composto chimico (molecola). In effetti in questi casi si parla correntemente di farmaci “equivalenti” o “generici”; e com’è noto il servizio sanitario pubblico si rivolge naturalmente al prodotto di minor prezzo, lasciando ai pazienti (e per essi ai medici curanti) la libertà di sceglierne altri, purché assumano a proprio carico la differenza di prezzo” (Cons. Stato, sez. III, 13 giugno 2011, n. 3572).  I vari prodotti biotecnologici (originator e similari) basati sullo stesso principio attivo, benché in qualche misura differenti tra loro, per la complessità dei processi produttivi (e dunque non “equivalenti” in senso stretto), possono tuttavia essere usati come se fossero equivalenti nella generalità dei casi e salvo eccezioni, sempreché si osservi la cautela, una volta iniziato il trattamento con un prodotto di proseguirlo (salvo eccezioni) con lo stesso prodotto…” (Cons. Stato, sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5478; id. 13 giugno 2011, n. 3572).  Infatti, secondo il Consiglio di Stato (sez. III, 23 dicembre 2011, n. 6809) non risultano elementi da cui si possa desumere la superiorità qualitativa di un prodotto rispetto all’altro, a parte le suddette ipotesi nelle quali la particolarità del caso fa preferire un prodotto rispetto all’altro. Ciò vale tanto per l’“originator” quanto per i similari. In effetti l’“originator” ha il merito storico di essere stato, a suo tempo, il risultato di una ricerca originale ed innovativa, e ne è stato ricompensato con il diritto di esclusiva per la durata prevista dalla legge; ma al di là di questo non vi sono basi razionali per presumere che l’“originator”, solo perché tale, sia qualitativamente superiore ai prodotti elaborati successivamente, che mettono a frutto (legittimamente) le stesse acquisizioni ed esperienze. Nel secondo position paper dell’AIFA sui farmaci biosimilari si legge “La perdita della copertura brevettuale permette l’entrata sulla scena terapeutica dei farmaci cosiddetti “biosimilari”, medicinali “simili” per qualità, efficacia e sicurezza ai prodotti biologici originatori di riferimento e non più soggetti a copertura brevettuale. La disponibilità dei prodotti biosimilari genera una concorrenza rispetto ai prodotti originatori e rappresenta perciò un fattore importante. Quindi, i medicinali biosimilari costituiscono un’opzione terapeutica a costo inferiore per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), producendo importanti risvolti sulla possibilità di trattamento di un numero maggiore di pazienti e sull’accesso a terapie ad alto impatto economico…Come dimostrato dal processo regolatorio di autorizzazione, il rapporto rischio-beneficio dei biosimilari è il medesimo di quello degli originatori di riferimento. Per tale motivo, l’AIFA considera i biosimilari come prodotti intercambiabili con i corrispondenti originatori di riferimento. Tale considerazione vale tanto per i pazienti naïve quanto per i pazienti già in cura. Inoltre, in considerazione del fatto che il processo di valutazione della biosimilarità è condotto, dall’EMA e dalle Autorità regolatorie nazionali, al massimo livello di conoscenze scientifiche e sulla base di tutte le evidenze disponibili, non sono necessarie ulteriori valutazioni comparative effettuate a livello regionale o locale…Lo sviluppo e l’utilizzo dei farmaci biosimilari rappresentano un’opportunità essenziale per l’ottimizzazione dell’efficienza dei sistemi sanitari ed assistenziali, avendo la potenzialità di soddisfare una crescente domanda di salute, in termini sia di efficacia e di personalizzazione delle terapie sia di sicurezza d’impiego. I medicinali biosimilari rappresentano, dunque, uno strumento irrinunciabile per lo sviluppo di un mercato dei biologici competitivo e concorrenziale, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario e delle terapie innovative, mantenendo garanzie di efficacia, sicurezza e qualità per i pazienti e garantendo loro un accesso omogeneo, informato e tempestivo ai farmaci, pur in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica.”. (2) Il legislatore abbia cercato di trovare un punto di equilibrio tra più interessi pubblici contrapposti, da un lato la necessità di sviluppare un mercato dei biologici competitivo e concorrenziale, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica, dall’altro quello di garantire la libertà prescrittiva del medico, il quale deve poter scegliere il farmaco più adatto al tipo di paziente in cura (“…al fine di garantire un'effettiva razionalizzazione della spesa e nel contempo un'ampia disponibilità delle terapie…”). L’art. 15, comma 11-quater, d.l. n. 95 del 2012 deve quindi essere interpretato nel senso che: - i medici, in primis, hanno l’obbligo di prescrivere uno dei primi tre farmaci nella graduatoria dell'accordo-quadro, classificati secondo il criterio del minor prezzo o dell'offerta economicamente più vantaggiosa “al fine di garantire un'effettiva razionalizzazione della spesa e nel contempo un'ampia disponibilità delle terapie, i pazienti devono essere trattati con uno dei primi tre farmaci nella graduatoria dell'accordo-quadro, classificati secondo il criterio del minor prezzo o dell'offerta economicamente più vantaggiosa”; non è casuale l’uso dell’imperativo “devono”; - ai medici è comunque consentito prescrivere, sempre a carico del servizio sanitario nazionale, uno dei farmaci inclusi nella procedura “Il medico è comunque libero di prescrivere il farmaco, tra quelli inclusi nella procedura di cui alla lettera a), ritenuto idoneo a garantire la continuità terapeutica ai pazienti…”, fermo in questo caso l’obbligo di motivazione (Cons. Stato, sez. III, 14 novembre 2017, n. 5251); - i farmaci esclusi dalla procedura perché l’offerta è superiore alla base d’asta, come nel caso in esame, potranno sempre essere prescritti dai medici, ma il costo relativo non graverà sul servizio sanitario nazionale “eventuali oneri economici aggiuntivi, derivanti dal mancato rispetto delle disposizioni del presente comma, non possono essere posti a carico del Servizio sanitario nazionale”.   La legge salva comunque la libertà prescrittiva del medico al quale non potrà mai essere vietato di prescrivere il farmaco ritenuto più efficace, qualunque esso sia, purché il relativo costo non gravi sul sistema sanitario nazionale. Non è pertanto ravvisabile né la violazione del principio di libertà prescrittiva del medico e di continuità terapeutica, né quello del divieto di sostituibilità automatica tra farmaco biologico di riferimento e un suo biosimilare o tra biosimilari.   (3) Cons. Stato, sez. III, 16 febbraio 2018, n. 1009; Tar Bari, sez. II, 2 gennaio 2020, n. 2 
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Contratto – Subentro – Disposto con sentenza passata in giudicato - Posizione soggettiva del ricorrente - Individuazione.         Quando una sentenza (passata in giudicato) accoglie il ricorso avverso l’aggiudicazione ad altro soggetto e conseguentemente dichiara l’inefficacia del contratto nel frattempo stipulato e dispone il subentro del ricorrente nel medesimo contratto, non si realizza il perfezionamento del nuovo vincolo contrattuale e la posizione soggettiva del ricorrente si configura come un interesse legittimo alla stipulazione del contratto, come normalmente accade a seguito dell’aggiudicazione della gara (1)   (1) Nel caso di specie, dopo l’annullamento di una aggiudicazione con conseguente dichiarazione di subentro nel contratto, il ricorrente ha impugnato la successiva delibera con cui l’amministrazione ha revocato la gara originaria a causa di sopravvenienze che rendevano inutile l’esecuzione dell’appalto, sostenendo che, invece, l’amministrazione avrebbe dovuto procedere al recesso dal contratto ormai perfezionatosi in forza della precedente sentenza. Il Tar ha chiarito che la sentenza non aveva prodotto effetti costitutivi del vincolo negoziale, ma aveva attribuito al ricorrente la posizione corrispondente a quella di un aggiudicatario. Conseguentemente ha ritenuto legittima la decisione dell’amministrazione di optare per l’esercizio del potere autoritativo di revoca, anziché del diritto di recesso, salvo, per il ricorrente, il diritto all’indennizzo di cui all’art. 21 quinquies, l. n. 241 del 1990.
Contratti della Pubblica amministrazione
Università degli studi - Facoltà di Medicina Chirurgia e Odontoiatria – Collocazione in graduatoria in posizione non utile – Ammissione con riserva – Esclusione.           Deve essere respinta l’istanza di sospensione monocratica della graduatoria per l’ammissione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia ed Odontoiatria e protesi dentaria per l’anno accademico 2020/2021, nella quale l’appellante si è collocata in posizione non utile, non essendo ravvisabili vizi programmatori a fronte di un consistente aumento dei posti disposto dal Ministero (1)    (1) Ha chiarito il decreto che la pandemia sicuramente deve comportare il massimo sforzo possibile nell’incrementare il numero dei medici nei prossimi anni ma tale sforzo dipende da scelte politico organizzative e da stanziamenti finanziari che devono anche pensare alla qualità dei processi formativi (essendo insensato aumentare semplicemente il numero dei laureati se il sistema universitario non ne riesce a curare adeguatamente la formazione). Tale sforzo è stato compiuto – su invito del Ministero e della CRUI – pur ad invarianza delle strutture umane e materiali e tanto non è indice della mancata motivazione delle scelte effettuate ma è leggibile evoluzione della dialettica fra controllo giurisdizionale e azione amministrativa richiedendosi un tempo maggiore per lo strutturale aumento della capacità formativa. Ha aggiunto il decreto che il diritto allo studio è legato al merito e che il merito è essenzialmente attestato dalla posizione conseguita in graduatoria a nulla rilevando una generica invocazione di effettività della tutela che sia sganciata da un concreto interesse che trasformerebbe l’ammissione con riserva in un provvedimento cautelare quasi automatico con rischio di snaturamento del corretto rapporto fra giurisdizione e funzione amministrativa. Il carattere prioritario e determinante del potenziale formativo è stato ribadito anche a livello comunitario (in tal senso cfr. anche CEDU, 2 aprile 2013 – ricorsi 25851/09, 29284/09, 64090/09 – Tarantino e altri c. Italia), non potendosi ritenere corrispondente a tutela del diritto allo studio, come diritto fondamentale della persona, la mera indiscriminata ammissione a corsi di istruzione superiore di qualsiasi soggetto richiedente, ove le strutture organizzative predisposte non siano adeguate per garantirne l’adeguata formazione professionale; ​​​​​​​Ha infine affermato il decreto che la didattica a distanza, specie nelle Facoltà che impartiscono insegnamenti in materia sanitaria, non può essere una soluzione praticabile a regime in modo integrale e permanente ( in disparte le valutazioni circa il valore formativo della socialità ), nel caso di corsi di studio per i quali gli ordinamenti didattici prevedono l'obbligo di tirocinio come parte integrante del percorso formativo, di attività tecnico-pratiche e di laboratorio.
Università degli studi
Autorità amministrative indipendenti – Autorità garante della concorrenza e del mercato – Sanzioni amministrative - Procedimento - Contestazione - Disciplina generale - Applicabilità.   Autorità amministrative indipendenti – Autorità garante della concorrenza e del mercato – Sanzioni amministrative - Procedimento - Istruttoria - Contestazione - Termine - Decorrenza - Individuazione.   Le norme di principio, relative ad una immediatezza della contestazione o comunque ad una non irragionevole dilatazione dei suoi tempi, contenute nel Capo I della l. 24 novembre 1981, n. 689, sono dotate di applicazione generale dal momento che, in base all’art. 12, le stesse devono essere osservate con riguardo a tutte le violazioni aventi natura amministrativa per le quali è applicata la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro, compresa la materia dell'Antitrust (1).    In termini applicativi, il fatto che l’Autorità Antitrust deliberi l’avvio dell'istruttoria a distanza di vari mesi – ma non di vari anni - dalla segnalazione della possibile infrazione non può essere considerato come una violazione dei diritti delle imprese coinvolte, né un superamento dei termini procedimentali, in quanto la stessa valutazione dell'esigenza di avviare o meno l'istruttoria può presentarsi complessa; di conseguenza, il termine di novanta giorni previsto dal comma 2 dell’art. 14, l. n. 689 del 1981 inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta — o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie — l'attività amministrativa intesa a verificare l'esistenza dell'infrazione, comprensiva delle indagini intese a riscontrare la sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi dell'infrazione stessa     (1) Ha chiarito la Sezione che l’intento del Legislatore è stato quello di assoggettare ad un statuto unico ed esaustivo (e con un medesimo livello di prerogative e garanzie procedimentali per il soggetto inciso) tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, sia che siano attinenti a reati depenalizzati sia che conseguano ad illeciti qualificati “ab origine” come amministrativi, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie. La preventiva comunicazione e descrizione sommaria del fatto contestato con l’indicazione delle circostanze di tempo e di luogo (idonee ad assicurare, già nella fase del procedimento amministrativo anteriore all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione, la tempestiva difesa dell'interessato), attiene ai principi del contraddittorio ed è garantito dalla l. n. 689 del 1981, attraverso la prescrizione di una tempestiva contestazione la cui l’osservanza è assicurata mediante la previsione espressa dell’inapplicabilità della sanzione. Il termine per la contestazione delle violazioni amministrative ha infatti pacificamente natura perentoria avendo la precisa funzione di garanzia di consentire un tempestivo esercizio del diritto di difesa. L’ampia portata precettiva è esclusa soltanto dalla presenza di una diversa regolamentazione da parte di fonte normativa, pari ordinata, che per il suo carattere di specialità si configuri idonea ad introdurre deroga alla norma generale e di principio. Lo stesso art. 31 della legge n. 287 del 1990 prevede infatti l’applicazione delle norme generali di cui alla legge n. 689 del 1981 “in quanto applicabili”. Ebbene, con specifico riferimento alla disciplina della potestà sanzionatoria dell’Autorità non emergono le condizioni per derogare al sistema di repressione degli illeciti amministrativi per mezzo di sanzione pecuniaria ivi delineato. Il d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 non reca indicazione di alcun termine per la contestazione degli addebiti, e quindi non può far ritenere “diversamente stabilita” la scansione procedimentale e, quindi, inapplicabile il termine di cui si discute. Tale interpretazione è preferibile anche in quanto orientata dalla sicura ascendenza costituzionale del principio di tempestività della contestazione, posto a tutela del diritto di difesa.
Autorità amministrative indipendenti
Farmaci - Equivalenza - Equivalenza terapeutica - Associazione fissa di principi attivi – Presupposto – Diretta e reciproca bioequivalenza tra le associazioni fisse del farmaco originator e di quello equivalente.            L’attestazione dell’equivalenza terapeutica tra farmaci che assumono a propria base un’associazione fissa di principi attivi, ai fini del loro inserimento nella lista di trasparenza, deve essere fondata sulla prova di diretta e reciproca bioequivalenza tra le associazioni fisse del farmaco originator e di quello equivalente (1).   (1) Cons. St., sez. III, 24 maggio 2018, n. 3129. Ad avviso del giudice di appello occorrono studi dimostrativi della bioequivalenza “diretta” del farmaco predetto con il medicinale assunto a riferimento e non della bioequivalenza del farmaco unicamente rispetto ai medicinali monocomponente originatori. Ha ancora precisato che il requisito della bioequivalenza rispetto ai monocomponenti originatori è sufficiente, in base alle citate Linee Guida del 23 marzo 2017, per il solo rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio (Aic), mentre ai fini della valutazione di equivalenza per gli effetti dell’inclusione dei farmaci nella lista di trasparenza si rende necessaria, onde consentire e giustificare da un punto di vista terapeutico l’operatività del meccanismo di sostituzione del farmaco prescritto con quello dispensato, una apposita verifica in ordine alla comune efficacia terapeutica degli stessi, cui è appunto strumentale il rapporto di diretta e reciproca bioequivalenza tra le associazioni fisse di cui essi consistono.
Farmaci
Processo amministrativo - Udienza – Decreto di fissazione – Termine – Rito appalti – Individuazione.       L’art. 71 comma 5, c.p.a., con riferimento alle cause sottoposte al rito dell’art. 120 c.p.a., si riferisce solo alla prima udienza di trattazione nel merito e non alle successive (1).    (1) Il comma 5 dell’art. 71 c.p.a. dispone “Il decreto di fissazione è comunicato a cura dell'ufficio di segreteria, almeno sessanta giorni prima dell'udienza fissata, sia al ricorrente che alle parti costituite in giudizio. Tale termine è ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l'udienza di merito è fissata a seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare.”. ​​​​​​​Ha chiarito il decreto che a tale conclusione si perviene perché, ai sensi dell’art. 120, comma 6, c.p.a.: a.1) il giudizio va definito a una udienza fissata d’ufficio e da tenersi entro 45 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente; a.2) in caso di esigenze istruttorie o di difesa, la definizione del merito va rinviata ad una udienza da tenersi “non oltre trenta giorni”; a.3) l’ultima previsione menzionata conferma che, fermo il termine dilatorio di trenta giorni tra avviso alle parti e data dell’udienza quanto alla prima udienza di merito (in base al combinato disposto dell’art. 71, comma 5, e dell’art. 120, comma 6, primo periodo c.p.a.), le udienze di merito successive alla prima si devono tenere “non oltre trenta giorni” dalla precedente, sicché i trenta giorni – peraltro di calendario e non liberi – sono un termine massimo e non un termine minimo, ben potendosi fissare l’udienza ad una distanza inferiore a 30 giorni dall’avviso; a.4) la previsione in commento, recata dall’ultimo periodo dell’art. 120, comma 6, c.p.a., rispondendo alla ratio acceleratoria che ispira al rito appalti, si deve applicare in ogni ipotesi di rinvio dell’udienza, quindi anche nel caso di rimessione della causa alla Plenaria e di fissazione della nuova udienza dopo la decisione della Plenaria. 
Processo amministrativo
Alimenti – Fast food - McDonald's - Apertura alle Terme di Caracalla – Diniego – Legittimità.   ​​​​​​​              E’ legittimo il diniego di apertura di un McDonald's alle Terme di Caracalla, essendo l'area in cui si trova l'immobile tutelata dal piano territoriale paesaggistico ed inclusa nel centro storico tutelato come sito Unesco (1).   (1) Ha premesso la Sezione che l’area in cui si trova l’immobile è tutelata dal PTP n. 15/12, art. 134, comma 1, lett c), Valle della Caffarella, Appia antica ed Acquedotti, inclusa nel Centro Storico tutelato come sito Unesco, in area attigua alle Terme di Caracalla, per la quale le Norme tecniche di attuazione (art. 46) prevedono espressamente l’obbligatorietà del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del Codice (d.lgs. n. 42 del 2004).   Ha aggiunto che l’art. 150, d.lgs. n. 42 del 2004 attribuisce espressamente sia alla Regione sia al Ministero il potere di ordinare la sospensione di lavori atti ad alterare i valori paesaggistici del territorio, a tutela sia dei beni già vincolati sia di aree che si intende tutelare con l'imminente adozione di un futuro vincolo paesaggistico; si tratta, pertanto, di un potere che può essere esercitato anche a salvaguardia di aree o immobili non ancora dichiarati di interesse culturale o paesistico.   Nel caso di specie peraltro, sulla scorta di quanto sopra evidenziato, la disciplina vigente conferma la sussistenza del vincolo – nei termini predetti – e la conseguente necessità dell’autorizzazione paesaggistica, la cui mancanza ha pertanto in ogni caso giustificato e legittimato il ricorso al potere inibitorio in esame.   Quanto all’esercizio del potere di autotutela, la Sezione ha ricordato che nella specie sussiste tale potere in termini non di mera rimozione dei pareri precedentemente espressi dalle singole soprintendenze sulla base di una disciplina diversa da quella correttamente ricostruita dalla direzione generale, in quanto l’effetto degli atti impugnati è quello – di per sé neppure integrante un totale arresto procedimentale definitivo – di diffida all’attivazione del corretto percorso procedimentale. Ha aggiunto che l’assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. n. 42 del 2004); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146, d.lgs. n. 42 per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica (Cons.St., sez. IV, 14 dicembre 2015, n. 5663).  trasformazione edilizia del territorio, applicabili a maggior ragione in ordine alla peculiare disciplina propria degli ambiti soggetti a parallela tutela latu sensu culturale, comprendente il versante paesaggistico.   In generale, i presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione (Cons.St., sez.  IV, 18 giugno 2019, n. 4133). Nel caso di specie, oltre al limitato periodo temporale trascorso fra il rilascio degli evocati assensi e l’intervento di rimozione, assumono preminente rilievo i plurimi elementi posti a base degli atti impugnati, pienamente coerenti ai principi predetti: la disciplina vigente ed il conseguente previo necessario rilascio dell’autorizzazione ex art. 146 cit., nei termini già sopra condivisi; la relativa erronea rappresentazione degli elementi di fatto e di diritto rilevanti nella fattispecie; la circostanza che i lavori di trasformazione erano appena stati avviati senza alcun consolidamento, con conseguente connessa valutazione della relativa situazione giuridica dei privati interessati. Emerge altresì dagli atti l’approfondimento motivazionale degli interessi pubblici connessi alla tutela dell’area e del contesto culturale coinvolto, nei termini correttamente indicati sia dalla sentenza impugnata che dalla difesa erariale, oltre che del tutto coerenti ai principi sopra richiamati in tema di autotutela. 
Alimenti
Contratti pubblici – Varianti in corso d’opera – Revisione prezzi – Differenza   A fronte di un’istanza, formulata dall’appaltatore, di adeguamento del corrispettivo dei servizi da svolgere ed in carenza di un’espressa clausola di revisione dei prezzi, si applica la lettera a), e non la lettera c), dell’art. 106 del codice dei contratti pubblici, il quale, al comma 1, scandisce i casi di modifica dei contratti di appalto, nei settori ordinari e nei settori speciali, senza una nuova procedura di affidamento. Ciò in quanto: - la lettera c) fa testuale ed espresso riferimento a quelle “modifiche dell’oggetto del contratto” che si correlano alle “varianti in corso d’opera”, specificamente inerenti l’oggetto del contratto sul versante dei lavori da eseguire; - la lettera a), invece, nel contemplare le “variazioni dei prezzi e dei costi standard”, disciplina gli aspetti economici del contratto; segnatamente, àncora ad una rigorosa previsione di clausole di revisione dei prezzi le modifiche dell’oggetto del contratto, sul versante del corrispettivo, che l’appaltatore trae dall’esecuzione del contratto. Peraltro, dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze 19 aprile 2018, C-152/17; 7 settembre 2016, C-549-14), si trae una sostanziale neutralità del diritto europeo rispetto agli eventuali rimedi manutentivi che gli ordinamenti nazionali approntano per fronteggiare le sopravvenienze che incidono sugli aspetti economici del contratto, fermo il disfavore per soluzioni che alterino surrettiziamente il gioco della concorrenza attraverso affidamenti diretti senza gara.
Contratti pubblici
Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà – Sussistenza eventuali pendenze fiscali – Dichiarazione falsa – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza del beneficio –  Automatismo sanzionatorio –  Esclusione    In sede di applicazione dell’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000, l’Amministrazione procedente deve valutare caso per caso tutti gli elementi emersi nel corso del procedimento affinché la sanzione prevista dalla legge, e cioè la perdita dei benefici conseguiti per effetto della falsa dichiarazione, non sia irragionevolmente applicata nelle ipotesi di mere irregolarità nella dichiarazione (1).     (1) Il Tar ha richiamato l’art. 75 (“Decadenza dai benefici”), d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”) il quale dispone che “fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.   Il Tar ha ritenuto che ad una rigorosa interpretazione delle norme dettate in materia di c.d autocertificazione, che comporterebbe l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando alcun margine di discrezionalità alle PP.AA., vada preferita una lettura costituzionalmente orientata, volta cioè a valorizzare, oltre il dato meramente formale, anche la sostanza della dichiarazione e del suo contenuto.   Conformemente al più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa, teso a considerare il contenuto effettivo dell’attestazione in presenza di vizi meramente formali (Cons. Stato sez. V, 17 gennaio 2018 n. 257 e 23 gennaio 2018, n. 418), quel che si ritiene di dover valorizzare sono le peculiari circostanze di volta in volta emerse nel caso concreto, alla luce delle quali poter valutare, nella specie, se si tratti di una vera e propria falsità o, piuttosto, di una mera irregolarità nella dichiarazione resa alla P.a..   Il Tar ha chiarito che secondo questa interpretazione, e proprio con riferimento all’esistenza di pendenze fiscali non dichiarate al momento della istanza di rinnovo del rilascio del patentino, si è opportunamente rilevato come, per la decadenza dal beneficio, non sarebbe determinante il profilo formale della falsità della dichiarazione bensì quello sostanziale costituito dalla mancanza del requisito falsamente dichiarato: l’Amministrazione, quindi, sarebbe tenuta a valutare compiutamente la portata e l’attualità delle pendenze fiscali sussistenti al momento della istanza (Tar Palermo, sez I, 29 ottobre 2018, n. 2190).   Il tutto conformemente ai principi di ragionevolezza e proporzionalità che pure devono ispirare l’azione amministrativa e che portano ad escludere ogni automatismo sanzionatorio nell’applicazione dell’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000.   Il Tar ha rilevato che, nel caso in esame, l’Amministrazione resistente ha del tutto omesso questa valutazione del caso concreto essendosi limitata ad applicare automaticamente l’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000. All’opposto, nel corso del procedimento, erano emerse circostanze tali da far ritenere meritevole di accoglimento l’istanza di rinnovo del patentino presentata dalla ricorrente, consistenti nella esiguità dell’importo ab origine dovuto al fisco, nel fatto che lo stesso fosse relativo ad una attività commerciale cessata nell’anno 2010 e nel fatto che il debito fiscale era stato estinto prima ancora della adozione dei provvedimenti impugnati.    
Procedimento amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Clausole a pena di esclusione – Applicabilità.   Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Fallimento società affittante ramo di azienda – Conseguenza.   Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Fallimento società affittante ramo di azienda – Recesso condizionato – Conseguenza.   La previsione del bando di gara che sanzioni un obbligo dichiarativo con l’esclusione, non può valere a escludere la disciplina del soccorso istruttorio che, sancito dall’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, costituisce attuazione dei principi di concorrenza, del favor partecipationis e di proporzionalità (1). Qualora l’impresa partecipante a una gara d’appalto affitti un ramo di un’altra azienda onde raggiungere il requisito del fatturato minimo, il fallimento della società affittante non rileva quale causa di esclusione dell’affittuaria; l’art. 105, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, prevede che tale conseguenza operi solo nei rapporti tra subappaltatore e appaltatore e non è possibile adottare un’interpretazione che estenda l’operatività dell’esclusione a ipotesi non espressamente previste in quanto la cause di esclusione sono soggette al principio di tassatività (art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016,) e di stretta interpretazione (2). Il negozio unilaterale di recesso dal contratto di affitto di azienda effettuato dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 79, r.d. n. 16 marzo 1942, n. 267 (l. fall.), qualora operato in modo tale da garantire all’affittuaria che stia partecipando a una gara d’appalto tanto la costante disponibilità del compendio aziendale quanto la possibilità di presentare un’offerta di acquisto del ramo di azienda nell’ambito della procedura fallimentare, deve ritenersi condizionato sospensivamente alla mancata formulazione dell’offerta di acquisto da parte dell’affittuaria e, poi, al mancato perfezionamento dell’acquisto medesimo; conseguentemente, l’esercizio del diritto di recesso, in tal modo condizionato, non determina il venir meno del requisito di partecipazione in capo all’impresa che, al fine di ottenere il requisito medesimo, si sia giovata dell’affitto del ramo di un’azienda poi fallita, che abbia conservato la piena disponibilità del ramo di azienda senza soluzione di continuità e che sia in procinto di acquistarlo nell’ambito della procedura fallimentare (3).   (1) Ha chiarito la Sezione che ragionare diversamente equivale a rendere facoltativa, per le stazioni appaltanti, l’applicazione del soccorso istruttorio che potrebbe essere evitata semplicemente munendo gli obblighi dichiarativi della sanzione dell’esclusione nell’ambito della documentazione di gara, il che costituisce un esito non accettabile sul piano interpretativo; l’obbligo del soccorso istruttorio, infatti, deriva direttamente dalla legge e costituisce attuazione dei principi di concorrenza, del favor partecipationis e di proporzionalità. La disciplina è, ormai, orientata nel senso che, qualora siano posseduti i requisiti sostanziali per partecipare alla gara e sempre che le mancanze non riguardino l’offerta, le omissioni dichiarative, anche essenziali, possano essere sanate.   (2) Ad avviso del Tar la disciplina è, anzi, orientata nel senso di salvaguardare la possibilità di impiego del compendio aziendale anche nel settore delle gare pubbliche mediante istituti quali l’autorizzazione al curatore per l’esercizio dell’impresa (onde proseguire l’esecuzione della prestazione, art. 110, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016) e la possibilità di partecipazione dell’impresa che sia ammessa al concordato preventivo (artt. 110, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016; 161 e 186 bis, r.d. n. 16 marzo 1942, n. 267, l.fall.).   (3) Giova rammentare che il recesso è un atto negoziale unilaterale che non sfugge alle regole di interpretazione del contratto, pur nei limiti della compatibilità (artt. 1324 e 1362 e ss. c.c.); ebbene, l’indagine sulla effettiva volontà del recedente (art. 1362 c.c.), l’interpretazione complessiva delle espressioni utilizzate nella nota con cui si è esercitato il recesso (art. 1363 c.c.) nonché lo stesso principio di interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.) inducono, appunto, a concludere che il recesso non fosse immediatamente operativo, ma, piuttosto, condizionato all’eventuale formulazione e, poi, al perfezionamento dell’acquisto dell’azienda. Nello stesso senso, è l’indagine della causa del negozio (unilaterale) di recesso; essa va intesa quale “causa concreta” e, quindi, non tipica e immutabile, ma da collegarsi alla concreta finalità posta in essere dal recedente che, nel caso di specie, è senz’altro quella di consentire e, anzi, di favorire il consolidamento della detenzione del compendio aziendale e la sua trasformazione in possesso (cd. traditio brevi manu). Anche da questo punto di vista, quindi, il recesso è da intendersi condizionato sospensivamente al perfezionamento della vendita del compendio aziendale all’affittuaria.
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo - Rito appalti - Ricorso incidentale escludente e ricorso principale - Esame di entrambi i ricorsi - Numero dei concorrenti partecipanti alla gara - Irrilevanza.             A prescindere dal numero dei concorrenti partecipanti alla gara e dall’ordine di esame dei ‘gravami incrociati escludenti’, il ricorso principale e quello incidentale devono essere entrambi esaminati (1).     (1) Ha ricordato la Sezione che il giudice europeo ha stabilito che a prescindere dal numero dei concorrenti partecipanti alla gara e dall’ordine di esame dei ‘gravami incrociati escludenti’, il ricorso principale e quello incidentale devono essere entrambi esaminati, in quanto - anche se l’offerta del ricorrente principale sia giudicata irregolare - l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe constatare l’impossibilità di scegliere un’altra offerta regolare e procedere di conseguenza all’indizione di una nuova procedura di gara, vale a dire che, qualora il ricorso dell’offerente non prescelto fosse giudicato fondato, l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la decisione di annullare gli atti della procedura e di avviare una nuova procedura di affidamento, in considerazione del fatto che le restanti offerte regolari non corrispondono sufficientemente alle attese dell’amministrazione stessa (cfr. paragrafi 27 e 28 della Corte di giustizia della Unione europea, sentenza 5 settembre 2019, pronunciata nella causa C-333/18). In tal modo, è stata riaffermata la giuridica rilevanza di interessi legittimi “eterogenei” nello svolgimento delle gare pubbliche di appalto, essendo stato ritenuto meritevole di tutela sia l’interesse legittimo “finale” ad ottenere l’aggiudicazione dell’appalto, sia l’interesse legittimo “strumentale” alla partecipazione ad un eventuale procedimento di gara rinnovato e ciò in quanto l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la decisione di annullare gli atti del procedimento e di avviare un nuovo procedimento di affidamento dell’appalto. Ne consegue che - non potendo l’accoglimento del gravame incidentale determinare l’improcedibilità del gravame principale, continuando ad esistere in capo al ricorrente principale la titolarità dell’interesse legittimo strumentale alla eventuale rinnovazione della gara, anche nel caso in cui alla stessa abbiano partecipato altre imprese, estranee al rapporto processuale – il rapporto di priorità logica tra ricorso principale ed incidentale deve essere rivisto rispetto a quanto ritenuto dalla giurisprudenza sinora prevalente, nel senso che il ricorso principale deve essere esaminato per primo, potendo la sua eventuale infondatezza determinare l’improcedibilità del ricorso incidentale In altri termini, l’ordo questionum impone oggi di dare priorità al gravame principale e ciò in quanto, mentre l’eventuale fondatezza del ricorso incidentale non potrebbe in ogni caso comportare l’improcedibilità del ricorso principale, l’eventuale infondatezza del ricorso principale consentirebbe di dichiarare l’improcedibilità del ricorso incidentale, con conseguente economia dei mezzi processuali. Infatti, ove fosse respinto il ricorso principale, con conseguente formazione del giudicato sulla legittimità (rectius: sulla non illegittimità sulla base dei motivi dedotti) della aggiudicazione controversa, il controinteressato, vale a dire l’aggiudicatario, avendo reso intangibile la soddisfazione del proprio interesse, non potrebbe nutrire alcun ulteriore interesse all’accoglimento del ricorso incidentale.
Processo amministrativo
Covid-19 - Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto fornitura - Dispositivi di protezione individuale – Per risalente risoluzione contratto per ritardo nella fornitura – Legittimità.   Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per pregressa risoluzione – Limite triennale ex art. 1, comma 20, lett. o), n. 5), d.l. n. 32 del 2019 – Risoluzione sub judice – Inapplicabilità.    Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Dichiarazione falsa o reticente – Differenza.        E’ legittima l’esclusione da una gara, bandita nel periodo emergenziale Covid-19 per la fornitura di dispositivi di protezione individuale, di un operatore economico che ha subito una risoluzione del contatto, sebbene risalente nel tempo, proprio per mancato rispetto dei termini di consegna contrattualmente stabiliti, atteso che ciò che caratterizza la fornitura in oggetto sono i tempi brevissimi per effettuare l’approvvigionamento (1).     In sede di gara pubblica, l’art. 1, comma 20, lett. o), n. 5), d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, che ha sostituito il comma 10 dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 con gli attuali commi 10 e 10-bis, va interpretato nel senso che il limite temporale triennale decorrente dalla data della risoluzione non opera nel caso in cui il provvedimento sia contestato in giudizio (2).         In sede di gara pubblica la falsità (informativa, dichiarativa ovvero documentale) ha attitudine espulsiva automatica oltreché (potenzialmente e temporaneamente) ultrattiva, laddove le informazioni semplicemente fuorvianti giustificano solo – trattandosi di modalità atta ad influenzare indebitamente il concreto processo decisionale in atto – l’estromissione dalla procedura nella quale si collocano; l’omissione e la reticenza dichiarativa si appalesano per definizione insuscettibili - a differenza della falsità e della manipolazione fuorviante, di per sé dimostrative di pregiudiziale inaffidabilità - di legittimare l’automatica esclusione dalla gara, dovendo sempre e comunque rimettersi all’apprezzamento di rilevanza della stazione appaltante, a fini della formulazione di prognosi in concreto sfavorevole sull’affidabilità del concorrente (3). 
Contratti della Pubblica amministrazione
Sanità pubblica - Assistenza sanitaria - Persone con disabilità – Regolamento comunale – Interventi economici a carico dell’utente - Criterio economico aggiuntivo all’ISEE, individuato nelle “entrate effettivamente disponibili”.      E’ illegittimo il Regolamento comunale per il sostegno economico ai “progetti di vita” a favore delle persone con disabilità, nella parte in cui ha individuato le componenti economiche degli interventi a carico dell’utente non solo sulla base e in proporzione al suo ISEE socio-sanitario, ma anche ponendo a fondamento un criterio economico aggiuntivo, individuato nelle “entrate effettivamente disponibili” (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che non può essere riconosciuta ai Comuni una potestà di deroga alla legislazione statale e regionale nell'adozione del regolamento comunale che disciplina l’accesso alle prestazioni sociali agevolate, e precisamente, in violazione della disciplina statale dettata con d.P.C.M. 5 dicembre 2013, regolamento concernente le modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente - di cui al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 109 e successive modifiche, e adottato in applicazione dell’art. 5, l. 22 dicembre 2011, n. 214). L’art. 2, comma 1, d.P.C.M. n. 159 del 2013, testualmente ed inequivocabilmente stabilisce che “L'ISEE è lo strumento di valutazione, attraverso criteri unificati, della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni sociali agevolate. La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte salve le competenze regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e socio-sanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni. In relazione a tipologie di prestazioni che per la loro natura lo rendano necessario e ove non diversamente disciplinato in sede di definizione dei livelli essenziali relativi alle medesime tipologie di prestazioni, gli enti erogatori possono prevedere, accanto all'ISEE, criteri ulteriori di selezione volti ad identificare specifiche platee di beneficiari, tenuto conto delle disposizioni regionali in materia e delle attribuzioni regionali specificamente dettate in tema di servizi sociali e socio-sanitari. E' comunque fatta salva la valutazione della condizione economica complessiva del nucleo familiare attraverso l'ISEE.”. Tale ultima precisazione, quale norma di chiusura, sgombra il campo da ogni dubbio in ordine alla non valutabilità della “condizione economica complessiva del nucleo familiare” attraverso criteri diversi dall’ISEE, introdotti da regioni o comuni.  L’ISEE è calcolato, con riferimento al nucleo familiare di appartenenza del richiedente, come rapporto tra l'ISE e il parametro della scala di equivalenza corrispondente alla specifica composizione del nucleo familiare; l’'ISE è la somma dell'indicatore della situazione reddituale, determinato ai sensi dell'art. 4, e del venti per cento dell'indicatore della situazione patrimoniale; l'ISEE differisce sulla base della tipologia di prestazione richiesta, secondo le modalità stabilite agli artt. 6, 7 e 8, limitatamente alle a) prestazioni agevolate di natura sociosanitaria, b) prestazioni agevolate rivolte a minorenni in presenza di genitori non conviventi, c) prestazioni per il diritto allo studio universitario ( art. 2, commi 2, 3 e 4).   L'indicatore della situazione reddituale è determinato sulla base dei redditi e delle spese e franchigie di cui all’art. 4, riferite a ciascun componente ovvero al nucleo familiare (comma 1).  L’art. 4, comma 2, lett. f), che tra i componenti del reddito includeva “trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche”, è stato dichiarato illegittimo da questo Consiglio di Stato (sez. IV, 29 febbraio 2016, nn. 838, 841 e 842). Le citate sentenze, esaminando la ratio dell’indennità di accompagnamento e il suo rapporto con l’ISEE, hanno escluso che l'indennità di accompagnamento, come le altre indennità con la medesima finalità, possa essere valutata come un reddito, in quanto essa “unitamente alle altre forme risarcitorie serve non a remunerare alcunché, né certo all'accumulo del patrimonio personale, bensì a compensare un'oggettiva ed ontologica .....situazione d'inabilità che provoca in sé e per sé disagi e diminuzione di capacità reddituale”. “Tali indennità o il risarcimento sono accordati a chi si trova già così com'è in uno svantaggio....non determinano infatti una migliore situazione economica del disabile rispetto al non disabile, al più mirando a colmare tale situazione di svantaggio subita da chi richiede la prestazione assistenziale e possiede i requisiti per accedervi”.  A seguito e per effetto delle suindicate statuizioni, il legislatore, con l’Allegato 1 della l. 26 maggio 2016, n. 89, recante modificazioni apportate in sede di conversione al d.l. 29 marzo 2016, n. 42 (art. 2-sexies, co. 3), ha previsto che "Nelle more dell'adozione delle modifiche al regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, volte a recepire le sentenze del Consiglio di Stato, sezione IV, nn. 841, 842 e 838 del 2016, nel calcolo dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) del nucleo familiare che ha tra i suoi componenti persone con disabilità o non autosufficienti, come definite dall'allegato 3 al citato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013, anche ai fini del riconoscimento di prestazioni scolastiche agevolate, sono apportate le seguenti modificazioni: a) sono esclusi dal reddito disponibile di cui all'art. 5, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, comprese le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche in ragione della condizione di disabilità, laddove non rientranti nel reddito complessivo ai fini dell'IRPEF; b) in luogo di quanto previsto dall'art. 4, comma 4, lettere b), c) e d), d.P.C.M. n. 159 del 2013, è applicata la maggiorazione dello 0,5 al parametro della scala di equivalenza di cui all'allegato 1 del predetto decreto n. 159 del 2013 per ogni componente con disabilità media, grave o non autosufficiente.”. Dunque, il legislatore ha riformato il d.P.C.M. n. 159 del 2013 escludendo dal  reddito disponibile di cui all'art. 5, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, comprese le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche in ragione della condizione di disabilità, laddove non rientranti nel reddito complessivo ai fini dell'IRPEF, ed ha imposto agli Enti che disciplinano l'erogazione delle prestazioni sociali agevolate di adottare gli atti necessari all'erogazione delle prestazioni secondo quanto previsto dalle nuove norme, nel rispetto degli equilibri di bilancio programmati (Cons. Stato, sez. III, n. 6371 del 2018). Pertanto, sia la pensione di invalidità che l'indennità di accompagnamento esulano dalla nozione di "reddito" ai fini del calcolo ISEE, in quanto non costituiscono incrementi di ricchezza, ma importi riconosciuti a titolo meramente compensativo o risarcitorio a favore delle situazioni di "disabilità" (Cons. Stato, sez. III, n. 6371 del 2018; n. 1458 del 2019). ​​​​​​​Di conseguenza, la definizione del livello di compartecipazione del costo delle prestazioni di cui all’art. 1, d.P.C.M. n. 159 del 2013 deve avvenire mediante l'applicazione dell'indicatore ISEE, così come determinato dall’art. 4 a seguito delle modifiche introdotte con la citata l. n. 89 del 2016; e, va da sé che le medesime indennità non possono essere ad altro titolo considerate reddito da valutare ai fini della compartecipazione al costo dei servizi erogati. 
Sanità pubblica
Cittadinanza – Concessione – Presupposti – Individuazione.             La concessione della cittadinanza italiana è atto ampiamente discrezionale, che deve non solo tenere conto di fatti penalmente rilevanti, esplicitamente indicati dal legislatore, ma anche valutare l’area della loro prevenzione; di guisa che l’atto in questione implica accurati apprezzamenti da parte dell’Amministrazione sulla personalità e sulla condotta di vita dell’interessato e si esplica in un potere valutativo circa l’avvenuta integrazione dello straniero nella comunità nazionale sotto i molteplici profili della sua condizione lavorativa, economica, familiare e di irreprensibilità della condotta (1).    (1) Cons. Stato, sez. III, 6 settembre 2018 n. 5262; id. 12 novembre 2014, n. 5571; id., sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913; id. 10 gennaio 2011, n. 52; id. 26 gennaio 2010, n. 282. Ha ricordato la Sezione che e il provvedimento di diniego della concessione non è sindacabile per i profili di merito della valutazione dell’Amministrazione (Cons. Stato, sez. III, 6 settembre 2016, n. 3819; id. 25 agosto 2016, n. 3696; id. 11 marzo 2016, n. 1874), mentre lo è invece, e pienamente, per i suoi eventuali profili di eccesso di potere, tra i quali è tradizionalmente annoverata l’inadeguatezza della motivazione (Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2006, n. 3456; id., sez. III, 26 ottobre 2016, n. 4498). Quanto all’onere motivazionale, la giurisprudenza ha più volte rilevato che il provvedimento di diniego della richiesta cittadinanza italiana non deve necessariamente riportare analiticamente le notizie sulla base delle quali si è addivenuti al giudizio di sintesi finale, essendo sufficiente quest’ultimo laddove una più particolareggiata ostensione dei dati rilevanti potrebbe in qualche modo compromettere l'attività preventiva o di controllo da parte degli organi a ciò preposti ed anche le connesse esigenze di salvaguardia della incolumità di coloro che hanno effettuato le indagini (Cons. Stato, sez. III, 6 settembre 2018 n. 5262; id. 29 maggio 2018, n. 3206). Tuttavia, se è l’attenzione alla salvaguardia delle attività preventive e di indagine che giustifica una esplicazione in termini sintetici dell’onere motivazionale, deve per contro ritenersi che – nei casi in cui tale preminente esigenza non si ponga – l’obbligo ex art. 3, l. n. 241 del 1990 torni a vigere nella sua più ordinaria dimensione; e, quindi, in termini proporzionati alla varietà delle circostanze meritevoli di considerazione nel giudizio discrezionale dell’amministrazione.  Nel senso di una esplicazione dell’onere motivazionale proporzionata e coerente alle specifiche emergenze del caso, va quindi rilevato che (Cons. Stato, sez. III, 14 maggio 2019, n. 3121): il parametro della “motivazione sufficiente” non ha carattere rigido né assoluto, ma si presta ad essere adeguatamente calibrato in funzione, anche, della delicatezza degli interessi, pubblici e privati, coinvolti, che potrebbero ricevere pregiudizio già per effetto di un indiscriminato ed incontrollato palesamento dei fatti accertati dall’Amministrazione e degli strumenti istruttori utilizzati; si legittima pertanto un assolvimento “attenuato” dell’obbligo esplicativo delle ragioni del provvedimento, da parte dell’Amministrazione, quando una più ampia disclosure, già nel contesto del provvedimento medesimo, dei dati e delle informazioni in possesso dell’Amministrazione, potrebbe costituire un attentato alla segretezza connaturata allo svolgimento di investigazioni particolarmente penetranti ed in ambiti estremamente rischiosi; nella medesima ottica funzionale, risulta ineludibile la distinzione tra motivazione del provvedimento di diniego, la cui ostensione, ai fini della valutazione della sua sufficienza in concreto, deve essere perimetrata alla stregua dei principi che precedono, e sindacato di legittimità secondo il paradigma dell’eccesso di potere, al cui esercizio concorrono tutti gli elementi istruttori acquisiti ed acquisibili, anche nell’esercizio dei poteri istruttori spettanti al giudice amministrativo ovvero nel quadro dell’esercizio del diritto di accesso da parte dell’interessato (Cons. Stato, sez. III, 29 marzo 2019, n. 2102). ​​​​​​​
Cittadinanza
Covid-19 – Sicilia - Ordinanza del Sindaco di Agrigento n. 9 del 14 gennaio 2022 - Sospensione dell'attività didattica in presenza nelle scuole del territorio comunale dal 15 gennaio 2022 al 24 gennaio 2022 – Va sospesa.                     Deve essere sospesa l'Ordinanza del Sindaco di Agrigento n. 9 del 14 gennaio 2022, che, in conseguenza dell’emergenza Covid-19, ha istituito la c.d. “zona arancione” per il territorio del Comune di Agrigento e ha disposto la sospensione dell'attività didattica in presenza nelle scuole del territorio comunale dal 15 gennaio 2022 al 24 gennaio 2022; ed infatti né l’Ordinanza del Presidente della Regione Sicilia n. 1 del 7 gennaio 2022 - il cui art. 2 sembrerebbe estendere alle zone arancioni la facoltà di cui all’art. 1, comma 4, d.l. n. 111 del 2021, ma appare non tenere conto della modifica all’originario testo del decreto legge introdotta in sede di conversione, nel senso della limitazione alle sole zone rosse della possibilità di adozione di provvedimenti in deroga alle prescrizioni nazionali - nè la direttiva interassessoriale prot. n. 110 del 12 gennaio 2022 (Istruzione e formazione professionale e Sanità) – per altro probabilmente adottata in attuazione della citata Ordinanza n. 1 del 2022 - possono attribuire un potere amministrativo escluso dalla normativa nazionale in materia di attività scolastiche in periodo di emergenza sanitaria da Covid-19.   ​​​​​​​
Covid-19
Covid-19 – Sicilia – Divieto di attività motoria ai minori – Ordinanza del Presidente della Regione Sicilia – Non va sospesa.        Non va sospesa l’ordinanza contingibile e urgente n. 16 dell' 11 aprile 2020 del Presidente della Regione Sicilia che reitera il divieto (ex art. 1, comma 2, dell’ordinanza del Presidente della Regione n. 6 del 19 marzo 2020) di  ogni attività motoria all' aperto anche in forma individuale, comprese quelle dei minori accompagnati dai genitori, e ciò in quanto l’art. 3, comma 2, d.l. n. 19 del 2020  vieta tassativamente ai soli Sindaci di provvedere “in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1”, mentre analogo, tassativo, divieto non risulta essere sancito per gli organi di livello regionale (1). (1) Ha chiarito il decreto che gli aspetti di massima prudenza sanitaria e prevenzione epidemiologica che sono sottesi all’ordinanza impugnata (entro cui si inscrivono i divieti e i limiti di libera circolazione cui fa riferimento parte ricorrente), appaiono prevalenti rispetto agli interessi ed alla posizione giuridica dei ricorrenti, essendo, i predetti aspetti, correlati sia alla ormai conclamata e progressiva situazione di emergenza epidemiologica, sia all’esigenza di scoraggiare a priori, specificamente nella realtà siciliana, possibili espedienti e comportamenti elusivi della quarantena generalizzata imposta direttamente dal d.l. n. 19 del 2020.
Covid-19
Animali  - Brucellosi – Prevenzione - Discordanze rilevanti fra test sierologici eseguiti in vivo – Conseguenza.             In materia di prevenzione delle infezioni da brucellosi bovina, a fronte di discordanze rilevanti fra test sierologici eseguiti in vivo (SAR Ag-RB, sieroagglutinazione rapida con antigene Rosa Bengala, e FdC-mi, fissazione del complemento), nonché a fronte di macroscopici riscontri confliggenti forniti dai test batteriologici eseguiti post mortem, le sieropositività scaturite dall’applicazione di uno soltanto dei previsti metodi diagnostici in vivo (SAR Ag-RB, considerato recessivo dalla o.m. 28 maggio 2015 rispetto a quello FdC-mi) sono, di per sé sole, insuscettibili di legittimare l’automatica soppressione dei capi di bestiame sospetti, ma richiedono, piuttosto, l’espletamento di adeguati approfondimenti istruttori, anche mediante interpello del competente Centro di referenza nazionale per le brucellosi, pur allorquando l’allevamento sia risultato interessato da precedenti casi di sieropositività (smentiti però dai menzionati test batteriologici post mortem). Un simile approccio riviene dalla doverosa conformazione dell’agere amministrativo ai basici canoni euro-unitari e nazionali di ragionevolezza e proporzionalità, in rapporto ai quali l’abbattimento dei bovini risultati sieropositivi alla sola SAR Ag-RB si presenta a guisa di misura abnorme e ingiustificata, ove non suffragata da riscontri certi e oggettivi; né è in grado di scalfire sostanzialmente il principio di precauzione sanitaria, stante l’adeguatezza delle misure temporanee di isolamento dei capi di bestiame sospetti di infezione (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che il disposto abbattimento dei cennati capi di bestiame risultati sieropositivi (soltanto) alla SAR si presenta a guisa di misura abnorme e ingiustificata, ove non suffragata da riscontri certi e oggettivi. Ed invero, esso rimane insuscettibile di scalfire sostanzialmente l’evocato principio di precauzione sanitaria, stante l’adeguatezza della disposta misura dell’isolamento, «utilizzabile anche per seguire la eventuale evoluzione sintomatica dei capi bovini, e poi eventualmente trarre le valutazioni definitive» (Cons. Stato, sez. III, ord. n. 3777 del 2020). Nel contempo, non arriva a vanificare le risultanze delle eseguite prove sierologiche, limitandosi ad esigere unicamente una rigorosa attività di controanalisi attraverso l’impiego di uno o più dei metodi diagnostici supplementari declinati nel citato rapporto ISS n. 05/21, nonché attraverso l’eventuale coinvolgimento del competente Centro di referenza nazionale per le brucellosi (ove dette controanalisi non fossero direttamente espletabili dall’IZSM).  Infine, non è da reputarsi in radice precluso dal disposto del secondo capoverso, lett. c, dell’Allegato 1 all’o.m. 28 maggio 2015, che àncora l’esperimento di supplementi diagnostici, anche mediante coinvolgimento del Centro di referenza nazionale per le brucellosi, ai soli casi di positività alla SAR e negatività alla FdC rilevati in «allevamenti non infetti».  Una interpretazione estensiva della norma richiamata (anche alle ipotesi di allevamenti infetti), che sia ispirata ai cennati principi di ragionevolezza e proporzionalità e volta a contemperare le primarie e indefettibili esigenze di precauzione sanitaria con le pur apprezzabili esigenze di tutela degli interessi economico-imprenditoriali dell’allevatore, non risulta, infatti, infrangersi irrimediabilmente contro il suo tenore letterale.  D’altronde, alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale improntato all’operatività del principio di gerarchia delle fonti (Cons. Stato, sez. VI, 29 aprile 2005, n. 2034; 2 marzo 2009, n. 1169; sez. IV, 16 febbraio 2012, n. 812; sez. V, 28 settembre 2016, n. 4009; sez. VI, 24 ottobre 2017, n. 4894; sez. IV, 7 dicembre 2017, n. 5753; Tar Napoli, sez. VII, 18 luglio 2017, n. 3838), la previsione subprimaria in parola, ove interpretata nel senso di imporre all’allevatore, attraverso la misura immediata dell’abbattimento, senza il ricorso ad opportuni approfondimenti istruttori, un sacrificio patrimoniale abnorme rispetto alla controvertibilità delle evidenze epidemiologiche acquisite, andrebbe disapplicata dall’adito giudice amministrativo, in quanto confliggente con i fondamentali principi di buon andamento dell’attività amministrativa. ​​​​​​​
Animali
Rifiuti – Smaltimento – Impianti – Tariffa – Regione Lazio – Determinazione – Art. 29, comma 2, l. reg. nm. 27 del 1998 – Introduzione di fatto di un tributo regionale non autorizzato dalla legge statale – Violazione artt. 117, comma 2, lett. s) e 119 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.     E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29 comma 2, l. reg. Lazio 9 luglio 1998, n. 27, nella parte in cui dispone che la tariffa per conferire rifiuti agli impianti di smaltimento e alle discariche va determinata prevedendo la “quota percentuale della tariffa” in questione “dovuta dagli eventuali comuni utenti al soggetto gestore dell'impianto o della discarica a favore del comune sede dell'impianto o della discarica stessi, che deve essere compresa tra il dieci ed il venti per cento della tariffa”, perchè in tal modo introduce un tributo regionale non autorizzato dalla legge statale, necessaria in base agli artt. 117, comma 2, lett. s), e 119 Cost.  (1).   (1) La Sezione dubita anzitutto della conformità della norma denunciata all’art. 119 comma 2 seconda parte della Costituzione, per cui le Regioni “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. La norma stessa infatti, ad avviso della Sezione, istituisce un tributo regionale in modo non conforme ai “principi di coordinamento della finanza pubblica” nell’interpretazione che la Corte costituzione ha dato di questa formula con la sentenza 26 gennaio 2004, n. 37, ovvero in sintesi istituisce un tributo regionale senza che la legge dello Stato lo abbia consentito. In primo luogo, la Sezione ritiene che il benefit ambientale abbia la natura di tributo sulla base dei criteri fissati da codesta Corte per definirlo, in particolare nelle sentenze 280/2011 e 58/2015 sopra citate, nonché più in generale, nelle sentenze 8 maggio 2009, n. 141 e 11 febbraio 2005, n. 73 che si citano per tutte. Ritiene quindi che si tratti di una prestazione: a) doverosa, perché non dipendente da un qualche rapporto sinallagmatico fra le parti; b) collegata alla spesa pubblica in relazione ad un presupposto economicamente rilevante. Sotto il primo profilo, si osserva che il benefit in questione è dovuto esclusivamente in base alla legge regionale e non trova la sua fonte in un rapporto sinallagmatico tra parti, derivante da un contratto, da una convenzione o da atti negoziali simili, in modo del tutto analogo a quanto prevedeva la norma dichiarata incostituzionale dalla sentenza 280/2011. Sotto il secondo profilo, il contributo è certamente collegato alla spesa pubblica: sebbene la norma nulla dica al riguardo, è evidente che il Comune che lo incassa deve destinarlo al finanziamento delle attività di propria competenza, alle quali appunto corrisponde la spesa pubblica. Si tratta poi di un contributo collegato alla spesa pubblica in ragione di un presupposto economicamente rilevante, ovvero la capacità economica del gestore dell’impianto, come si ricava ad interpretazione della norma che lo prevede, nei termini che seguono. Il soggetto passivo del benefit, in primo luogo, è il gestore dell’impianto, che incassa la tariffa e deve riversare la percentuale corrispondente al benefit. Si potrebbe ritenere il contrario obiettando che secondo la norma il benefit è dovuto “dagli eventuali comuni utenti”, e quindi, sembrerebbe, non dal gestore, ma l’obiezione non è fondata. Il fatto che il benefit in questione sia una percentuale della tariffa significa che è commisurato ad essa chiunque sia il soggetto che la tariffa corrisponde, e che il gestore lo deve riversare per ogni somma che a titolo di tariffa egli incassi, sia o no corrisposta da un Comune. Questo Giudice dubita poi anche della conformità della norma denunciata all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., in quanto interviene in una materia, la “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali” la cui disciplina è riservata alla legge dello Stato. Anche ritenendo che essa le spettasse in via generale, la Regione non potrebbe esercitare in materia la propria potestà istitutiva di tributi propri. Infatti, in casi come il presente, in cui interferiscono competenze ed interessi di tipo diverso, si applica il principio di prevalenza, ovvero prevale l’esigenza di garantire l’azione unitaria dello Stato che assicuri livelli adeguati e non riducibili di tutela, in questo caso di tutela ambientale, su tutto il territorio nazionale, In particolare, si garantisce che il bene giuridico «ambiente» sia protetto dai possibili effetti distorsivi derivanti da incentivi o disincentivi imposti in modo differenziato in ciascuna Regione, tenuto conto che ognuno di essi influisce sulle decisioni di investimento delle imprese del settore dei rifiuti, scelte che si ripercuotono sugli equilibri ambientali. La norma denunciata contrasta quindi per la materia sulla quale incide con la riserva di potestà legislativa statale in materia, anche se, si noti, il benefit che essa prevede non andasse qualificato come tributo, ma semplicemente come corrispettivo aggiuntivo, che si paga nel Lazio e non altrove.
Rifiuti
Sanità pubblica – Regione Lombardia - Riordino offerta e presa in carico di pazienti cronici o fragili – Legittimità.              E’ legittima la delibera della Regione Lombardia che disciplina il riordino della rete di offerta e modalità di presa in carico di pazienti cronici e/o fragili in attuazione dell'art. 9, l. reg. n. 33 del 2009, che ha modificato l’organizzazione dei servizi relativi al Piano nazionale della Cronicità, non avendo dequotato i medici di medicina generale a favore del gestore, e ciò in quanto la responsabilità della competenza clinica in relazione al paziente, e l’assistenza primaria, rimangono infatti in capo al medico di medicina generale, pur se nel contesto di un modulo organizzativo che, per gli aspetti non medici, si avvale anche di altre figure; lo scopo del contestato modello è infatti quello di garantire l’obiettivo della prevenzione e della continuità di cura del paziente cronico o fragile (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la figura del gestore si fonda evidentemente sulla necessità di un approccio multidisciplinare alla gestione dei pazienti fragili, nell’ottica di una maggiore integrazione dei servizi sanitari.  Ha aggiunto la Sezione che in Lombardia, nella complessa opera di riorganizzazione del sistema sociosanitario lombardo il ruolo dei medici di medicina generale rimane fondamentale. Essi, infatti, possono collocarsi nel percorso di presa in carico secondo differenti modalità: come gestori, organizzandosi con altri medici di medicina generale, in forme associative, quali cooperative e altre forme previste dalla normativa vigente; quali co-gestori e, in questo caso, redigono, insieme al Gestore, il Piano di assistenza individuale (PAI) e sottoscrivono il Patto di cura; infine, pur non partecipando al modello di presa in carico ma essendo, in ogni caso, destinatari del PAI dei pazienti assistiti, ai fini della necessaria condivisione informativa. Peraltro, per la parte non relativa alla cronicità, il medico di medicina generale continua a svolgere le funzioni previste dall'Accordo Collettivo Nazionale per la medicina di base. ​​​​​​​
Sanità pubblica
Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari - Whatsapp diffamatorio inviato ad un collega – Utilizzo da parte dell’Amministrazione – Legittimità.      È legittima la sanzione disciplinare irrogata ad un militare che ha avviato un whatsapp evocativo di una generale condizione di inaffidabilità del contesto di servizio cui l'interessato è stato destinato, ben potendo la comunicazione tra il ricorrente e la collega essere utilizzata dall’amministrazione al fine di fondare la contestazione disciplinare, essendo stata quest’ultima a renderla nota all’Amministrazione (1).  ​​​​​​​ (1) Ha ricordato il Tar che la Corte di Cassazione ha affrontato l’ipotesi della natura antigiuridica o meno, quale diffamazione, della condotta costituita dall’aver reso opinioni in una chat da parte di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro, al fine di valutare la sua rilevanza o meno quale giusta causa di licenziamento, che richiede l’antigiuridicità della condotta, nell’ambito di un rapporto di lavoro privato.  In primo luogo, l’orientamento prospettato dalla sentenza della Corte di Cassazione citata e posta a fondamento del ricorso appare invero minoritario nel panorama giurisprudenziale che si è occupato della possibile rilevanza della diffamazione, in quanto, come rilevato in senso critico da diversi autori in commento alla decisione, il reato di diffamazione (semplice) non presuppone affatto la divulgazione nell’ambiente sociale e, quindi, la pubblicità della comunicazione – requisito proprio della fattispecie aggravata – bensì la mera comunicazione che può essere privata e pure riservata.   Ed invero, rileva ancora la dottrina, l’orientamento citato, pur senza prendere posizione sul punto, si discosta dagli orientamenti della stessa Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che nelle varie pronunce concernenti licenziamenti irrogati per la trasmissione di missive o e-mail denigratorie non ha mai considerato la natura ‘‘riservata’’ della corrispondenza né l’assenza di volontà divulgativa, valutando invece la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal lavoratore e l’eventuale esercizio del diritto di critica (cfr. ex multis Cass., 20 settembre 2016, n. 18404; Cass., 9 febbraio 2017, n. 3484; Cass., 10 novembre 2017, n. 26682; proprio con riferimento all’applicativo whatsapp cfr. Cass., 6 settembre 2018, n. 21719).   Ancora, in senso critico, si è rilevato in dottrina che non sono pertinenti i principi di libertà e segretezza della corrispondenza, sanciti dall’art. 15 Cost., che sì ne precludono agli estranei la cognizione e la rivelazione come previsto dagli artt. 616 e 617 c.p., ma non sono invocabili laddove il datore di lavoro abbia conosciuto il contenuto della comunicazione non in violazione delle predette norme, bensì per la rivelazione che il partecipante alla comunicazione ne abbia fatto.   Invero, per i partecipanti alla conversazione, non vige alcun divieto di rivelazione né di divulgazione, ferma restando, naturalmente, la responsabilità per l’eventuale diffamazione insita nella divulgazione (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 26 settembre 2014, n. 40022), poiché, analogamente a quanto avviene per la normale corrispondenza, non può essere considerata contrastante con la normativa sui dati personali l´eventuale successiva presa di conoscenza della e-mail da parte di soggetti estranei al circuito di posta elettronica, quando il messaggio non sia stato indebitamente acquisito da questi ultimi, ma ad essi comunicato da parte di uno dei destinatari del messaggio stesso (cfr. Parere del Garante per la protezione dei dati personali, 12 luglio 1999).  Tale ultimo passaggio è pienamente aderente al caso che oggi occupa, in quanto risulta che sia stata la partecipante alla conversazione a renderne noto il contenuto all’amministrazione, sicché si appalesa anche di non primaria rilevanza la questione circa l’applicabilità o meno al caso di specie del dovere di comunicazione ai sensi dell'art. 748, comma 5 lettera b) del Testo Unico delle disposizioni regolamentari d.P.R. n. 90/2010, relativo alle “Comunicazione dei militari”.  Peraltro, deve aggiungersi che, anche alla luce di quanto chiarito, una volta che l’amministrazione ha conosciuto il contenuto della conversazione, che è stato reso pubblico dall’altro interlocutore, non poteva non tenerne conto ai fini della valutazione, che le è propria, in merito alla rilevanza disciplinare delle affermazioni rese dal ricorrente. 
Militari, forze armate e di polizia
Processo amministrativo – Domanda di fissazione di udienza – Motivi aggiunti impropri – Esclusione.  Processo amministrativo – Perenzione – Termine – Interruzione.         L’istanza di fissazione dell’udienza estende i suoi “effetti propulsivi” ai motivi aggiunti impropri proposti, nel senso cioè che, proposti motivi aggiunti impropri, il ricorrente, anche per ragioni di economia processuale legate al carattere unico e unitario del processo, non è tenuto a presentare istanze di fissazione separate e autonome per ciascuno dei motivi aggiunti predetti.              Per interrompere il maturare del termine di perenzione di un giudizio non basta un qualsivoglia atto di impulso processuale – nemmeno se si tratti dei motivi aggiunti di ricorso – , essendo sempre indispensabile l’atto specifico a ciò deputato, che è l’istanza di fissazione dell’udienza;  come il deposito del solo ricorso, senza istanza di fissazione, non impedisce la perenzione, così non la impedisce il deposito dei motivi aggiunti, se l’istanza di fissazione (che è unitaria) è tardiva (1) ​​​​​​​(1) Cons. St., sez. III, 18 luglio 2013, n. 3911; id., sez. IV, 14 aprile 2020, n. 2411.
Processo amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Principio di invarianza della soglia di anomalia e delle medie delle procedure – Concorrente soggetto a riserva di verifica dei requisiti – Inapplicabilità.          Il principio d’invarianza della soglia di anomalia delle offerte e delle medie delle procedure, sancito dall’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 non trova applicazione con riferimento ad assetti non definitivi, soggetti a riserva di verifica dei requisiti da parte delle stazioni appaltanti (1). (1) Ha chiarito il Tar che il principio d’invarianza della soglia di anomalia delle offerte e delle medie delle procedure, sancito dall’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 (secondo cui ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte) è inteso a salvaguardare e rendere prioritario l’interesse delle amministrazioni alla continuità degli assetti giuridico/economici da esse stesse costituiti, quale espressione del principio di efficienza dell’azione pubblica, con l’escludere che mutamenti nella compagine concorrenziale delle procedure di appalto possano rimettere in discussione paradigmi definiti e consolidati dalla chiusura di alcuna delle fasi di gara, con riguardo alla determinazione della soglia di anomalia o al calcolo delle medie per i punteggi attribuiti alle offerte. Ma per le stesse logiche deve essere escluso che detto principio trovi applicazione con riferimento ad assetti non definitivi, soggetti a riserva di verifica dei requisiti da parte delle stazioni appaltanti. Come nelle fattispecie di aggiudicazione provvisoria, laddove la gara non è definitivamente conclusa e la definitiva aggiudicazione è subordinata all’accertamento dei requisiti dichiarati dalle imprese concorrenti sia per l’ammissione in gara che per le offerte. In queste circostanze non sono apprezzabili interessi delle stazioni appaltanti alla continuità delle scelte operate, le quali sono per volontà delle stesse amministrazioni soggette alla riserva delle verifiche. Consegue che sia la soglia di anomalia che le medie possono, e debbono, essere rimodulate all’esito degli accertamenti compiuti qualora conclusi dall’esclusione della compagine imprenditoriale aggiudicataria in via provvisoria, per accertata assenza di requisiti soggettivi o dell’offerta.
Contratti della Pubblica amministrazione
Aeroporti – Gestione aeroporto - Contratto di programma - Clausola di rinuncia ad agire in giudizio – Illegittimità.  ​​​​​​​          Nel caso delle gestioni aeroportuali il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi è irrinunciabile, con la conseguenza che la clausola di rinuncia, inserita nello schema-tipo di contratto di programma, eccede i limiti fisiologici entro i quali la rinuncia può dirsi legittima (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la clausola di rinuncia alle azioni è stata esaminata dalla giurisprudenza amministrativa, di recente, soprattutto nella materia sanitaria, riguardo ai rapporti tra le strutture private convenzionate o accreditate e gli enti del servizio sanitario nazionale. In questo ambito, come ricordato dalle parti nei rispettivi scritti difensivi, la giurisprudenza ne ha ammesso la legittimità a condizione che la clausola fosse delimitata per quanto attiene all’ambito soggettivo e circoscritta, quanto all’ambito oggettivo, alle materie oggetto dell’accordo e alle controversie in essere alla data della sottoscrizione, assumendo, in tal caso, la suddetta clausola, una portata transattiva (Tar Marche 16 novembre 2019, n. 702). Sempre in ambito sanitario questo Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. III, sentenza 3 ottobre 2019, n. 6662; id. 11 gennaio 2018, n. 137) ha ammesso la clausola di rinuncia al contenzioso, anche con riferimento al contenzioso futuro, ma l’ha giustificata nel quadro dei piani di rientro dal dissesto economico-finanziario dei sistemi sanitari regionali a tal fine appositamente commissariati. In tale speciale contesto, che non è assimilabile a quello del rapporto con i concessionari della gestione aeroportuale qui in trattazione, è stata giudicata legittima una clausola del seguente tenore: “«Con la sottoscrizione del presente accordo/contratto la struttura accetta espressamente, completamente e incondizionatamente il contenuto e gli effetti dei provvedimenti di determinazione delle tariffe, di determinazione dei tetti di spesa e ogni altro atto agli stessi collegato o presupposto, in quanto atti che determinano il contenuto del contratto. In considerazione dell’accettazione dei suddetti provvedimenti (ossia i provvedimenti di determinazione dei tetti di spesa, delle tariffe, di ogni altro atto agli stessi collegato o presupposto) con la sottoscrizione del presente accordo/contratto la struttura privata rinuncia alle azioni/impugnazioni già intraprese avverso i suddetti provvedimenti ovvero ai contenziosi instaurabili contro i provvedimenti già adottati, conosciuti o conoscibili»”.  La sentenza della sez. III n. 137 del 2018 del Consiglio di Stato ha in particolare ricordato, sempre con riferimento al servizio sanitario nazionale e ai piani di rientro, che “questa Sezione ha già riconosciuto anche la piena legittimità della c.d. clausola di salvaguardia (ovvero: accettazione incondizionata, da parte degli operatori privati, dei tetti di spesa e rinuncia a eventuali impugnazioni dei relativi provvedimenti di determinazione) presente in numerosi schemi-tipo di contratto ex art. 8 quinquies, predisposti da diverse Regioni soggette a Piano di rientro, e riprodotta anche all’art. 9 del contratto sottoscritto da Omissis: la ragione addotta dalla sentenza 1 febbraio 2017 n. 430 è che gli operatori privati - in quanto impegnati, insieme alle strutture pubbliche, a garantire l'essenziale interesse pubblico alla corretta ed appropriata fornitura del primario servizio della salute - non possono considerarsi estranei ai vincoli oggettivi e agli stati di necessità conseguenti al Piano di rientro, al cui rispetto la Regione è obbligata. Con la conseguenza «che i vincoli finanziari imposti dal piano di rientro non sono assolutamente negoziabili, cosicché la sottoscrizione della clausola di salvaguardia equivale ad un impegno della parte privata contraente al rispetto ed accettazione dei vincoli di spesa essenziali».  Si legge nel parere che la ora richiamata giurisprudenza non è suscettibile di estensione incondizionata in altri ambiti di materia, in assenza di analoghe condizioni e di consimili presupposti di necessità eccezionale di arresto di processi e dinamiche di indebitamento insostenibile a carico dell’erario (in quel caso a carico del fondo sanitario nazionale).   Nell’ambito dei piani di rientro dal disavanzo delle gestioni sanitarie regionali, introdotti sulla base di norme speciali e gestiti da un apposito commissario straordinario, la clausola di rinuncia alle liti può assumere un contenuto particolarmente ampio in considerazione della natura quasi fallimentare e concorsuale, in funzione di risoluzione dello stato di crisi delle aziende sanitarie, che caratterizza quelle speciali procedure.  Ma una simile condizione speciale, idonea a giustificare la particolare ampiezza delle clausole di rinuncia alle liti, non sembra che possa ravvisarsi nel caso delle gestioni aeroportuali (o, almeno, essa non emerge in alcun modo dagli atti del procedimento). In base agli atti disponibili e alla luce delle argomentazioni svolte negli scritti di parte, nessuna condizione di grave crisi economico-finanziaria, con ricadute dirette sui fondi pubblici, risulta invero sussistente nel campo, proprio della presente controversia, della gestione e delle concessioni aeroportuali e della gestione e sviluppo dei servizi aeroportuali assicurati agli utenti.  Ne consegue la riespansione, nella fattispecie, del principio generale della irrinunciabilità del diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, diversa essendo, in tutta evidenza, la normale facoltà di transigere le liti già insorte e proposte, come ammesso senz’altro già dal codice civile. 
Aeroporti
Militare, forze armate e di polizia – Trattamento economico – Indennità di trasferimento – Assegnazione, all'esito di concorso, ad una nuova sede di servizio – Non spetta.            L’indennità di trasferimento di cui all'art. 1, l. n. 86 del 2001 non spetta in caso di assegnazione alla nuova sede di servizio, all'esito di un concorso al quale il militare istante aveva partecipato con la quota riservata al personale già appartenente al Corpo  (1).    (1) Ha premesso il parere che l’orientamento delle Sezioni consultive ha presentato, negli ultimi anni, riguardo alla questione, due orientamenti non sempre convergenti.  Un primo orientamento, riguardante un caso di assegnazione dei Vice Sovrintendenti alle sedi di servizio, “ha affermato il carattere unitario della carriera del personale interessato, anche in presenza del conseguimento di un grado superiore per effetto di promozione, ancorché questo avvenga a seguito del superamento di apposito corso o di concorso appositamente riservato, a condizione che il posto in ruolo assegnato appartenga alla quota di riserva e sempre che sussista la condizione della continuità di prestazione di servizio, riconoscendo l'indennità di trasferimento prevista dall'art. 1 della L. 29.3.2001 n. 86 anche in favore del personale militare vincitore di concorso interno che, transitato nel nuovo ruolo, venga destinato ad una diversa sede di servizio . . . a nulla rilevando "a contrario" la circostanza che l'assegnazione alla sede di servizio di destinazione sia stata manifestata dall'interessato all'esito del corso (secondo l'ordine di graduatoria e nell'ambito delle disponibilità) e che la partecipazione al concorso avesse carattere volontario, realizzando l'assegnazione ad una sede di servizio diversa da quella nella quale il dipendente era impiegato nel ruolo originario di appartenenza il presupposto del "trasferimento d'ufficio" richiesto dall'art. 1, l. n. 86 del 2001” (sez. I, n. 1530 del 2019, che aderisce al parere della sez. II, n. 82 del 2013). Secondo questo primo orientamento “l'assegnazione dei dipendenti risultati vincitori del concorso interno di cui si è detto, al termine del previsto corso formativo biennale, ad una sede diversa da quella di originario servizio, è connotata dalla prevalenza dell'interesse pubblico su quello del dipendente, anche quando quest'ultimo l'abbia indicata come sede di preferenza o di gradimento — ma pur sempre nell'ambito delle sedi indicate dall'amministrazione, in conformità a quanto previsto dall'art. 4, comma 5, d.lgs. n. 155 del 2001 —, apparendo siffatta assegnazione finalizzata in via prioritaria alla soddisfazione dell'interesse della pubblica amministrazione alla provvista di funzionari del Corpo Forestale dello Stato dotati di specifiche professionalità”.   Di segno opposto è invece il secondo orientamento. In particolare, nel parere della sez. II, 20 febbraio 2017, n. 439, riguardante il caso di un appuntato scelto dei Carabinieri che aveva chiesto l’indennità di trasferimento a seguito del suo trasferimento a domanda, pur dandosi atto che la giurisprudenza amministrativa ha effettivamente affermato che non è sufficiente la mera presentazione di una domanda del pubblico dipendente affinché l'assegnazione ad una nuova sede di servizio possa essere sicuramente qualificata come trasferimento a domanda, dovendo indagarsi su quale interesse sia stato perseguito prioritariamente dall’Amministrazione (Cons. St., sez. IV, n. 4341 del 18 ottobre 2016), con la conseguenza che potrebbe essere qualificato come trasferimento d’ufficio (ai fini della corresponsione delle relative indennità) anche un trasferimento preceduto da una domanda di assegnazione alla nuova sede (o di gradimento per la stessa), ha però aggiunto e chiarito “che non può essere invocato il trasferimento d’ufficio ogni qual volta si ritiene venga in rilievo il soddisfacimento di esigenze dell’Amministrazione, tenuto conto che tali esigenze sono per loro natura sempre presenti anche in un trasferimento a domanda per un posto che la stessa Amministrazione ritiene debba essere coperto per il miglior soddisfacimento delle proprie funzioni (Cons. St., sez. IV, n. 9277 del 18 dicembre 2010)”, e che “Si è quindi affermato che, quando il trasferimento è disposto a seguito della presentazione di una domanda, in una procedura concorsuale, sui posti liberi individuati dall’Amministrazione di appartenenza, si deve escludere la configurabilità di un trasferimento d’ufficio, con il conseguente diritto a percepire le relative indennità (Cons. St., sez. IV n. 5201 del 23 ottobre 2008)”. Secondo questo secondo orientamento, dunque, “La domanda di trasferimento presentata dall’interessato, all’esito di una procedura aperta, non costituisce infatti, una mera dichiarazione di disponibilità al trasferimento ma esprime l’interesse del richiedente di lasciare la sede presso la quale presta servizio per ottenere il trasferimento nella sede diversa che si è resa disponibile”, sicché “Può quindi correttamente parlarsi, in tali casi, di un trasferimento a domanda, con le relative conseguenze in ordine al trattamento economico spettante agli interessati”. “Né ha alcun rilievo per qualificare diversamente il trasferimento – ha aggiunto la Sezione - la circostanza che, mediante l’attivazione della procedura di mobilità, alla quale può partecipare, presentando apposita domanda, in modo indifferenziato il personale che ha un interesse al trasferimento, anche l’Amministrazione persegue l’interesse pubblico di coprire il posto resosi vacante”. Il parere n. 439 del 2017 si è altresì premurato di confutare l’opposto orientamento “secondo il quale (in alcune situazioni di più difficile interpretazione) il discrimine tra il trasferimento d'ufficio e il trasferimento a domanda va rintracciato nel diverso rapporto che intercorre nelle due ipotesi tra l’interesse pubblico e l’interesse personale, nel senso che nel primo caso il trasferimento è reputato indispensabile per la migliore realizzazione dell'interesse pubblico (anche in presenza di una mera dichiarazione di disponibilità al trasferimento) mentre nel secondo caso è solo riconosciuto compatibile con le esigenze di servizio, tenuto conto che, ai fini della corretta qualificazione in concreto di un determinato movimento di un dipendente pubblico, come trasferimento d'ufficio ovvero a domanda, deve aversi comunque riguardo alle specifiche modalità con cui esso è avvenuto in quanto, come si è già detto, l'interesse pubblico (alla efficiente ed adeguata ripartizione e assegnazione del personale ai vari uffici e servizi) è comunque presente in entrambi i tipi di trasferimenti, quantunque, in quello a domanda, esso coincida con l'interesse privato del dipendente (Cons. St., sez. IV, 19 dicembre 2008, n. 6410)”, ipotesi, questa, nella quale la domanda non esclude la natura d’autorità del trasferimento, che si realizza in modo chiaro soprattutto nelle ipotesi di trasferimento per soppressione del posto di provenienza, come chiarito dalla giurisprudenza per il caso in cui il trasferimento “è determinato dalla scelta dell’Amministrazione di sopprimere l'articolazione presso la quale un militare presta servizio, la dislocazione del personale già dipendente dal comando soppresso risponde in via esclusiva o comunque del tutto prioritaria ai superiori interessi pubblici perseguiti dal Corpo mediante la adottata misura organizzativa, con la conseguenza che il connotato autoritativo del trasferimento non scolora per l'effetto della domanda (o dichiarazione di gradimento) presentata dal militare, in quanto questi risulta coinvolto in una procedura di mobilità non per scelta sua personale ma in esclusiva conseguenza delle opzioni organizzative valorizzate dall'Amministrazione (Cons. St., sez. IV n. 4341 del 18 ottobre 2016)”, principio confermato nella decisione dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 2016 secondo cui “Prima dell'entrata in vigore (il 1° gennaio 2013) dell'art. 1, comma 163, l. 24 dicembre 2012, n. 228 - che ha introdotto il comma 1-bis nell' art. 1, l. 29 marzo 2001, n. 86 - spetta al personale militare l'indennità di trasferimento prevista dal comma 1 del medesimo articolo, a seguito del mutamento della sede di servizio dovuto a soppressione (o diversa dislocazione) del reparto di appartenenza (o relative articolazioni), anche in presenza di clausole di gradimento (o istanze di scelta) della nuova sede, purché ricorrano gli ulteriori presupposti individuati dalla norma, ovvero una distanza fra la nuova e l'originaria sede di servizio superiore ai 10 chilometri e l'ubicazione in comuni differenti.”  Questo secondo orientamento – negativo del diritto all’indennità di trasferimento – è condiviso anche dalla sez. III, con la sentenza 3 agosto 2015, n. 3799, e dalla più recente giurisprudenza del giudice di appello (sez. II, 27 marzo 2020, n. 2151 e 23 maggio 2019, n. 3363) ed è stato ribadito dalla sez. II con il parere 15 giugno 2017, n. 1410.    Il parere in commento ha aderito al secondo orientamento.   La causa prossima, immediata e diretta, del trasferimento di sede, che è la sola che rileva per il diritto, è costituita nel caso dalla domanda volontaria del dipendente, senza la quale nessun trasferimento sarebbe avvenuto, mentre la procedura di avanzamento, indetta dall’Amministrazione, ha costituito nella vicenda in esame solo l’occasione o il mezzo attraverso il quale il trasferimento si è concretizzato, ma non ne costituisce certamente la causa efficiente.  Come chiarito nel parere n. 439 del 2017, la circostanza che il trasferimento soddisfi in qualche modo anche l’interesse dell’amministrazione non può incidere sulla natura del trasferimento stesso, posto che pressoché tutti i casi di trasferimento volontario a domanda devono comunque passare per il filtro della valutazione discrezionale dell’amministrazione circa la coerenza e la convenienza di tale movimento con il proprio assetto organizzativo e con la funzionalità del servizio.
Militari, forze armate e di polizia
Covid-19 – Accesso ai documenti - Accesso civico generalizzato - Verbali espressi dal comitato tecnico scientifico sull'emergenza epidemiologica da Covid-19 - Sentenza che ha riconosciuti il diritto di accesso – Va sospesa.            Deve essere sospesa monocraticamente la sentenza che ha accolto il ricorso proposto avverso il diniego di accesso civico generalizzato ad alcuni verbali espressi dal comitato tecnico scientifico sull'emergenza epidemiologica da Covid-19, per non pregiudicare definitivamente l'interesse dell'amministrazione contraria all'ostensione degli atti in attesa della decisione del collegio (che sarebbe inutile ad ostensione degli atti avvenuta), vista la materia "meritevole di approfondimento" giuridico (1).    (1) Ha chiarito il decreto che la normativa, e gli  - compresi quelli endoprocedimentali - adottati durante il periodo della emergenza Covid-19, sono caratterizzati da una  à e, auspicabilmente, unicità, nel panorama ordinamentale italiano, tanto da ritenersi impossibile – come  stessa appellante riconosce – applicarvi definizioni e regole specifiche caratterizzanti le categorie tradizionali quali “ amministrativi generali” ovvero “ordinanze contingibili e urgenti”, pur avendo,   categorie, gli uni e gli altri alcuni elementi ma  tutti e  organicamente rinvenibili nelle appunto citate categorie tradizionali;    Ha ancora chiarito il decreto che in mancanza della considerazione   verbali tra le categorie  cui  norma sull’accesso civico prevede   ostensione, essa  può essere affidata “alla facoltà della Amministrazione,  valutare l’ostensibilità, qualora ritenuto opportuno,   verbali al termine dello stato  emergenza”. Infatti tale riserva – specie se riferita alla stragrande maggioranza dei verbali riferita a periodi da tempo superati –  risolve in un discrezionale e unilaterale potere  esibire o meno   cui ostensibilità  legge  esclude espressamente dunque, secondo  regola generale, deve essere consentita.
Covid-19
Militari, forze armate e di polizia – Idoneità fisica – Accertamenti – Possibilità.  Militari, forze armate e di polizia – Transito nei ruoli civili – Limiti.      La verifica circa il perdurante possesso dei requisiti richiesti ex lege ai pubblici dipendenti e, in particolare, agli appartenenti alle Forze armate prescinde sia dal pregresso percorso di carriera del dipendente, sia da eventuali profili di colpa in capo a questo e costituisce, di contro, una generale facoltà dell’Amministrazione, quale precipitato tecnico-organizzativo del principio di buon andamento: l’Amministrazione, infatti, è tenuta, al fine di ben adempiere alle funzioni istituzionali, all’accertamento dell’attuale, piena ed effettiva idoneità del personale allo svolgimento dei delicati compiti di istituto, ogniqualvolta ve ne sia il caso  (1).     La facoltà di transito nei ruoli civili dell’appartenente alle Forze di Polizia dichiarato fisicamente non idoneo è esclusa nel caso di inidoneità in attitudine, e ciò sia per il chiaro ed inequivoco tenore letterale delle norme in materia, sia, in termini logico-sistematici, per l’oggettiva differenza che intercorre fra “una inidoneità dovuta a cause patologiche” ed una ascrivibile “alla mancanza di requisiti attitudinali" (2).   (1)  Cons. Stato, sez. III, 11 settembre 2014, n. 4651. Ha chiarito la Sezione che ad es., la mancata prestazione del servizio per un significativo periodo rende tutt’altro che irragionevole ed illogica la scelta dell’Amministrazione di provvedere all’effettuazione della citata verifica: la lontananza dall’impiego, a prescindere dalle ragioni che l’hanno determinata, se non è per ciò solo sintomatica di un’intervenuta inidoneità al relativo svolgimento, certo rende immune da censure la (motivata, come nella specie) decisione amministrativa di disporre un apposito accertamento in merito, proprio al fine di vagliare il concreto ed attuale profilo psico-fisico ed attitudinale del soggetto riammesso, dopo lungo tempo, in servizio (in termini ed ex multis, Cons. Stato, sez. IV, ord. 31 gennaio 2020, n. 396; id., sez. III, 20 febbraio 2013, n. 1051; id. 19 aprile 2012, n. 2306; id., sez. VI, 30 luglio 2009, n. 4794). Ha ancora ricordato la Sezione che il giudizio de quo è espressione di un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’Amministrazione sostanzialmente irripetibile, in quanto legato allo specifico contesto spazio-temporale in cui si svolge, e, comunque, sindacabile dal Giudice amministrativo nei soli limiti della coerenza motivazionale, della logicità argomentativa, della attinenza ai fatti (ex multis, Cons. Stato, sez. III, 20 agosto 2018, n. 4982; id., sez. IV, 17 settembre 2007, n. 4849), del cui superamento non vi sono concreti e manifesti indizi. Ha aggiunto che l’attribuzione di siffatte valutazioni ad apposite strutture dell’Amministrazione dell’interno testimonia della volontà normativa di disporre di uno scrutinio attitudinale non per così dire “neutro” e generico, bensì “tarato” sulle specifiche esigenze e sensibilità dell’Amministrazione, che possono essere assicurate solo da un organo interno, inserito, con carattere di indipendenza tecnica, nella struttura organizzativa e partecipe della cultura istituzionale dell’Amministrazione stessa: le relative valutazioni, dunque, non possono essere censurate né con il ricorso a pareri di professionisti esterni, tanto più se di parte, né con valutazioni operate da organi di altre Istituzioni dello Stato.    2) Ha ricordato la Sezione che è escluso il transito nei ruoli civili di appartenenti alle Forze armate e di polizia giudicati inidonei in attitudine, e ciò sia per il chiaro ed inequivoco tenore letterale delle norme in materia, sia, in termini logico-sistematici, per l’oggettiva differenza che intercorre fra “una inidoneità dovuta a cause patologiche” ed una ascrivibile “alla mancanza di requisiti attitudinali”. Tale differenza, peraltro, ha condotto a ritenere manifestamente infondati i dubbi di incostituzionalità, “perché il giudizio di inidoneità attitudinale riguarda l’incapacità caratteriale ad assolvere i compiti di servizio, da parte del dipendente, ed è ben differente dai particolari e gravi motivi di salute che ne consentono, a determinate condizioni, il transito «ad equivalenti qualifiche di altri ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato»” (Cons. St., sez. III, 6 giugno 2016, n. 2401). Ha ricordato che ai sensi dell’art. 1, d.P.R. n. 339 del 1982, il transito nei ruoli civili (che non configura un diritto soggettivo del dipendente stesso, posto che la disposizione in commento usa l’espressione “può essere trasferito”, cui è sottesa un’implicita potestas valutandi in capo all’Amministrazione, ed aggiunge che il transito è subordinato alla compatibilità tra l’accertata infermità ed il nuovo impiego) è testualmente riservato al solo dipendente “giudicato assolutamente inidoneo per motivi di salute”: è noto che, allorché la legge abbia perimetrato con precisione l’ambito di applicazione di un istituto, l’interprete non possa estenderne la portata oltre i confini stabiliti in via normativa (cfr. il risalente brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit). I successivi artt. 2 e 3 fanno, poi, riferimento al concetto di “invalidità”, che richiama con tutta evidenza profili d’ordine fisico (o, al più, psico-fisico), ma certo non attitudinale: “invalido”, infatti, è concetto riferibile (e conseguente) al riscontro di una patologia che incide sulla capacità materiale di fare qualcosa, mentre l’attitudine attiene all’idoneità personale e soggettiva a svolgere bene, con profitto ed in sicurezza una certa attività o funzione, a prescindere dalla sussistenza di profili patologici. Infine, l’art. 4 dispone che l’accertamento delle “inidoneità” di cui ai precedenti articoli compete esclusivamente a commissioni mediche composte esclusivamente da personale sanitario, mentre, come noto, l’inidoneità attitudinale è accertata da commissioni nominate ad hoc dal Capo della Polizia e composte da personale con specializzazione psicologica. Più in generale, la Sezione ha osservato, in una prospettiva ermeneutica sistematica e teleologicamente orientata, che la facoltà di transito, quale eccezione al principio costituzionale di accesso ai pubblici impieghi mediante concorso, risponde all’esigenza di garantire al dipendente della Polizia di Stato una prospettica stabilità di impiego allorché, per motivi di salute, non sia più in grado di svolgere materialmente le mansioni istituzionali per le quali è stato, a suo tempo, assunto. Tale esigenza di garanzia, invero, non ricorre nei casi in cui il dipendente non abbia più, in radice, i requisiti attitudinali per essere tale. Altrimenti detto, l’istituto in commento non considera l’agente di P.S. uti civis, ma, per così dire, uti miles, ed appresta una tutela nei casi in cui il miles, pur ancora attitudinalmente idoneo al servizio, non sia più fisicamente in grado di prestarlo. Viceversa, laddove il miles abbia perduto la stessa attitudine personologica e caratteriale per essere (e rimanere) tale, viene meno la ragione intrinseca di tutela sottesa alla previsione della facoltà di transito nei ruoli civili ed alla connessa deroga al principio concorsuale, stabilito dalla Costituzione per l’accesso ai pubblici impieghi. ​​​​​​​L’oggettiva differenza fra le due situazioni, dunque, conferma l’infondatezza nel merito della tesi svolta dall’odierno appellato e, specularmente, lumeggia la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della disciplina recata, sul punto, dal d.P.R. n. 339 del 1982: la scelta normativa in discorso rientra, infatti, nell’ambito della discrezionalità del legislatore e non viola il principio di uguaglianza, funditus non predicabile con riferimento a situazioni e condizioni oggettivamente difformi e distoniche.  ​​​​​​
Militari, forze armate e di polizia
Edilizia - Oneri di costruzione – Esenzione – Presupposto.        ​​​​​​​        Per essere legittimata all’esenzione dal contributo di costruzione l’opera deve contribuire con vincolo indissolubile all’erogazione diretta del servizio, non essendo sufficiente un rapporto strumentale tra le opere e il servizio, non idoneo a soddisfare direttamente interessi pubblici né essendo sufficiente che le opere rendano più agevole la fruizione del servizio (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che in definitiva, il discrimine è nella diretta contribuzione delle opere alla erogazione del servizio pubblico. La conseguenza è che non può assumere rilievo, ai fini dell’esenzione del pagamento, la possibilità che le opere in futuro, per effetto della concessione o di accordi convenzionali, possano divenire di proprietà pubblica. ​​​​​​​Ha aggiunto la Sezione che il fatto che l’immobile sia destinato a essere acquisito dalla concedente alla scadenza del rapporto concessorio, non è sufficiente a radicare quel nesso diretto con l’interesse pubblico che necessita ai sensi dell’art. 17, comma 3, lettera c), d.P.R. n. 380 del 2017 per legittimare l’esenzione dal pagamento, dovendo quindi ritenersi comunque l’opera strumentale a un interesse commerciale di rilevanza esclusivamente privatistica.
Edilizia
Processo amministrativo - Covid–19 – Udienza – Discussione da remoto – Opposizione – Presupposti - Ragioni serie, comprovate e oggettive – Necessità.       Deve essere respinta l’opposizione alla discussione da remoto della causa - presentata sul rilievo che “tutte le parti hanno avuto modo, in esito alla verificazione, di presentare memorie e dedurre quanto ritenuto opportuno sia sulle risultanze tecniche, che nel merito dei rispettivi motivi di appello” – dovendo la stessa rispondere a ragioni serie, comprovate e oggettive e non tendere ad una sostituzione della parte in un potere valutativo riservato al giudice (1).    (1) Ha chiarito il decreto che anche nel processo amministrativo “ai tempi della pandemia”, attraverso il collegamento da remoto, è garantita la facoltà di discussione orale “sintetica” prevista dall’art. 73, comma 2, c.p.a., quale esplicazione del diritto di difesa il cui an non può essere aprioristicamente negato, salvo ipotesi del tutto residuali, e salvo sempre il potere del giudice di regolarne il quomodo, quanto a oggetto e durata della discussione. Il processo amministrativo si fonda sui principi di sinteticità e leale collaborazione tra le parti e il giudice affinché si possa pervenire celermente alla decisione conclusiva del giudizio; - a maggior ragione nel processo amministrativo “ai tempi della pandemia” in cui la garanzia dei diritti della difesa e l’efficiente svolgimento delle udienze scontano difficoltà organizzative legate alla emergenza nazionale, è precipuo dovere di tutti i protagonisti del processo operare secondo canoni di solidarietà, sinteticità, astensione da tattiche difensive dilatorie, emulative, superflue, richieste processuali irrilevanti o palesemente infondate, fonte di aggravio ulteriore per il collegio e le controparti.  L’opposizione alla discussione pur prevista, in astratto, dall’art. 4, d.l. n. 28 del 2020 va delimitata, quanto al suo ambito, alla luce dei suddetti principi di sinteticità, solidarietà, lealtà processuale, e non costituisce pertanto né un diritto potestativo della parte, né una sorta di “parere” di una delle parti processuali in ordine all’esercizio del potere valutativo spettante esclusivamente al giudice in ordine all’an e al quomodo della discussione; deve invece rispondere a ragioni serie, comprovate e oggettive. Una opposizione alla discussione che non risponda a siffatte esigenze serie e comprovate, oltre ad andare incontro a sicuro rigetto, può essere valutata dal Collegio ai sensi e per gli effetti degli artt. 88 e 92 c.p.c..  Ha quindi concluso il decreto nel caso di specie l’opposizione non risponde a nessuna esigenza oggettiva e comprovata, mira a una sostituzione della parte in un potere valutativo riservato al giudice. 
Processo amministrativo
Accesso ai documenti – Farmaci - Accordi negoziali tra l’AIFA e Aziende farmaceutiche relativi ai medicinali di importazione parallela con classe di rimborsabilità “A” – Diniego – Per clausola di riservatezza inserita nell’accordo – Legittimità.   E’ legittimo il diniego di accesso, esercitato ai fini di difesa in giudizio, agli atti del procedimento che ha condotto alla stipula, tra l’AIFA e Aziende farmaceutiche, di accordi negoziali relativi ai medicinali di importazione parallela oggetto di determine AIFA, con le quali è stata attribuita la classe di rimborsabilità “A” a tali farmaci, opposto in virtù della clausola di riservatezza inserita negli stessi accordi (1).
Accesso ai documenti
Accesso ai documenti - Informativa antimafia - White list – Diniego di iscrizione – Verbali del Gruppo Interforze Antimafia - Oscuramento firme dei sottoscrittori – Legittimità.                    A fronte dell’istanza di accesso agli atti relativi al diniego di iscrizione nella c.d. White list e, in particolare, ai verbali del Gruppo Interforze Antimafia in forma integrale, comprendenti le sottoscrizioni dei suoi componenti, legittimamente l’amministrazione ostenta i verbali omissati delle sottoscrizioni dei suoi componenti prevalendo la tutela della sicurezza personale e la riservatezza (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che i verbali dei Gruppi Interforze non hanno diretta rilevanza esterna, trattandosi di un’attività di monitoraggio ad essi affidata, ex art. 5, d.m. 14 marzo 2003, interna all’Amministrazione e strumentale alla sua attività; pertanto, è da rigettare la richiesta dell’interessato di conoscere la versione integrale del verbale per verificarne la sua corretta formazione, non sussistendo alcun vizio del provvedimento finale sulla base di supposte irregolarità formali del verbale. La tutela del diritto di difesa può esplicarsi pienamente nei confronti del contenuto dell’atto e, per il suo riflesso sostanziale, del provvedimento finale che ne assume l’esito.  
Accesso ai documenti
Covid-19 – Umbria - Provincia di Perugia e Comuni della Provincia di Terni - Servizi educativi per la prima infanzia – Vanno sospesi.       Deve essere sospeso il decreto monocratico del Tar Umbria che aveva sospeso l'efficacia di una delibera della Regione Umbria con la quale sono stati fermati tutti i servizi educativi per la prima infanzia nella provincia di Perugia e nei comuni di quella di Terni dichiarati zona rossa per prevenire la diffusione dei contagi Covid; ne consegue il ripristino, fino al 21 febbraio 2021, della efficacia dell'ordinanza di chiusura temporanea anche degli istituti per l'infanzia e nidi, impugnata (1).  (1) Ha chiairito il decreto che è consentita l'adozione di misure regionali più restrittive di quelle statali (art. 1, comma 16, d.l. n. 33 del 2020) allorché ciò sia coerente con i dati scientifici raccolti nel monitoraggio quotidiano della situazione del contagio; la cabina di regia nazionale individuava già in data 3 febbraio 2021 l’esigenza di rafforzare le misure di restrizioni già adottate dalla Regione Umbria, e ciò con speciale riguardo alle aree provinciali e comunali maggiormente colpite; il successivo 5 febbraio 2021 la stessa cabina di regia, riscontrata la presenza sul territorio di varianti del virus (cosiddette varianti inglese e brasiliana) raccomandava ulteriori misure restrittive, estensibili anche alla scuola per l’infanzia e ai nidi, nella provincia di Perugia e nei comuni della provincia di Terni dove vi erano evidenze dell’agente patogeno “con mutazione”; il Dipartimento di prevenzione del Ministero della Salute ha evidenziato che la cd. “variante inglese” a causa della maggiore trasmissibilità deve imporre l’isolamento di focolai e che vi è stata evidenza di aumento di contagi della “variante inglese” tra bambini e adolescenti; - a seguito di tale indicazioni scientifiche, e della classificazione come “zona rossa rafforzata” del territorio perugino, appare coerente – con la assoluta necessaria precauzione rispetto al contagio e alla necessità di non interrompere il piano vaccinale - la misura di sospendere fino al 21 febbraio 2021 anche i servizi scolastici per l’infanzia. In particolare per questi ultimi, è noto, che i bambini presenti nei locali degli istituti, vista la giovane età, sono esentati dall’obbligo delle mascherine, ma non per questo essi appaiono - dalle sopracitate evidenze scientifiche sulle “varianti” del virus apparse in regione - immuni dal periodo di contagio, con connesso rischio di trasferimento in ambito familiare. ​​​​​​​
Covid-19
Pubblico impiego privatizzato - Stabilizzazioni – Personale già in servizio a tempo indeterminato presso altra Amministrazione – Esclusione.                 La partecipazione alla procedura di stabilizzazione non è consentita ai dipendenti già in servizio a tempo indeterminato presso altra pubblica amministrazione, in quanto una tale evenienza entra in contraddizione con la “ratio” della norma, alterandone il carattere speciale di reclutamento ristretto alla platea dei dipendenti in servizio “precari”, in quanto titolari di contratti a tempo determinato (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che sebbene la persistenza del rapporto “precario” all’atto della partecipazione alla procedura riservata non costituisca una condizione di ammissione alla selezione, tuttavia la legge è chiara nell’individuare la platea degli aspiranti alla stabilizzazione tra i soggetti “precari”, così intesi in quanto titolari, ad oggi o in passato, di soli rapporti non stabili.   La stabilizzazione non può essere intesa, viceversa, come una forma di riconoscimento degli anni di lavoro a tempo determinato già espletati e, dunque, come uno strumento di mera valorizzazione dell’esperienza acquisita quale titolo per l’inquadramento. Al contrario, essa si delinea come un meccanismo di passaggio da una condizione di lavoro temporaneo (pregressa o ancora in essere) ad una condizione di lavoro a tempo indeterminato, sicché, cessata la prima posizione (come nel caso di specie, in cui il lavoratore abbia conseguito un contratto a tempo indeterminato e abbia abbandonato il precedente contratto a tempo determinato), non vi è più margine per poter accedere alla procedura riservata.
Pubblico impiego privatizzato
Sanità pubblica - Strutture sanitarie private – Anticipazioni – Conguaglio finale – Possibilità.               In sede di remunerazione di prestazioni sanitarie erogate da strutture private, il  principio di buona fede, che deve improntare i rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadino,  impone di considerare che a fronte di somme ricevute a titolo di anticipazione, per una causale ben precisa, i percipienti sono perfettamente a conoscenza dell’esistenza del procedimento nel cui ambito tale erogazione era avvenuta, e che ha come inevitabile conseguenza normativa il successivo conguaglio finale, senza che il decorso del tempo possa legittimamente fondare la convinzione di una estinzione - per rinuncia - del procedimento medesimo (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che in diritto civile la nozione di affidamento – secondo autorevole dottrina – ha riguardo a “fenomeni distinti”, accomunati dalla necessità di risolvere il conflitto ingenerato dalla divergenza fra realtà e apparenza; essa, nell’età contemporanea, tende ad essere ricondotta al dovere di solidarietà cui devono essere improntate le relazioni intersoggettive. Si tratta di una regola che viene declinata anzitutto in materia di acquisti a non domino, non solo per via contrattuale; è tuttavia nella materia contrattuale che l’affidamento viene elevato dalle norme a criterio interpretativo della dichiarazione negoziale: e, dunque, del contenuto dell’obbligo. ​​​​​​​L’istituto, e le regole che ne discendono, hanno pertanto la funzione di adeguare, sul piano delle regole di validità, l’assetto d’interessi all’apparenza creata da fatti, comportamenti e dichiarazioni: in modo da conformare le vicende relative alla circolazione dei beni all’impronta solidaristica. ​​​​​​​Di qui la peculiarità della nozione in ambito di diritto civile, e la sua non automatica esportabilità nel settore del diritto amministrativo. ​​​​​​​In diritto amministrativo la nozione ha un fondamento analogo, ma un ambito più circoscritto. ​​​​​​​Il fondamento analogo è dato dal fatto che il destinatario del provvedimento favorevole ripone un affidamento sulla validità ed efficacia dello stesso (sempre che tale affidamento sia autorizzato dal regime del provvedimento): il problema della divergenza fra realtà ed apparenza si pone allorchè tale provvedimento, e i relativi effetti ampliativi, vengano rimossi (in autotutela, o a seguito di ricorso giurisdizionale). ​​​​​​​Con due importanti precisazioni: la prima è che il procedimento amministrativo non è un’attività relazionale a forma libera; la pretesa di ritenere non iure la condotta dell’amministrazione passa inevitabilmente per l’accertamento dell’illegittimità dei suoi atti. ​​​​​​​La seconda è che la valutazione dell’ordinamento sul grado di affidamento configurabile a seguito di un provvedimento favorevole è già contenuta nel regime di stabilità del provvedimento medesimo. ​​​​​​​Il concetto di buona fede e quello di affidamento hanno riguardo a due distinte nozioni: peraltro connesse, in quanto già in diritto civile è la buona fede che qualifica come incolpevole l’affidamento meritevole di tutela (la stessa teorica civilistica dell’affidamento esige infatti una diligenza nell’affidarsi all’altrui comportamento). ​​​​​​​Il beneficiario del provvedimento favorevole sa già che, a certe condizioni (anche temporali), lo stesso può essere rimosso: tanto che in materia di provvedimenti amministrativi la tutela dell’affidamento in ambito comunitario (veicolata attraverso l’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990 nel nostro ordinamento) è costruita sul piano degli effetti giuridici dell’autotutela: i margini della tutela dell’affidamento riposto sulla stabilità del provvedimento sono definiti dal legislatore, attraverso la disciplina dei limiti di natura temporale all’esercizio del potere di autotutela.
Sanità pubblica
Processo amministrativo - Giudicato - Interessi legali – Omessa indicazione nel dispositivo della sentenza di  condanna – Controversia di lavoro – Sono dovuti.         Anche se nel dispositivo della sentenza ottemperanda relativa ad una controversia di lavoro manchi una condanna espressa alla corresponsione degli interessilegali, gli stessi devono essere corrisposti, ai sensi dell’art. 429 c.p.c., trattandosi di “accessori che costituiscono elemento naturale del capitale” ;  ciò deve coordinarsi con il principio della non integrabilità del giudicato civile ottemperando dalgiudice amministrativo, con la conseguenza che andranno corrisposti solo gli interessi maturati successivamente al giudicato se il giudice civile abbia omesso la pronuncia sugli interessi anteriori ed il relativo capo di sentenza non sia stato impugnato (1).       (1) Ha chiarito la Sezione che in presenza di debiti di valuta - quali sono le obbligazioni pecuniarie fondate su un rapporto contrattuale, avendo ad oggetto quale prestazione principale il pagamento di una somma di denaro - la domanda di condanna al pagamento degli interessi si atteggia, di regola, quale domanda diversa da quella riferita al capitale, in quanto sorretta da una causa petendi (ritardo nella corresponsione di somme dovute) non coincidente con quella fondante la domanda principale (riferita al capitale) cui accede (Cass., sez. I, ord. 15 marzo 2019, n. 7500). Pertanto, qualora la parte abbia proposto in sede giurisdizionale due domande cumulate, connesse da un vincolo di accessorietà, tendenti ad ottenere - a fronte di una condotta inadempiente tenuta dalla controparte contrattuale - il pagamento sia del capitale, che degli interessi, ove il giudice adito statuisca esclusivamente sulla domanda principale, si realizza una fattispecie di omessa pronuncia sulla domanda accessoria (riferita alla debenza degli interessi). Per l’effetto, la domanda non esaminata, non può ritenersi accolta in sede giurisdizionale, non concorrendo, pertanto, a delineare l’ambito oggettivo del giudicato da eseguire. Con riferimento ai crediti fondati in un rapporto di lavoro, come valorizzato dall’appellante, vige un regime eccezionale, dettato dall’art. 429, comma 3, c.p.c. che, prescindendo dalla domanda di parte, impone al giudice di riconoscere d’ufficio gli accessori sulla somma liquidata, costituenti, dunque, una componente dell’importo complessivamente dovuto. Qualora, tuttavia, il giudice adito, disattendendo l’art. 429, comma 3, c.p.c., pur condannando la parte datoriale al pagamento di quanto richiesto dal ricorrente a titolo di capitale, ometta di pronunciare sulla debenza degli interessi, la relativa questione non può ritenersi compresa nella portata applicativa del giudicato. Per l’effetto, il riconoscimento degli interessi non compresi nell’oggetto della condanna giudiziale richiederebbe un’integrazione del giudicato, mediante la spendita di un potere avente natura cognitoria, precluso a questo Consiglio, chiamato, nella specie, ad assicurare l’ottemperanza di una sentenza del giudice civile, come tale riferita a rapporti sostanziali sottratti alla giurisdizione amministrativa. La giurisprudenza ordinaria, nel pronunciare sulla possibilità di riconoscere d’ufficio, in sede impugnatoria, gli interessi legali dovuti ex art. 429, comma 3, c.p.c., ove gli stessi non siano stati oggetto di condanna da parte del giudice a quo e il lavoratore non abbia proposto al riguardo specifico motivo di impugnazione, distingue a seconda che il lavoratore sia risultato soccombente o vittorioso nel precedente grado di giudizio in relazione alla domanda di condanna al pagamento del capitale. In particolare, qualora il lavoratore sia risultato soccombente, l’impugnazione diretta contro il solo capo di sentenza riferito al capitale, rimettendo in discussione, altresì, la debenza degli accessori, ove accolta, impone al giudice del dell’impugnazione di pronunciare, anche d’ufficio, pure sugli interessi dovuti. Qualora, invece, il lavoratore sia risultato vittorioso con riferimento alla domanda di condanna al pagamento del capitale e il giudice a quo abbia omesso di pronunciare sugli interessi -anche in tale caso a prescindere da una domanda di parte, risultando gli interessi una componente della somma all’uopo da liquidare, ai sensi dell’art. 429, comma 3, c.p.c. - si realizza una violazione del combinato disposto degli artt. 112 c.p.c. e 429, comma 3, c.p.c., che onera il lavoratore alla proposizione di specifico motivo di impugnazione, pena la formazione di un giudicato preclusivo alla futura richiesta degli interessi. Come precisato dalla Corte di cassazione, “[è ]pur vero che già la pronuncia di primo grado aveva omesso di applicare la rivalutazione monetaria ex art.429 c.p.c., u.c. senza che A.F. proponesse specifico motivo d'appello a riguardo. Ed è altresì vero che l'applicabilità d'ufficio della rivalutazione monetaria ex art.429 c.p.c., u.c. trova il proprio limite nell'acquiescenza e nella conseguente formazione del giudicato sulla questione non investita da apposito mezzo di gravame (cfr. Cass. n 17353/10; Cass. n. 7395/10; Cass. n. 16484/09; Cass. n. 15878/03; Cass. n.4943/95). Tuttavia, ciò presuppone pur sempre che si sia verificata ex art. 329 cpv. c.p.c. acquiescenza sul relativo capo autonomo della sentenza, mentre nel caso di specie la rivalutazione monetaria ha seguito la sorte del credito cui inerisce, vale a dire quella del credito per indennità varie, in prime cure fatto valere in via riconvenzionale dall'odierna ricorrente e poi coltivato con appello incidentale. In altre parole, avendo l'appello incidentale coinvolto la sorte capitale, la statuizione relativa agli accessori non poteva separatamente passare in cosa giudicata, non costituendo di per sè capo autonomo della sentenza suscettibile di formare giudicato parziale per intervenuta acquiescenza ex art. 329 cpv. c.p.c. Infatti, come tale deve intendersi soltanto quella statuizione idonea a conservare la propria efficacia precettiva anche ove vengano meno le altre (cfr., ex aliis, Cass. n. 10043/06; Cass. n. 20143/05; Cass.n. 14634/01; Cass. n. 6655/2000; Cass. n. 431/99; Cass. n. 3271/96; Cass. n. 12062/92; Cass. n. 2399/88), mentre è indubbio che la statuizione sugli accessori (interessi e rivalutazione monetaria) non può sopravvivere senza quella avente ad oggetto il credito principale. Diversamente opinando, si dovrebbe affermare che la riforma o la cassazione del capo di sentenza relativo alla sorta capitale non si estende, malgrado l'art.336 c.p.c., a quello concernente rivalutazione e interessi, che resterebbero dovuti pur non essendo più dovuta la sorte capitale, conclusione - questa all'evidenza inaccettabile. Pertanto, l'impugnazione sulla quantificazione del credito principale proposta da A.F. ha impedito il formarsi del giudicato sui relativi accessori. E, in assenza di giudicato, la Corte territoriale avrebbe dovuto applicare d'ufficio (anche) la rivalutazione ex art.429 c.p.c., u.c.. Nè, a ben vedere, osta a tale ricostruzione la giurisprudenza (espressa da Cass. n. 1028/80, Cass. n. 4868/85, Cass. n. 1925/94 e da altre successive conformi) secondo cui il creditore vittorioso in primo grado, ma soccombente riguardo alla rivalutazione monetaria, ha l'onere di appellare specificamente, in via principale o incidentale, tale capo sfavorevole, sia che il giudice di primo grado (da detta norma investito del dovere di rivalutare il credito anche d'ufficio) abbia pronunciato in senso negativo sulla rivalutazione sia che abbia omesso di pronunciare, non potendo il giudice del gravame attribuire all'appellato la rivalutazione ormai esclusa per effetto dell'intervenuto giudicato interno. Infatti, tale orientamento muove da un differente presupposto, ossia quello del giudicato interno formatosi sul capo relativo alla sorta capitale, non impugnato dal creditore (mentre nel caso odierno la sorte capitale era stata investita da gravame ad opera della stessa A.F.), sicchè la mancata applicazione della rivalutazione sul credito principale rende inapplicabile d'ufficio - vale a dire in assenza di apposita impugnazione l'accessorio costituito dalla rivalutazione medesima” (Cass., sez. lav., 29 settembre 2016, n. 19312). L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie evidenzia l’infondatezza dell’appello, nella parte in cui è diretto ad ottenere la condanna dell’Amministrazione al pagamento degli interessi maturati anteriormente alla pubblicazione della sentenza ottemperanza. Né a diversa conclusione potrebbe giungersi sulla base dell’indirizzo accolto dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1075 del 2010, tenuto conto che tale precedente è intervenuto con riferimento all’ottemperanza di un giudicato amministrativo (decisione del Consiglio di Stato n. 6229 del 2005), riferendosi, quindi, ad un giudizio in cui, stante il contenuto composito dell’ottemperanza (valorizzato da Cons. St., Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2), il giudice amministrativo, avendo giurisdizione altresì sul rapporto sostanziale, ha la possibilità di completare il giudicato ottemperando, mediante l’esercizio di un potere avente anche natura cognitoria. Nel caso sottoposto all’esame della Sezione, invece, il giudicato azionato dagli odierni appellanti è sceso su una sentenza del giudice ordinario, ragion per cui sarebbe preclusa a questo Consiglio la possibilità di integrare il giudicato civile, mediante l’esercizio di un potere cognitorio, riconoscendo una componente del credito (interessi) su cui il giudice del lavoro non ha pronunciato (Cass., sez. un., 14 dicembre 2016, n. 25625). Ne deriva che la domanda di ottemperanza non può essere accolta con riferimento agli interessi legali sugli arretrati indebitamente trattenuti dal Ministero, maturati a decorrere dall’esigibilità del credito per capitale, non liquidati dal giudice della cognizione con la sentenza ottemperanda.
Processo amministrativo
Edilizia – Barriere architettoniche – Opere volte alla loro eliminazione – Immobili di interesse storico e architettonico  - Diniego – Condizione.                 Ai sensi dell’art. 4, l. 9 gennaio 1989, n. 13, l’amministrazione può negare l’autorizzazione per realizzare opere edilizie volte all’abbattimento di barriere architettoniche in immobili di interesse storico e architettonico  nella sola ipotesi in cui le opere in questione arrechino grave e serio pregiudizio all’intero fabbricato (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che la speciale disciplina di favore contenuta nella l. 9 gennaio 1989, n. 13 si applica anche a beneficio di persone anziane le quali, pur non essendo portatrici di disabilità vere e proprie, soffrano comunque di disagi fisici e di difficoltà motorie (Cass. civ., sez. II, 28 marzo 2017, n. 7938). Tale legge infatti, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, esprime il principio secondo il quale i problemi delle persone affette da una qualche specie invalidità devono essere assunti dall’intera collettività, e in tal senso ha imposto in via generale che nella costruzione di edifici privati e nella ristrutturazione di quelli preesistenti, le barriere architettoniche siano eliminate indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte di persone disabili, trattandosi comunque di garantire diritti fondamentali (Corte cost. 10 maggio 1999, n. 167, e Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2012, n. 18334) e non già di accordare diritti personali ed intrasmissibili a titolo di concessione alla persona disabile in quanto tale (cfr. sul punto Cass. civ., sez. II, 26 febbraio 2016, n. 3858). In conseguenza di ciò, per le disposizioni contenute nella testé citata l. n. 13 del 1989 si impone “un’interpretazione estensiva, nel senso appena visto” (Cons. St., sez. VI, 18 ottobre 2017, n. 4824). Va rimarcato inoltre che, in particolare, secondo l’art. 4 della legge stessa, gli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche previsti dall’art. 2 della legge, ovvero quelli volti a migliorare le condizioni di vita delle persone svantaggiate nel senso descritto, si possono effettuare anche su beni sottoposti a vincolo come beni culturali, e la relativa autorizzazione, come previsto dal comma 4 di tale articolo, “può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, precisandosi quindi al comma 5 che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”. Si è in tal modo introdotto nell’ordinamento, in ordine ai peculiari valori presidiati dalla legge in esame (tra l’altro non soltanto inerenti all’art. 32 Cost., ma anche di rilievo internazionale, in quanto stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti per le persone con disabilità adottata dall’Assemblea Generale con risoluzione n. 61/106 del 13 dicembre 2006 e ratificata con l. 3 marzo 2009, n. 18) un onere di motivazione particolarmente intenso, e ciò in quanto l’interesse alla protezione della persona svantaggiata può soccombere di fronte alla tutela del patrimonio artistico, a sua volta promanante dall’art. 9 Cost., soltanto in casi eccezionali (Cons. St., sez. VI, 18 ottobre 2017, n. 4824;  id. 7 marzo 2016, n. 705; id. 28 dicembre 2015, n. 5845; id. 12 febbraio 2014, n. 682).
Edilizia
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Competenza organo liquidatore liquidazione di una somma, spettante a seguito della realizzazione di un’opera pubblica su fondo altrui - Epoca anteriore alla dichiarazione di dissesto dell’ente – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.             É rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se, ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004, anche un atto di liquidazione di una somma, spettante a seguito della realizzazione di un’opera pubblica su un fondo altrui, in un’epoca anteriore alla dichiarazione di dissesto dell’ente (recte, dopo il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, purché prima della chiusura della gestione straordinaria) rientri nella competenza dell’organo di liquidazione, perché direttamente correlata ad un illegittimo “atto o fatto di gestione” antecedente al dissesto (1).   (1) Ha ricordato che l’art. 252, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000 stabilisce che “l’organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente a fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”. L’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004 (convertito con l. n. 140 del 2004) prevede che “ai fini dell'applicazione degli articoli 252, comma 4, e 254, comma 3, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si intendono compresi nella fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11, del medesimo Testo Unico”. La materia del contendere ruota, dunque, intorno all’interpretazione da riconoscere all’espressione “atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”. La questione è stata rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato a fronte di un contrasto di giurisprudenza. Per un primo indirizzo (C.g.a. 31 luglio 2017, n. 367; Cons. Stato, sez. IV, ord. 22 luglio 2019, n. 5139) si deve tenere conto, in via prioritaria, del dato formale. Si è, in particolare, posto l’accento sul fatto che il provvedimento ex art. 42-bis non accerterebbe un debito preesistente, ma lo determinerebbe ex novo, quantificandone altresì l’ammontare. Altrimenti detto, il provvedimento de quo avrebbe un carattere non ricognitivo (di un debito preesistente), ma costitutivo (di una posta passiva prima inesistente). Tale esegesi, si è osservato, sarebbe del resto confermata da svariate considerazioni ancillari, in primis il fatto che il provvedimento in parola determina un effetto traslativo ex nunc e non ha una finalità di sanatoria del pregresso, disponendo invece pro futuro. Ad avviso di questo indirizzo, dunque, giacché l’emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante dopo la dichiarazione di dissesto (recte, dopo il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato) determinerebbe la costituzione ex novo di una posta passiva in capo al Comune, i relativi oneri non potrebbero che gravare sul bilancio ordinario dell’Ente. Un secondo indirizzo (Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 2018, n. 2141; C.g.a. 5 novembre 2018, n. 700) ha, invece, coltivato una prospettiva diversa, sia pure con riferimento a casi connotati, a differenza della presente controversia, dalla previa emanazione di pronunce giurisdizionali amministrative passate in giudicato (rispettivamente, di annullamento degli atti di procedura espropriativa ovvero di accertamento di un’occupazione sine titulo, in ambedue i casi con condanna alla restituzione del cespite, salva la facoltà di emanazione di provvedimento di acquisizione). Tale orientamento stima prevalenti, anche sulla scorta delle osservazioni svolte nella sentenza della Corte costituzionale n. 154 del 21 giugno 2013, considerazioni di carattere sostanziale, sistematico e teleologico. Dalle pronunce in commento si trae, infatti, la conclusione secondo cui le disposizioni richiamate sarebbero volte ad attrarre nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione non solo le poste passive pecuniarie già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto, ma anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se stricto jure sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta ed immediata di “atti e fatti di gestione” pregressi alla dichiarazione di dissesto, già dichiarati illegittimi (o, comunque, contrari a legge) in sede giurisdizionale. In base a questo secondo indirizzo, dunque, si deve attribuire importanza decisiva non al momento in cui si è strutturalmente realizzata la fattispecie costitutiva dell’obbligazione, bensì al nesso causale e funzionale che lega l’attuale obbligazione all’illegittimo “atto o fatto di gestione” pregresso. Sviluppando le argomentazioni svolte in nuce da questo indirizzo, pertanto, anche un’obbligazione civilisticamente sorta ex novo dopo la dichiarazione di dissesto (recte, dopo il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, purché prima della chiusura della gestione straordinaria) rientrerebbe nella competenza dell’organo di liquidazione, ove comunque direttamente correlata ad un illegittimo “atto o fatto di gestione” antecedente al dissesto, di cui, in un’ottica di analisi economica del diritto, rappresenti nient’altro che l’attuale riflesso pecuniario. Invero, l’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004 sottende, con ogni evidenza, la volontà del Legislatore di rendere quanto più possibile ampia la competenza dell’organo straordinario di liquidazione. La disposizione in parola stabilisce, infatti, che “si intendono ricompresi” nella competenza di tale organo “tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione” anteriori alla dichiarazione di dissesto. Orbene, è palese la rilevanza centrale attribuita al dato della “correlazione” fra il debito e l’atto od il fatto di gestione anteriore al dissesto. Al lume del significato generale e, comunque, non strettamente tecnico-giuridico dell’espressione “correlazione”, pare ragionevole ritenere che la disposizione abbia inteso concentrare in capo alla gestione straordinaria, senza alcuna eccezione, tutte le poste debitorie comunali comunque causalmente e funzionalmente rivenienti da scelte e condotte gestionali anteriori al dissesto, a prescindere dalla relativa qualificazione giuridica, dall’eventuale sopravvenienza al dissesto e dall’intervenuta emanazione, in proposito, di pronunce giurisdizionali. Si propugna, in sostanza, un’esegesi delle disposizioni in commento che attribuisca carattere integrale, generale ed omnicomprensivo alla competenza dell’organo straordinario, da intendersi riferita a tutti i riflessi debitori attuali (anche, dunque, sopravvenuti ex novo) di “atti e fatti di gestione” antecedenti al dissesto. Peraltro, si rileva, lo scopo della procedura di dissesto è proprio quello di riportare l’Ente locale in bonis, escludendo dal relativo bilancio tutte le poste debitorie comunque connesse alla condotta amministrativa pregressa: la procedura, infatti, tende a “sterilizzare” tutte le attuali conseguenze negative, in termini patrimoniali e finanziari, degli “atti e fatti di gestione” antecedenti al dissesto, consentendo in tal modo l’ordinata ripresa delle funzioni istituzionali dell’Ente. E’ poi noto, sotto altro aspetto, che l’ordinamento può ascrivere al medesimo fatto della vita distinte conseguenze giuridiche, a seconda dei fini perseguiti e del blocco normativo di riferimento (si pensi, a mero titolo di esempio, alla figura dell’organismo di diritto pubblico). Niente dunque osta, in termini generali, a che il provvedimento di acquisizione venga ritenuto: - con riguardo alle norme di relazione inerenti all’esercizio della potestà espropriativa, atto autonomo dalla pregressa occupazione, dotato di efficacia ex nunc; - con riguardo alla disciplina contabile dell’Ente comunale dissestato, provvedimento funzionalmente “correlato ad un atto o fatto di gestione” pregresso. L’opposta opzione esegetica che pone i costi del provvedimento di acquisizione sanante in capo alla gestione ordinaria del Comune ha un palese effetto disincentivante: i Comuni già interessati da una procedura di dissesto e, come tali, connotati da finanze tutt’altro che floride non avrebbero, infatti, alcun oggettivo interesse ad emanare un provvedimento che li ricondurrebbe di nuovo in condizioni di stress finanziario. Ciò è frontalmente contrario alla ratio legis sottesa all’introduzione, nel nostro ordinamento, dell’art. 42-bis, istituto che, tramontata definitivamente la figura dell’accessione invertita, concentra in sé le possibilità provvedimentali di riconduzione a legalità delle situazioni di occupazione illecita di fondi da parte di pubbliche Amministrazioni (cfr., in proposito, le recenti pronunce dell’Adunanza plenaria nn. 2, 3 e 4 del 20 gennaio 2020). Tale costitutiva finalità, intrinseca all’istituto in parola, sembra imporre, ad avviso della Sezione, un’interpretazione della connessa normativa di carattere per così dire “funzionalmente conforme”, ossia tale, quanto meno, da non rendere oggettivamente disincentivato il ricorso a tale istituto, unico strumento provvedimentale per ricondurre a legalità l’azione amministrativa.
Enti locali
Contributi e finanziamenti - Fondo di solidarietà - Cumulo con provvidenze erogate in favore delle vittime del dovere – Esclusione. Contributi e finanziamenti - Fondo di solidarietà – Disciplina transitoria – Termine ex art. 18, d.m. n. 162 del 2013 – Natura perentoria.             I benefici erogati a carico del Fondo di solidarietà civile di cui all’art. 2-bis, d.l. n. 187 del 2010 in favore delle vittime di reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero di manifestazioni di diversa natura, non possono essere cumulabili con le provvidenze erogate in favore delle vittime del dovere di cui all’art. 3, l. n. 466 del 1980, ivi comprese quelle previste dall’art. 82, l. n. 388 del 2000 (1).          Il termine stabilito dall’art. 18, d.m. n. 162 del 2013 – che disciplina il regime transitorio relativo alle situazioni riferibili a sentenze passate in giudicato nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della l. n. 217 del 2010, di conversione del d.l. n. 187 del 2010, e la data di entrata in vigore del d.m. n. 162 del 2013 - ha natura perentoria e, superato il predetto termine, si incorre nell’inammissibilità della domanda (2).   (1) L’art. 2-bis, d.l. n. 187 del 2010 ha istituito presso il Ministero dell’Interno il Fondo di solidarietà civile in favore delle vittime di reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero di manifestazioni di diversa natura; tale strumento ha la finalità di assicurare un sicuro ristoro in favore dei soggetti che non hanno ricevuto alcuna forma di risarcimento direttamente dal responsabile del fatto illecito. ​​​​​​​Ha ricordato la Sezione che in giurisprudenza è stata discussa l’operatività della compensatio lucri cum damno in presenza di un fatto illecito da cui sono scaturiti benefici cosiddetti collaterali, ossia benefici provenienti da assicurazione, previdenza sociale, ecc. ​​​​​​​In questo caso, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato e un soggetto diverso (a sua volta) obbligato, per legge o per contratto, a erogare al primo un beneficio collaterale. Si rende necessario stabilire se l’incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l’evento dannoso per effetto del beneficio collaterale, avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto a erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato, accumulandosi con il risarcimento del danno, o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell’ammontare del risarcimento. ​​​​​​​Secondo un primo orientamento, alle fattispecie rientranti in questa categoria non è applicabile la regola della compensazione tra indennizzo e risarcimento, ma piuttosto quella del cumulo. Si afferma che la diversità dei titoli delle obbligazioni e dei relativi rapporti giuridici sottostanti costituisce un’idonea causa giustificativa delle differenti attribuzioni patrimoniali e, conseguentemente, la condotta illecita rappresenta non la causa dell’indennità a vario titolo corrisposta, ma la mera occasione di essa. Sul piano funzionale non vi sono sovra-compensazioni economiche, proprio perché la diversità delle ragioni giustificative delle attribuzioni patrimoniali impedisce di assegnare valenza punitiva al risarcimento del danno (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 20548 del 2014; id. n. 4950 del 2010; Cons. Stato, Ad. Plen., n. 14 del 1985; id. n. 5 del 2009). ​​​​​​​Un secondo orientamento ritiene, invece, che anche in questi casi debba applicarsi la regola della compensatio. In particolare, sul piano strutturale, si afferma che la diversità dei titoli non giustifica l’esito cui perviene l’opposto indirizzo interpretativo, in quanto ciò che rileva è che la condotta (e non il titolo) sia unica e che essa costituisca la “causa” sia del risarcimento del danno sia dell’attribuzione di somme finalizzate a reintegrare il patrimonio leso. Sul piano funzionale, ammettendo il cumulo e non la compensatio, si assegna una funzione sovracompensativa al risarcimento del danno. ​​​​​​​Questi aspetti sarebbero resi ancora più complessi dal meccanismo della surrogazione prevista dall’art. 1916 c.c. e dalla legislazione speciale. Il danneggiante, infatti, potrebbe essere costretto a corrispondere la medesima somma, una prima volta, al danneggiato e, una seconda volta, al soggetto o ente che ha corrisposto l’indennità alla parte danneggiata, a seguito della successione dell’ente nel rapporto obbligatorio facente capo al danneggiato. ​​​​​​​Si verrebbe così ad attribuire – sul presupposto che i benefici collaterali corrisposti non abbiano valenza autonoma giustificativa delle relative attribuzioni patrimoniali – una funzione punitiva al risarcimento del danno in mancanza di una espressa previsione di legge che lo consenta. L’unica possibilità per evitare questo risultato sarebbe quello di ritenere che non operi la surrogazione. Ma tale esito sarebbe contraddittorio in presenza di norme imperative che la contemplano e che non potrebbero essere derogate con atto di autonomia delle parti (Cass. civ., sez. III, n. 6573 del 2013; id., sez. I, n. 9978 del 2016). ​​​​​​​La questione relativa all’applicazione del principio della compensazione in presenza di benefici collaterali è stata recentemente sottoposta all’attenzione tanto dell’Adunanza plenaria quanto delle Sezioni Unite. ​​​​​​​L’Adunanza Plenaria ha affermato: «la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario» (Cons. Stato, Ad. plen., n. 1 del 2018). ​​​​​​​Le Sezioni Unite (n. 12564 del 2018; n. 12565 del 2018; n. 12566 del 2018; n. 12567 del 2018), dal canto loro, investite in particolare di quattro problematiche, prendono come riferimento l’orientamento emerso in seno alla dottrina civilistica europea. Infatti, sia i Principles of European Tort Law, all’art. 10.103, che il Draft Common Frame of Reference, all’art. 6.103 del Libro VI, prevedono che, nel determinare l’ammontare dei danni, i vantaggi ottenuti dal danneggiato a causa dell’evento dannoso devono essere presi in considerazione, salvo che ciò non sia inconciliabile con lo scopo dei vantaggi. In sintesi, in entrambi i testi normativi, in ossequio al c.d. principio dell’indifferenza, emerge l’invito ad accertare il danno ed il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, in vista di una ragionevole ed equilibrata applicazione del meccanismo compensativo. ​​​​​​​Pur con le distinzioni delle singole questioni in concreto esaminate, quale principio di diritto, la Corte di Cassazione statuisce che, ai fini dell’individuazione del vantaggio computabile, occorre verificare che tale vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto lesivo dell’illecito; deve sussistere, cioè, un collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria. Ne consegue che l’attribuzione patrimoniale collaterale erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito in conseguenza del verificarsi dell’evento, soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito. ​​​​​​​A supporto di detta indagine rilevano, altresì, meccanismi di surrogazione o rivalsa esistenti nell’ordinamento, in quanto consentono di stabilire l’effettiva incidenza del risarcimento, nonché di evitare che l’autore dell’illecito possa in qualche modo alleggerire la propria posizione obbligatoria, mediante il riconoscimento del ‘diffalco’ della posta erogata al soggetto leso da parte di un terzo, estraneo al fatto. ​​​​​​​Dopo una lunga evoluzione della giurisprudenza, questi criteri siano ormai pacifici e che, ad oggi, affinché il vantaggio patrimoniale sia computabile all’atto della liquidazione del danno occorre accertare, caso per caso: a) il nesso di causalità tra il fatto illecito e il beneficio, in base al quale danno e vantaggio devono essere eziologicamente collegati all'illecito; b) che tale vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto lesivo dell’illecito, cioè che abbia funzione analoga a quella risarcitoria; c) la presenza di meccanismi di surrogazione o rivalsa esistenti nell’ordinamento. ​​​​​​​Ha aggiunto la Sezione che, coerentemente alla natura indennitaria delle predette elargizioni, la somma riconosciuta non necessariamente dovrà coprire l’intero danno patito dalla vittima. Sotto tale ultimo aspetto è sufficiente considerare che il regolamento – dopo aver introdotto la regola generale per cui “si provvede attraverso elargizioni ed interventi di solidarietà civile in misura dell'intero ammontare del danno subìto e riconosciuto in sede giudiziaria” (art. 8, comma 2, d.m. cit.) – stabilisce, per un verso, un tetto massimo dell’elargizione (pari a tre milioni di euro) e poi prevede la possibilità di ridurre la somma corrisposta qualora la capienza del fondo sia insufficiente (art. 8, comma 3, d.m. cit.). ​​​​​​​La possibilità, dunque, di discostarsi dall’entità del pregiudizio effettivamente patito è chiaro indice della natura indennitaria del beneficio di cui si discorre. ​​​​​​​Una volta riconosciuta la natura indennitaria della somma prevista dalla disciplina in esame, alla luce della ricostruzione prima operata, si comprende agevolmente che tale indennità non potrà essere cumulata col risarcimento dei danni corrisposto da chi ha commesso il fatto illecito. ​​​​​​​La conclusione ora raggiunta è, in primo luogo, coerente con l’evoluzione della giurisprudenza civile che, come prima riferito, ha escluso il cumulo tra indennizzo e risarcimento. ​​​​​​​In secondo luogo, anche sulla scia interpretativa delle sentenze da ultimo richiamate, l’esclusione del cumulo si ricava agevolmente dall’art. 16 d.m. cit., ove è prevista la surrogazione del fondo (“Il Fondo è surrogato, quanto alle somme corrisposte agli aventi titolo, nei diritti della parte civile o dell'attore verso il soggetto condannato al risarcimento del danno, anche attraverso la gestione del Fondo, ai sensi dell'articolo 9, comma 2”). Poiché la legge (art. 2 bis, comma 5, d.l. n- 187 del 2010) e il regolamento (art. 16, d.m.  n. 162 del 2013) hanno previsto la possibilità per il Fondo che ha corrisposto l’indennizzo di surrogarsi nella posizione della vittima dell’illecito verso il condannato al risarcimento del danno, emerge con chiarezza che non è possibile il cumulo tra risarcimento e indennizzo. Ed invero, ragionando diversamente, potrebbe accadere che la vittima ottenga sia il risarcimento dall’autore dell’illecito sia l’indennizzo dal Fondo e che il Fondo poi agisca nei confronti dell’autore dell’illecito in surrogazione. Si creerebbero così ben due inconvenienti: 1) in violazione del principio dell’indifferenza la vittima si arricchirebbe perché otterrebbe una somma maggiore rispetto al danno patito; 2) l’autore del reato, per contro, sarebbe costretto a pagare due volte, una prima volta alla vittima dell’illecito e una seconda volta al Fondo. Risulta dunque perfettamente coerente col sistema quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, d.m. cit. ove si esclude la cumulabilità tra risarcimento e indennizzo.   (2) Il termine stabilito all’art. 18, d.m. n. 162 del 2013 ha natura perentoria. A tale conclusione si arriva per una serie di ragioni. ​​​​​​​In primo luogo, diversamente ragionando, vi sarebbe una vistosa incoerenza del sistema che, a regime, prevede un termine perentorio mentre contempla un termine di tipo ordinatorio per le fattispecie più antiche, disciplinate, come testimoniato dalla rubrica dell’art. 18, in via transitoria. Detto in altro modo, sarebbe ben strana una disciplina che stabilisca pacificamente un termine di decadenza di tre mesi all’art. 10 e contemporaneamente lasci all’ordinario termine di prescrizione decennale l’istanza proposta con riferimento a fattispecie rientranti nella disciplina transitoria e, come tali, certamente più antiche. ​​​​​​​In secondo luogo, la differente utilizzazione del verbo essere o potere non può considerarsi decisiva, atteso il fatto che sovente il legislatore utilizza il verbo potere per esprimere una facoltà di libera scelta lasciata all’interessato, senza che però da questo ne scaturisca l’inesistenza di un termine entro il quale compiere quella attività. In altri termini, il soggetto è libero di compiere o meno quell’atto – nel caso oggetto di studio se presentare o meno l’istanza, se chiedere altri benefici o se insistere per il risarcimento del danno – ma ciò non significa che può decidere di presentarla quando meglio crede. ​​​​​​​In terzo luogo, va ricordato che per comprendere se un termine ha natura perentoria o ordinatoria è necessario fare riferimento agli scopi perseguiti dalla legge (“per attribuire il carattere perentorio ad un termine fissato dal legislatore, non è necessario rinvenire un'esplicita previsione al riguardo, potendosi attribuire tale carattere anche in considerazione degli scopi perseguiti dalla legge”, Cons. Stato, sez. VI, n. 1139 del 1999) nonché alla connessione della perentorietà a “concrete ragioni di carattere organizzativo della P.A.”. ​​​​​​​È necessario tener conto dunque che, nel quesito in esame, si discute di una norma di diritto transitorio, la cui finalità è quella di garantire la certezza delle posizioni giuridiche sorte nel periodo compreso tra l’entrata in vigore della l. n. 217 del 2010 e la data di entrata in vigore del d.m. n. 162 del 2013. Tale certezza verrebbe meno laddove il termine di tre mesi fosse inteso come ordinatorio; proprio per questo motivo la norma sottende una decadenza nei casi di presentazione tardiva della domanda, con la conseguenza che il soggetto interessato non può più azionare il diritto riconosciuto dall’art. 18 cit.
Contributi e finanziamenti
Unione europea - Prestazione di servizi - Servizi di intermediazione online e motori di ricerca online - Obbligo di iscrizione al ROC - Autorità per le garanzie nelle comunicazioni   Il T.a.r. Lazio solleva questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, in relazione ai seguenti quesiti: a) se il regolamento (UE) 2019/1150 osta ad una disposizione nazionale che, al fine di promuovere l'equità e la trasparenza in favore degli utenti commerciali di servizi di intermediazione online, anche mediante l'adozione di linee guida, la promozione di codici di condotta e la raccolta di informazioni pertinenti, impone ai fornitori di servizi di intermediazione on line e di motori di ricerca online l’iscrizione in un registro, comportante la trasmissione di rilevanti informazioni sulla propria organizzazione e il pagamento di un contributo economico, oltre alla sottoposizione a sanzioni in caso di suo inadempimento; b) se la direttiva (UE) 2015/1535 impone agli Stati membri di comunicare alla Commissione i provvedimenti con cui viene previsto a carico dei fornitori di servizi di intermediazione on line e di motori di ricerca on line l’obbligo di iscrizione in un registro, comportante la trasmissione di rilevanti informazioni sulla propria organizzazione e il pagamento di un contributo economico, oltre alla sottoposizione a sanzioni in caso di suo inadempimento; in caso positivo, se la direttiva consenta ad un privato di opporsi all’applicazione nei suoi confronti delle misure non notificate alla Commissione; c) se l’art. 3 della direttiva 2000/31/CE osta all’adozione da parte di autorità nazionali di disposizioni che, al fine di promuovere l'equità e la trasparenza in favore degli utenti commerciali di servizi di intermediazione on line, anche mediante l'adozione di linee guida, la promozione di codici di condotta e la raccolta di informazioni pertinenti, prevedono per gli operatori, stabiliti in altro paese europeo, oneri aggiuntivi di tipo amministrativi e pecuniario, quale l’iscrizione in un registro, comportante la trasmissione di rilevanti informazioni sulla propria organizzazione e il pagamento di un contributo economico, oltre alla sottoposizione a sanzioni in caso di suo inadempimento; d) se il principio di libera prestazione di servizi di cui all'art. 56 T.F.U.E. e l’art. 16 della direttiva 2006/123/CE ostano all’adozione da parte di autorità nazionali di disposizioni che, al fine di promuovere l'equità e la trasparenza in favore degli utenti commerciali di servizi di intermediazione online, anche mediante l'adozione di linee guida, la promozione di codici di condotta e la raccolta di informazioni pertinenti, prevedono per gli operatori, stabiliti in altro paese europeo, oneri aggiuntivi di tipo amministrativi e pecuniario, quale l’iscrizione in un registro, comportante la trasmissione di rilevanti informazioni sulla propria organizzazione e il pagamento di un contributo economico, oltre alla sottoposizione a sanzioni in caso di suo inadempimento; e) se l’art. 3, par. 4, lett. b), direttiva 2000/31/CE, impone agli Stati membri di comunicare alla Commissione i provvedimenti con cui viene previsto a carico dei fornitori di servizi di intermediazione online e di motori di ricerca online l’obbligo di iscrizione in un registro, comportante la trasmissione di rilevanti informazioni sulla propria organizzazione e il pagamento di un contributo economico, oltre alla sottoposizione a sanzioni in caso di suo inadempimento; in caso positivo, se la direttiva consenta ad un privato di opporsi all’applicazione nei suoi confronti delle misure non notificate alla Commissione. (1) ​​​​​​​ (1) Il T.a.r. per il Lazio con ordinanze n. 12835, 12836, 12839, 12840, 12841 ha sollevato analoghe questioni pregiudiziali innanzi alla Corte di giustizia UE.
Unione Europea
Ambiente – Valutazione ambientale strategica – Autorità competente a livello locale - Individuazione. Ambiente -Valutazione ambientale strategica - Concetto di “opzione zero”.​​​​​​​   In caso di V.A.S. di rilievo locale, l’art. 7, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006 (Testo unico ambientale) ha fatto rinvio alle disposizioni di legge regionale o delle Province autonome, con l’unico limite, individuato dall’art.  3 quinquies del medesimo decreto) del divieto di introdurre un’arbitraria discriminazione e ingiustificati aggravi procedimentali (1).           La nozione di “opzione zero” assume un’accezione diversa in materia di V.I.A., con riferimento alla quale è espressamente declinata dal legislatore nazionale (art. 22, comma 3, lett. d), del d.lgs. n. 152/2006) e di V.A.S., per la quale il contenuto dell’Allegato I alla Direttiva 2001/42/CE, laddove prevede (lettera b) che tra le indicazioni a corredo figuri la «evoluzione probabile [del contesto ambientale] senza l’attuazione del piano o del programma», è stato testualmente riprodotto nell’allegato VI alla Parte II del T.u.a., concernente i contenuti del rapporto ambientale di cui all’art. 13 del decreto. Trattandosi di atti di pianificazione territoriale di fatto l’ “opzione zero” è esclusa dalla scelta della loro adozione. La Direttiva 2001/42/CE prevede infatti che, una volta individuati gli opportuni indicatori ambientali, debbano essere valutate e previste sia la situazione attuale (scenario di riferimento), sia la situazione ambientale derivante dall’applicazione del Piano in fase di predisposizione, sia le «ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma» (art. 5, comma 1) (2). (1) Ha premesso la Sezione che la valutazione ambientale (V.A.S.) che trova il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001, ha la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nel procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi astrattamente idonei ad impattare significativamente sullo stesso. Essa condivide con altri strumenti di valutazione, come la valutazione di impatto ambientale (VIA) su singoli progetti e quella di incidenza, riferita ai siti di Natura 2000, l’ispirazione al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo, in modo da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione teleologicamente orientato a ridette esigenze di tutela. L’intersecarsi della disciplina della V.A.S. con quella di attuazione delle scelte urbanistiche del territorio implica la valorizzazione del ruolo di ciascun Ente territoriale coinvolto nelle stesse. Il sistema della pianificazione territoriale urbanistica successivo alla riforma costituzionale del 2001, infatti, caratterizzato dalle leggi regionali c.d. di “seconda generazione” si presenta in maniera ben diversa da quello riveniente dalla legge urbanistica del 1942. Esso risponde, infatti, ad una visione meno “gerarchica” e più armonica, che vede nella leale collaborazione, oltre che nella sussidiarietà, i teorici principi ispiratori delle scelte. La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello regionale sia provinciale, si connota pertanto per una natura “mista” relativamente a contenuti - prescrittivi, di indirizzo e di direttiva- e ad efficacia, nonché per la flessibilità nei rapporti con gli strumenti sottordinati. Nel momento in cui fra un atto (quello provinciale) e l’altro (quello comunale) si sia inserita la disciplina della V.A.S., il Comune non può vedersi relegato ad un ruolo di supina e meccanicistica acquiescenza a scelte che non ne abbiano ipoteticamente tenuto conto, avendo al contrario la possibilità di interloquire “dal basso” per chiedere un adeguamento dello strumento sovraordinato anziché recepirlo in maniera acritica. Del resto, la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti alla Conferenza dei servizi quale luogo di sintesi delle varie istanze emerse consente comunque di “recuperare” le esigenze di omogeneità emerse anche in ambito urbanistico nel corso del procedimento di V.A.S.. La diversa finalità e, soprattutto, il diverso oggetto della V.I.A. ne hanno implicato la più intensa attività di novellazione, nella continua ricerca di un giusto punto di equilibrio tra adeguato livello di tutela ambientale e accelerazione delle procedure delle opere di rilevante interesse pubblico, da ultimo riferite a quelle previste nel Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) ovvero nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Il Legislatore ne ha dunque ricalibrato le fasi, ovvero compresso i tempi di perfezionamento (v. le modifiche apportate al d.lgs. n. 152 del 2006, già ampiamente novellato con d.lgs. n. 104 del 2017, di recepimento della Direttiva 2014/52/UE, dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella l. n. 120 del 2020, ispirate anche dall’esigenza di superare la procedura di infrazione n. 2019/2308, nonché, ancor più di recente, dal d.l. n. 77 del 2021, convertito dalla l. n. 108 del 2021). La stretta compenetrazione tra i richiamati istituti (VAS e VIA) imporrebbe anche di svilupparne una reale sinergia rafforzando qualitativamente, mediante obiettivi di sostenibilità sorretti da specifici target, la prima, così da accelerare la seconda con riferimento ad opere incardinate in piani e programmi già attentamente valutati nella loro portata generale. Quanto alla competenza in caso di V.A.S. di rilievo locale si è determinato lo sviluppo di un quadro ampio e articolato di legislazione regionale, primaria e secondaria, caratterizzato da una pluralità di approcci, soprattutto per quanto riguarda le modalità procedimentali, che è difficile ricondurre a sintesi. Le Regioni hanno per lo più delegato gli altri Enti territoriali, sicché accade sovente che l’Autorità proponente e l’Autorità competente si identifichino in articolazioni distinte della stessa Amministrazione. Quanto detto non è affatto in contrasto con la disciplina comunitaria, ai fini del rispetto della quale non rilevano i meccanismi concretamente escogitati dagli Stati membri, bensì unicamente “che essi siano idonei ad assicurare il risultato voluto di garantire l’integrazione delle considerazioni ambientali nella fase di elaborazione, predisposizione e adozione di un piano o programma destinato a incidere sul territorio; il che, a ben vedere, disvela l’inconsistenza delle questioni di legittimità costituzionale ovvero comunitaria sollevate dall’appellato, sia pure in via subordinata, avverso le evocate norme nazionali e regionali laddove interpretate nel senso qui proposto”. Sicché “alla stregua delle considerazioni che precedono, per nulla illegittima, e anzi quasi fisiologica, è l’evenienza che l’autorità competente alla V.A.S. sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa autorità procedente, per completezza espositiva può aggiungersi che, forse, sotto diverso profilo le determinazioni amministrative oggetto del presente contenzioso prestano il fianco a critiche di inconciliabilità con la normativa vigente di rango primario” (v. Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133). Le due autorità, infatti, seppur poste in rapporto dialettico in quanto chiamate a tutelare interessi diversi, operano “in collaborazione” tra di loro in vista del risultato finale della formazione di un piano o programma attento ai valori della sostenibilità e compatibilità ambientale Come evidenziato nel Rapporto del 2017 redatto dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sullo stato di attuazione dei procedimenti di VAS, le Regioni si sono per lo più orientate nel senso di delegare le funzioni di “Autorità competente” a province, città metropolitane e comuni, in quanto preposti alle scelte urbanistiche nell’ambito del proprio territorio di riferimento. Tale delega non può non risolversi, al pari del resto di quanto avviene con riferimento alla tutela del vincolo paesaggistico, ove egualmente demandata a tali Amministrazioni, nella concentrazione delle attività istruttorie e di quelle valutative nel medesimo contesto organizzativo, sicché l’unica cosa di cui le relative scelte devono farsi carico è di garantire una reale separazione e autonomia di giudizio tra le articolazioni interne indicate come competenti in concreto. Non a caso, nel medesimo Rapporto ministeriale si evidenzia anche come la frammentazione dei procedimenti conseguita a tali deleghe si sia risolta in un onere aggiuntivo per le Regioni, chiamate a monitorare i procedimenti attivati sul territorio, garantendo la necessaria unitarietà della governance. Dalle definizioni oggi contenute nell’art. 5, d.lgs. n. 152 del 2006 di “autorità competente” e “autorità procedente” risulta chiaro solo che entrambe sono “amministrazioni”, non che le stesse debbano essere diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in un diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente). Più in generale, il Collegio non condivide l’approccio ermeneutico di fondo della parte odierna appellante, che desume la necessaria “separatezza” tra le due autorità dalla implicita convinzione che la VAS costituisca una sorta di momento di controllo sull’attività di pianificazione svolta dall’autorità proponente, con il corollario dell’impossibilità di una identità o immedesimazione tra controllore e controllato, appunto. Siffatta ricostruzione, invero, è smentita dall’intero impianto normativo in subiecta materia, il quale invece evidenzia che le due autorità, seppur poste in rapporto dialettico in quanto chiamate a tutelare interessi diversi, operano “in collaborazione” tra di loro in vista del risultato finale della formazione di un piano o programma attento ai valori della sostenibilità e compatibilità ambientale: ciò si ricava, testualmente, dall’art. 11, d.lgs. n. 152 del 2006, che secondo l’opinione preferibile costruisce la V.A.S. non già come un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima. Ciò trova conferma anche nelle più recenti modifiche normative, peraltro in materia di V.I.A., che declinano l’esigenza di segnalare ogni situazione di conflitto, anche potenziale, alle competenti autorità (art. 50, comma 1, lett. c), punto 3, d.l. n. 76 del 2020, che ha modificato sul punto l’art. 7 bis, comma 6, d.lgs. n. 152 del 2006); ma senza incidere sulla previgente previsione inforza della quale l’autorità competente può coincidere con l’autorità proponente di un progetto, purché ne vengano separate in maniera appropriata, nell’ambito della singola organizzazione, le funzioni potenzialmente confliggenti. (2) Ha chiarito la Sezione che la Direttiva 2001/42/CE prevede che, una volta individuati gli opportuni indicatori ambientali, devono essere valutate e previste sia la situazione attuale (scenario di riferimento), sia la situazione ambientale derivante dall’applicazione del Piano in fase di predisposizione, sia le “ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma” (art. 5, comma 1). Il testo non dice cosa debba intendersi per “ragionevole alternativa” a un piano o a un programma. È evidente dunque che la prima considerazione necessaria per decidere in merito alle possibili alternative ragionevoli deve tenere conto degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma. Non essendo chiarito se si intendano piani o programmi alternativi, o alternative diverse all’interno di un piano o di un programma, è plausibile accedere ad entrambe le ipotesi ermeneutiche. Come chiarito anche dalla Direzione generale dell’Ambiente della Commissione europea in un documento esplicativo destinato “ad aiutare gli Stati membri, gli Stati candidati e i Paesi in via di adesione a capire pienamente gli obblighi contenuti nella direttiva e ad assisterli nel recepimento nel diritto nazionale e, altrettanto importante, a creare o a migliorare le procedure che daranno effetto agli obblighi giuridici”, con specifico riferimento ai piani per la destinazione dei suoli o di quelli per la pianificazione territoriale “le alternative ovvie sono usi diversi di aree designate ad attività o scopi specifici, nonché aree alternative per tali attività”. Sicché nel caso di specie l’appellante non può pretendere che l’alternativa al PGT si identifichi nella sua mancata adozione. 
Ambiente
Magistrati – Magistrati onorari – Porto d’armi senza licenza – Non spetta.            Ai giudici onorari non spetta il porto d’armi senza licenza (1).    (1) La preclusione a dare ai giudici ordinari il porto d’armi senza licenza è stata introdotta nella circolare del Ministero della giustizia che assume che l’art. 7, l. 21 febbraio 1990, n. 36 (Nuove norme sulla detenzione delle armi, delle munizioni, degli esplosivi e dei congegni assimilati), nella parte in cui consente il porto d’armi senza la licenza ai “magistrati dell’ordine giudiziario”, si riferisca ai soli magistrati ordinari e non anche ai magistrati onorari.  Ha affermato la Sezione che in seguito all’entrata in vigore del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, di riforma organica della magistratura onoraria, è indubbia l’appartenenza “meramente funzionale” dei soggetti della magistratura onoraria all’ordine giudiziario.  Aggiungasi che l’attribuzione della facoltà di porto d’armi, siccome riconosciuta anche ai magistrati collocati temporaneamente fuori del ruolo organico, è connessa allo status del magistrato professionale piuttosto che alle funzioni in concreto esercitate.  Entrambi gli assunti postulano che tra magistrati professionali e magistrati onorari vi sia differenza di status prima che di funzioni. Da tale presupposto consegue che le attribuzioni inerenti allo status del magistrato professionale non necessariamente si estendono ai magistrati onorari.   Il magistrato onorario esercita funzioni giurisdizionali non a titolo di professione, perché non viene reclutato con il concorso di accesso in magistratura. In un ordinamento il cui assetto della giurisdizione si incentra sulla figura del magistrato-funzionario (immanente a tutto il Titolo IV, La Magistratura, della Parte seconda della Costituzione), ha primario rilievo il principio dell’art. 106, primo comma, Cost., per il quale “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”: dal concorso soltanto consegue la costituzione pleno iure di un rapporto di servizio incondizionatamente utile per la provvista di ufficio nell’organizzazione della giurisdizione; e il concorso assicura in condizioni di par condicio il vaglio tecnico della professionalità: per queste ragioni la formula è più rigida di quella dell’art. 97, quarto comma, Cost. (“agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”).  Vero è che per l’art. 106, secondo comma, Cost., “la legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”. Ma si tratta (come anche nei casi dell’art. 102, secondo e terzo comma, Cost.) di deroga all’ipotesi del primo comma, il che marca la differenza essenziale tra le due categorie.  Tutto questo vale anche dopo la formazione del c.d. statuto unico del magistrato onorario, ai sensi del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116 (Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della l. 28 aprile 2016, n. 57). Il metodo di reclutamento “inderogabilmente temporaneo” e non esclusivo ivi configurato da quel Capo II (Del conferimento dell'incarico di magistrato onorario, del tirocinio e delle incompatibilità) e in particolare dall’art. 7 (Tirocinio e conferimento dell'incarico), per quanto presenti tratti selettivo-valutativi, non è infatti assimilabile al concorso in magistratura, oltre ad esserne patentemente distinto.  Ha ancora chiarito la Sezione che già in passato, stante l’assenza di un rapporto di un rapporto di lavoro, è stata esclusa l’applicabilità al magistrato onorario (come ad ogni altro funzionario onorario previsto dall’ordinamento) dello statuto del pubblico impiego con riguardo agli istituti della sospensione del rapporto di lavoro per infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, come pure di previdenza alla sua cessazione.  La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza della sez. II, 16 luglio 2020, nella causa C-658/18, ha ritenuto che questo non fosse compatibile con il diritto eurounitario: per il quale unica è la nozione di “lavoratore” quale che sia la modalità di costituzione del rapporto con l’amministrazione, senza distinzioni dovute al tempo determinato o indeterminato di svolgimento, e non è consentito un differente trattamento con altro pubblico dipendente a parità di funzioni, salvo differenziazioni derivanti da ragioni oggettive attinenti all’impiego che deve essere ricoperto; da qui il contrasto della normativa nazionale con il diritto euro – unitario nella parte in cui non prevedeva il diritto del giudice di pace a beneficiare di ferie annuali retribuite per trenta giorni come previsto, invece, per i magistrati ordinari. Siffatte disparità sono ora superate dagli artt. 24, 25 e 26, d.lgs. n. 116 del 2017, i quali, rispettivamente in materia di ferie, di gravidanza, malattia e infortunio, e di trattamento previdenziale, configurano analoghi istituti per i magistrati onorari, seppure con le dovute specificazioni.  In definitiva, a differenza del magistrato professionale, il magistrato onorario è tale solo in quanto e nei termini in cui viene chiamato a svolgere funzioni giurisdizionali: il che avviene comunque per una durata limitata e in maniera non esclusiva, ma compatibile con altre attività lavorative e professionali e per scelta volontaria di partecipare all’amministrazione della giustizia gratis rei pubblicae servire; caratteristiche che ne qualificano in maniera distinta lo status rispetto a quella del magistrato professionale.  Posta una tale differenza essenziale di condizione giuridica, sono del tutto coerenti trattamenti, giuridici ed economici, differenziati (cfr. Corte cost. 8 novembre 2000, n. 479: “…la posizione dei magistrati che svolgono professionalmente e in via esclusiva funzioni giurisdizionali e quella dei magistrati onorari non sono fra loro raffrontabili ai fini della valutazione della lesione del principio di eguaglianza, in quanto per i secondi il compenso è previsto per un'attività che essi (come riconosce lo stesso tribunale rimettente) non esercitano professionalmente ma, di regola, in aggiunta ad altre attività, per cui non deve agli stessi essere riconosciuto il medesimo trattamento economico, sia pure per la sola indennità giudiziaria, di cui beneficiano i primi; che ugualmente nessun raffronto, ai fini del prospettato giudizio di eguaglianza, può essere fatto tra le posizioni delle varie categorie di magistrati onorari che svolgono a diverso titolo e in diversi uffici funzioni giurisdizionali, trattandosi di una pluralità di situazioni, differenti tra loro, per le quali il legislatore nella sua discrezionalità ben può stabilire trattamenti economici differenziati”).  Tutto ciò chiarito, la Sezione ha precisato che il punto è verificare se, con gli atti impugnati, il Ministero della giustizia abbia legittimamente identificato il perimetro legale di abilitazione dei magistrati a portare armi pur senza l’ordinaria licenza. Tale, infatti, è il bene della vita di cui qui si controverte, i ricorrenti assumendo di aver titolo a portare le armi senza licenza per il fatto di svolgere funzioni di magistrato onorario (ed, evidentemente, anche al di fuori di queste).  Qui in particolare si disputa della facoltà, di cui all’art. 7, comma 1, l. n. 36 del 1990, secondo cui “Ai soli fini della difesa personale è consentito il porto d'armi senza la licenza di cui all'art. 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773, oltre che alle persone contemplate dall'art. 73, r.d. 6 maggio 1940, n. 635, recante regolamento di esecuzione del citato testo unico, ai magistrati dell'ordine giudiziario, anche se temporaneamente collocati fuori del ruolo organico, al personale dirigente e direttivo dell'Amministrazione penitenziaria”.  La norma – posta in tempi di particolare esposizione dei magistrati all’aggressione terroristica o della criminalità organizzata - estende a tutti i magistrati dell’ordine giudiziario la facoltà a suo tempo attribuita ai soli magistrati con funzioni requirenti o istruttorie (i “Pretori e i magistrati addetti al pubblico Ministero o all'ufficio di istruzione”) dal menzionato art. 73, r.d. n. 635 del 1940 (Regolamento per l'esecuzione del T.U.L.P.S.).  Il riferimento normativo ai “magistrati dell'ordine giudiziario” va intenso nel senso dei soli soggetti di cui al ricordato art. 4, comma 1, r.d. n. 12 del 1941. A ciò porta sia la ratio legis (l’attribuzione della facoltà è in ragione della potenziale esposizione a pericolo per l’esercizio delle funzioni giudiziarie: circostanza che normalmente non si realizza per gli affari minori cui sono addetti i magistrati onorari), sia la rivelatrice precisazione per la quale la facoltà permane anche nel periodo eventualmente trascorso in posizione di fuori ruolo, cioè indipendentemente dal rapporto organico in un ufficio giudiziario, dunque con radicamento piuttosto nel rapporto di servizio. Del resto, solo il magistrato professionale può essere collocato in posizione di fuori ruolo senza con questo perdere la collocazione nell’ordine giudiziario.  La norma è di stretta interpretazione perché fa eccezione al generale divieto di porto delle armi (art. 699 Cod. pen. e art. 4, primo comma, l. n. 110 del 1975).    Da tutto questo consegue che, per volontà della legge, è consentito il porto d’armi senza licenza ai soli magistrati di professione (cfr. Cass. pen., sez. I, 28 maggio 2015, n. 22567, secondo cui l’esonero dall’obbligo di denuncia di detenzione e l’autorizzazione al porto d’armi non si riferisce ai magistrati onorari), a coloro cioè che stabilmente e istituzionalmente esercitano funzioni giurisdizionali.  Diversamente, sarebbe consentito il porto d’armi senza licenza a chi svolge in via principale non l’attività di magistrato (onorario) ma un’altra attività lavorativa e professionale.  In conclusione, ad avviso della Sezione, la circolare impugnata non viola un diritto quesito: non vi è una norma sopravvenuta che, limitando l’applicazione di una precedente disposizione estensiva, abbia ristretto situazioni consolidate corrispondenti a incomprimibili diritti umani: vi è semmai un beneficio in passato attribuito per incongrua lettura del dato normativo (ad opera di precedenti circolari del 1994 e del 1996): al quale, l’obbligo dell’amministrazione di far costantemente corretta applicazione della legge, impone di rimediare. Anche a voler ipotizzare che un analogo esercizio di funzioni giudiziarie possa esporre i magistrati onorari ai medesimi rischi per aggressioni dei magistrati ordinari (il che nella media non è), non è ravvisabile una illogica disparità di trattamento perché il diverso statuto professionale degli uni e degli altri legittima trattamenti differenziati nei termini indicati: tanto più che, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, il porto d’armi senza licenza non è correlato in via diretta allo svolgimento in concreto della “funzione magistratuale”.   L’accostamento dei magistrati onorari ai giudici popolari è effettuato al solo scopo di marcare la differenza tra i magistrati che compongono l’ordine giudiziario e quelli che vi appartengono per le funzioni temporaneamente svolte e, in questi termini, non è illogica: entrambi, pur con competenze diverse, sono in funzione della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia (cfr. art. 102, terzo comma, Cost.). 
Magistrati
Procedimento amministrativo – Principi – Principi interni e di derivazione euro-unitaria – Individuazione.       In virtù del richiamo esterno operato dall’art. 1 c.p.a., il tradizionale catalogo dei vizi di illegittimità è arricchito di una serie di principi di derivazione euro-unitaria direttamente applicabili nel nostro sistema di giustizia anche nelle materie non rientranti nelle competenze dell’Unione (artt. 3, 4, 5, TUE); i principi di proporzionalità e di adeguatezza costituiscono limiti interni all’esercizio del potere restrittivo dell’amministrazione che il giudice è chiamato a verificare (c.d. test) mediante l’indagine trifasica (di idoneità, di necessarietà, di adeguatezza) (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che i vizi dell’atto amministrativo, secondo la tradizionale tripartizione, sono la “violazione di legge”, l’“incompetenza”, l’“eccesso di potere” (art. 29 c.p.a.). Con l’integrazione del nostro ordinamento con quello dell’Unione europea, il tradizionale catalogo dei vizi si è arricchito di una serie di principi di derivazione euro-unitaria direttamente applicabili nel nostro sistema di giustizia in virtù del richiamo esterno ad essi operato dall’art. 1 c.p.a. secondo cui la “giurisdizione amministrativa” è, per l’appunto, chiamata ad assicurare “una tutela piena ed effettiva” secondo i principi del “diritto europeo” i quali, pertanto, assumo rilevanza diretta anche nelle materie non rientranti nelle competenze dell’Unione (artt. 3, 4, 5, TUE). Il principio di proporzionalità e quello di adeguatezza sono da tempo principi cardine dell’azione amministrativa che, benchè non sempre siano annoverati dalle discipline di settore tra le regole formali a cui deve conformarsi l’esercizio del potere restrittivo della sfera giuridica del destinatario, costituiscono comunque norme immanenti dell’agire pubblico. Tendo presente la sapiente opera di interpretazione monofilattica della giurisprudenza nazionale ed europea, si può affermare che ogni potere restrittivo va esercitato in sede di amministrazione attiva - e, ove oggetto di contenzioso, in sede giurisdizionale o giudiziale - nel rispetto dei principi di proporzionalità e di adeguatezza che costituiscono, al contempo, limiti interni al corretto esercizio dell’azione pubblica. Il giudice amministrativo è chiamato a verificare (c.d. test) il rispetto dei principi-limiti di proporzionalità e di adeguatezza mediante l’indagine che si definisce trifasica (di idoneità, di necessarietà, di adeguatezza, anche detta quest’ultima di proporzionalità in senso stretto) in quanto il positivo superamento di ogni fase costituisce il presupposto per la verifica di quella successiva, sicché soltanto il provvedimento che supera positivamente tutt’e tre le fasi di verifica può vedersi attribuito il predicato di legittimità definitiva. Mentre il principio di proporzionalità è volto a sindacare l’individuazione del mezzo giuridico per raggiungere il fine pubblico per il quale è attribuito il potere ed implica l’indagine nella fase di idoneità e di necessarietà, il principio di adeguatezza è volto sindacare la fase di proporzionalità in senso stretto incentrandosi sul bilanciamento degli interessi che vengono in emersione a seguito della scelta del mezzo idoneo e necessario. Più in particolare, l’idoneità guarda al rapporto tra il mezzo che si intende scegliere e l’obiettivo che si intende raggiungere: la verifica si ritiene superata se il mezzo scelto si presenta di per sé idoneo a raggiungere l’obiettivo. La necessarietà, invece, guarda al rapporto tra il mezzo ritenuto idoneo e il sacrificio che deriva alla sfera giuridica del destinatario: la verifica si ritiene superata se, contestualmente, il mezzo individuato (come idoneo) comporta il minore sacrificio possibile al singolo (o, in altri termini, se non vi sono altri mezzi idonei che consentono di raggiungere il medesimo risultato con minore sacrificio) e non impone un sacrificio ben superiore a quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito. Individuato lo strumento giuridico idoneo e necessario, occorre valutare se il sacrificio che deriva dalla sua applicazione sia tollerabile dal singolo nel rapporto con gli interessi pubblici (primari e secondari) e privati che vengono in gioco nell’ambito del procedimento. L’adeguatezza (o proporzionalità in senso stretto) guarda, infatti, al rapporto tra il mezzo ritenuto idoneo e necessario e la restrizione subita in concreto dal destinatario: in tal caso, la verifica è superata se il mezzo così individuato impone alla sfera del singolo un sacrificio tollerabile nel bilanciamento con gli altri interessi coinvolti.
Procedimento amministrativo
Risarcimento danni – Responsabilità da lesione di interesse legittimo – Natura.   Risarcimento danni – Edilizia – Titolo edilizio – Annullamento d’ufficio - Dies a quo del termine quinquennale di prescrizione – Individuazione.             La responsabilità della Pubblica amministrazione da lesione di interesse legittimo ha natura sui generis, non essendo integralmente sussumibile né nelle ipotesi di “illecito aquiliano”, né in ipotesi di responsabilità contrattuale o da “contatto sociale”, ciascuna delle due fattispecie potendo venire in rilievo in via analogia a seconda della tipologia di interesse legittimo leso, se oppositivo o pretensivo (1).             In caso di illegittimo annullamento d’ufficio di un titolo edilizio emesso prima dell’entrata in vigore dell’art. 30 c.p.a., il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione dell’azione risarcitoria, nel caso di tempestiva impugnazione del provvedimento lesivo, decorre in ogni caso dal passaggio in giudicato della decisione definitiva (2).   (1) Il Tar ha premesso un inquadramento in ordine alla “natura” della responsabilità della P.A. da “provvedimento illegittimo”, e ciò in quanto le parti, nelle loro articolate difese, hanno sollevato tale questione, dalla cui soluzione, ovviamente, discendono una serie di rilevanti conseguenze con riferimento alla disciplina applicabile al caso di specie. L’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa sembra ancora propendere per la “soluzione aquiliana”, senza peraltro, a tal fine, distinguere tra fattispecie aventi ad oggetto interessi oppositivi e fattispecie concernenti interessi pretensivi (si veda tra le ultime, C. Stato, sez. III, 10 luglio 2019, n. 4857). Secondo altro orientamento, si può dire, “minoritario”, invece, <<in tema di diritto al risarcimento del danno da lesione di un interesse legittimo, viene in rilievo una specifica relazione tra p.a. e cittadino, preventiva rispetto al fatto o atto produttivo di danno e perciò distinta dalla pura e semplice responsabilità extracontrattuale; tale relazione, che ha assunto la denominazione di "contatto sociale qualificato" o di "responsabilità da contatto", implica da parte della p.a. il corretto sviluppo dell'iter procedimentale non solo secondo le regole generali di diligenza, prudenza e perizia, ma anche e soprattutto di quelle specifiche del procedimento amministrativo, sulla base delle quali avviene la legittima emanazione del provvedimento finale>> (in questo senso, tra le altre, C. Stato, sez. IV, 12 marzo 2010, n. 1467). Infine, secondo un ulteriore orientamento che trova sempre maggiori consensi in giurisprudenza, la responsabilità della P.A. avrebbe caratteristiche “sui generis” (ex plurimis, C. Stato, sez. VI, 14 marzo 2005, n.1047), non riconducibili, in modo puro e semplice, ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile: da un lato, infatti, dovendo l’amministrazione, nell’adozione di un provvedimento, osservare predefinite regole, procedimentali e sostanziali, che scandiscono le modalità di svolgimento della sua azione, l'esercizio del potere autoritativo non è assimilabile alla condotta del mero quisque de populo che cagiona danni ad altro soggetto in violazione del generale dovere del neminem laedere; dall’altro lato, rispetto alla responsabilità contrattuale, diverse sono le posizioni soggettive che si confrontano, per un verso un dovere di prestazione (o di protezione) e un diritto di credito, per altro verso il potere pubblico e l’interesse legittimo (in tal senso, Tar  Lecce, sez. I, 13 agosto 2019, n. 1426). D’altronde, generalmente, pur a fronte di questa affermazione di principio, le decisioni che hanno affermato la natura “sui generis” della responsabilità della P.A., in sede applicativa hanno finito poi per appiattirsi, senza una specifica motivazione, sulla disciplina sostanziale e processuale della responsabilità aquiliana, richiedendo cioè la dimostrazione in giudizio di “tutti gli elementi costitutivi dell'illecito”, ovvero “elemento oggettivo, elemento soggettivo (la "colpevolezza" o "rimproverabilità"), il nesso di causalità materiale o strutturale, il danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo (c.d. danno evento)”, in particolare con riferimento all’onere probatorio, in capo al danneggiato, della dimostrazione della “colpa grave” da parte della P.A. E’ opinione del Tar che la tesi della natura “speciale” o “sui generis” della responsabilità “provvedimentale” della P.A. sia corretta, ma necessiti di un’ulteriore precisazione rispetto a quanto sopra ricordato. In particolare, la P.A., ogni volta che agisce autoritativamente, incidendo sulla sfera giuridica dei privati, al fine di perseguire l’interesse pubblico cui è preordinato il potere ad essa attribuito dalla legge, deve rispettare una puntuale disciplina sostanziale e procedimentale a tutela non solo dell’interesse pubblico medesimo, ma, anche e soprattutto, dei soggetti privati la cui sfera giuridica venga in vario modo attinta dagli effetti dell’attività provvedimentale medesima. L’esistenza di questi obblighi procedimentali, d’altronde, se, da un lato, non consente una perfetta sussunzione della fattispecie nella responsabilità di natura aquiliana, perché essi impongono un rapporto “strumentale” con il privato interessato dal provvedimento dell’Amministrazione, dall’altro lato, non può ritenersi sufficiente a fondare, sic et simpliciter, un’ipotesi di responsabilità da “contatto sociale”, ciò in quanto, da un lato, con riferimento alla “responsabilità da provvedimento illegittimo”, la tutela non viene accordata al mero interesse legittimo “procedimentale”, ma a quello sostanziale; dall’altro lato, in quanto non considera l’evidente differenza che corre, sotto il profilo della posizione del danneggiato, tra il titolare di un interesse legittimo pretensivo, e il titolare di un interesse legittimo oppositivo. Nel primo caso, che coincide – in linea di massima - con le fattispecie di “procedimento ad istanza di parte”, l’azione della P.A. trae origine sostanzialmente dalla esigenza di tutela di un interesse privato, in senso ampliativo della relativa sfera giuridica (fattispecie comprensiva, però, anche dei casi di azione doverosa da parte della P.A. a “difesa” della stessa, nel caso che la legge la ponga comunque a carico della P.A.): il perseguimento dell’interesse pubblico, dunque, si pone “a valle” della richiesta del privato (o del verificarsi dei presupposti di legge per l’intervento ex officio dell’amministrazione a ”difesa”) e il bilanciamento è volto a valutare se e come l’interesse di quest’ultimo sia o meno “compatibile” con l’interesse pubblico perseguito dalla P.A. Proprio perché, in tal caso, il procedimento amministrativo, di fatto, è “azionato” (o va obbligatoriamente avviato d’ufficio) al fine di eventualmente soddisfare un interesse privato individuato dal soggetto richiedente (o, nei casi predetti, dalla legge), non può negarsi l’instaurazione di una relazione giuridicamente rilevante e tale da integrare un’ipotesi di responsabilità “paracontrattuale”, ai sensi dell’art. 1173, n. 3 c.c. Dall’accoglimento di tale soluzione interpretativa deriva, logicamente, che la disciplina applicabile non può essere quella della responsabilità aquiliana, ma, in quanto compatibile, quella di cui all’art. 1218 c.c. Laddove, invece, vengano in esame interessi di natura oppositiva, che sono correlati a provvedimenti incidenti ab externo su un soggetto vantante, sostanzialmente, un interesse alla non adozione dei provvedimenti medesimi, è evidente l’analogia con la responsabilità aquiliana, gli obblighi procedimentali venendo esclusivamente a “irrigidire” l’azione amministrativa senza con questo mutare la sostanziale estraneità del provvedimento amministrativo rispetto all’interesse “positivo” vantato dal soggetto attinto dagli effetti negativi del provvedimento. In caso di interesse oppositivo, l’estraneità dell’interesse pubblico rispetto all’interesse “positivo” del privato, conseguente alla contrarietà tra gli stessi (laddove l’interesse pretensivo e quello pubblico si rapportano secondo un criterio di tendenziale conformità), induce ad applicare, seppure in via analogica, la disciplina della responsabilità aquiliana. In questo senso, il fatto che l’art. 30 c.p.a., faccia espresso riferimento ad istituti tipici della responsabilità extracontrattuale, come l’art. 2058 c.c. in materia di risarcimento del danno in forma specifica, non dimostra che in ogni caso la responsabilità della P.A. debba intendersi aquiliana, al contrario il richiamo risultando opportuno proprio per la natura “analogica” della responsabilità che solo in parte (per i soli interessi oppositivi cioè) può essere ricondotta all’ipotesi aquiliana. In conclusione, quindi, occorre esaminare di volta in volta se oggetto della controversia siano interessi pretensivi od oppositivi, nel primo caso dovendosi applicare, in via analogica, la disciplina “contrattuale” (in senso improprio) di cui al combinato disposto degli artt. 1173, n. 3 e 1218 c.c., nel secondo caso dovendosi applicare, in via analogica, la disciplina di cui agli artt. 2043 e ss. c.c.   (2) Ha chiarito il Tar che il provvedimento di annullamento d’ufficio, si tratta di fattispecie, manifestazione di un potere pubblico discrezionale, in funzione di autotutela, che nella giurisprudenza “ante Cass., Sez. Un. 500/99” integrava un’ipotesi di c.d. “diritti fievoli “ab origine”, propria di chi, essendo stato destinatario di un atto amministrativo ampliativo della propria sfera giuridica veniva in un secondo momento privato dalla P.A. con un atto di secondo grado. In tal caso, la giurisprudenza ha ritenuto di natura sostanzialmente oppositiva l’interesse del privato valorizzando l’autonomia della situazione sorta per effetto dell’atto ampliativo medesimo (si veda Cass., Sez. Un., 19 marzo 1997, n. 2436). Pertanto, dovendosi qualificare in termini di interesse oppositivo la situazione giuridica azionata da parte ricorrente, si deve applicare “analogicamente” la disciplina della responsabilità aquiliana, sicché occorre la positiva verifica di tutti gli elementi che caratterizzano l'illecito: l'illegittimità del provvedimento causativo del danno, la sussistenza della colpa o del dolo della P.A., la lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento, il nesso causale che colleghi la condotta commissiva o omissiva della P.A all'evento dannoso, la sussistenza dei pregiudizi subiti e il nesso che li lega all’evento dannoso (Cons. St., sez. V, 30 giugno 2009, n. 4237).
Risarcimento danni
Straniero – Lavoro - Emersione ​​​​​​​In materia di regolarizzazione di più lavoratori da parte dell’imprenditore agricolo, la valutazione tecnico-discrezionale, di competenza dell’Ispettorato del lavoro, sulla capacità reddituale dell’impresa datore di lavoro non può risolversi in una semplice operazione aritmetica costituita dalla sottrazione del totale degli acquisti al volume d’affari; difatti, a differenza dell’ipotesi in cui ad assumere lavoratori sia una persona fisica, per la quale rileva unicamente il reddito, la relativa valutazione della capacità economica - che dal tenore della legge dovrebbe essere peraltro di particolare favore rispetto alle altre tipologie d’imprese ammesse alla regolarizzazione - può incentrarsi, in via ausiliaria, anche su “indici di capacità economica di tipo analitico” maggiormente significativi e comunque diversi rispetto a quelli di cui al primo comma dell’art. 9 del d.m. del 27 maggio 2020, come l’esistenza di costi per investimenti fissi, beni ammortizzabili, o la fruizione di benefici fiscali o contributi unionali.
Straniero
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienza da remoto – Opposizione - Per mancanza di dotazione informatica – Esclusione.              La carenza di dotazione informatica per partecipare all’udienza di discussione da remoto in capo ad una parte non costituisce giusto motivo per opporsi alla domanda di discussione da remoto tempestivamente proposta dalla controparte (1).    (1) Ha chiarito il C.g.a. che la facoltà di discussione orale “sintetica”, prevista dall’art. 73 comma 2, c.p.a., integra esplicazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) ed invera il precetto di garanzia del contraddittorio di cui all’art.111, comma 3, Cost..  Si tratta di posizione di diritto potestativo, che rientra nella lata discrezionalità del difensore tecnico della parte, ed il cui esercizio non può essere aprioristicamente negato, fatte salve ipotesi del tutto residuali.  Al contrario, che la “opposizione alla discussione” pur prevista, in astratto, dall’art. 4, d.l. n. 28 del 2020 integra rimedio ad eventuali distorsioni che la richiesta di discussione dovesse – in ipotesi- arrecare alla dialettica processuale. Ha aggiunto il C.g.a. che la asserita carenza di dotazioni informatiche che consentano la partecipazione alla discussione da remoto in capo ad una delle parti processuali (e per esse alla difesa tecnica dalla stessa prescelta) non può integrare giusta causa tale da limitare il diritto processuale di controparte, dovendosi in contrario osservare che ciò costituisce, per un verso, inconveniente facilmente rimediabile, e sotto altro profilo, lacuna/carenza che rientra nella sfera gestoria della parte processuale che accampa simile impedimento, cui la stessa, ove lo ritenga, può porre rimedi.
Processo amministrativo
Covid-19 – Calabria – Distributori automatici – Vendita bevande e alimenti confezionati h 24 – Chiusura nella fase emergenziale – Non va sospesa.     Non va sospeso il decreto monocratico del giudice di primo grado che ha respinto l’istanza di sospensione cautelare delle ordinanze del Sindaco di Catanzaro che, al fine di contenere il rischio di diffusione del Covid-19, hanno disposto e poi prorogato la sospensione, salvo che negli ospedali, dell’apertura degli esercizi commerciali di negozio bar self service attraverso distributori automatici che vendono bevande e alimenti confezionati h 24 in locale liberamente accessibile; è infatti escluso ogni pericolo di perdita definitiva di un bene della vita direttamente tutelato dalla Costituzione, discutendosi nel caso in esame di un ordinario e temporaneo pregiudizio economico a fronte di una ordinanza comunale, con la conseguenza che non ricorre uno dei casi eccezionali in cui, con interpretazione costituzionalmente orientata “ praeter legem”, il Consiglio di Stato ha ritenuto ammissibile l’appello avverso il decreto cautelare del Presidente di T.A.R. (1). (1) Il decreto confermato è del Tar Catanzaro, sez. I, dec., 24 aprile 2020, n. 270. Ha chiarito il decreto che non è certo il diritto costituzionalmente tutelato di libera iniziativa economica (art. 41 Cost.) ma l’interesse, di natura economica, a non perdere, per i giorni di sospensione della distribuzione, il relativo ricavo. Peraltro, proprio l’art. 41 Cost. invocato dall’appellante, limita la stessa libertà di iniziativa economica quando essa sia in contrasto con la sicurezza, libertà e dignità umana. In proposito, non vi sono dubbi sulla correttezza costituzionale di una misura di divieto temporaneo di distribuzione automatica di prodotti allorché ciò derivi dalla necessità di prevenzione avverso la più grave forma di epidemia sanitaria che l’Italia abbia conosciuto dal dopoguerra.
Covid-19
Risarcimento danni - Servizi di hosting - Google ADS – Condizione.          Dovendosi il servizio “Google ADS” qualificare in termini di “hosting”, la mera valorizzazione della strumentalità alla diffusione del messaggio ed elaborazione di quest’ultimo dal sistema utilizzato dal servizio di posizionamento non è di per sé sufficiente a fondare la responsabilità del gestore della piattaforma per la violazione del “Decreto Dignità”. (1)       (1) Il potere sanzionatorio dell’Autorità nei confronti dei soggetti stabiliti all’estero non può ritenersi limitato neppure dalla sopra riportata previsione di cui all’art. 4 delle Linee Guida, alle quali non va riconosciuta natura di atto amministrativo precettivo; le stesse infatti vanno qualificate sub specie di circolare interpretativa, le cui indicazioni, seppure volte ad indirizzare uniformemente l’attività degli uffici, possono essere motivatamente disattese dalla stessa autorità emanante, all’esito di diversa valutazione, come avvenuto nel caso di specie. Una diversa interpretazione si risolverebbe, infatti, in una inammissibile limitazione, ad opera di un atto amministrativo, dell’efficacia di una norma di legge che non esclude dalla propria applicabilità i soggetti stabiliti all’estero. Ha aggiunto la Sezione che il divieto di pubblicità del gioco d’azzardo ha portata generale, essendo tale attività perseguita indipendentemente dal mezzo con il quale viene posta in essere, dunque non solo se ciò avvenga tramite un servizio della società dell’informazione, così che lo stesso non può essere inteso alla stregua di una “regola tecnica” nei termini indicati, non essendo peraltro la definizione in argomento, come affermato dal citato precedente (che sul punto richiama le conclusioni dell’Avvocato Generale nella causa C-320/16, punto 31; e la sentenza C-255/16, punto 30) “strutturalmente suscettibile di interpretazione estensiva oltre i confini della materia”). Il d.lgs. n. 70 del 2003, costituente attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico, prevede diverse figure di operatori, distinte in relazione alla tipologia di prestazione resa ed al corrispondente regime di responsabilità, quali: l'attività di semplice trasporto – “mere conduit” (art. 14); la memorizzazione temporanea - “caching” (art. 15);- la memorizzazione di informazioni – “hosting” La Corte di Giustizia, come detto, già aveva espresso i principi guida inerenti il servizio Google ADS nella citata sentenza 236/2010, laddove viene puntualizzato che la responsabilità del prestatore dello stesso “deve essere valutata alla luce del ruolo dallo stesso svolto” che deve essere “attivo, atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati”, non potendo, diversamente, tale soggetto essere ritenuto responsabile per i dati che ha memorizzato su richiesta di un inserzionista salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, egli “abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi”(cfr. punti da 114 a 120 della sentenza) ​​​​​​​ Anche la giurisprudenza nazionale è dell’avviso che il prestatore dei servizi di hosting possa essere chiamato a rispondere della illiceità dei contenuti ospitati allorché “non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, oppure abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: sia a conoscenza legale dell'illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; sia ragionevolmente constatabile l'illiceità dell'altrui condotta, onde l'hosting provider sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico; abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere” (Cassazione civile sez. I, 16 settembre 2021, n. 25070; id. 19 marzo 2019, n. 7708). 
Risarcimento danni
Pubblica istruzione – Concorso – Concorso straordinario per abilitazione  - Corso di dottorato di ricerca – Non rileva.                L’attività svolta durante i 3 anni del corso di dottorato di ricerca non vale come servizio per partecipare al concorso. (1).    (1) Ha chiarito il parere che  il d.l. 29 ottobre 2019, n. 126, come convertito dalla legge 20 dicembre 2019, n. 159, costituisce una legge provvedimento. Come è noto, la costante giurisprudenza qualifica tali le leggi che contengono disposizioni dirette a destinatari determinati o che incidono su un numero determinato e limitato di destinatari, che hanno un contenuto particolare e concreto ovvero comportano l’attrazione alla sfera legislativa della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa. La Corte Costituzionale (cfr. sent. n. 85 del 2013) ha chiarito che la legge provvedimento non è di per sé in contrasto con l’assetto di poteri stabilito dalla Costituzione, in quanto nessuna disposizione costituzionale comporta una riserva agli organi amministrativi o esecutivi degli atti a contenuto particolare e concreto. Peraltro, per i soggetti lesi da tali disposizioni normative, poiché la forma di tutela segue la natura giuridica dell’atto contestato, i diritti di difesa si trasferiscono dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale, trovando la protezione del privato riconoscimento attraverso il sindacato costituzionale di ragionevolezza della legge (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2014, n. 5831). In relazione ai profili di incostituzionalità sollevati avverso le disposizioni normative dell’art. 1, d.l. n. 126 del 2019, per violazione degli artt. 97, 51, 34 e 3 Cost., manifestamente infondate, va rimarcata la natura straordinaria e riservata della procedura concorsuale in esame. Tale natura è chiaramente esplicitata dallo stesso testo normativo, introdotto dal d.l. n. 126 del 2019. Il suo preambolo pone, infatti, a giustificazione della misura adottata, “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare la stabilità dell’insegnamento nelle istituzioni scolastiche, porre rimedio alla grave carenza di personale di ruolo nelle scuole statali e ridurre il ricorso a contratti a termine”. Il concorso è, poi, espressamente definito dal legislatore come “straordinario”, laddove all’articolo 1, comma 1, si legge che “Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca è autorizzato a bandire, contestualmente al concorso ordinario per titoli ed esami di cui all’art. 17, comma 2, lettera d), d.lgs. 13 aprile 2017, n. 59, entro il 30 aprile 2020, una procedura straordinaria per titoli ed esami per docenti della scuola secondaria di primo e di secondo grado, finalizzata all’immissione in ruolo nei limiti di cui ai commi 2, 3 e 4 del presente articolo. La procedura è, altresì, finalizzata all’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria, alle condizioni previste dal presente articolo”. Ciò posto, la Sezione ritiene che la tale procedura, pur se derogatoria alla regola ordinaria del pubblico concorso, non violi l’art. 97 Cost. né il diritto al lavoro dei ricorrenti. Va, in proposito, ricordato che la Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare che, seppur la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico è rigorosamente limitata, in alcuni casi determinate deroghe devono essere considerate legittime “quando siano funzionali esse stesse alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle” (Corte Cost., 10 novembre 2011, n. 299). Dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 106 del 2 maggio 2019, resa in una fattispecie relativa ad un concorso straordinario per dirigenti scolastici, si desume, poi, che le norme che prevedono concorsi straordinari del tipo di quello oggetto della presente controversia sono in linea di principio conformi a Costituzione nel momento in cui sono emanate per garantire il buon andamento dell’amministrazione, sopperendo alle carenze di organico e per dare certezza ai rapporti giuridici, superando il precariato; esse, infatti, in tal caso operano una compromissione definita “non irragionevole” del diritto di accesso al pubblico impiego e del principio del pubblico concorso. Orbene, nella vicenda in esame le suddette esigenze di interesse pubblico sussistono certamente, considerandosi che il concorso tende all’assorbimento del precariato, a garantire stabilità nell’insegnamento e a ridurre il ricorso ai contratti a termine.
Pubblica istruzione
Covid-19 - Green pass – Concorso – Esclusione - Per mancato riconoscimento del QR code da parte dell’app.VerificaC19 - Va sospeso.   ​​​​​​​ Deve essere sospesa cautelarmente l’esclusione dal concorso del candidato per mancato riconoscimento del QR code da parte dell’app.VerificaC19 potendo la stessa essere sanata mediante esibizione della certificazione, comunque fidefaciente, circa l’avvenuta effettuazione del vaccino (1). (1) Ha ritenuto la Sezione che diversamente opinando l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito (artt. 33 e 34 Cost.) quale il diritto allo studio o l’accesso ai pubblici uffici (artt. 51 e 97 Cost.) sarebbe inopinatamente condizionato dal funzionamento di un applicativo mobile.  
Covid-19
Processo amministrativo – Appello – Notifica del ricorso – Non andata a buon fine per causa non imputabile al notificante – Nuova notifica – Possibilità – Condizione.             In sede di ricorso giurisdizionale, ove la prima notificazione, proposta correttamente nel termine decadenziale,  non sia andata a buon fine per causa non imputabile al notificante stesso, la successiva rinotificazione retroagisce  e impedisce ogni decadenza se il notificante ha riattivato l'attività notificatoria entro un termine ragionevole da individuarsi nella metà del termine concesso dall'art. 92, comma 1,  c.p.a. per la proposizione dell' impugnazione; termine entro il quale l'appellante notificante deve riattivare l'attività notificatoria ove la prima notificazione, proposta correttamente nel termine decadenziale,  non sia andata a buon fine per causa non imputabile al notificante stesso ( nella specie per irreperibilità del destinatario) (1).     (1) La Sezione si è conformata all’orientamento della Corte di cassazione (SS.UU. n. 17532 del 2009) secondo cui  "In tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell'atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l'onere - anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio - di richiedere all'ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l'esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie. In concreto la Sezione, aderendo all’indicazione di SS.UU. n. 14594 del 2016, ha stabilito che il termine ragionevolmente contenuto, entro il quale va riattivata l’attività notificatoria, non deve superare la metà dei termini indicati dall’art. 92, comma 1, c.p.a. per la proposizione delle impugnazioni.
Processo amministrativo
Accesso ai documenti – Accesso difensivo – Servizio giornalistico – Documentazione propedeutica – Omessa motivazione sul nesso di strumentalità – Diniego – Legittimità.  Accesso ai documenti – Accesso civico generalizzato - Art. 2-bis, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 33 del 2013 - Violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost. – Esclusione Rai - Violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost. - Manifestamente infondata          E’ legittimo il diniego di accesso alla documentazione propedeutica ad un servizio giornalistico, che conterrebbe informazioni false ed errate in relazione alla tutela dell’onore dell’istante se nell’istanza non è spiegato quale nesso di strumentalità sussista tra l’accesso ai documenti preparatori e la lesione dell’onore paventato dall’istante, considerato che si tratta di documentazione, che non è stata diffusa all’esterno (1).            E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 33 del 2013, per violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost. che, nel tracciare l’ambito soggettivo di applicazione del diritto di accesso civico, dettando regimi differenziati in ragione delle particolari caratteristiche strutturali che connotano le diverse persone giuridiche, sottrae all’accesso civico le società in controllo pubblico quotate, quale è la Rai (2).    (1) La Sezione ha ricordato le direttrici fondamentali individuate dalla giurisprudenza del giudice amministrativo in termini di accesso difensivo. Il parametro di riferimento è la sentenza n. 4 del 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che espone una condivisibile ricostruzione dell’accesso difensivo, che, nei termini di interesse ai fini del presente giudizio, presuppone: a) la sussistenza del solo nesso di necessaria strumentalità tra l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici; b) la verifica della sussistenza di un interesse legittimante, dotato delle caratteristiche della immediatezza, della concretezza e dell’attualità. La sussistenza di un nesso di necessaria strumentalità impone al richiedente di motivare la propria richiesta di accesso, rappresentando in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione elementi che consentano all’amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione “finale” controversa. Secondo l’Adunanza Plenaria non è a tal fine sufficiente il generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando. Nella fattispecie se è evidente il nesso di strumentalità tra l’accesso e il servizio giornalistico, che conterrebbe informazioni false ed errate in relazione alla tutela dell’onore dell’istante e del suo studio, non si spiega nell’istanza quale nesso di strumentalità sussista tra l’accesso ai documenti preparatori e la lesione dell’onore paventato dall’istante, considerato che si tratta di documentazione, che non è stata diffusa all’esterno. Specificazione che è, quindi, necessaria e che manca del tutto nel caso in esame, anche se non deve spingersi nel senso di offrire elementi per un’indagine da parte dell’amministrazione o del giudice sull'utilità ed efficacia del documento stesso in prospettiva di tutela giurisdizionale. Non si chiede all’istante una probatio diabolica in termini di utilità, ma una prospettazione delle ragioni che rendono la documentazione oggetto dell’accesso necessaria a tutela della posizione giuridica tutelanda.    (2) Quanto all’art. 3, deve osservarsi che non sussiste prima facie il denunciato vizio di disparità di trattamento e irragionevolezza, dal momento che il regime giuridico in comparazione è differente in ragione del fatto che la limitazione soggettiva riguarda le società in controllo pubblico che hanno emesso strumenti quotati e che non si è in presenza di una previsione irragionevole, poiché il legislatore ha necessariamente dovuto prendere in considerazione gli ulteriori interessi di tutela del mercato. Del pari non si ravvisa una contrarietà con il principio di buon andamento ex art. 97 Cost., atteso che le società quotate soggiacciono a specifici obblighi informativi anche ai sensi del d.lgs. n. 58 del 1998 e che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d) del contratto di servizio: “La Rai assicura un’offerta di servizio pubblico improntata ai seguenti principi:… d) adottare criteri di gestione idonei ad assicurare trasparenza ed efficienza con particolare riguardo all’uso delle risorse pubbliche”. Infine, non si ravvisa una plausibile violazione dell’art. 117 Cost., sicché la stessa risulta manifestamente infondata, ed, infatti, lo Statuto della RAI espressamente prevede all’art. 32 che: “Il consiglio di amministrazione costituisce un organismo, monocratico o collegiale, cui è affidato il compito di attendere al controllo del funzionamento e dell’osservanza dei modelli organizzativi e di gestione adottati per la prevenzione dei reati di cui al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, nonché il compito di curarne l’aggiornamento. Tale organismo è dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo per l’esercizio delle proprie funzioni e riferisce all’organo di amministrazione o ad un apposito comitato eventualmente costituito all’interno dell’organo di amministrazione”. 
Accesso ai documenti
Covid-19 – Vaccino – Obbligatorietà – Legittimità costituzionale – Verifica della non manifesta infondatezza – Istruttoria.              In occasione dell’appello proposto da un tirocinante non ammesso al corso formativo all’interno di strutture sanitarie perché non sottopostosi al vaccino per il Covid-19, il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana dispone incombenti istruttori, ai fini della valutazione della non manifesta infondatezza della prospettata questione di costituzionalità, affidata ad un collegio composto dal Segretario generale del Ministero della Salute, dal Presidente del Consiglio superiore della sanità operante presso il Ministero della salute e dal Direttore della Direzione generale di prevenzione sanitaria (1).   (1) Ha premesso il C.g.a. che l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, laddove prevede l’obbligo vaccinale per “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, l. 1° febbraio 2006, n. 43”, deve interpretarsi nel senso che include i tirocinanti che, nell’ambito del percorso formativo, vengano a contatto con l’utenza in ambito sanitario, ricorrendo le medesime ragioni di tutela dei pazienti previste per i sanitari e gli infermieri. Ha aggiunto che secondo la vigente normativa l’obbligo vaccinale non sussiste in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche e documentate condizioni cliniche, attestate dal medico di medicina generale o dal medico vaccinatore, nel rispetto di quanto disposto dalle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2.   Quanto alla questione di legittimità costituzionale sollevata sul rilievo che non sarebbe possibile nel nostro ordinamento porre un obbligo vaccinale basato su farmaci sperimentali, ostando a ciò il regolamento UE 2014, artt. 28 e segg, e l’art. 32 ultimo comma Cost., il quale vieta trattamenti contrari alla dignità umana, il C:g.a. ha ricordato che la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di vaccinazioni obbligatorie è salda nell'affermare che l'art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute della singola persona (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto delle altre persone e con l'interesse della collettività. In particolare, la Corte ha precisato che – ferma la necessità che l’obbligo vaccinale sia imposto con legge - la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost. alle seguenti condizioni: (i) se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; (ii) se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze “che appaiano normali e, pertanto, tollerabili”; (iii) e se, nell'ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). In particolare, come affermato dalla sentenza 22 giugno 1990, n. 307, la costituzionalità degli interventi normativi che dispongano l’obbligatorietà di determinati trattamenti sanitari (nel caso di specie si trattava del vaccino antipolio) risulta subordinata al rispetto dei seguenti requisiti: <il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. ……. un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili. Con riferimento, invece, all'ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – (…) - il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri>. E qualora il rischio si avveri, in favore del soggetto passivo del trattamento deve essere <assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito>. Come affermato con la decisione 18 gennaio 2018 n. 5, il contemperamento di questi molteplici principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell'obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l'effettività dell'obbligo. Si precisa ancora nella decisione n.5 del 2018, i vaccini, al pari di ogni altro farmaco, sono sottoposti al vigente sistema di farmacovigilanza che fa capo principalmente all'Autorità italiana per il farmaco (AIFA) e poiché, sebbene in casi rari, anche in ragione delle condizioni di ciascun individuo, la somministrazione può determinare conseguenze negative, l'ordinamento reputa essenziale garantire un indennizzo per tali singoli casi, senza che rilevi a quale titolo - obbligo o raccomandazione - la vaccinazione è stata somministrata (come affermato ancora di recente nella sentenza n. 268 del 2017, in relazione a quella anti-influenzale); dunque <sul piano del diritto all'indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze: si veda, da ultimo la sentenza n. 268 del 2017>. Ha aggiunto il C.g.a. che ai fini della valutazione della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, occorre verificare se l’obbligo vaccinale per il Covid 19 soddisfi le condizioni dettate dalla Corte in tema di compressione della libertà di autodeterminazione sanitaria dei cittadini in ambito vaccinale sopra indicate, ossia non nocività dell’inoculazione per il singolo paziente e beneficio per la salute pubblica, ed in particolare: che il trattamento «non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato», ferma restando la tollerabilità di effetti collaterali di modeste entità e durata; che sia assicurata <la comunicazione alla persona che vi è assoggettata, o alle persone che sono tenute a prendere decisioni per essa e/o ad assisterla, di adeguate notizie circa i rischi di lesione (…), nonché delle particolari precauzioni, che, sempre allo stato delle conoscenze scientifiche, siano rispettivamente verificabili e adottabili>; che la discrezionalità del legislatore sia esercitata alla luce <delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica> e quindi che la scelta vaccinale possa essere rivalutata e riconsiderata, nella prospettiva di valorizzazione della dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario (sentenza n. 5/2018); che sia stata seguita la “raccomandazione” della Corte (decisione n.258/1994) secondo la quale, ferma la obbligatorietà generalizzata delle vaccinazioni ritenute necessarie alla luce delle conoscenze mediche, il legislatore dovrebbe individuare e prescrivere in termini normativi, specifici e puntuali, sebbene entro limiti di compatibilità con le esigenze di generalizzata vaccinazione, <gli accertamenti preventivi idonei a prevedere ed a prevenire i possibili rischi di complicanze>. Seguendo gli indici costituzionali fin qui richiamati, deve ritenersi essenziale, per un verso, che il cittadino riceva informazioni complete e corrette che siano facilmente e liberamente accessibili, e per altro verso che la sperimentazione, la raccolta e la valutazione dei dati (il più possibile ampi e completi) avvengano (o siano almeno validati) da parte di organismi indipendenti, in quanto l’affidamento della raccolta dei dati al produttore del vaccino presenta profili di evidente criticità (in tema di situazioni di conflitto di interessi in relazione ad attività svolta in favore di case farmaceutiche produttrici di vaccini si veda Cons. St., sez. V, 2 aprile 2021, n. 2744). Il C.g.a., ai fini della valutazione della non manifesta infondatezza della prospettata questione di costituzionalità, dispone quindi istruttoria affidata ad un collegio composto dal Segretario generale del Ministero della Salute, dal Presidente del Consiglio superiore della sanità operante presso il Ministero della salute e dal Direttore della Direzione generale di prevenzione sanitaria. Chiede in particolare: 1) le modalità di valutazione di rischi e benefici operata, a livello generale, nel piano vaccinale e, a livello individuale, da parte del medico vaccinatore, anche sulla basa dell'anamnesi pre-vaccinale; se vengano consigliati all’utenza test pre-vaccinali, anche di carattere genetico (considerato che il corredo genetico individuale può influire sulla risposta immunitaria indotta dalla somministrazione del vaccino); chiarimenti sugli studi ed evidenze scientifiche (anche eventualmente emerse nel corso della campagna vaccinale) sulla base dei quali venga disposta la vaccinazione a soggetti già contagiati dal virus; 2) le modalità di raccolta del consenso informato; 3) l’articolazione del sistema di monitoraggio, che dovrebbe consentire alle istituzioni sanitarie nazionali, in casi di pericolo per la salute pubblica a causa di effetti avversi, la sospensione dell'applicazione dell’obbligo vaccinale; chiarimenti sui dati relativi ai rischi ed eventi avversi raccolti nel corso dell’attuale campagna di somministrazione e sulla elaborazione statistica degli stessi (in particolare, quali criteri siano stati fissati, e ad opera di quali soggetti/istituzioni, per raccogliere i dati su efficacia dei vaccini ed eventi avversi; chiarimenti circa i criteri di raccolta ed elaborazione dei dati e la dimensione territoriale, se nazionale o sovranazionale; chi sono i soggetti ai quali confluiscano i dati e modalità di studio), e sui dati relativi alla efficacia dei vaccini in relazione alle nuove varianti del virus. 4) articolazione della sorveglianza post-vaccinale e sulle reazioni avverse ai vaccini, avuto riguardo alle due forme di sorveglianza attiva (con somministrazione di appositi questionari per valutare il risultato della vaccinazione) e passiva (segnalazioni spontanee, ossia effettuate autonomamente dal medico che sospetti reazioni avverse). La relazione dovrà anche partitamente chiarire: 1.1. con riferimento al primo quesito, se ai medici di base siano state fornite direttive prescrivendo loro di contattare i propri assistiti ai quali, eventualmente, suggerire test pre-vaccinali; 1.2. modalità in virtù delle quali venga data comunicazione al medico di base dell’avvenuta vaccinazione spontanea di un proprio assistito (presso hub vaccinali e simili); 2.1. quanto al secondo quesito, si richiedono chiarimenti circa la documentazione offerta alla consultazione dell’utenza al momento della sottoscrizione del consenso informato; 2.2. chiarimenti circa il perdurante obbligo di sottoscrizione del consenso informato anche in situazione di obbligatorietà vaccinale; 3.1. con riferimento al terzo quesito, si richiede la trasmissione dei dati attualmente raccolti dall’amministrazione in ordine all’efficacia dei vaccini, con specifico riferimento al numero dei vaccinati che risultino essere stati egualmente contagiati dal virus (ceppo originario e/o varianti), sia il totale sia i numeri parziali di vaccinati con una due e tre dosi; i dati sul numero di ricovero e decessi dei vaccinati contagiati; i dati di cui sopra comparati con quelli dei non vaccinati; 4.1. Con riferimento al quarto quesito, si chiede di conoscere se sia demandato ai medici di base: 4.1.1. di comunicare tutti gli eventi avversi (letali e non) e patologie dai quali risultino colpiti i soggetti vaccinati, ed entro quale range temporale di osservazione; ovvero 4.1.2. di comunicare solo eventi avversi espressamente elencati in direttive eventualmente trasmesse ai sanitari; ovvero 4.1.3. se sia a discrezione dei medici di base comunicare eventi avversi che, a loro giudizio, possano essere ricollegabili alla vaccinazione; 4.2. si richiede, altresì, di specificare con quali modalità i medici di base accedano alla piattaforma per dette segnalazioni, chi prenda in carico dette segnalazioni, da chi vengano elaborate e studiate.
Covid-19
Ambiente – Valutazione impatto ambientale – Ratio – Individuazione  Ambiente – Valutazione impatto ambientale – Richiesta chiarimenti - Facoltà.  Ambiente – Valutazione impatto ambientale – Preavviso di rigetto - Non occorre    La verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale costituisce un procedimento di valutazione preliminare (cd. screening) autonomo e non necessariamente propedeutico alla V.I.A. vera e propria, con la quale condivide l’oggetto - l’ “impatto ambientale”, inteso come   alterazione “qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa” che viene a prodursi sull’ambiente - ma su un piano di diverso approfondimento (1).     Nella fase della verifica di assoggettabilità a V.I.A. di un progetto (c.d. screening), l’Amministrazione ha la facoltà, e non l’obbligo, di richiedere chiarimenti e dettagli di carattere tecnico o di altra natura, come espressamente previsto dall’art. 19, comma 6, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Nell’inserire tale previsione il legislatore ha evidentemente inteso introdurre un elemento di discrezionalità valutativa anche in ordine alla scelta tra allungare i tempi dell’istruttoria, con il coinvolgimento della parte, ovvero addivenire al diniego allo stato degli atti, avendo esso ad oggetto non la V.I.A., ma la mera possibilità di pretermetterla (2).    Nella fase della verifica di assoggettabilità a V.I.A. di un progetto (c.d. screening), non è dovuto l’invio del preavviso di rigetto ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 giusta l’assoluta specialità del procedimento de quo, che resta un - eventuale - passaggio intermedio verso la V.I.A. completa, al cui interno verranno recuperate tutte le necessarie istanze partecipative, e gli apporti contributivi che la parte vorrà addurre, in quanto essa sì risolvibile in un atto di diniego (3).     (1) Ha chiarito la Sezione che la V.I.A. infatti non costituisce un subprocedimento all’interno della V.I.A., in quanto solo in caso di esito negativo è destinata a sfociare nella stessa, di cui costituisce pertanto una fase preliminare eventuale solo in senso cronologico, stante che è realizzata preventivamente, esclusivamente con riguardo a determinate tipologie di progetto rispetto alle quali alla valutazione vera e propria si arriva in via eventuale, in base cioè proprio all’esito in tal senso della verifica di assoggettabilità. A ciò consegue una sostanziale sommarietà della delibazione, che deve essere ispirata a più rigorose esigenze di cautela: in pratica, la soglia di negatività ed incisività dell’impatto può paradossalmente essere ritenuta travalicata con margini più ampi in sede di delibazione preliminare, proprio perché di per sé essa non è preclusiva degli esiti della successiva V.I.A., ove si collocano ontologicamente i necessari approfondimenti. La scelta di sottoposizione a V.I.A., dunque, ben può essere di cautela, purché adeguatamente motivata in relazione a fattori di oggettiva pericolosità rivenienti dagli indici di cui all’Allegato V al Codice ambientale, ciò implicando solo il rinvio ad un più approfondito scrutinio della progettualità proposta, che dalle ragioni dello stesso non risulta comunque in alcun modo condizionato.   Ha aggiunto la Sezione che il procedimento di screening non si conclude mai con un diniego di V.I.A., bensì con un giudizio di necessità di sostanziale approfondimento. Il rapporto tra i due procedimenti appare pertanto configurabile graficamente in termini di cerchi concentrici caratterizzati da un nucleo comune rappresentato dalla valutazione della progettualità proposta in termini di negativa incidenza sull’ambiente, nel primo caso in via sommaria e, appunto, preliminare, nel secondo in via definitiva, con conseguente formalizzazione del provvedimento di avallo o meno della stessa. La “verifica di assoggettabilità”, come positivamente normata, anticipa sostanzialmente la valutazione di impatto, delibandone l’opportunità, sulla base della ritenuta sussistenza prima facie dei relativi presupposti, «con la conseguenza che l’attività economica, libera sulla base della nostra Costituzione, non possa che svolgersi nel pieno rispetto delle normative di tutela ambientale» (Tar Abruzzo 18 febbraio 2013, n. 158; Tar Sardegna, sez. II, 30 marzo 2010, n. 412; Tar Friuli Venezia Giulia  9 aprile 2013, n. 233). Disquisire circa la necessità di esplicitare il grado di verificabilità del nocumento ambientale in termini possibilistici, piuttosto che probabilistici, equivale ad introdurre limitazioni alla discrezionalità amministrativa non desumibili dalla norma che lo prevede: deve trattarsi di un giudizio di prognosi, intrinseco alla sua effettuazione preventiva, in forza del quale laddove per fattori obiettivamente esternati si ipotizzi la lesività dell’intervento, appare corretto cautelarsi - rectius, più propriamente, cautelare la collettività e quindi, in senso più ampio, l’ambiente - non impedendone la realizzazione, ma semplicemente imponendo l’approfondimento dei suoi esiti finali.    (2) Ha chiarito la Sezione che i criteri cui l’Autorità competente deve attenersi nella valutazione di screening sono indicizzati al § 8, nell’allegato V al d.lgs. n. 152/2006, cui l’art. 20 fa espresso richiamo, unitamente alle osservazioni che chiunque vi abbia interesse abbia fatto pervenire dopo la pubblicazione della progettualità. Mancano indicatori obiettivi sia della negatività, sia del livello di incidenza della stessa sull’ambiente, essendo rimesso alla più ampia discrezionalità del valutatore il giudizio finale circa la potenziale lesività per il contesto di ciascuna progettualità, ex se ovvero in relazione allo stesso. L’ampia discrezionalità che connota la relativa valutazione è riferita anche alla scelta che l’autorità competente ha di richiedere, per una sola volta, integrazioni documentali o chiarimenti al proponente, dato che l’art. 19, d.lgs. n. 152 del 2006 la facoltizza espressamente, ma non la impone.     (3) Ad avviso della Sezione la particolare natura del procedimento di screening, che non costituisce un vero e proprio diniego, ma solo la decisione di sottoporre a procedimento di valutazione un determinato progetto (Tar Catanzaro, sez. I, 30 marzo 2017, n. 536; Tar Bari, sez. I, 10 luglio 2012, n. 1394), giustifica l’omesso invio del preavviso di diniego ex art. 10 bis, l. n. 241 del 1990. Consentire, infatti, di fornire apporti e chiarimenti di carattere anche tecnico al solo scopo di scongiurare più approfondite verifiche a tutela dell’ambiente, oltre ad appesantire inutilmente il procedimento, finirebbe per comprometterne la natura sommaria che necessariamente ne connota il giudizio, comunque non preclusivo degli esiti finali.
Ambiente
Edilizia – Sanatoria – Istanza – Opere connesse - Coesistenza nella stessa area di altre opere abusive non incluse nell’istanza di sanatoria - Opere collegate funzionalmente a quelle oggetto di istanza di sanatoria – Conseguenza – Estensione della verifica a tutte le opere.   Edilizia – Abusi – Abitazione trifamiliare – Realizzazione di un numero di manufatti singoli superiore – E’ abuso.            La valutazione della sanabilità delle opere incluse in una istanza presentata ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, nel caso in cui nella stessa area di pertinenza coesistano altre opere abusive non considerate dall’interessato nella predetta istanza, ma pur sempre funzionalmente collegate alle prime, come avviene nel caso in cui tutte le opere costituiscono manufatti funzionalmente legati all’esercizio di una attività imprenditoriale, non può non includere la verifica circa la sanabilità delle altre opere edilizie abusivamente realizzate, atteso che lo scrutinio sulla “doppia conformità” non può che essere complessivo (1).           Qualora le Norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico ammettano, per una determinata zona, interventi di ampliamento solamente con riguardo alle tipologie “unifamiliare, bifamiliare o trifamiliare o, in alternativa, la tipologia a blocco con un massimo di tre alloggi”, nella parte in cui richiama la nozione tecnica di tipo edilizio bi-tri familiare, prende in esame manufatti appartenente alla classe tipologica di casa binata, caratterizzati dalla presenza di due alloggi; è pertanto legittimo il diniego di sanatoria di diniego di sanatoria con la realizzazione di alloggi (venti) superiore all’abitazione trifamiliare consentita (unitamente a quella unifamiliare e bifamiliare) dalle Norme tecniche di attuazione (2).   (1) Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2019, n. 843.  Ha chiarito la Sezione che qualora venga chiesto il rilascio di un permesso di costruire riferito soltanto a talune delle opere realizzate e l’Amministrazione riscontri l’esistenza di altre opere abusive, non scomponibili in progetti scindibili, ma funzionalmente connesse al perseguimento di uno scopo unitario, l’ente procedente non può accogliere una domanda riguardante singole opere, dovendo aversi riguardo al complessivo intervento all’uopo realizzato.   Nella specie, legittimamente l’Amministrazione ha ritenuto impossibile l’accoglimento di un’istanza di sanatoria riferita a singole parti di un intervento considerato unitario: l’istante, infatti, aveva chiesto la sanatoria dei muretti all’interno dei poggioli e dei muretti divisori preordinati alla realizzazione nel piano interrato di autorimesse, senza, pertanto, comprendere nella propria domanda di accertamento di conformità, altresì, avuto riguardo ai piani terra, primo e sottotetto, i punti di allacciamento alla rete distribuzione del gas, rete elettrica e agli scarichi acque nere realizzati per consentire il collegamento/allacciamenti di numeri 18 blocchi cucina composti da frigorifero, cucina a gas e lavello in locali autorizzati con la destinazione specifica a “disbrigo” – “camera” –“stireria – guardaroba” – “camera osp   (2) Ad avviso della Sezione tale ricostruzione esegetica risulta coerente con la ratio sottesa alla disposizione urbanistica, volta a conformare l’uso del territorio, prevedendo per la zona in esame un’edilizia a bassa densità abitativa. Tenuto conto che il numero di alloggi influisce sul carico urbanistico dell’area, risultando correlato alla presenza di nuclei familiari, uno per ciascuno alloggio, al fine di garantire un’edilizia a bassa densità abitativa, il Comune, nell’esercizio del proprio potere pianificatorio, ha previsto in ogni caso, prescindendo dal tipo edilizio concretamente progettato, il numero massimo di tre alloggi. Pertanto, avuto riguardo al tipo “casa isolata” o “casa binata”, il numero massimo di alloggi è stato assicurato mediante la destinazione familiare del manufatto, risultando ammesse soltanto le case unifamiliari, bifamiliari o trifamiliari e, quindi, i soli edifici composti rispettivamente da uno, due o tre alloggi; parimenti, anche per il tipo edilizio a blocco, non può superarsi il numero di tre alloggi. Risulterebbe, quindi, irragionevole una diversa interpretazione, tesa a limitare il numero di alloggi assentibili soltanto per la tipologia a blocco, tenuto conto che l’esigenza di limitare la densità abitativa si pone anche per la tipologia di casa isolata, in relazione alla quale, pertanto, occorre imporre parimenti un numero massimo di alloggi assentibili. Risulta, in conclusione, corretta l’interpretazione delle Norme tecniche di attuazione sottesa al diniego di sanatoria, tenuto conto che la configurazione di una trasformazione tipologica dell’edificio, con la realizzazione, attraverso un insieme sistematico di opere, di un numero di alloggi superiore a tre (venti) si poneva in contrasto con dette Norme.
Edilizia
Processo amministrativo – sospensione del giudizio – impugnazione interdittiva antimafia – ammissione al controllo giudiziario - rimessione all’Adunanza plenaria.     Va rimesso all’Adunanza plenaria il seguente quesito: se l’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario, ai sensi dell’art. 34 bis, comma 6, del codice n. 159 del 2011, comporta che il giudice amministrativo – nel corso del giudizio di primo grado o di quello d’appello avente per oggetto la presupposta interdittiva antimafia – debba sospendere il giudizio, ai sensi dell’art. 79, comma 1, c.p.a., o debba rinviare l’udienza eventualmente già fissata (1). ​​​​​​​1. Ha osservato il Collegio che sia l’art. 34 bis che l’art. 94 bis del codice antimafia hanno inteso evitare – per quanto possibile – l’eliminazione dal mercato delle imprese, in presenza dei relativi presupposti. Anche per le relative implicazioni sistematiche, ad avviso del Collegio si potrebbe constatare come il legislatore – nel propendere per la più ampia applicazione degli strumenti di conservazione e di ‘bonifica’ delle imprese – non ha subordinato la prosecuzione del controllo giudiziario alla pendenza di un giudizio amministrativo. Infine, proprio l’identità di ratio dei due istituti previsti dagli articoli 34 bis e 94 bis potrebbe essere posta ad ulteriore supporto, per la quale – all’esito del positivo controllo giudiziario – sussiste l’obbligo del Prefetto di provvedere sulla conseguente istanza di riesame dell’impresa. L’obbligo di provvedere del Prefetto – anche quanto al contenuto dell’atto - è stato espressamente previsto dall’art. 94 bis, comma 4, nel caso di favorevole esito della prevenzione collaborativa, ma per identità di ratio si può affermare che analogo obbligo sussista nel caso di esito positivo del controllo giudiziario: anche sotto tale profilo, si potrebbe considerare irrilevante – per l’esito positivo del controllo e per il conseguente obbligo del Prefetto di provvedere – la circostanza che nel frattempo sia stato respinto (o dichiarato tardivo o inammissibile) il ricorso proposto contro l’interdittiva.
Processo amministrativo
Atto amministrativo – Discrezionalità – Discrezionalità tecnica - A differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. «discrezionalità amministrativa») ‒ dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ‘ragionevole’ ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme ‒ le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. «discrezionalità tecnica») vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della ‘attendibilità’ tecnico-scientifica (1). Atto amministrativo – Discrezionalità – Discrezionalità tecnica - Giustizia amministrativa – Sindacato del giudice amministrativo In alcune ipotesi normative, il fatto complesso viene preso in considerazione nella dimensione oggettiva di fatto ‘storico’: qui gli elementi descrittivi della fattispecie, anche quelli valutativi e complessi, vanno accertati in via diretta dal giudice amministrativo, in quanto la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati costituisce una attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa (come avviene, ad esempio, nel caso delle sanzioni amministrative punitive dove, in virtù del principio di stretta legalità, spetta al giudice estrapolare la norma ‘incriminatrice’ dalla disposizione). In altre ipotesi, invece, la fattispecie normativa considera gli elementi che rinviano a nozioni scientifiche e tecniche controvertibili o non scientificamente verificabili, non come fatto ‘storico’ (nel senso sopra precisato), bensì come fatto ‘mediato’ dalla valutazione casistica e concreta delegata all’Amministrazione. In quest’ultimo caso, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a ‘definire’ la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni ‘riservate’ alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale. (2) Atto amministrativo – Discrezionalità – Discrezionalità tecnica - Giustizia amministrativa – Sindacato del giudice amministrativo Quando difettano parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non ‘deduce’ ma ‘valuta’ se la decisione pubblica rientri o meno nella (ristretta) gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato ‒ oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica e gli indici di eccesso di potere ‒ contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato (3). (2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2022, n. 3570; Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990. (3) Precedenti difformi: nel senso che sono inammissibili le censure che sollecitano il giudice amministrativo a sostituirsi alle valutazioni tecniche ampiamente discrezionali riservate all’’autorità preposta alla tutela del paesaggio, non venendo in rilievo alcuno dei tassativi casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. e in difetto di travisamenti di fatto tali da rendere oggettivamente inattendibili gli esiti del procedimento relativo al rilascio della autorizzazione: Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2022, n. 2697 (fattispecie relativa alla impugnativa del rilascio di una autorizzazione paesaggistica); Cons. Stato, sez. IV, 27 gennaio 2022 n. 563 e 11 gennaio 2022 n. 181 (fattispecie relative al diniego del rilascio di autorizzazione paesaggistica)
Atto amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Cause di esclusione nulle – Appalto servizi refezione scolastica - Disponibilità di un centro di cottura – Attiene ai livelli minimi di capacità tecnica – Non è nulla.             Nell’appalto avente ad oggetto il servizio di refezione scolastica la clausola della lex specialis di gara, che richiede la disponibilità di un centro di cottura, non introduce una causa di esclusione non prevista per legge, e quindi nulla ai sensi dell’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, e ciò in quanto, attenendo al servizio di fornitura dei pasti, per l’oggetto della procedura di gara di refezione scolastica può senz’altro ritenersi riguardanti i livelli minimi di capacità tecnica (1).       (1) La sentenza ha pronunciato sul gravamene proposto da un concorrente ad una gara pubblica avente ad oggetto il servizio di refezione scolastica avverso la propria esclusione, disposta a seguito dell’accertamento della non corrispondenza al vero delle dichiarazioni rese circa l’idoneità dei locali allo svolgimento del servizio sulla scorta della Scia commerciale allegata all’offerta tecnica. Sostiene la nullità delle clausole della lex specialis di gara relative alla “disponibilità del centro di cottura” al momento della presentazione dell’offerta, in quanto distorsive della concorrenza.  Ha chiarito la Sezione che il divieto di porre cause di esclusione non previste per legge, a pena di nullità della clausola, è previsto dall’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016. Le cause di esclusione nulle sono quelle che contengono “ulteriori prescrizioni” rispetto a quelle che le stazioni appaltanti indicano sulle “condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità” e su cui effettuano “la verifica formale sostanziale delle capacità realizzative, delle competenze tecniche professionali”.  Trattandosi, nel caso all’esame del Tar, di procedura di gara avente ad oggetto il servizio di refezione scolastica, dirimente risulta allora la considerazione relativa alle clausole in contestazione, al fine di stabilire se possano annoverarsi tra “le condizioni di partecipazione” in quanto espressione dei “livelli minimi di capacità”, utili a consentire la verifica delle “capacità realizzative” e delle “competenze tecniche professionali”, in quanto solo le prescrizioni che risultano “ulteriori” rispetto a quelle appena specificate, sono nulle ai sensi del menzionato art. 83, comma 8.  Ad avviso della Sezione le previsioni relative alla disponibilità del centro di cottura debbono ritenersi attinenti ai livelli minimi di capacità e, dunque, rientranti tra le condizioni di partecipazione e non tra le “ulteriori prescrizioni” per le quali è prevista la nullità ai sensi dell’art. 83, comma 8, ultima parte, d.lgs. n. 50 del 2016. Le clausole in contestazione, infatti, attengono il servizio di fornitura dei pasti, che, per l’oggetto della procedura di gara di refezione scolastica, possono senz’altro ritenersi riguardanti i livelli minimi di capacità tecnica.  Deve, pertanto, escludersi che si tratti di previsioni eccedenti i limiti specificati per le clausole di esclusione a pena di esclusione dall’art. 83, comma 8 del ‘secondo codice’ sugli appalti pubblici.  Ne consegue che le clausole censurate, relative alle previsioni sul centro cottura non risultano violative del più volte menzionato art. 83, comma 8, con la conseguenza che eventuali vizi riferibili a tali clausole escludenti, renderebbero le relative previsioni, non nulle, ma al più annullabili.  Quanto affermato trova conferma anche nella sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 16 ottobre 2020, n. 22, nella quale espressamente si precisa che solo la “clausola escludente - che si ponga in violazione dell’art. 83, comma 8, del ‘secondo codice’ sugli appalti pubblici – non si possa considerare annullabile”. La clausola escludente affetta da nullità, come chiarito dal Supremo Consesso, da considerare come non apposta e quindi disapplicabile, è quella che finisce per integrare un “requisito ulteriore” (i.e. “ulteriori prescrizioni” ai sensi della norma) rispetto a quelli espressamente previsti dagli artt. 80 e 83 del codice dei contratti pubblici.  Conferma di quanto ritenuto dal Collegio si rinviene, sempre nel testo della sentenza, nella parte in cui si è distinta “la discrezionalità, comunque non illimitata né insindacabile, della pubblica amministrazione nel disporre ulteriori limitazioni alla partecipazione, integranti speciali requisiti di capacità economico-finanziaria o tecnica che siano coerenti e proporzionati all’appalto”, in coerenza, dunque, con la previsione dell’art. 83 comma 8 prima parte, dal potere ben diverso che si traduce nella “facoltà, non ammessa dalla legge, di imporre adempimenti che in modo generalizzato ostacolino la partecipazione alla gara” (art. 83, comma 8, ultima parte).  Ebbene, nel caso in esame le previsioni relative al servizio di fornitura dei pasti, ivi comprese quelle sul centro cottura, in nessun modo possono intendersi come “adempimenti che in modo generalizzato ostacolino la partecipazione alla gara”. ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
Edilizia – Permesso di costruire – Decadenza – Per mancata ultimazione dei lavori – Provvedimento comunale – Ha natura meramente ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire.       L’effetto decadenziale del permesso di costruire si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio o della mancata conclusione dei lavori entro i termini fissati dalla legge, giacché la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo; l’eventuale pronuncia di decadenza del permesso di costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che ai sensi dell’art.15, comma 2, secondo periodo, d.P.R. n. 380 del 2001, i termini di inizio e di ultimazione lavori indicati nel permesso di costruire possono essere prorogati, con provvedimento motivato, “per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso”. Il successivo periodo, precisa che “Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga”. Per indirizzo giurisprudenziale consolidato (Cons. Stato, sez. IV, 10 luglio 2017, n. 3371; id. 23 febbraio 2012, n. 974), ​​​​l'effetto decadenziale del permesso di costruire si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio o della mancata conclusione dei lavori entro i termini fissati dalla legge, giacché "la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo" (Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2014, n. 1747; id., sez. III, 4 aprile 2013, n. 1870). Pertanto, l’eventuale pronuncia di decadenza del permesso di costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione. Decadenza che opera di diritto, per la quale non è quindi richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso (Cons. Stato, sez. III, 4 aprile 2013, n. 1870). La medesima giurisprudenza amministrativa, superate iniziali incertezze interpretative, ha stabilito che "il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo abilativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore” (Cons. Stato, sez. IV, n. 974 del 2012; id., sez. III, n. 1870 del 2013). Pertanto, per la proroga del termine finale di conclusione dei lavori di un permesso di costruire è sempre necessario che il titolare presenti una istanza motivata prima della scadenza del termine da prorogare, allegando, e provando, la ricorrenza di un fatto sopravvenuto estraneo alla volontà del richiedente che impedisce il rispetto del termine. ​​​​​​​Su tale istanza, l’Amministrazione comunale deve pronunciarsi con un provvedimento espresso. 
Edilizia
Autorità amministrative indipendenti - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente – Poteri - Ordine di restituzione ai clienti di somme versate per copertura di spese di gestione amministrativa – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue           Sono rimesse alla Corte di Giustizia Ue le questioni se la normativa europea contenuta nella direttiva del Parlamento e del Consiglio 13 luglio 2009, n. 72 – in particolare nell’art. 37, commi 1 e 4, che disciplinano i poteri delle autorità di regolazione e nell’Allegato I – possa essere interpretata nel senso di: a) ricomprendere anche il potere prescrittivo esercitato dall’Autorità di regolazione del mercato elettrico italiano (Arera) nei confronti delle società operanti nel settore elettrico con il quale si impone a dette società di restituire ai clienti, anche cessati e morosi, la somma corrispondente al corrispettivo economico da questi versata a copertura di spese di gestione amministrativa, in adempimento di una clausola contrattuale oggetto di sanzione da parte della stessa Autorità; b) ricomprendere, nell’ambito dell'indennizzo e delle modalità di rimborso applicabili ai clienti del mercato elettrico se i livelli di qualità del servizio stipulati non sono raggiunti dall’operatore del mercato, anche la restituzione di un corrispettivo economico da questi versato, disciplinato espressamente in una clausola del contratto sottoscritto ed accettato, del tutto indipendente dalla qualità del servizio stesso, ma previsto a copertura di costi di gestione amministrativa dell’operatore economico (1).     (1) Ad avviso dell’Autorità assume rilievo preminente la normativa che, in materia di protezione dei consumatori al fine di migliorare e integrare i mercati competitivi dell’energia elettrica, ha previsto compiti e competenze dell’Autorità di regolazione nei servizi liberalizzati, con particolare riferimento all’art. 37 della direttiva 13 luglio 2009 n. 2009/72/CE. Per ciò che concerne il contenuto delle disposizioni nazionali attuative della predetta disciplina europea e rilevanti nel caso di specie, la normativa applicata dall’Autorità fa riferimento al potere prescrittivo di cui all’art. 2, comma 20, lett. d), l. n. 481 del 1995, così come evidenziato nella stessa statuizione recante l’ordine di restituzione in contestazione, secondo cui l’Autorità “d) ordina al soggetto esercente il servizio la cessazione di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, imponendo, ai sensi del comma 12, lettera g), l'obbligo di corrispondere un indennizzo”.  La Sezione ha quindi affermato che la la direttiva 2009/72 mira essenzialmente a creare un mercato interno aperto e competitivo nel settore dell'energia elettrica, che consenta a ogni consumatore la libera scelta dei fornitori e a ogni fornitore la libera fornitura ai propri clienti, a creare parità di condizioni in questo mercato, a garantire la sicurezza dell'approvvigionamento energetico e a combattere il cambiamento climatico. Ai fini del perseguimento di tali obiettivi la stessa direttiva conferisce all'autorità nazionale di regolamentazione ampie prerogative in materia di regolamentazione e di sorveglianza del mercato dell'energia elettrica (Corte di Giustizia Ue, sez. V, 11 giugno 2020, n. 378).  Con particolare riferimento alla norma in questione, è stato evidenziato che l'art. 37 della direttiva 2009/72/CE non impone agli Stati membri di conferire necessariamente all'autorità di regolamentazione del mercato dell'energia elettrica anche la competenza a dirimere le controversie tra i clienti civili e i gestori di sistemi di trasmissione o di distribuzione dell'energia. In base alla direttiva, gli Stati membri possono attribuire la competenza in materia di risoluzione extragiudiziale delle controversie tra i clienti e le imprese elettriche anche ad un'autorità diversa dall'autorità di regolamentazione, a condizione che essa sia indipendente ed eserciti tale competenza predisponendo procedure rapide, efficaci, trasparenti, semplici e poco onerose per il trattamento dei reclami, che consentano un'equa e rapida soluzione delle controversie (Corte di Giustizia Ue, sez. V, 23 gennaio 2020, n. 578).  Nella prospettazione di parte appellante, la normativa interna applicata, laddove intesa come legittimante l’ordine di restituzione di somme oggetto di rapporti contrattuali privatistici, si pone in contrasto con la normativa europea, che esclude una tale estensione del potere autoritativo affidato all’autorità di regolazione. 
Autorità amministrative indipendenti
Covid-19 – Scuola – Didattica a distanza – D.P.C.M. 2 marzo 2021 – Obbligo generalizzato di uso della mascherina per gli studenti di età inferiore tra i 6 e i 12 anni – Non va sospeso.               Non va sospeso, in via monocratica, il d.P.C.M. 2 marzo 2021, che ha previsto l’obbligo generalizzato dell’uso della mascherina per gli scolari di età compresa tra i 6 e i 12 anni, essendo tale disposizione, che ha cessato di avere efficacia dal 6 aprile 2021, ora introdotta con norma di rango primario (1).    (1) Ha ricordato il decreto che il d.P.C.M. 2 marzo 2021 ha cessato di avere efficacia in data 6 aprile 2021 e che l’art. 1, comma 1, d.l. 1 aprile 2021, n. 44 ha tuttavia stabilito che “dal 7 aprile al 30 aprile 2021, si applicano le misure di cui al provvedimento adottato in data 2 marzo 2021, in attuazione dell'art. 2, comma 1, d.l. 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, salvo quanto diversamente disposto dal presente decreto”;  Tale obbligo risulta dunque disposto da fonte di rango legislativo con le conseguenti possibili refluenze in ordine alla procedibilità del ricorso cautelare che potranno essere valutate in sede collegiale.
Covid-19
Contributi e finanziamenti – Ricerca - Progetti di ricerca e formazione nel Distretto Veneto delle Nanotecnologie – Revoca - Violazioni degli obblighi derivanti dalla convenzione di finanziamento – Illegittimità.              Sono illegittime le revoche del finanziamento, disposte nel 2015 dalla Regione Veneto, di circa 10 milioni di euro che del 2004 in poi la Regione stessa aveva attribuito al Consorzio Civen (il Coordinamento interuniversitario Veneto per le nanotecnologie) tra le Università di Padova, di Verona, Ca' Foscari Venezia e IUAV di Venezia per progetti di ricerca e formazione nel Distretto Veneto delle Nanotecnologie, essendo le violazioni degli obblighi derivanti dalla convenzione di finanziamento non così gravi da giustificare detta misura (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che è vero che il Civen ha violato diversi obblighi che gli derivavano dalla convenzione di finanziamento, a partire dai tempi di rendicontazione, però, per quanto censurabili e se del caso fonte di responsabilità in sede propria, queste violazioni nel loro complesso non sono di proporzione tale da giustificare la revoca di un finanziamento di tanta importanza e interesse pubblico per la ricerca e l’economia venete.   Ha ricordato la Sezione che l’art. 13 della Convenzione attribuiva alla Regione la facoltà di disporre penalità fino alla revoca parziale o totale del contributo, da graduare in relazione alla gravità delle irregolarità riscontrate. La revoca non era, quindi, automatica; ma richiedeva una ponderata valutazione dell’amministrazione regionale, che avrebbe potuto anche determinarsi nel disporre una mera penalità, o una revoca parziale, o in ultima ipotesi nessuna conseguenza, in relazione alla tipologia, al livello e alla qualità degli inadempimenti riscontrati.  Ciò risponde, del resto, ai cennati principi generali in tema di inadempimento contrattuale che ricevono di certo applicazione nel caso di specie. Invero, in seguito alla stipula della Convenzione relativa alla regolamentazione della realizzazione dei progetti di ricerca e formazione nell’ambito del primo distretto tecnologico italiano sulle nanotecnologie applicate ai materiali, le parti hanno assunto l’attuazione del perseguimento di uno scopo comune in posizione di reciproca parità, funzionale allo sviluppo economico regionale per quanto concerne in particolare ricerca e formazione, in vista degli investimenti, che vanno a riguardare in primis l’economia regionale, nel settore delle nanotecnologie (cfr. art. 7 della convenzione).  Dalla configurazione che sopra qui si è descritta, consegue che solo un motivato e proporzionato apprezzamento, da parte dell’amministrazione regionale dei fatti di inadempimento rilevati rispetto agli obiettivi comuni prefissati può essere tale da conferire un, adeguato e ragionevole, giusto titolo alla grave misura della revoca totale del contributo, come in genere è principio per ogni recesso della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2020, n. 1837): il che postula dunque un’attenta e globale ponderazione da parte dell’amministrazione regionale.  Invero, qui ci si trova di fronte all’impugnazione di una revoca di un finanziamento regionale che riflette l’apprezzamento regionale del venir meno delle altre parti della convenzione che accede al finanziamento a obblighi a quella funzionali: obblighi peraltro nascenti dal fatto stesso della concessione del finanziamento.   Sicché è fatale che, per valutare la ragionevolezza – e dunque la legittimità - dell’impugnata revoca, si faccia riferimento alla rilevanza delle mancanze rispetto a quanto nascente dal finanziamento e dalla stessa convenzione e, con riguardo all’intero rapporto, al principio di proporzionalità: principio generale dell’ordinamento, valevole sia per i rapporti amministrativi che per quelli convenzionali e che nei profili pattizi si esprime all’art. 1455 (Importanza dell’inadempimento) cod. civ.; per il quale principio il contratto (e, analogamente, ogni rapporto a disciplina convenzionale) non può essere risolto se l'inadempimento ha scarsa importanza in relazione all'interesse dell'altra parte. Si tratta di un principio che è a sua volta riflesso della regola generale della buona fede.  Il venir meno per revoca di un tale rapporto amministrativo (da prendere in considerazione in relazione ai prefissati obiettivi comuni di indirizzo regionale e universitario: dal che la pregnante sua dimensione pubblicistica) si potrebbe giustificare, infatti, solo se, a causa dei concreti fatti rilevati, il programma sia stato posto in condizione di non poter più, oggettivamente, assicurare il soddisfacimento degli interessi comuni, di natura pubblica specialmente per la Regione erogante. In un tal caso infatti si disarticola irreparabilmente l’equilibrio stabilito tra risorse regionali messe a disposizione comune degli enti di ricerca, la loro attività comune di ricerca e formazione e gli obiettivi generali di politica industriale regionale, in vista dei quali il finanziamento fu a suo tempo figurato e concesso a enti di ricerca sì localizzati in Veneto, ma di primo rango nazionale; e in ragione di che le prestazioni dovute sono state collegate da una naturale interdipendenza funzionale.   Un tale rapporto, secondo l’indirizzo dominante, va apprezzato in chiave oggettiva, cioè in modo funzionale alle prestazioni regolate con la convenzione (e non soggettiva, con riferimento alla mera volontà delle parti): ma sempre, e soprattutto, in ragione degli obiettivi di interesse pubblico che avevano giustificato la sua erogazione. ​​​​​​​
Contributi e finanziamenti
Contratti della Pubblica amministrazione - Subappalto – Qualificazione - Qualificazione obbligatoria in una o più categorie scorporabili – Requisito mancante – Integrazione - Ricorso a più imprese subappaltatrici – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue     É rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se gli artt. 63 e 71 della direttiva 2014/24 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, unitamente ai principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ostino ad una interpretazione della normativa nazionale italiana in materia di subappalto necessario secondo la quale il concorrente sprovvisto della qualificazione obbligatoria in una o più categorie scorporabili non può integrare il requisito mancante facendo ricorso a più imprese subappaltatrici, ovvero cumulando gli importi per i quali queste ultime risultano qualificate (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi sugli artt. 47 e 48 della previgente direttiva 2004/18/CE (per gli aspetti e le disposizioni che qui rilevano non contraddetta dalla successiva direttiva 2014/24/UE,) ha ripetutamente affermato: (i) il diritto di ciascun operatore di fare affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di altri soggetti, “a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi”, purché si dimostri all’amministrazione aggiudicatrice l’effettiva disponibilità dei mezzi necessari per eseguire l’appalto (cfr. CGUE, 10 ottobre 2013, C 94/12, punti 29 - 35; CGUE, 14 gennaio 2016, C-234/14, punti 23 e 28; CGUE, 14 luglio 2016, C 406/14, punto 33); (ii) la libertà dell’offerente di “..scegliere, da una parte, la natura giuridica dei legami che intende allacciare con gli altri soggetti sulle cui capacità egli fa affidamento ai fini dell'esecuzione di un determinato appalto e, dall'altra, le modalità di prova dell'esistenza di tali legami” (CGUE, 14 gennaio 2016, C-234/14, punto 28); (iii) il generale principio di frazionabilità dei requisiti di partecipazione tra più imprese, suscettibile di deroga soltanto in presenza di comprovate circostanze eccezionali, ossia: “lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si può ottenere associando capacità inferiori di più operatori” e per i quali il livello minimo di capacità deve essere raggiunto da un operatore economico unico o, eventualmente, da un numero limitato di operatori economici (cfr. CGUE, 10 ottobre 2013, C 94/12; CGUE, 14 luglio 2016, C 406/14). Ancora più in dettaglio, la Corte di Giustizia: -- nella sentenza C 94/12 (punto 31), per suffragare la portata generale del diritto dei concorrenti di fare affidamento sulle capacità di più operatori, ha rinviato alle norme sul subappalto, statuendo: “nel medesimo senso, l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva in parola autorizza i raggruppamenti di operatori economici a partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici senza prevedere limitazioni relative al cumulo di capacità, così come l’articolo 25 della stessa direttiva considera il ricorso a subappaltatori senza indicare limitazioni in proposito”; -- nella sentenza C 406/14 (punto 33), resa in materia di subappalto, in maniera ancor più incisiva la Corte ha affermato che “l’articolo 48, paragrafo 3, di tale direttiva (n. 2004/18, n.d.r.) – prevedendo la facoltà per gli offerenti di provare che, facendo affidamento sulle capacità di soggetti terzi, essi soddisfano i livelli minimi di capacità tecniche e professionali stabiliti dall’amministrazione aggiudicatrice, a condizione di dimostrare che, qualora l’appalto venga loro aggiudicato, disporranno effettivamente delle risorse necessarie per la sua esecuzione, risorse che non appartengono loro personalmente – sancisce la possibilità per gli offerenti di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, e ciò, in linea di principio, in modo illimitato”; -- nella sentenza C 234/14 (punto 28), anche questa resa in materia di subappalto, la Corte ha ulteriormente precisato che “l'offerente rimane libero di scegliere, da una parte, la natura giuridica dei legami che intende allacciare con gli altri soggetti sulle cui capacità egli fa affidamento ai fini dell'esecuzione di un determinato appalto e, dall'altra, le modalità di prova dell'esistenza di tali legami”. L’interpretazione di cui si è dato conto, per espressa affermazione della Corte di Giustizia, risponde all’obiettivo dell’apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, a vantaggio non soltanto degli operatori economici stabiliti negli Stati membri, ed in particolare delle piccole e medie imprese, ma anche delle stesse amministrazioni aggiudicatrici. Si tratta di obiettivi propri della direttiva 2004/18/CE e rafforzati dalla direttiva 2014/24/UE (v. considerando 1, 41, 78, 100 e 105 della direttiva 2014/24). Il fatto che essi siano stati ribaditi dalla Corte di Giustizia con riferimento a fattispecie riguardanti sia l’istituto dell’avvalimento che quello del subappalto, comprova che le pur obiettive differenze strutturali che intercorrono tra i due istituti (l’avvalimento rileva nella fase di implementazione dei requisiti di partecipazione ad una gara; il subappalto, posto "a valle" del contratto di appalto, attiene alla sua esecuzione) non elidono la loro comune connotazione quali moduli organizzativi alternativamente idonei a garantire l'ampliamento della possibilità di partecipazione alle gare anche a soggetti in apice sforniti dei requisiti di partecipazione (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2675/2014 e n. 1224/2014; CGUE, 5 aprile 2017, C-298/15, punti 47 e ss.; CGUE, 14 gennaio 2016, C-234/14, punto 28; CGUE, 10 ottobre 2013, C 94/12, punto 31). La Corte di Giustizia riconosce che il ricorso al subappalto, favorendo l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce, al pari dell’avvalimento, a realizzare l’obiettivo di rendere la concorrenza la più ampia possibile (CGUE, 26 settembre 2019, C-63/18, punto 27 e CGUE, 27 novembre 2019, C-402/18, punto 39).  Il confronto con l’istituto dell’avvalimento offre l’occasione, da un lato, per illustrare le possibili obiezioni all’estensione anche al subappalto del principio del frazionamento dei requisiti; e, dall’altro, per accennare alle ragioni che hanno alimentato la linea prudenziale storicamente adottata dal legislatore italiano nel dare ingresso al subappalto nel sistema degli appalti pubblici. Sotto questo secondo aspetto rileva il fatto che il subappalto, confinato alla fase esecutiva dell’appalto e sottratto ai controlli amministrativi aventi sede nella procedura di gara: (i) si presta ad una possibile sostanziale elusione dei principi di aggiudicazione mediante gara e di incedibilità del contratto; (ii) costituisce un mezzo di possibile infiltrazione negli pubblici appalti della criminalità organizzata, la quale può sfruttare a suo vantaggio l’assenza di verifiche preliminari sull’identità dei subappaltatori proposti e sui requisiti di qualificazione generale e speciale di cui agli artt. 80 e 83, d.lgs. n. 50 del 2016; (iii) conosce una prassi applicativa talora problematica, poiché la tendenza dell’appaltatore a ricavare il suo maggior lucro sulla parte del contratto affidata al subappaltatore (tendenzialmente estranea ad ingerenze della stazione appaltante) produce riflessi negativi sulla corretta esecuzione dell’appalto, sulla qualità delle prestazioni rese e sul rispetto della normativa imperativa in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro. Da questa serie di limiti disfunzionali (segnalati nei pareri n. 855/2016 e n. 782/2017 resi da questo Consiglio, rispettivamente, sul progetto di nuovo Codice dei contratti pubblici e sul decreto legislativo di correttivo al Codice) hanno tratto spunto le opzioni restrittive inserite nel vigente codice degli appalti, di recente e sotto diversi profili censurate dalla Corte di Giustizia (CGUE 26 settembre 2019, C-63/18; CGUE, 27 novembre 2019, C-402/18). Il rischio al quale il subappalto sembra esporre l’integrità dei contratti pubblici e la loro immunità da infiltrazioni della criminalità è peraltro accresciuto da una reiterata impostazione normativa che, pur onerando il concorrente in gara della indicazione generalizzata, sin nell'atto dell'offerta, dei lavori o delle parti di opere che egli intende subappaltare (art. 105, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016), per il resto circoscrive a più limitate ipotesi l’obbligo di indicazione, già in sede di formulazione dell’offerta, del nominativo delle imprese subappaltatrici (art. 105, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016) Le riportate ragioni di cautela (tutte presenti all’attenzione del legislatore comunitario, come chiaramente evincibile dalla lettura del considerando n. 105 della Dir. 2014/24/UE) rilevano in modo particolare nel caso del subappalto “necessario” proprio perché, mentre nell’ipotesi ordinaria del subappalto “facoltativo” l'appaltatore già possiede in proprio tutti i requisiti necessari per l'esecuzione dell'appalto, pur scegliendo, sulla base di una valutazione discrezionale e di mera opportunità economica, di subappaltare talune prestazioni ad un'altra impresa; viceversa, nel caso del subappalto “necessario” l'appaltatore difetta dei requisiti necessari per realizzare una o più prestazioni dell'appalto, motivo per cui è egli obbligato a subappaltarle ad un'impresa in possesso di quegli stessi requisiti. In virtù di tale elemento caratterizzante, l’istituto in esame presenta evidenti similitudini con l'avvalimento. Un significativo tratto differenziale permane, tuttavia, in relazione al fatto che il subappaltatore esegue in proprio le opere affidategli, rispondendone esclusivamente nei confronti dell’impresa subappaltante, unica responsabile nei confronti della stazione appaltante; al contrario, nell’avvalimento l’ausiliario non è esecutore dell’opera (se non nei limiti fissati dall’art. 89, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016) e, tuttavia, consentendo al concorrente di integrare i requisiti mancanti necessari per la partecipazione alla gara, egli diviene parte sostanziale del contratto di appalto, assumendone insieme al concorrente principale la responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante (art. 89, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016). Dunque, divergenze significative tra i due istituti (avvalimento e subappalto) si riscontrano in ordine al regime di responsabilità dell’impresa ausiliaria ed al suo ruolo nella esecuzione dell’appalto. Le stesse si attenuano, come si è visto, nel caso del subappalto “necessario” soggetto all’obbligo della contestuale indicazione in sede di gara sia delle attività per le quali si intende ricorrere al subappalto, sia del nominativo dei subappaltatori e dei relativi requisiti (ai sensi art. 105 comma 6 del d.lgs. n. 50 del 2016), tanto da giustificarne la denominazione di "avvalimento sostanziale". Si è già visto, infatti, che nel caso degli appalti sopra-soglia l’indicazione della terna dei subappaltatori è obbligatoria sin dalla formulazione dell’offerta (art. 105 comma 6 del d.lgs. n. 50 del 2016), sicché la stazione appaltante ha modo di poter esperire in fase di gara i necessari controlli circa il possesso delle capacità tecnico - professionali e l’insussistenza delle cause di esclusione (artt. 80 e 83 e ss., d.lgs. n. 50 del 2016). E’ lecito chiedersi, a questo punto, se le residuali differenze che pure in questa specifica ipotesi permangono tra i due istituti giustifichino un’impostazione divergente anche con riguardo alla possibilità di frazionamento dei requisiti tra più imprese ausiliarie. Detta facoltà - non espressamente contemplata in materia di subappalto - è invece prevista dal vigente codice degli appalti in materia di avvalimento, in quanto l’attuale art. 89, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016, in linea con gli indirizzi espressi in tema dalla Corte di Giustizia, ammette “l’avvalimento di più imprese ausiliarie”. Come già ricordato, tanto le più risalenti direttive, quanto quelle più attuali, non prevedono l’imposizione di limitazioni aprioristiche ed astratte al subappalto e ne sottolineano la funzione “positiva”, ricollegandolo ai già richiamati principi di parità di trattamento e non discriminazione nei confronti degli operatori economici, oltre che ai principi di libertà di stabilimento, libera circolazione delle merci e dei capitali, concorrenza e proporzionalità. A questa impostazione, la Dir. 2014/24/UE ha aggiunto indicazioni di maggior dettaglio, riconoscendo agli Stati membri la possibilità di ampliare i poteri di verifica e di controllo della stazione appaltante sui requisiti dei subappaltatori; e di rendere il subappaltatore direttamente responsabile verso la stazione appaltante, riconoscendogli al contempo il diritto ad essere retribuito direttamente da quest’ultima per le prestazioni rese (si vedano i paragrafi III, VI lett. a) e VII dell’art. 71 della Dir. 2014/24/UE). Tali innovative disposizioni (solo in parte recepite dai commi 6 e 13 dell’art. 105, d.lgs. n. 50 del 2016) paiono corrispondere alle finalità di maggiore trasparenza e tutela giuslavoristica che in epoca precedente erano rimaste appannaggio specifico della normativa italiana. In definitiva, la normativa comunitaria ammette la tendenziale completa e incondizionata subappaltabilità delle prestazioni dedotte nel contratto di appalto ed al contempo riconosce il pieno diritto del prestatore privo di determinati requisiti di poter fare ricorso alle capacità di terzi soggetti, ferma restando la speculare esigenza da parte della stazione appaltante di poter valutare la competenza, l’efficienza e l’affidabilità dei subappaltatori. La decisione della Corte di Giustizia 14 luglio 2016,Wroclawl (causa C-406/14), resa in relazione alla Dir. 2004/18, ha giustappunto ritenuto che la possibilità per gli offerenti di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto è in linea di principio illimitata, ma ha anche specificato che, in via di eccezione, “conformemente all’articolo 25, primo comma, della direttiva 2004/18, l’amministrazione aggiudicatrice ha il diritto, per quanto riguarda l’esecuzione di parti essenziali dell’appalto, di vietare il ricorso a subappaltatori quando non sia stata in grado di verificare le loro capacità in occasione della valutazione delle offerte e della selezione dell’aggiudicatario” (punto 33). Al contempo, la decisione del 5 aprile 2017, C-298/15 (punto 55) - nel ribadire la necessità di ancorare proporzionalmente i divieti in materia di subappalto a considerazioni specifiche riferite, di volta in volta, al settore economico interessato dall'appalto di cui trattasi, alla natura dei lavori nonché alle qualifiche dei subappaltatori - ha avversato impostazioni di segno alternativo che dovessero fare ricorso a previsioni limitative di carattere generale e indifferenziato. La Sezione coglie, dunque, nel contenuto delle direttive, come interpretate dalle richiamate pronunce Corte di Giustizia, una latitudine precettiva apparentemente estensibile ad ogni tipologia di rapporto ausiliario che consenta all’operatore in gara di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, “a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi” ed anche nella forma del frazionamento o del “cumulo di capacità”. Osserva anche che, nell’ipotesi del subappalto “necessario” viene a realizzarsi la possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di accertare la disponibilità (in capo al concorrente ed ai suoi subappaltatori) dei mezzi e dei requisiti necessari alla esecuzione dell’opera; e che, secondo quanto di recente precisato dalla stessa Corte, limitazioni al subappalto, ulteriori rispetto a quelle contemplate nella fonte comunitaria, non possono essere reputate coerenti o proporzionate agli obiettivi delle direttive comunitarie se l’ente aggiudicatore è in grado di verificare le identità e l’idoneità dei subappaltatori interessati e, quindi, è posto nella condizione di scongiurare il rischio di un ingresso opaco e non vigilato di terze imprese nella esecuzione dell’appalto (CGUE, 26 settembre 2019, C-63/18, punti 29 e 41-44; CGUE, 27 novembre 2019, C-402/18, punti 48 e 49). Ancora più in generale, la Sezione rinviene negli orientamenti del giudice comunitario l’indicazione sintetica secondo la quale istituti espansivi della concorrenza (quali sono intesi l’avvalimento e il subappalto) possono tollerare limitazioni proporzionate e occasionali, non quindi generali e astratte, ma di volta in volta calibrate dall’amministrazione aggiudicatrice sulle peculiarità della singola gara ed in ragione degli eventuali fattori (il settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, la natura dei lavori, la tipologie di qualifiche richieste) che in essa concorrono a suggerire l’introduzione di specifiche condizioni restrittive. Appare quindi plausibile concludere che, in applicazione di queste stesse indicazioni ermeneutiche, anche nel caso sin qui delineato (subappalto necessario, implicante l’obbligo di indicazione delle prestazioni da subappaltare e del nominativo dei subappaltatori) debba valere un principio generale di frazionabilità del requisito qualificante, suscettibile di motivata deroga nei casi in cui la stazione appaltante ritenga di individuare casi e limiti ostativi oltre i quali la sicurezza e la qualità dell’opera potrebbero essere messe a rischio dal meccanismo del frazionamento del requisito. In ipotesi siffatte la stessa stazione appaltante potrebbe dunque imporre, nella legge di gara, che il livello minimo della capacità in questione venga raggiunto da un unico operatore economico o, eventualmente, facendo riferimento ad un numero limitato di operatori economici. È quanto avviene nella parallela materia dell’avvalimento, in presenza di determinati requisiti (cd. “di punta”) che si ritiene debbano essere soddisfatti da una singola impresa ausiliaria, in quanto espressione di qualifiche funzionali non frazionabili (v. Cons. Stato, sez. V, n. 678 del  2018). La questione interpretativa pregiudiziale di seguito proposta risulta dirimente ai fini della decisione del ricorso. Invero, qualora dovesse ritenersi che il diritto eurounitario non ammette preclusioni al frazionamento del requisito tra più subappaltatori ovvero tra questi e l’impresa concorrente, il giudizio a quo dovrebbe concludersi con una sentenza favorevole alla parte Rti Research e con la conseguente conferma della sua ammissione in gara. Per contro, nel caso in cui si dovesse accogliere l’opzione contraria, il giudizio dovrebbe concludersi con una sentenza di conferma dell’annullamento dell’atto di ammissione. Al contempo, la pronuncia parziale di questa sezione n. 3573 del 5 giugno 2020 lascia intatte, al momento, le chances di aggiudicazione del contratto in capo alla parte Rti Research, poiché non prefigura un esito vincolato della procedura di gara in favore della controparte Debear.
Contratti della Pubblica amministrazione
Atto amministrativo – Motivazione – Corte dei Conti – Presidente aggiunto In merito alla nomina di Presidente aggiunto della Corte dei conti, i provvedimenti di nomina, in sede di procedura comparativa, non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, in cui vengano analiticamente raffrontati i curricula professionali dei candidati, dovendo il giudizio di comparazione essere complessivo ed evidenziare i profili di prevalenza presi in considerazione in relazione all’obiettivo funzionale perseguito. E’ sufficiente la mera esternazione delle ragioni, in base alle quali il singolo componente ritiene prevalente l’attitudine dell’uno o altro candidato, purché si rendano ostensibili in positivo i titoli attitudinali del candidato ritenuto prevalente, potendo la comparazione tra i candidati risolversi in un giudizio complessivo unitario, frutto della valutazione integrata dei requisiti sopra indicati. (1) Precedenti conformi: T.a.r. per il Lazio, sez. I, n. 5068 del 2017; Cons. di Stato, sez. IV, 3 marzo 2016, n. 875; idem 6 agosto 2014, n. 4206; idem 28 maggio 2012, n. 3157; T.a.r per il Lazio, sez. I quater, 3 ottobre 2016, n. 10017; Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2289.
Atto amministrativo
Covid-19 – Vaccino – Sanitario – Obbligo – Omissione - Sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie – Art. 4, commi 1 e 2, d.l. n. 44 del 2021 – Violazione artt. 3, 4, 32, 33, 34, 97 Cost. – Consenso informato – Art. 1, l. n. 217 del 2019 – Violazione artt. 3 e 21 Cost. - Rilevante e non manifestamente infondato.               E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, d.l. n. 44 del 2021 (convertito in l. n. 76 del 2021), nella parte in cui prevede, da un lato l’obbligo vaccinale per il personale sanitario e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento all’obbligo vaccinale, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie, per contrasto con gli artt. 3, 4, 32, 33, 34, 97 Cost., sotto il profilo che il numero di eventi avversi, la inadeguatezza della farmacovigilanza passiva e attiva, il mancato coinvolgimento dei medici di famiglia nel triage pre-vaccinale e comunque la mancanza nella fase di triage di approfonditi accertamenti e persino di test di positività/negatività al Covid non consentono di ritenere soddisfatta, allo stadio attuale di sviluppo dei vaccini anti-Covid e delle evidenze scientifiche, la condizione, posta dalla Corte costituzionale, di legittimità di un vaccino obbligatorio solo se, tra l’altro, si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze “che appaiano normali e, pertanto, tollerabili”; dell’art. 1, l. n. 217 del 2019, nella parte in cui non prevede l’espressa esclusione dalla sottoscrizione del consenso informato delle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, e dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, nella parte in cui non esclude l’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso di vaccinazione obbligatoria, per contrasto con gli artt. 3 e 21 Cost. (1).    (1) Ha ricordato il C.g.a. che le condizioni dettate dalla Corte in tema di compressione della libertà di autodeterminazione sanitaria dei cittadini in ambito vaccinale si sostanziano nella non nocività dell’inoculazione per il singolo paziente e beneficio per la salute pubblica, ed in particolare che: - il trattamento, <non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato>, ferma restando la tollerabilità di effetti collaterali di modeste entità e durata; sia assicurata <la comunicazione alla persona che vi è assoggettata, o alle persone che sono tenute a prendere decisioni per essa e/o ad assisterla, di adeguate notizie circa i rischi di lesione (…), nonché delle particolari precauzioni, che, sempre allo stato delle conoscenze scientifiche, siano rispettivamente verificabili e adottabili>; la discrezionalità del legislatore sia esercitata alla luce <delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica> e quindi che la scelta vaccinale possa essere rivalutata e riconsiderata, nella prospettiva di valorizzazione della dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario (sentenza n. 5/2018); b) ritenuto che: b.1) seguendo gli indici costituzionali fin qui richiamati, deve ritenersi essenziale, per un verso, che il monitoraggio degli eventi avversi, la raccolta e la valutazione dei dati risultino il più possibile ampi e completi, che avvengano (o siano almeno validati) da parte di organismi indipendenti, ciò che costituisce presupposto essenziale per la stessa verifica dell’ampiezza degli effetti collaterali; per altro verso, che il cittadino riceva informazioni complete e corrette che siano facilmente e liberamente accessibili; e, ancora, che, nel trattamento sanitario obbligatorio, sia rispettato il limite invalicabile imposto “dal rispetto della persona umana” (art. 32, comma 2, Cost.); b.2) per tutte le ragioni sopra diffusamente esposte, (in disparte la controversa adeguatezza del sistema di monitoraggio, prevalentemente imperniato alla farmacovigilanza passiva) che i parametri costituzionali per valutare la legittimità dell’obbligo vaccinale, come fissati dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale, non sembrano rispettati, in quanto non vi è prova di vantaggio certo per la salute individuale e collettiva superiore al danno per i singoli, non vi è prova di totale assenza di rischio o di rischio entro un normale margine di tollerabilità, e non vi è prova che –in carenza di efficacia durevole del vaccino- un numero indeterminato di dosi, peraltro ravvicinate nel tempo, non amplifichi gli effetti collaterali dei farmaci, danneggiando la salute; non sono state adottate “misure di mitigazione” e “misure di precauzione” ad accompagnamento dell’obbligo vaccinale, quali adeguati accertamenti in fase di triage pre-vaccinale, e adeguata farmacovigilanza post vaccinazione, con il rischio che in nome della vaccinazione di massa risulti sbiadita la considerazione della singola persona umana, che andrebbe invece sostenuta e rassicurata, tanto più quanto riluttante alla vaccinazione, con approfondite anamnesi e informazioni, con costi a carico del Servizio sanitario nazionale; b.3) non pare possibile pervenire ad una lettura alternativa, costituzionalmente orientata, della normativa di cui infra; b.4) l’attuale previsione dell’obbligo vaccinale anti SARS-COV-2 presenta profili di criticità, con riferimento alla percentuale di eventi avversi e fatali (ben superiore alla media degli altri vaccini, obbligatori e non), che peraltro allo stato non sembrano oggetto di prevenzione (attraverso un sistematico coinvolgimento dei medici di base e l’esecuzione di test diagnostici pre-vaccinali); b.5) il sistema di raccolta del consenso informato risulta irrazionale laddove richieda una manifestazione di volontà per la quale non vi è spazio in capo a chi subisce la compressione del diritto all’autodeterminazione sanitaria, a fronte di un dovere giuridico ineludibile; b.6) il complesso normativo sopra descritto si pone in tensione, per tutte le motivazioni sopra articolate, con i seguenti articoli della Costituzione: 3 (sotto i parametri di razionalità e proporzionalità); 32 (avuto riguardo alla compressione della libertà di autodeterminazione sanitaria in relazione a trattamenti farmacologici suscettibili di ingenerare effetti avversi non lievi né transitori); 97 (buon andamento, anche in relazione alle criticità del sistema di monitoraggio); 4 (diritto al lavoro), nonché art. 33 e 34 (diritto allo studio), oggetto di compressione in quanto condizionati alla sottoposizione alla vaccinazione obbligatoria; 21 (diritto alla libera manifestazione del pensiero, che ricomprende il diritto ad esprimere il proprio dissenso), in relazione all’obbligo di sottoscrizione del consenso informato per poter accedere ad un trattamento sanitario imposto; oltre che con il principio di proporzionalità e con il principio di precauzione desumibili dall’art. 32 Cost. (avuto riguardo alle più volte rilevate criticità del sistema di monitoraggio, nonché all’assenza di adeguate misure di attenuazione del rischio quali analisi e test pre-vaccinali e controlli post vaccinazione); b.7) appare carente un adeguato bilanciamento tra valori tutti di rilievo costituzionale, e in particolare tra tutela della salute da una parte, e tutela dello studio e del lavoro dall’altra, che soddisfano parimenti bisogni primari del cittadino; 
Covid-19
Beni culturali – Vincolo – Estensione – Motivazione – Limiti.       L’ambito oggettivo di estensione del vincolo culturale non si ricava esclusivamente dalla sua motivazione; ciò in quanto in sede di motivazione, l’Amministrazione può limitarsi a menzionare, anche a titolo esemplificativo, soltanto alcuni degli elementi caratteristici da cui può desumersi il particolare valore storico-artistico del relativo immobile, inteso nel suo insieme (1).  (1) Ha ricordato la Sezione che il fatto che la motivazione del decreto impositivo del vincolo faccia specifico e prevalente riferimento ad alcune caratteristiche esterne dell'edificio, non è di per sé sufficiente per ritenere che il vincolo sia circoscritto alle sole parti ivi indicate. Anzi, la specificazione, oltre a rafforzare la motivazione del valore del bene, costituisce una ragione ulteriore della necessità di garantire un contesto di tutela adeguato anche alle singole peculiarità del bene. ​​​​​​​
Beni culturali
Sanità pubblica - Strutture sanitarie private - Residenza delle persone anziane – Con prestazioni di assistenza e sostegno – Cohousing – Esclusione.             Deve escludersi la ricorrenza del “cohousing” quando la residenza delle persone anziane è finalizzata in tutto o in parte a consentire l’erogazione di prestazioni di assistenza e sostegno (rientranti nei servizi alla persona e come tali soggette ai requisiti specificatamente previsti a tutela degli utenti) da parte di terzi, dai quali dipenda (anche solo parzialmente) l’organizzazione dell’ambiente; il cohousing segue, infatti, essenzialmente le direttrici dell’incoraggiamento della socialità, dell’aiuto reciproco, dei rapporti di buon vicinato, della riduzione della complessità della vita, della sua migliore organizzazione con conseguente diminuzione dello stress, della riduzione dei costi di gestione delle attività quotidiane (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che il cohousing è una forma non regolamentata di convivenza tra persone che, senza essere legate da vincoli o legami parentali, scelgono di risiedere in un'unica unità immobiliare della quale condividono gli spazi comuni.  Secondo la Sezione, tale figura, in quanto non ancora normata, rappresenta un fenomeno spontaneo di aggregazione e non ricorre quando, in presenza di persone anziane e non del tutto autosufficienti, la convivenza è intermediata da una organizzazione terza che si fa carico anche di erogare prestazioni tipiche dei servizi sociali, come accertato nel caso di specie.  Si osserva che sul tema non si registrano precedenti specifici e quindi la fattispecie è nuova.  In assenza di una specifica disciplina e sulla base di quanto espone la sentenza, sembrerebbe doversi ricondurre la figura del "cohousing" all'istituto civilistico della comunione (in questo caso del diritto di abitazione o di altro diritto sull'unità immobiliare) con la conseguenza che, quando i cohouser sono persone anziane, per distinguerlo da una fattispecie ordinaria di residenza assistita, caratterizzata dalla concomitanza o prevalenza funzionale di prestazioni tipiche dei servizi sociali (assistenza morale, materiale, medica, infermieristica e così via a persone non autosufficienti o non del tutto autosufficienti) bisognerà avere riguardo al complessivo equilibrio tra le obbligazioni dedotte in contratto.   Solo quando queste ultime saranno riconducibili esclusivamente o principalmente alla regolazione delle spese comuni (affitto, luce, gas, alimenti), che possono anche includere ma solo ove non prevalenti sulle prime, prestazioni accessorie ed eventuali da parte di terzi (come visite domiciliari di personale medico o infermieristico o di assistenza sociale), si potrà identificare nella fattispecie dedotta una forma di "cohousing" con conseguente inapplicabilità delle previsioni attinenti l'autorizzazione ed i requisiti altrimenti previsti dalla legislazione regionale sulle residenze (come nel caso di specie la LR Lazio nr. 41/2003).
Sanità pubblica
Cave - Piano Regionale Cave – Regione Toscana - Percentuale inderogabile di resa - Legittimità.     E’ legittima la delibera del consiglio regionale della Toscana n. 47 del 21 luglio 2020, di approvazione del “Piano Regionale Cave” previsto dall’art. 6 della legge regionale della Toscana n. 35 del 2015, nella parte in cui individua la percentuale inderogabile di resa e ciò perché tale piano, in quanto parte del Piano di indirizzo territoriale (PIT), legittimamente (e doverosamente) persegue anche finalità di tutela paesaggistica e ambientale, che fondano e legittimano le misure restrittive (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che il PRC si colloca gradualisticamente in una scala gerarchica delle fonti nella quale costituisce parte attuativa della sovraordinata pianificazione paesaggistico-territoriale, che ne condiziona e ne conforma i contenuti e le previsioni. Le finalità di tutela dell’ambiente e del paesaggio, risorse scarse e non riproducibili per definizione, non possono non tradursi – come peraltro normalmente e tipicamente avviene nelle disposizioni, normative e amministrative, poste a salvaguardia di questi interessi – in misure restrittive (e in taluni casi impeditive) di attività economiche di esercizio della libera iniziativa economica privata e del diritto di proprietà, nella dialettica, inscritta negli artt. 41 e 42 Cost., tra tali libertà e i limiti di utilità sociale e gli altri limiti che derivano da beni-interessi-valori di pari rilievo costituzionale che li condizionano e con essi devono essere armonizzati e bilanciati (art. 9, secondo comma, art. 32 Cost.). In quest’ottica, né gli artt. 41 e 42 Cost., né i nuovi criteri di riparto delle materie di cui al Titolo V della Costituzione, né tanto meno le diverse leggi ordinarie (art. 34 del decreto-legge n. 201 del 2011, art. 1 del decreto-legge n. 1 del 2012, art. 1 della legge n. 180 del 2011) che ripetono i suddetti principi già espressi dagli artt. 41 e 42 della Carta fondamentale, precludono alla legge regionale e, al livello di funzione amministrativa, alla pianificazione regionale di settore, il potere/dovere di introdurre misure che, nel perseguire la finalità di tutela ambientale e paesaggistica, si traducano in limiti alla libera iniziativa economica privata e alla proprietà privata (e ciò, naturalmente, secondo principi di tipicità degli atti e di proporzionalità e ragionevolezza delle misure, profili, questi, che saranno esaminati, per quanto riguarda il caso qui dedotto, nella trattazione dei successivi motivi di ricorso). È infatti noto che la giurisprudenza della Corte costituzionale, come ricordato nella relazione ministeriale, è costante nell'affermare che “la collocazione della materia «tutela dell'ambiente [e] dell'ecosistema» tra quelle di esclusiva competenza statale non comporta che la disciplina statale vincoli in ogni caso l'autonomia delle Regioni”, atteso che “«Il carattere trasversale della materia, e quindi la sua potenzialità di estendersi anche nell'ambito delle competenze riconosciute alle Regioni, mantiene, infatti, salva la facoltà di queste di adottare, nell'esercizio delle loro attribuzioni legislative, norme di tutela più elevata»” (sentenze nn. 7 e 147 del 2019, richiamate, da ultimo, dalla sentenza n. 21 del 2021; Id. n. 178 del 2019 e n. 258 del 2020, lungo la linea già indicata dalla sentenza 28 giugno 2006, n. 246: “La giurisprudenza costituzionale è costante nel senso di ritenere che la circostanza che una determinata disciplina sia ascrivibile alla materia “tutela dell’ambiente” di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, se certamente comporta il potere dello Stato di dettare standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni, non esclude affatto che le leggi regionali emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, o di quella “residuale” di cui all’art. 117, quarto comma, possano assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale (si vedano, tra le molte, le sentenze numeri 336 e 232 del 2005; n. 259 del 2004 e n. 407 del 2002)”. E’ dunque, è ammesso il potere regionale di introdurre misure di tutela ambientale e paesaggistica più severe rispetto agli standard nazionali minimi uniformi allorquando la Regione eserciti le sue funzioni normative e amministrative nelle materie di sua competenza, qual è sicuramente quella delle cave, oggettivamente interconnesse con la materia “trasversale” di tutela dell’ambiente. Nel caso all’esame della Sezione, è stato concluso che la Regione, che è titolare (in compartecipazione paritaria con lo Stato) della funzione di tutela e valorizzazione del paesaggio, di cui alla Parte III del ricordato codice del 2004 (art. 5, comma 6, del  codice dei beni culturale), ed ha la competenza diretta per la pianificazione paesaggistica (previo accordo con lo Stato, peraltro solo facoltativo per le aree non vincolate: artt. 135 e 143 del codice dei beni culturali), ben può (e, anzi, deve) orientare gli strumenti di pianificazione di settore (qual è il PRC) ai fini di tutela e valorizzazione del paesaggio, vieppiù in presenza di un piano paesaggistico che riconosce, enuncia e disciplina il peculiare valore e interesse paesaggistico del bacino delle Alpi Apuane inserendo in essi tutte le misure e le prescrizioni coerenti con le suddette finalità e utili al perseguimento degli obiettivi di qualità paesaggistica e ambientale e di conformazione delle attività economiche in funzione di compatibilizzazione con i predetti interessi pubblici. ​​​​​​​Ne consegue che nel comprensorio delle Alpi Apuane il diritto di esercizio della libertà d’impresa, segnatamente dell’attività ad alto impatto paesaggistico-ambientale di cava di materiali lapidei, è fortemente condizionata e profondamente conformata dal raffronto con gli interessi pubblici di tutela paesaggistico-ambientale, espressi e perseguiti nella pertinente pianificazione paesaggistico-territoriale, di livello gerarchico sovraordinato, dalla quale la pianificazione di settore riesce a sua volta profondamente conformata e orientata. In questo contesto e all’interno del descritto quadro giuridico di riferimento, le misure e le prescrizioni di resa minima recate dal PRC, oggetto di contestazione, rinvengono una sufficiente e adeguata base giuridica, con conseguente infondatezza delle censure sollevate nel primo mezzo di gravame, che devono essere respinte.  
Cave
Processo amministrativo – Spese del giudizio – Compensazione – Gravi ed eccezionali ragioni – Astratta possibilità di un nuovo provvedimento sfavorevole al ricorrente – Non rientra   L’astratta possibilità che, in seguito della sentenza di annullamento, l’amministrazione si ridetermini nuovamente in senso sfavorevole al ricorrente vittorioso nel processo, non rientra tra i casi di compensazione delle spese di lite, pur se ampliati dalla Corte costituzionale, con la sentenza 19 aprile 2018, n. 77, che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 92, comma 2, c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. (1)
Processo amministrativo
Atto amministrativo – Discrezionalità – Motivazione – Università – Professore ordinario – Autorizzazione allo svolgimento di attività esterne   Ai sensi dell’art. 6, comma 10, secondo periodo, della l. n. 240 del 2010, i docenti in regime di impegno a tempo pieno hanno la facoltà svolgere “compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro”, pur previa autorizzazione del Rettore, al fine di verificare la compatibilità dell’incarico con le attività didattiche, scientifiche e gestionali loro affidate dall’Università e l’assenza di una situazione di conflitto di interessi, anche potenziale, con l’Ateneo. È perciò illegittimo il diniego dell’autorizzazione a ricoprire l’incarico di presidente di una fondazione, ove motivato in base alla mera incompatibilità tra il ruolo di docente a tempo pieno e l’incarico stesso.   Non risultano precedenti in termini. Cass. civ. sez. II, 18 giugno 2020, n. 11811, ha richiamato la norma in questione, ma per escludere che possa essere concessa un'autorizzazione successiva con efficacia sanante.
Atto amministrativo
Edilizia – Convenzione urbanistica – Terreno in vendita al Comune – Scomputo del relativo ammontare dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione per gli interventi edificatori contestualmente consentiti – Condotta oggettivamente ostativa alla realizzazione dell’assetto degli interessi scolpito, con effetti obbligatori, nella convenzione urbanistica - Previsione nell’accordo – Poteri del giudice adito - Scambio cosa – denaro – Possibilità.         In presenza di una condotta della società promittente alienante, proprietaria di un terreno promesso in vendita ad un Comune - a mezzo di convenzione urbanistica - a fronte del riconoscimento di diritti edificatori, oggettivamente ostativa alla realizzazione dell’assetto degli interessi scolpito, con effetti obbligatori, nella convenzione urbanistica stessa (ove, in particolare, si prevedeva che il prezzo del bene, già fissato nel quantum, sarebbe stato corrisposto dal Comune mediante scomputo del relativo ammontare dall'importo dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione per gli interventi edificatori contestualmente consentiti), il Giudice amministrativo adito dall'Ente ex art. 2932 c.c. ben può disporre, in difformità dalla lettera ma in conformità allo spirito, al senso ed alla finalità dell’accordo, lo scambio cosa - denaro, alla luce sia del risalente diritto del Comune di acquisire quanto ex adverso più volte formalmente promesso in cessione (dapprima nella convenzione, quindi con successivo comodato), sia del dovere di eseguire il negozio in buona fede (art. 1375 c.c.), disposizione espressiva di un principio fondamentale “in materia di obbligazioni e contratti” e, come tale, applicabile anche alle convenzioni lato sensu urbanistiche (e, in generale, agli accordi pubblico-privato) (1).    (1) Ha premesso la Sezione che nel caso sottoposto al suo esame che l’attuazione della convenzione è ancora materialmente e giuridicamente possibile. L’attuazione delle previsioni urbanistiche, ancora materialmente e giuridicamente possibile, implica l’attivazione della società gravata dell’onere, in senso tecnico-giuridico, di presentare un progetto, in assenza della quale la realizzazione del meccanismo negoziale era ed è irrimediabilmente frustrata (recte, unilateralmente impedita). In proposito, va sottolineato che la fase dell’esecuzione dell’accordo è retta dal dovere di buona fede (art. 1375 c.c.), disposizione espressiva di un principio fondamentale “in materia di obbligazioni e contratti” e, come tale, applicabile anche alle convenzioni lato sensu urbanistiche (e, in generale, agli accordi pubblico-privato) quale è quella de qua. 
Edilizia
Processo amministrativo - competenza - territoriale - controversie in materia di PNRR - competenza funzionale inderogabile - rinvio all’art. 14, comma 3, c.p.a. - non opera     I ricorsi aventi ad oggetto procedure amministrative finanziate in tutto o in parte con risorse previste dal PNRR non rientrano nel novero di quelle soggette a rito abbreviato ai sensi dell’art. 119, c.p.a., ciò in quanto l’art. 12 bis, comma 5, del d.l. n. 68/2022 (nel prevedere che “ai procedimenti disciplinati dal presente articolo si applicano, in ogni caso, gli articoli 119, comma 2, e 120, comma 9, del codice del processo amministrativo, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”) ha operato un rinvio parziale alla disciplina del rito speciale per le procedure di affidamento dei contratti pubblici di cui all’art. 119 c.p.a., richiamando solamente i commi 2 (relativo al dimezzamento dei termini processuali) e 9 (relativo al deposito della sentenza), né ha espressamente ampliato l’elenco delle materie soggette a rito abbreviato di cui al primo comma dell’art. 119 c.p.a. Pertanto, la competenza funzionale inderogabile, prevista dall’art. 14, comma 3, c.p.a. per i giudizi di cui all’art. 119, non comprende le controversie riguardanti le procedure amministrative finanziate in tutto o in parte con risorse previste dal PNRR, per le quali continuano pertanto ad applicarsi gli ordinari criteri di riparto della competenza territoriale dettati dall’art. 13, c.p.a.  
Piano nazionale di ripresa e resilienza
Covid-19 – Sicilia – Ordine di immediato sgombero degli hotspot e divieto di ingresso dei migranti nella Regione – Ordinanza Presidente Regione –  Va sospesa             Deve essere accolta l’istanza di sospensione monocratica dell’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Sicilia n. 33 del 22 agosto 2020 che ordina l’immediato sgombero degli hotspot e dei Centri di accoglienza dei migranti, con trasferimento in altre strutture fuori dal territorio della Regione Siciliana, nonché - al fine di tutelare e garantire la salute e la incolumità pubblica, in mancanza di strutture idonee di accoglienza - il divieto di ingresso, transito e sosta nel territorio della Regione siciliana da parte di ogni migrante che raggiunga le coste siciliane con imbarcazioni di grandi e piccole dimensioni, comprese quelle delle O.N.G.; ciò in quanto le misure urgenti che sono state disposte nel provvedimento impugnato - attesi, da un lato, quanto allo sgombero, l’inadeguatezza del brevissimo termine assegnato per l’esecuzione, in considerazione della natura e della complessità delle attività necessarie a tal fine, e, quanto agli sbarchi, l’immediata operatività, nonché, dall’altro, la mancanza di specifiche e adeguate misure organizzative e di coordinamento e ancora, a monte, di una preventiva verifica di fattibilità/sostenibilità delle medesime (essendosi il provvedimento limitato a disporre sul punto che “per gli adempimenti di legge, viene trasmessa al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute, ai Prefetti, ai Comuni e alle ASP”) - sono idonee, da un lato, a ingenerare difficoltà di coordinamento tra le autorità deputate alla gestione delle relative attività, avuto riguardo alle competenze rispettivamente spettanti a ciascun attore istituzionale, e, dall’altro, le predette misure potrebbero proprio esse stesse creare le condizioni di potenziale pericolo per la salute e l’incolumità pubblica che avrebbero, invece, inteso scongiurare, attesa l’evidente difficoltà di organizzare nei ristretti tempi indicati l’attività di sgombero, in condizioni di sicurezza, di un consistente numero di migranti ospitati in diverse strutture situate nell’intero territorio della Regione siciliana e il loro trasferimento sul territorio nazionale, in modo tale da contenere l’ulteriore trasmissione del virus sia tra di loro che nella popolazione locale e, infine, nei confronti degli stessi operatori chiamati all’attuazione concreta delle misure di cui trattasi (1).   (1) Ha ancora chiarito il decreto, quanto al merito del gravame, che il provvedimento impugnato è dichiaratamente un’ordinanza contingibile e urgente finalizzata alla tutela della salute umana come si evince dal preambolo del provvedimento che fa riferimento alla diffusione del virus Covid-19, che è stata adottata come strumento di prevenzione dei contagi, vista l’alta incidenza degli stessi tra i migranti e la difficoltà di garantire adeguate misure di contenimento nei relativi centri, sulla base degli ivi indicati presupposti normativi:  l'art. 32, l. 23 dicembre 1978, n. 833, laddove dispone che “il Ministro della sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all'intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni" e che “nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”; l'art. 117, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, relativamente alle funzioni attribuite alle regioni per la tutela della salute umana; l'art. 11, comma 1 ter, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, secondo cui “il Ministro dell'interno ... può limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica”; l'ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione Civile n. 630 del 3 febbraio 2020, che individua nel Presidente della Regione Siciliana il Soggetto Attuatore delle misure emergenziali connesse allo stato di emergenza dichiarato dal Consiglio dei Ministri. Si è ancora affermato nel decreto che i presupposti normativi invocati, tuttavia, appaiono inidonei a sorreggere il provvedimento impugnato, avuto riguardo alla natura delle concrete misure urgenti disposte:  non l'art. 32 , l. 23 dicembre 1978, n. 833, in quanto nel settore specificatamente disciplinato dal d.l. 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 maggio 2020, n. 35, e successivamente in parte novellato dal d.l. 30 luglio 2020, n. 83, (e concernente appunto la gestione dell’emergenza connessa al diffondersi del Covid-19, ossia la specifica situazione emergenziale presa a fondamento dell’impugnato provvedimento) il relativo potere regionale risulta essere stato limitato e conformato, quanto ai relativi presupposti, limiti e oggetto, come di seguito specificato, proprio dalla sopravvenuta e speciale normativa di pari rango primario contenuta nell'art. 3, comma 1, del predetto d.l., come, peraltro, espressamente confermato dall'art. 3, comma. 3, del medesimo, a chiusura del sistema (laddove è ulteriormente specificato appunto che “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano altresì agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente”), e in relazione ai quali presupposti, limiti e oggetto il provvedimento impugnato si presenta esorbitante; vero del Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale, sentiti il Ministro della salute, il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri ministri competenti per materia.”;  il successivo art. 3 dispone, quindi, che “1. Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive rispetto a quelle attualmente vigenti, tra quelle di cui all'articolo 1, comma 2, esclusivamente nell'ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale.” e, a chiusura, che “3. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano altresì agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente”; dal delineato quadro normativo si evince che la disciplina emergenziale in atto ha inteso attrarre allo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e all'esito del procedimento delineato dal comma 1 dell'art. 2, la competenza all'adozione delle misure di contenimento dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 in atto e che, invece, è rimessa alla responsabilità delle regioni esclusivamente l'adozione di eventuali misure interinali e di ulteriore profilassi, che si rendano necessarie e siano giustificate da specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario a livello locale, su cui possono provvedere, tuttavia, soltanto in via di urgenza e nelle more dell'adozione di un nuovo d.P.C.M. in materia, e sempre che attengano esclusivamente all'ambito delle attività di competenza delle regioni stesse; entrambe le misure adottate con l’impugnato provvedimento sembrano esorbitare dall'ambito dei poteri attribuiti alle regioni dalle disposizioni sopra richiamate, laddove, sebbene disposte con la dichiarata finalità di tutela della salute in conseguenza del dilagare dell’epidemia da Covid-19 sul territorio regionale, involvono e impattano in modo decisivo sull’organizzazione e la gestione del fenomeno migratorio nel territorio italiano, che rientra pacificamente nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. b), Cost, e, peraltro, sono certamente idonee a produrre effetti rilevanti anche nelle altre regioni e, quindi, sull’intero territorio nazionale, nel quale dovrebbero essere trasferiti, nell’arco delle 48 ore decorrenti dalla pubblicazione dell’ordinanza, i migranti allo stato ospitati negli hotspot e nei centri di accoglienza insistenti sul territorio regionale; la disposta chiusura dei porti all’accesso dei natanti di qualsiasi natura trasportanti migranti sembra esorbitare parimenti dalla competenza regionale; peraltro, ai sensi dell'art. 1, comma 4, d.l. 16 maggio 2020, n. 33, convertito con modificazioni dalla l. 14 luglio 2020, n. 74, qualsiasi intervento limitativo della circolazione delle persone da e verso l'estero è riservato allo strumento del d.P.C.M., previsto dal richiamato art. 2; né la circostanza che il Presidente della Regione Siciliana sia stato individuato quale Soggetto Attuatore delle misure emergenziali connesse allo stato di emergenza dichiarato dal Consiglio dei Ministri con l'ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione Civile n. 630 del 3 febbraio 2020, assume valenza dirimente ai fini che interessano, atteso che l’ordinanza n. 626 del 27.2.2020, che ha nominato il Presidente della Regione siciliana Soggetto attuatore per la Regione Sicilia, testualmente dispone, all’art. 1, comma 2, che “Il Soggetto attuatore di cui al comma 1 opera sulla base di specifiche direttive impartite dal Capo del Dipartimento della protezione civile oltre che in stretto raccordo con la struttura di coordinamento del Dipartimento della Protezione civile attivata per la gestione dell’emergenza di cui in premessa, secondo quanto previsto dall’articolo 1, comma 1, dell’ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile n. 630 del 3 febbraio 2020 e successive disposizioni emergenziali.” e ciò comporta che le misure adottate con il provvedimento impugnato non possono ritenersi rientranti nell'ambito dell'esercizio dei poteri delegati dall'autorità del Governo centrale, in mancanza delle predette necessarie previe direttive in materia.   Quanto, poi, comunque, ai presupposti fattuali dell’adozione dell’impugnato provvedimento, non è dato ricavare, dalla lettura testuale dello stesso nella sua interezza, che sia stata svolta un’idonea istruttoria al riguardo a supporto del provvedimento, in mancanza di specifici riferimenti o richiami agli accertamenti svolti e alle relative risultanze.   In definitiva, l'esistenza di un concreto aggravamento del rischio sanitario legato alla diffusione del Covid-19 tra la popolazione locale, quale conseguenza del fenomeno migratorio, che, con il provvedimento impugnato, tra l’altro, si intende regolare, appare meramente enunciata, senza che risulti essere sorretta da un’adeguata e rigorosa istruttoria, emergente dalla motivazione del provvedimento stesso e altrettanto sembra potersi affermare anche in relazione alla diffusione del contagio all’interno delle strutture interessate.
Covid-19
Controinteressati nel rito appalti – Appalto integrato con progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori e progettista privo di requisiti  C.g.a. 31 marzo 2021, n. 276 – Pres. De Nictolis, Est. Caponigro    Processo amministrativo – Rito appalti – Controinteressato – Concorrente primo in graduatoria - Aggiudicazione non decretata – Non è controinteressato.    Contratti della Pubblica amministrazione – Progettazione - Appalto integrato - Progettista esterno sprovvisto di requisiti – Esclusione dalla gara – Condizione.             Prima della formale aggiudicazione della gara il primo graduato all’esito della procedura non riveste la qualifica di controinteressato, al quale il ricorso deve essere notificato (1).              Nell’appalto integrato, che comprende progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori, ai sensi dell’art. 59, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici, è possibile la estromissione del soggetto sprovvisto del requisito e la sua eventuale sostituzione con altro soggetto che, viceversa, sia in possesso di tutti i requisiti di ordine generale, salvo il caso in cui il progettista esterno all’impresa si associ con quest’ultima ai fini della progettazione ma soprattutto ai fini dell’offerta, vale a dire si qualifica come offerente (2).      (1) Ha ricordato il C.g.a. che il concorrente primo in graduatoria, in assenza di un provvedimento di aggiudicazione, non rivestiva una posizione di controinteressato in senso tecnico.  Le gare di appalto, come tutte le procedure concorsuali, si caratterizzano per la loro articolazione in due fasi: la fase di ammissione alla procedura e la fase di svolgimento della gara vera e propria.  Nella fase di ammissione, il candidato è titolare di un interesse legittimo “strumentale” alla partecipazione, per cui vanta un interesse legittimo oppositivo alla esclusione, rispetto al quale non sussistono interessi qualificati di altri concorrenti a meno che non sia medio tempore intervenuta l’aggiudicazione in loro favore.  La fase di svolgimento della gara, invece, si contraddistingue per la scarsità dei beni della vita ai quali i concorrenti ammessi aspirano.  In particolare, nelle gare di appalto, il “bene della vita”, costituito dall’aggiudicazione, è unico, per cui, mentre nell’ammissione può essere eventualmente soddisfatto l’interesse legittimo “strumentale” di ogni candidato, in esito allo svolgimento della gara può essere soddisfatto uno e uno solo interesse legittimo “finale” ad ottenere l’affidamento dell’appalto.  La vicenda contenziosa all’esame attiene alla fase dell’ammissione, in quanto, sebbene la gara si sia svolta e sia stata formata la graduatoria, la stazione appaltante non ha ancora proceduto all’aggiudicazione ed ha escluso dalla procedura le prime due classificate.  In altri termini, non rileva la circostanza che la gara, al momento di proposizione del ricorso, è già stata espletata, con la formazione della relativa graduatoria.      (2) Ha ricordato il C.g.a. l’appalto in discorso è un appalto integrato comprende progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori, ai sensi dell’art.59, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici.  L’appalto integrato è caratterizzato dal fatto che l’oggetto negoziale è unico, nel senso che non vi è una doppia gara, una per la progettazione, l’altra per l’esecuzione dei lavori, ma un’unica gara, con un unico aggiudicatario, che diviene il solo contraente della stazione appaltante per tutte le prestazioni pattuite.  Il comma 1-bis dell’art. 59, d.lgs. n. 50 del 2016, in proposito, stabilisce che “le stazioni appaltanti possono ricorrere all’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori sulla base del progetto definitivo dell’amministrazione aggiudicatrice nei casi in cui l’elemento tecnologico o innovativo delle opere oggetto dell’appalto sia nettamente prevalente rispetto all’importo complessivo dei lavori” e specifica che “i requisiti minimi per lo svolgimento della progettazione oggetto del contratto sono previsti nei documenti di gara nel rispetto del presente codice e del regolamento di cui all’articolo 216, comma 27-octies; detti requisiti sono posseduti dalle imprese attestate per prestazioni di sola costruzione attraverso un progettista ‘raggruppato’ o ‘indicato’ in sede di offerta, in grado di dimostrarli, scelto tra i soggetti di cui all’articolo 46, comma”.  Una previsione sostanzialmente simile era contenuta nell’art. 53, comma 3, del previgente d.lgs. n. 163 del 2006.  Il progettista, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, quindi, può essere individuato e coinvolto in tre modi: a) mandante in raggruppamento temporaneo “eterogeneo” con gli operatori economici che partecipano per l’appalto o alla concessione dei lavori e, in tal caso, assume anche la qualifica di offerente; b) indicato ma estraneo all’offerente (cfr. sul tema Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 9 luglio 2020, n. 13), cosiddetto ausiliario che presta un “avvalimento atipico”; c) appartenente allo staff tecnico dell’offerente che concorre per i lavori, a tale scopo contrattualizzato da quest’ultimo operatore economico; in tal caso, lo staff tecnico può essere costituito anche da più professionisti contrattualizzati individualmente in quanto assunti a tempo indeterminato e a tempo pieno, quindi integrati nell’impresa con un rapporto diretto.  Se lo staff tecnico dell’impresa non ha i requisiti tecnico-professionali per la progettazione, l’impresa concorrente deve ricorrere a una delle fattispecie sub a) o sub b).  Nella specie l’art. 10 del disciplinare di gara, coerentemente con la descritta normativa, ha disposto che i soggetti in possesso di attestazione SOA per la sola costruzione, ai sensi dell’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, devono alternativamente: indicare, in sede di offerta, un progettista, sia esso persona fisica o giuridica, qualificato per l’attività di progettazione, in possesso dei requisiti progettuali e di regolare abilitazione professionale ad operare nello Stato italiano, al quale saranno affidate in subappalto le attività di progettazione (Progettista “indicato”); associare, quale mandante di raggruppamento temporaneo di tipo verticale assegnatario della progettazione, uno dei soggetti elencati all’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m.i., in possesso dei requisiti progettuali di cui al successivo punto 10.2 (Progettista “associato”).  Il citato art. 10, inoltre, dispone che non è ammessa, pena l’esclusione, la partecipazione alla gara di quei concorrenti che si avvalgono di progettisti “indicati” o “associati” per i quali sussistono le cause ostative alla partecipazione indicate nel paragrafo (vale a dire, i motivi di esclusione di cui all’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016).  L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 13 del 9 luglio 2020, ha chiarito che la posizione giuridica del “progettista indicato” dall’impresa che ha formulato l’offerta, è quella di un prestatore d’opera professionale che non entra a far parte della struttura societaria che si avvale della sua opera, e men che meno rientra nella struttura societaria  Il concorrente ed il “progettista indicato” rimangono due soggetti distinti, che svolgono funzioni differenti, con conseguente diversa distribuzione delle responsabilità.  Con la decisione n. 13 del 2020, l’Adunanza Plenaria, pertanto, confermando la posizione maggioritaria della giurisprudenza, ha affermato che il progettista “indicato” va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo, sicché non rientra nella figura del concorrente e, infatti, ha espresso il seguente principio di diritto: “il progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia dell’articolo 53, comma [3], del decreto legislativo n. 163 del 2006, va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo. Pertanto non rientra nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico, nel significato attribuito dalla normativa interna e da quella dell’Unione europea. Sicché non può utilizzare l’istituto dell’avvalimento per la doppia ragione che esso è riservato all’operatore economico in senso tecnico e che l’avvalimento cosiddetto “a cascata” era escluso anche nel regime del codice dei contratti pubblici, ora abrogato e sostituito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, che espressamente lo vieta”.    Ha aggiunto la Sezione che accertata l’assenza di uno dei requisiti generali nel progettista indicato, l’offerente debba essere automaticamente escluso, come avvenuto nel caso di specie, ovvero sia possibile la estromissione del soggetto sprovvisto del requisito e la sua eventuale sostituzione con altro soggetto che, viceversa, sia in possesso di tutti i requisiti di ordine generale.  La qualificazione del progettista indicato come di un soggetto diverso dai concorrenti alla procedura determina che in caso di raggruppamento di progettisti - quantomeno nelle ipotesi in cui il soggetto da estromettere non sia stato determinante per la costituzione del raggruppamento, avendo contribuito in modo essenziale a “portare” i requisiti di qualificazione necessari alla partecipazione - il concorrente non possa essere per ciò solo escluso a seguito dell’accertata carenza di un requisito di carattere generale del progettista indicato, essendo consentita la sua estromissione, nel caso di specie dal RTP dei progettisti, e la sua sostituzione.  In altri termini, non essendo un offerente, ma un collaboratore (o, più propriamente, un ausiliario) del concorrente, deve ritenersi possibile la estromissione e l’eventuale sostituzione del progettista indicato con altro professionista, non incorrendosi in una ipotesi di modificazione dell’offerta, né di modificazione soggettiva del concorrente.  Un trattamento diverso, invece, deve essere riservato al caso nel quale il progettista esterno all’impresa si associa con quest’ultima ai fini della progettazione ma soprattutto ai fini dell’offerta, vale a dire si qualifica come offerente.  La differenza si rivela evidente, poiché, trattandosi di offerente, il progettista “associato”, non solo, al pari del progettista “indicato”, è coinvolto direttamente dai motivi di esclusione di cui all’art. 80 del Aodice dei contratti pubblici ma, a differenza del progettista “indicato”, è decisamente arduo ritenere che possa essere estromesso o sostituito, in quanto ciò determinerebbe una modificazione dell’offerta e dell’offerente, per cui la sua esclusione è destinata a riflettersi, travolgendolo, sull’intero raggruppamento temporaneo tra l’impresa e il progettista.  D’altra parte, deve ritenersi che escludere in via automatica il concorrente per una carenza riscontrata in capo ad un soggetto allo stesso estraneo costituisce un esito contrario ai principi comunitari di cui all’art. 57, comma 3, della Direttiva UE 2014/24, ed in particolare a quello di proporzionalità (cfr. in proposito, sia pure in tema di subappalto, Corte di giustizia dell’Unione Europea 30 gennaio 2020, in causa C-395/2019).    Nel caso sottoposto all’esame del C.g.a. la clausola della lex specialis, facendo riferimento anche ai progettisti “indicati”, ha chiaramente disposto l’esclusione per fattispecie come quelle in esame, né tale clausola è stata oggetto di impugnazione.  Tuttavia, l’esclusione dalla gara per inosservanza delle previsioni della lex specialis può essere disposta solo ove tali previsioni siano poste a tutela di un interesse pubblico effettivo e rilevante, sicché, nell’ottica di favorire la realizzazione delle finalità sottese alla normativa in materia, attraverso il fondamentale canone del favor partecipationis è in atto un processo di dequotazione delle carenze formali o, comunque, superabili che precludono l’accesso alla gara, di cui sono testimoni, in particolare, l’introduzione del principio di tassatività delle fonti delle cause di esclusione e l’ampliamento del c.d. soccorso istruttorio.  Il principio della tassatività delle fonti delle cause di esclusione, in origine introdotto, attraverso il comma 1-bis dell’art. 46, d.lgs. n. 163 del 2016, dal d.l. n. 70 del 2011, è ora contenuto nell’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale, nella parte finale, sancisce che “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.  Ora, non c’è dubbio che la causa di esclusione di cui all’art. 10 del disciplinare sia correttamente mutuata dall’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, che disciplina per l’appunto i motivi di esclusione dalle gare pubbliche. Tuttavia, il detto art. 80 si riferisce alla “esclusione di un operatore economico dalla partecipazione”, sicché si riferisce agli offerenti, vale a dire alle imprese concorrenti, laddove, come si è illustrato, il progettista “indicato” non è un offerente, perché costituisce un soggetto affatto diverso dal concorrente, per cui non può ritenersi che la disposizione di legge si riferisca anche ai progettisti “indicati”.  Ne consegue che, a prescindere dalla mancata impugnazione, la clausola deve essere dichiarata nulla, perché contiene una causa di esclusione non prevista dal codice dei contratti pubblici o da altra disposizione di legge.
Processo amministrativo
Ordinanze contingibili e urgenti – Destinatari – Individuazione.   In materia di ordinanze contingibili e urgenti ex art. 54, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, con riguardo all’individuazione del destinatario dell’ordine di eseguire i lavori indispensabili per eliminare il pericolo, presupposto indispensabile è la disponibilità del bene in capo a tale soggetto, che costituisce condizione logica e materiale indispensabile per l’esecuzione dell’ordine impartito (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che in presenza di una conclamata condizione di pericolo per l’incolumità pubblica, per la legittimità dell’ordine è sufficiente che il Comune provveda ad individuarne i destinatari in base alla situazione di fatto che si presenta nell’immediato, indipendentemente da ogni laboriosa e puntuale ripartizione, di fronte a più soggetti eventualmente obbligati, dei rispettivi oneri di concorso all’eliminazione dell’accertata situazione di pericolo. Il fatto che l’ordine di esecuzione dei lavori è legittimamente indirizzato al soggetto nella condizione di eliminare la situazione di pericolo lascia impregiudicata, perché estranea alla funzione del provvedimento contingibile e urgente, la diversa e successiva questione dell’accollo economico dei costi dell’intervento in capo ai soggetti responsabili.
Ordinanza contingibile ed urgente
Giochi – Sale da gioco – Distanze – Disciplina - Riparto di competenza tra Stato e Regione - Individuazione.              Non ogni aspetto concernente la disciplina dei giochi leciti ricade nella competenza statale, ben potendo le Regioni intervenire con misure tese a inibire l’esercizio di sale da gioco e di attrazione ubicate al di sotto di una distanza minima da luoghi considerati “sensibili”, al fine di prevenire il fenomeno della “ludopatia” (1).   (1) Ha chiarito il Tar che disposizioni di tal fatta risultano «dichiaratamente finalizzate a tutelare soggetti ritenuti maggiormente vulnerabili, o per la giovane età o perché bisognosi di cure di tipo sanitario o socio assistenziale, e a prevenire forme di gioco cosiddetto compulsivo, nonché ad evitare effetti pregiudizievoli per il contesto urbano, la viabilità e la quiete pubblica» (sentenza n. 300 del 2011) e sono ascrivibili alle materie «tutela della salute» (art. 117, terzo comma, Cost.), e «governo del territorio», nelle quali spetta alle Regioni e alle Province autonome una potestà legislativa concorrente (Corte cost. sentenza 27 febbraio 2019, n. 27). Il quadro normativo e giurisprudenziale, dunque, consente espressamente alle Regioni d’intervenire prevedendo distanze minime dai luoghi sensibili per l’esercizio delle attività legate ai giochi leciti, anche individuando luoghi diversi da quelli indicati dal d.l. n. 158 del 2012, come convertito. (Corte costituzionale, sentenza 11 maggio 2017 n. 108)
Giochi
Processo amministrativo – Opposizione di terzo – Legittimazione – Individuazione.   La legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti della decisione del giudice amministrativo resa tra altri soggetti va riconosciuta - oltre che ai controinteressati pretermessi, ai controinteressati sopravvenuti ed ai controinteressati non facilmente identificabili (e l’appellante non rientra in alcuna delle richiamate categorie), anche- in generale, ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma e incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione (1).   ​​​ 1) Nell’attuale formulazione dell’art. 108, comma 1, c.p.a. dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 195 del 2011, la legittimazione a proporre opposizione si incentra su due elementi essenziali: la mancata partecipazione al giudizio conclusosi con la sentenza opposta ed il pregiudizio che reca la sentenza ad una posizione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo di cui l’opponente risulti titolare (Cons. Stato, sez. III, sent. n. 2895 del 2018). L’appellante, dunque, in quanto aspirante alla nomina in caso di scorrimento della graduatoria e pregiudicato dall’inserimento nella stessa (ed in posizione migliore) di altro soggetto originariamente escluso, era legittimato alla proposizione dell’opposizione di terzo avverso la sentenza che aveva annullato il provvedimento di esclusione del candidato in questione. Per pacifica giurisprudenza, mentre l’opposizione del litisconsorte pretermesso ha un marcato tratto rescindente, per il terzo che sia titolare di una posizione autonoma e incompatibile, l'opposizione ha natura rescindente e rescissoria, perché mira anche all'accertamento di una pretesa in conflitto con quella accertata giudizialmente. Mentre nel caso di litisconsorte pretermesso in primo grado, l’accoglimento dell’opposizione di terzo comporta l’annullamento della sentenza opposta con rinvio al Tar, a causa della violazione del contraddittorio, nel diverso caso di terzo titolare di una posizione pregiudicata dalla sentenza opposta, ma non controinteressato, non essendovi lesione del contraddittorio, la sentenza di primo grado non va annullata e il giudice di appello decide direttamente sull’opposizione.
Processo amministrativo
Pubblica amministrazione – Ministeri - Ministero delle infrastrutture e dei trasporti - Regolamento di organizzazione       Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul regolamento di organizzazione   del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (1).  ​​​​​​​ (1) Ha chiarito il l Ministero che – anche a seguito dell’istituzione dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali di cui all’articolo 12 del decreto legge 28 febbraio 2018, n. 109, convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, legge 16 novembre 2018, n. 130, e della istituzione della Struttura tecnica per il controllo interno in attuazione dell’articolo 4 del decreto legge 21 settembre 2019, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 novembre 2019, n. 132 – è stato necessario adeguare la struttura organizzativa “tenendo in considerazione il trasferimento di funzioni alla nascente Agenzia e valorizzando, al contempo, le attività di core del Ministero, nel rispetto di quanto stabilito dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 e delle funzioni ad esso attribuite dalla normativa vigente”. Sotto il profilo organizzativo, espone ancora l’amministrazione richiedente, sono state introdotte modifiche all’attuale assetto finalizzate a garantire un più efficace svolgimento delle attribuzioni già riservate al Ministero. In particolare, per l'espletamento delle funzioni demandate al dicastero, viene istituito un nuovo Dipartimento e viene modificato l’assetto organizzativo e funzionale dei Dipartimenti già esistenti. Pertanto il Ministero risulterà articolato, a livello centrale, in tre Dipartimenti, rispetto ai due previsti dal regolamento di organizzazione vigente, di seguito indicati: N. 01481/2020 AFFARE a) Dipartimento per la programmazione, le infrastrutture di trasporto a rete e i sistemi informativi; b) Dipartimento per le opere pubbliche, le risorse umane e strumentali; c) Dipartimento per i trasporti e la navigazione. I Dipartimenti si articoleranno in complessive 14 Direzioni generali, rispetto alle attuali 16, e assicureranno l'esercizio delle funzioni e dei compiti di spettanza statale nelle aree funzionali di cui all'articolo 42 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 e successive modificazioni 
Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza – Debiti commerciali del S.S.N. della Calabria – Blocco legale delle procedure esecutive – Questione legittimità costituzionale      E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost., dell’art. 16-septies, comma 2, lett. g), d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, come introdotto dalla legge di conversione 17 dicembre 2021, n. 215, perché prevede l’impossibilità per il creditore degli enti del servizio sanitario regionale della Calabria di ottenere dal giudice amministrativo la tutela giurisdizionale esecutiva (1)   (1) La disposizione oggetto di questione di costituzionalità così recita: «al fine di coadiuvare le attività previste dal presente comma (e cioè le attività di controllo, liquidazione e pagamento delle fatture, sia per la gestione corrente che per il pregresso, nonché le attività di monitoraggio e di gestione del contenzioso, NDR), assicurando al servizio sanitario della Regione Calabria la liquidità necessaria allo svolgimento delle predette attività finalizzate anche al tempestivo pagamento dei debiti commerciali, nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive (…). Le disposizioni della presente lettera si applicano fino al 31 dicembre 2025». Secondo il T.a.r., la previsione normativa deve trovare applicazione, oltre che alle azioni esecutive proposte ai sensi del codice di procedura civile, anche al giudizio di ottemperanza, che, secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa, ha funzione e natura esecutiva, allorché sia attivato ai fini dell’esecuzione di un provvedimento di giudice civile. La tutela in sede esecutiva, infatti, è componente essenziale del diritto di accesso al giudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore. La Corte costituzionale ha già evidenziato che la fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria (sentenza n. 419 del 1995), stante che «il principio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale» (sentenze n. 225 del 2018 e n. 304 del 2011). È certo riservata alla discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali, con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della disciplina (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2016, n.10 del 2013 e n. 221 del 2008); ma tale limite è valicato «ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire» (sentenza n. 225 del 2018; negli stessi termini, tra le tante, sentenze n. 87 del 2021, n.271 del 2019, n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004). La sospensione delle procedure esecutive deve costituire, pertanto, un evento eccezionale: «un intervento legislativo − che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore − può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora […] siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale» (sentenza n. 186 del 2013). Sulla base dei principi testé illustrati, la Corte ha già dichiarato illegittimo, con sentenza del 12 luglio 2013, n. 186, l'art. 1, comma 51, l. 13 dicembre 2010, n. 220, sia nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 17, comma 4, lettera e), d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con mod. con l. 15 luglio 2011, n. 111, sia nel testo risultante a seguito delle ulteriori modificazioni apportate dall'art. 6-bis, comma 2, lettere a) e b), d.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. con mod. con l. 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui prevedeva che, nelle Regioni già commissariate in quanto sottoposte a piano di rientro dei disavanzi sanitari, non potessero essere intraprese o proseguite azioni esecutive, anche ai sensi dell'articolo 112 c.p.a., nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2012. La Corte ha ribadito che un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore – può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte (sentenze n. 277 del 2012 e n. 364 del 2007). Viceversa, la disposizione in quella sede censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, era stata differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere la estinzione delle procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, delle spese di esecuzione già affrontate, non prevedeva alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati. ​​​​​​​Recentemente, con la sentenza del 7 dicembre 2021, n.236, la Corte costituzionale ha, peraltro, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, conv. con l. 26 febbraio 2021, n. 21, che, in ragione dell’emergenza derivante dall’epidemia di Covid-19, aveva prorogato la sospensione delle esecuzioni e l’inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale, già precedentemente disposta.
Processo amministrativo
Lavoro – Inquadramento - Categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante – Contestazione – Criterio.           L’inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante, in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile – non rientra tra le irregolarità in materia di lavoro e legislazione sociale che possono essere contestate dall’Ispettorato nell’esercizio del potere di disposizione ma corrisponde ad una condotta di inadempimento di un obbligo di fonte legale - sancito dall’art. 2103 c.c. e presidiato da uno speciale meccanismo di tutela    (1) Ha chiarito il Tar che il tipo di violazione contestata - l’inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante, in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile – non rientra tra le “irregolarità (…) in materia di lavoro e legislazione sociale” che possono essere contestate dall’Ispettorato nell’esercizio del potere di disposizione.  Nella consapevolezza di porsi in contrasto con la diversa lettura della disposizione fatta propria dall’I.N.L. – ed espressa dalla circolare n. 5 del 30 settembre 2020 – il Tribunale ha rilevato che contro tale interpretazione militano una  pluralità di argomenti.  Dal punto di vista letterale, la norma parla di “irregolarità”, termine con il quale si è soliti definire una difformità rispetto alla fattispecie legale, priva di espressa sanzione giuridica (come del resto specificato dalla stessa norma, che esclude i casi in cui le irregolarità “siano già soggette a sanzioni penali o amministrative”). Deve trattarsi, quindi, della violazione di norme c.d. “imperfette”, che al comando giuridico non accompagnino alcuna sanzione. L’adibizione del lavoratore a mansioni non corrispondenti alla categoria di inquadramento di cui al C.C.N.L. corrisponde, invece, ad una condotta di inadempimento di un obbligo di fonte legale - sancito dall’art. 2103 c.c., secondo cui “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto …” (comma 1) - e presidiato da uno speciale meccanismo di tutela, in forza del quale “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi” (comma 7).  Sotto altro profilo, sempre nel contesto di una interpretazione letterale della disposizione, la limitazione del potere in esame ai casi di mancata previsione di “sanzioni penali o amministrative”, dovrebbe guidare anche l’interpretazione del concetto di “irregolarità … in materia di lavoro e legislazione sociale”, portando quindi a concludere che anche le irregolarità debbano rivestire analoga natura penale o amministrativa. Si riscontrerebbe, altrimenti, un difetto di coordinamento interno alla proposizione normativa, tale da ridondare in vero e proprio vizio di logicità della disposizione, ove si consideri che, proprio con riguardo alla categoria più controversa e difficilmente accertabile in sede amministrativa, cioè quella delle difformità rispetto alla fonte negoziale (individuale o collettiva), mancherebbe qualsiasi parametro delimitativo del potere.  A tutto concedere, quindi, anche un’eventuale estensione ad “irregolarità” civilistiche/contrattuali, dovrebbe comunque essere interpretata in conformità all’espresso principio di “residualità” del potere di disposizione, per cui esso è attivabile solo in mancanza di rimedi tipici. Non quindi nel caso di adibizione di fatto a mansioni superiori rispetto al proprio inquadramento, ipotesi per la quale, come visto al precedente par. 9, l’art. 2103 c.c. prevede un particolare meccanismo di tutela davanti all’a.g.o., fondato sul riconoscimento del diritto alla stabilizzazione della categoria contrattuale corrispondente alle superiori mansioni esercitate. 9.3. Ancora, la possibilità di riferire l’art. 14. d.lgs. 124 del 2004 alle irregolarità derivanti da violazioni dei contratti collettivi, in assenza di espressa specificazione, non si concilia con il tenore testuale dell’art. 13 dello stesso d.lgs., ove la volontà di estendere il campo applicativo del diverso strumento della diffida alla “constatata inosservanza delle norme … del contratto collettivo in materia di lavoro e legislazione sociale” è espressamente sancita. La particolare natura dei contratti collettivi, atti di natura negoziale aventi però efficacia ultra partes e paranormativa, avrebbe richiesto da parte del legislatore un’esplicita considerazione anche nel contesto dell’art. 14 che, nel parlare di “lavoro e legislazione sociale” e correlate “sanzioni penali o amministrative”, sembra naturalmente riferirsi alle sole fonti di diritto oggettivo.  Sotto un profilo sistematico, sono evidenti le problematicità che derivano dal riconoscere cittadinanza ad un atto di disposizione siffatto. Attraverso tale provvedimento, l’Ispettorato ha sindacato l’esercizio del potere direttivo del datore, imponendogli, sotto la minaccia della sanzione pecuniaria, di dare al rapporto, in via permanente, una determinata conformazione. Ciò che la misura ha realizzato è, di fatto, l’accertamento di un rapporto giuridico tra privati in via amministrativa, per effetto di un potere unilaterale, senza le garanzie proprie della giurisdizione. L’evidente difficoltà concettuale ad ammettere tale possibilità emerge dalle contraddittorie difese dell’Ispettorato che, pur avendo emanato il provvedimento, se ne ritiene al contempo estraneo e domanda la propria estromissione dal giudizio. A parere del Tribunale, il “disagio” dell’amministrazione nel trovarsi coinvolta in questioni interamente interprivatistiche non nasce – come l’eccezione di difetto di legittimazione passiva vorrebbe implicare – dall’erronea individuazione della controparte ad opera del ricorrente, quanto dall’abnormità di un provvedimento emanato per intervenire in via autoritativa su un rapporto contrattuale, in supplenza della parte direttamente titolare dell’interesse (il lavoratore), pur non avendo tale interesse una diretta rilevanza pubblicistica.  Sul piano pratico, infine, l’estensione del potere di disposizione ad ipotesi come quella in esame sarebbe fonte di non poche criticità e diseconomie. Il datore di lavoro destinatario di un ordine ex art. 14, d.lgs. 124 del 2004, per evitarne il consolidamento e l’irrogazione della sanzione per inottemperanza, non può che contestarlo innanzi al Tar. Il giudice amministrativo si troverebbe quindi a dover pronunciare nel merito del rapporto di lavoro, senza efficacia di giudicato (e nel contesto di un rito interamente documentale, non concepito per questa tipologia di controversie), trattandosi di “questione incidentale relativa a diritti … la cui risoluzione è necessaria per pronunciale sulla questione principale” (art. 8, comma 1 c.p.a.), cioè sulla legittimità del provvedimento di diffida. ​​​​​​​​​​​​​Al contempo il lavoratore, anche a fronte di un esito “favorevole” (in via riflessa) del giudizio amministrativo, non troverebbe adeguata tutela qualora il datore persista nell’inottemperanza e decida di assoggettarsi alla sanzione, senza modificare l’inquadramento contrattuale in conformità all’ordine di disposizione. Egli dovrebbe infatti necessariamente agire di fronte al giudice naturale (il Tribunale in funzione di giudice del lavoro), l’unico in grado di intervenire in via diretta sul rapporto giuridico, chiedendo il riconoscimento della diversa qualifica spettante secondo il C.C.N.L. e il pagamento delle conseguenti differenze retributive.   Il provvedimento di disposizione, applicato per contestare la categoria di inquadramento, si rileva quindi, strumento del tutto ineffettivo sul piano della tutela dell’interesse del lavoratore e al contempo inefficiente dal punto di vista dell’uso delle risorse amministrative e giurisdizionali, in palese contrasto con la propria ratio. Lo strumento rischierebbe inoltre di provocare la frequente sovrapposizione di attività processuale sul medesimo oggetto, da parte di giudici appartenenti a diverse giurisdizioni, con un evidente spreco di risorse e con il rischio di pronunce tra loro contrastanti.   
Lavoro
Accesso ai documenti – Cartelle esattoriali - Possibilità e limiti – Rimessione all’Adunanza plenaria.      Sono rimesse all’Adunanza plenaria alcune questioni relative alla materia dell’accesso alle cartelle esattoriali (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che alcune decisioni ammettono tout court l’accesso alle cartelle esattoriali (cfr. sez. IV, 30 novembre 2015, n. 5410; 17 novembre 2016, nn. da 4760 a 4764). Altre affermano in linea di principio l’esistenza del diritto all’accesso alle cartelle di pagamento escludendolo tuttavia se l’agente della riscossione, rispettando determinate formalità, certifichi l’inesistenza di documenti in suo possesso (sez. IV, 31 marzo 2015, nn. da 1696 a 1705). Altre ancora, assunte specialmente in sede cautelare, negano l’accesso alle cartelle, ma ritengono sufficiente a soddisfare l’interesse dell’istante la conoscenza dell’estratto di ruolo, l’avviso di ricevimento e l’attestazione del soggetto notificante, mentre negano l’onere di produrre copia integrale delle cartelle, in quanto non in possesso dell’agente della riscossione, e di fornire ulteriori informazioni (quali quelle su messi e agenti notificatori) non contenute in documenti amministrativi e sulle quali il privato non ha interesse all’accesso (sez. IV, ordinanza 16 giugno 2016, n. 2240; ordinanze 10 marzo 2017, n. 1004, n. 1006, n. 1007; sentenze 26 maggio 2017, n. 2477 e 7 agosto 2017, n. 3947). In altre pronunce (sez. IV, 6 novembre 2017, n. 5128) si è evidenziato che la questione dell’accesso alle cartelle esattoriali va in concreto declinata avuto riguardo alle modalità di notifica adottate nella specie, nel senso che la piena esplicazione del diritto può trovare un limite obiettivo nella configurazione materiale dell’atto che la richiesta prende a oggetto, cioè nel supporto fisico della cartella esattoriale. Ai sensi dell’art. 26, comma 1, d.P.R. n. 602 del 1973, la notifica può infatti avvenire o ad opera di ufficiali della riscossione o di altri soggetti abilitati o mediante servizio postale con l’invio di raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo P.E.C. secondo le modalità previste dal d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68. Nella prima e nella terza ipotesi resta conservato l’originale dell’atto. In questi casi, il diritto di accesso è dunque facilmente e legittimamente esperibile.      Ha aggiunto la Sezione che la sentenza della sez. IV del Consiglio di Stato n. 1667 del 26 febbraio 2021 ha affermato che il rifiuto dell’accesso al ruolo ed alla cartella di pagamento non può essere fondato sulla “inesistenza” dei documenti presso l’agente della riscossione, ovvero (quantomeno) sulla impossibilità di riprodurli, pena la illecita disapplicazione di una pluralità di disposizioni di legge e di regolamento e la sussistenza di un’azione amministrativa cui sono estranei basilari principi di documentazione e conservazione degli atti.   Di segno diverso, cioè per una interpretazione più restrittiva del diritto di accesso in materia, sono invece altre sentenze della Sezione quarta.   In particolare, nella sentenza n. 5035 del 1° luglio 2021, pur non disconoscendosi in linea di principio l’esistenza del diritto in capo al contribuente di ottenere l’esibizione delle cartelle esattoriali che lo riguardano, è stata affermato che se le cartelle originali sono state prodotte in unico originale notificato al contribuente e l’Amministrazione ha dichiarato di non essere in possesso di altro originale, non sarebbe sussistente un diritto all’accesso (alla stregua di un principio generale nei procedimenti di accesso l’esercizio del relativo diritto non potrebbe che riguardare i documenti esistenti e non anche quelli comunque irreperibili). L’Amministrazione non sarebbe neppure tenuta a conservare per cinque anni le cartelle esattoriali alla luce dell’art. 26, comma 5, d.P.R. n. 602 del 1973 “il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione”. Quindi non un obbligo di conservazione della cartella.  Alle due tesi sopra richiamate (contrapposte soprattutto sull’onere di conservazione delle cartelle esattoriali alla luce dell’ultimo comma dell’art. 26, d.P.R. n. 602 del 1973) può poi essere aggiunta una ulteriore considerazione che collega il diritto di accesso nel caso in esame al concreto interesse del richiedente. Più nel dettaglio, secondo questa impostazione nella richiesta di accesso, al di là della natura e consistenza dell’atto (estratto del ruolo- cartella), l’interessato dovrebbe dimostrare anche il nesso di strumentalità all’ostensione ​​​​​​​
Accesso ai documenti
Giochi – Lotterie e bingo - Versamento all’Erario dei proventi riscossi – Ritardo nel versamento – Diffida - Persistenza nel ritardo – Conseguenza.      Se il concessionario di una ricevitoria del gioco del lotto, dopo aver ritardato  il versamento all’Erario dei proventi riscossi, persiste nel ritardo anche dopo aver ricevuto da parte dei Monopoli di Stato la diffida a versare prevista dal disciplinare allegato alla concessione, il rapporto fiduciario si considera venuto meno e l’Agenzia concedente non ha alcun margine di ulteriore apprezzamento sulla gravità dell’inadempimento, ma è tenuta senz’altro a revocare la concessione (1).   (1) La Sezione supera il diverso orientamento della stessa Sezione (sentenza 25 gennaio 2018, n. 497) secondo cui, a fronte di ritardi nei versamenti dei proventi del gioco del lotto, l’Amministrazione deve valutare, ai sensi dell’art. 1455 cod. civ. il rilievo della violazione dell’obbligazione di cui alla concessione, in termini di effettiva e incidente gravità, ossia tenendo conto sia dell’elemento oggettivo della mancata prestazione nel quadro dell’economia generale del negozio, sia degli aspetti soggettivi rilevabili tramite una indagine unitaria sul comportamento del debitore e sull’interesse del creditore all'esatto adempimento. Superando tale orientamento la Sezione ha ora affermato che la valutazione sulla consistenza dell’inadempimento tale da impedire la prosecuzione del rapporto concessorio è stata effettuata “a monte”, nella previsione delle clausole del disciplinare (da inquadrarsi nel novero nel novero degli accordi tra i privati e l’Amministrazione, ai sensi dell’art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241) - per cui nessuna ulteriore valutazione deve essere effettuata “a valle”, vale a dire una volta avvenuto l’inadempimento considerato determinante dal disciplinare.
Giochi
Atto amministrativo – Atto collegiale – Verbalizzazione – Natura. Atto amministrativo – Forma – Atto collegiale – Forma scritta – Necessità – Esclusione.        La verbalizzazione delle attività espletate da un organo amministrativo costituisce un atto necessario, in quanto consente la verifica della regolarità delle operazioni medesime (1). Gli atti adottati da un organo collegiale non devono necessariamente avere forma scritta (1).   (1) Ha affermato la Sezione che secondo la dottrina in materia di studio sugli atti amministrativi, il verbale può definirsi quale atto giuridico, appartenente alla categoria delle certificazioni, quale documento avente lo scopo di descrivere atti o fatti rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un funzionario verbalizzante cui è stata attribuita detta funzione. La verbalizzazione, pertanto, ha l’obiettivo di assicurare e dare conto della certezza Un primo carattere importante degli atti verbali consiste nella documentazione di quanto si è verificato in relazione ad un determinato accadimento della vita e, nella sua qualità di atto amministrativo, deve essere distinto rispetto agli atti ed ai fatti che vengono rappresentati e descritti proprio nelle verbalizzazioni. Ne è un esempio la deliberazione adottata ad esempio da parte di un certo organo collegiale che esiste a prescindere dall’atto verbale che ne riferisce i contenuti. In relazione alla forma dell’atto amministrativo consistente nel verbale, occorre aggiungere che, in generale, il diritto amministrativo sancisce un principio (seppur temperato) di libertà della forma salvo che non sussistono del diritto positivo delle specifiche norme giuridiche che dispongono invece una determinata forma richiesta per l’esistenza dell’atto cd. ad substantiam. Detto principio di libertà della forma, in ogni caso, è relativo alla possibilità di redazione di un atto in forma scritta senza il rispetto di particolari metodi solenni. In sostanza la forma è un elemento che si lega alla dichiarazione, determinato per legge. Nel diritto amministrativo la forma degli atti è tendenzialmente libera, potendo l'atto amministrativo rivestire sia la forma scritta (es. un verbale) sia la forma orale (es. un atto iussivo) sia la forma simbolica o per immagini (es. un segnale stradale). In genere è la legge che stabilisce quale forma l'atto debba assumere, in ossequio ai principi di tipicità e nominatività degli atti. In difetto, occorre valutare il grado di incidenza dell'atto sulle situazioni giuridiche dei destinatari e la natura degli interessi in gioco, richiedendosi preferibilmente la forma scritta nel caso di provvedimenti limitativi della sfera giuridica altrui. Se la forma è essenziale, la sua violazione comporta, di regola, l'annullabilità dell'atto ed il relativo vizio è quello della violazione di legge. Se si ritiene, peraltro, che la forma sia un elemento costitutivo all'atto, la sua mancanza comporta la nullità dell'atto. Se invece la violazione attiene ad un aspetto meramente formale, che non incide sugli elementi essenziali, allora il vizio può essere sanato mediante autocorrezione (es., in caso di mera irregolarità) ovvero mediante il principio del raggiungimento dello scopo. Resta da chiarire che, in ogni caso, la forma dell’atto si distingue necessariamente rispetto alla documentazione nell’ambito della quale vengono trascritti gli accadimenti dei fatti occorsi. Con ciò si afferma, pertanto, che, nel prescindere da un’essenziale esigenza di forma scritta per la sostanza dell’atto amministrativo, quest’ultimo è necessariamente documentabile mediante la scrittura od altro strumento da cui possa trarsi la verificabilità dell’atto o dei fatti avvenuti. Si tenga inoltre conto che l’art. 22, l. n. 241 del 1990 offre una definizione di documento amministrativo e cioè ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico procedimento, detenuti da una Pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale. Detta disposizione conferma la distinzione ontologica, adottata dallo stesso diritto positivo, tra atto amministrativo e sua documentazione.   (2) Ha chiarito la Sezione che nello specifico degli atti degli organi collegiali, di norma la forma scritta non qualifica le decisioni adottate dagli stessi, potendosi le stesse manifestare mediante forme anche diverse dallo scritto, come per le votazioni e proclamazione delle stesse. Successivamente rispetto alle votazioni espresse nell’ambito di un collegio, si procede a stilare l’atto di deliberazione che, in pratica, riproduce un atto già di per se valido ed efficace. In tal caso il documento amministrativo contenente le manifestazioni di volontà del consesso e ha la funzione di conservare alla memoria la deliberazione così come è stata adottata. Pertanto nell’ambito degli organi collegiali, la volontà viene manifestata mediante formalità che possono essere anche differenti dall’atto scritto. La documentazione dell’atto, ovvero le deliberazioni, trova la sua fonte nella verbalizzazione di quanto viene manifestato all’interno della seduta del consesso. Detto verbale forma la memoria conservativa rispetto a quanto è accaduto nell’ambito delle decisioni intraprese dall’assemblea e va a costituire la documentazione amministrativa necessaria ai fini amministrativi. Tale verbalizzazione può avvenire, in certi casi, anche nella seduta successiva, in cui viene dato atto della deliberazione adottata (già adottata e perfezionata, quindi), nella seduta precedente. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (11 dicembre 2001, n. 6208), infatti, il verbale ha il compito di attestare il compimento dei fatti svoltisi in modo tale che sia sempre verificabile la regolarità dell’iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia necessaria una indicazione minuta delle singole attività che sono state compiute e le singole opinioni espresse. Pertanto, distinguendo tra atto documentato e verbale ed anche tra documento e verbale in cui si conserva l’atto già valido, l’iter logico seguito per l’adozione di una deliberazione da parte di un organo collegiale deve risultare dalla delibera stessa e non dal verbale della seduta poiché il verbale ha l’esclusivo compito di certificare fatti storici già accaduti e di assicurare certezza a delle determinazioni che sono già state adottate e che sono già entrate a fare parte del mondo giuridico dal momento della loro adozione: la mancanza o il difetto di verbalizzazione non comportano, quindi, l’inesistenza dell’atto amministrativo, poiché a determinazione di volontà da parte dell’organo è distinta inequivocabilmente dalla sua proiezione formale. Il difetto di verbalizzazione, in sintesi, non comporta l’inesistenza dell’atto amministrativo, dato che la determinazione volitiva dell’organo è ben distinta dalla sua proiezione formale (Cons. St., sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4373), confermandosi, così, la distinzione tra atto deliberato e sua verbalizzazione. Dal punto di vista contenutistico, di conseguenza, l’atto di verbalizzazione, ha una funzione di certificazione pubblica, contiene e rappresenta i fatti e gli atti giuridicamente rilevanti che è necessario siano conservati per le esigenze probatorie con fede privilegiata - dal momento che sono redatti da un pubblico ufficiale - che si sostanzia essenzialmente nella attendibilità in merito alla provenienza dell'atto, alle dichiarazioni compiute innanzi al pubblico ufficiale ed ai fatti innanzi a lui accaduti (Cass., sez. I, 3 dicembre 2002, n. 17106). Infine, deve rammentarsi, che, secondo la maggioritaria giurisprudenza amministrativa, con la quale si concorda pienamente, il verbale non deve essere necessariamente prodotto ed approvato in contemporaneità con la seduta dell’organo collegiale, ma può essere prodotto anche in un momento successivo al provvedimento deliberativo adottato durante la seduta (Cons. St. n. 1189 del 2001). Peraltro, la non ascrivibilità del verbale agli atti collegiali comporta che la sottoscrizione di tutti i componenti del collegio non è essenziale per la sua esistenza e validità, che possono essere incise solo dalla mancanza della sottoscrizione del pubblico ufficiale redattore, ovvero dalla mancata indicazione delle persone intervenute.
Atto amministrativo
Processo amministrativo - Silenzio della p.a. – Atti del commissario ad acta – Contestazione – Con reclamo allo stesso giudice che ha nominato il commissario – Autotutela – Esclusione.        Gli atti del commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio della p.a. possono essere contestati dalle parti del giudizio solo dinanzi allo stesso giudice che ha nominato il commissario, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 114, comma 4, c.p.a.; non possono invece essere annullati in autotutela dall’Amministrazione (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che anche il commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio della p.a., ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a. così come quello nominato in sede di ottemperanza, è un ausiliario del giudice e non un organo straordinario dell’amministrazione. Pertanto, anche in tale ipotesi gli atti commissariali possono essere contestati dalle parti del giudizio solo dinanzi allo stesso giudice che ha nominato il commissario, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 114, comma 4, c.p.a., disposizione la cui applicazione, ancorché non espressamente richiamata, è implicita nel disposto del comma 4 del precitato art. 117 (“il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”), chiaramente espressivo dell’intento del legislatore di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio-inadempimento, ivi incluso il sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati. La Sezione ha invece escluso che gli atti adottati dal commissario ad acta nominato dal giudice in esito allo speciale giudizio avverso il silenzio-inadempimento della p.a. non possono essere rimossi in autotutela dall’amministrazione sostituita dal commissario. dato decisivo al fine di dirimere la res controversa è costituito non dal tipo di attività (segnatamente, dall’ampiezza della valutazione discrezionale) che il commissario è chiamato a svolgere nel contesto del giudizio di ottemperanza e del giudizio avverso il silenzio-inadempimento, bensì dalla natura intrinseca degli atti commissariali, in quanto tali. Questi, infatti, non sono geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio della potestà amministrativa, ma, al contrario, conseguono proprio, a monte, al rilievo giurisdizionale di un illegittimo esercizio di tale potestà o di un’illegittima omissione di tale doveroso esercizio. Ne consegue, in un sistema che costituzionalmente non tollera vuoti di tutela giurisdizionale, l’esigenza di una supplenza giudiziaria, veicolata tramite una specifica figura che, sostituendosi all’Amministrazione, emani, quale ausiliario del giudice e nell’esercizio, dunque, di un potere soggettivamente giurisdizionale, i necessari atti. L’Amministrazione sostituita, pertanto, non viene indebitamente “espropriata” del potere di autotutela, che, nel caso degli atti commissariali, in radice non le compete, proprio perché il commissario non è un organo straordinario dell’Amministrazione, bensì un organo ausiliario del giudice. ​​​​​​​Di converso, l’Amministrazione non è privata della facoltà di contestare gli atti commissariali, potendo attivare l’apposito rimedio del reclamo. 
Processo amministrativo
Autorità amministrative indipendenti - Autorità nazionale anticorruzione – Delibera - Effetto conformativo - Lesività- Sussistenza. L’impugnabilità di una delibera non vincolante dell’ANAC non è da escludersi in senso assoluto, atteso che tale provvedimento potrebbe assumere connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi alla fattispecie concreta, di fatto incide sulla sfera giuridica dei destinatari, essendo idonea ad arrecare un vulnus diretto ed immediato. Ne consegue che la sua ‘lesività’ non va valutata in astratto o sulla base dell’inquadramento dogmatico del provvedimento, dovendosi rilevare gli effetti conformativi che lo stesso produce, nell’immediato, nei confronti dei soggetti a cui è indirizzata. Se difatti è vero che l’impugnabilità di un parere non vincolante dell’ANAC può essere ammissibile quando, riferendosi a una fattispecie concreta, il parere sia fatto proprio dalla stazione appaltante, la quale, sulla base di esso, abbia assunto la relativa determinazione provvedimentale, per cui l’impugnazione del provvedimento è consentita solo unitamente al provvedimento conclusivo della stazione appaltante, che ne abbia fatto applicazione, potendo la sua incidenza sulla fattispecie essere valutata solo in relazione alla capacità di integrare la motivazione del provvedimento adottato dall’amministrazione, ai fini dell’impugnabilità di un provvedimento amministrativo occorre valutare in concreto l’effetto che arreca nella sfera giuridica del destinatario e in che modo tale effetto possa arrecare pregiudizio alle posizioni giuridiche soggettive da quest’ultimo vantate. Dunque, a prescindere dall’inquadramento dogmatico (linee guida, parere, raccomandazione, aventi o meno natura vincolante), se le indicazioni dell’Autorità, nell’ambito del potere di vigilanza e controllo, assumono il ruolo di canoni oggettivi a cui conformarsi, determinando un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario, sono impugnabili: in sostanza, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario. (1) Procedimento amministrativo- Sanzione- Termine- Perentorietà. La regola della natura ordinatoria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori non è applicabile ai procedimenti che conducono all’adozione di provvedimenti lesivi o sanzionatori. Rispetto ai procedimenti che conducono a conseguenze pregiudizievoli, i termini sono sempre perentori, a prescindere da un’espressa qualificazione normativa dei relativi provvedimenti, essendo la perentorietà imposta dal principio di effettività del diritto di difesa e dal principio di certezza dei rapporti giuridici. L’esercizio di una potestà amministrativa che ha conseguenze pregiudizievoli, di qualsiasi natura, e a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che la preveda, non può restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta, essendo assimilabile all’esercizio di una attività sanzionatoria, sicchè va riaffermata la perentorietà del termine per la conclusione del procedimento di natura sostanzialmente sanzionatoria. (2) (1) Conforme: Cons. Stato, sez. V, 19 agosto 2020, n. 5097. (2) Conforme: Cons. Stato, sez. V, 30 luglio 2018, n. 4657, Cons. Stato, sez. V, 23 giugno 2022, n. 5189.
Autorità amministrative indipendenti
Professioni e mestieri –  Controllo delle attività di intrattenimento e spettacolo – Iscrizione elenco – Diniego - Soggetto segnalato per esercizio abusivo di attività di gioco e per lesioni personali e minaccia nonché controllato in compagnia di persone gravate da gravi precedenti di polizia – Legittimità.                   Ai sensi dell’art. 1, comma 4, lett. c), d.m. 6 ottobre 2009, è  legittimo il diniego di iscrizione nell’elenco del personale addetto ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e spettacolo opposto a soggetto segnalato per esercizio abusivo di attività di gioco o scommessa e per lesioni personali e minaccia, nonché ripetutamente controllato in compagnia di persone gravate da numerosi precedenti di polizia per fattispecie penali di notevole gravità ed allarme sociale, ed in particolare reati in materia di detenzione di sostanze stupefacenti, ricettazione, furto, rapina, lesioni personali, violenza sessuale e minaccia (1).    (1) Ha ricordato il parere che la figura dell’addetto ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e spettacolo in luoghi aperti al pubblico e nei pubblici esercizi è disciplinata dall’art. 3, commi 7 e ss.,, l. n. 94 del 2009. Detta norma prevede, tra l’altro, l’istituzione e la tenuta presso le Prefetture di un apposito elenco, presso il quale devono iscriversi le persone che svolgono questa attività, stabilendo una specifica sanzione amministrativa per chi la eserciti senza esservi iscritto. Inoltre, l’art. 3, comma 9, della citata l. n. 94 del 2009 demanda ad un apposito decreto del Ministro dell’interno, tra l’altro, la fissazione dei requisiti per l’iscrizione in parola.   In attuazione di detta norma primaria è stato emanato il d.m. 6 ottobre 2009, quale modificato dal successivo d.m. 24 novembre 2016, che all’art. 1, comma 4, lett. c), richiede tra i requisiti per l’iscrizione nell’elenco che gli interessati “c) non risultino, negli ultimi cinque anni, denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva, per uno dei reati di cui all'art. 4, primo e secondo comma, della l. 18 aprile 1975, n. 110, all'art. 5, l. 22 maggio 1975, n. 152, all'art. 2, comma 2, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 giugno 1993, n. 205, nonché per uno dei delitti contro l'ordine pubblico e dei delitti di comune pericolo mediante violenza, di cui al libro II, titolo V e titolo VI, capo I, e titolo XII del codice penale, nonchè per i delitti di cui all'art. 380, comma 2, lettere f) ed h), del codice di procedura penale”.   Detti decreti ministeriali sono stati, dunque, emanati in attuazione di una specifica previsione normativa, nel presupposto evidentemente ritenuto dal legislatore che per lo svolgimento dell’attività di addetto ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e spettacolo in luoghi aperti al pubblico e nei pubblici esercizi fossero necessari dei requisiti e delle garanzie di affidabilità ulteriori rispetto alle previsioni generali stabilite dall’art. 11 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.   In proposito questo Consiglio ha, infatti, osservato che “il regolamento è stato emanato in attuazione dell’art. 3, l. n. 94 del 15 luglio 2009 e contiene, ratione materiae, regole speciali concernenti l’iscrizione nell’elenco e le modalità di selezione del personale addetto ai servizi di controllo, attività di per sé non disciplinata in quanto tale dal testo unico” (Cons. Stato, sez. III, n. 3820 del 2016). Deve essere, inoltre, ricordato che la valutazione negativa ai fini dell’iscrizione nell’elenco in parola è giustificabile anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di sicurezza ma semplicemente a fatti non ascrivibili a buona condotta e che chi aspira a detta iscrizione deve avere, per l’appunto, una condotta immune da censure.   È pur vero che, per effetto della pronuncia n. 440 del 1993 della Corte costituzionale, la prova dell’assenza di tale requisito è a carico dell’Amministrazione, ma è altrettanto vero che nell’assolvimento di tale onere e nella pertinente valutazione l’autorità di pubblica sicurezza è investita di ampia discrezionalità nel valutare la complessiva personalità del richiedente, apprezzando se lo stesso possieda la specifica attitudine e dia sicura affidabilità nell’attività autorizzata in relazione ai riflessi che tale attività viene ad assumere ai fini dell’efficace protezione dell’ordine e della sicurezza pubblica, beni giuridici di primario interesse (Cons. Stato, sez. III, n. 4278 del 2012), salvo l’obbligo di esternare le ragioni delle proprie decisioni attraverso un’adeguata motivazione (Cons. Stato, sez. I, n. 44 del 2021 e n. 2764 del 2018).
Professioni e mestieri
Concessione amministrativa – Autostrade - Tariffe – Anno 2020 - Adeguamento – Proroga dei termini.            L’art. 13, d.l. 30 dicembre 2019, n. 162 ha prorogato, per i concessionari autostradali il cui periodo regolatorio sia venuto a scadenza, i termini per l’adeguamento delle tariffe autostradali per l’anno 2020; la disposizione è finalizzata a consentire che il procedimento si coordini con la nuova disciplina delle tariffe autostradali dettata dall’art. 37, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in l. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dal d.l. 28 settembre 2018, n. 109, ed implementata dalle delibere dell’Autorità di regolazione dei Trasporti nn. 16 e 77 del 2019 (1).   (1) Ha preliminarmente ricordato il Tar che il d.l. 28 settembre 2018, n. 109, convertito in l. 16 novembre 2018, n. 130, ha esteso le competenze regolatorie e di vigilanza dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti anche alla revisione delle tariffe autostradali che avviene alla scadenza dei periodi regolatori quinquennali previsti dalle concessioni in essere. Il principio eurounitario dell’affidamento non postula l’immodificabilità assoluta dei rapporti di durata. Si legge infatti nella pronuncia della Corte di Giustizia 20 dicembre 2017, in causa C 322/16 (resa proprio in una ipotesi di normativa che ha inciso in senso sfavorevole per il concessionario su un rapporto di concessione): “46. Occorre sottolineare che il principio della certezza del diritto, il quale ha come corollario quello della tutela del legittimo affidamento, impone, segnatamente, che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, in particolare qualora esse possano avere conseguenze sfavorevoli sugli individui e sulle imprese (v., in tal senso, sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C 98/14, EU:C:2015:386, punto 77 e la giurisprudenza ivi citata). 47 Tuttavia, un operatore economico non può riporre affidamento nel fatto che non interverrà assolutamente alcuna modifica legislativa, bensì può unicamente mettere in discussione le modalità di applicazione di una modifica siffatta (v., in tal senso, sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C 98/14, EU:C:2015:386, punto 78 e la giurisprudenza ivi citata). 48. A questo proposito, occorre osservare che incombe al legislatore nazionale prevedere un periodo transitorio di durata sufficiente per permettere agli operatori economici di adeguarsi, ovvero un sistema di compensazioni adeguate (v., in tal senso, sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C 98/14, EU:C:2015:386, punto 85 e la giurisprudenza ivi citata). 49. Se invero spetta al giudice del rinvio verificare, alla luce della giurisprudenza citata ai punti precedenti, e procedendo ad una valutazione globale di tutte le circostanze pertinenti, se la normativa nazionale in discussione nel procedimento principale sia conforme al principio della tutela del legittimo affidamento, occorre però notare come risulti dall’ordinanza di rinvio che la legge n. 220/2010 prevedeva un termine di 180 giorni a partire dalla sua entrata in vigore per introdurre le nuove condizioni che essa fissava, mediante la firma di un atto di integrazione della convenzione accessiva alla concessione. Tale termine appare in linea di principio sufficiente per permettere ai concessionari di adeguarsi a dette condizioni.” La sentenza sovrariportata basterebbe da sola a fugare i dubbi di compatibilità eurounitaria della modifica normativa, per come prospettati in ricorso. Scendendo nel concreto la Corte ha evidenziato come la parte privata potrebbe, al più, mettere in discussione le modalità con le quali il legislatore è intervenuto sul rapporto; una modalità compatibile con la tutela dell’affidamento secondo la Corte è quella di prevedere regimi transitori o comunque tempistiche che consentano agli interessati di organizzarsi in vista dell’impatto della nuova disciplina. L’applicazione del nuovo sistema tariffario alle concessioni in corso nel rispetto delle cadenze periodiche di revisione è stata prevista dal legislatore sin dal d.l. n. 109 del 28 settembre 2018; la sua concreta attuabilità ha presupposto l’elaborazione e sistematizzazione di atti di regolazione (che, come già ricordato, sono stati adottati previo contraddittorio anche con la ricorrente) la cui gestazione ed elaborazione ha richiesto quasi un semestre nel corso del 2019; nel presente giudizio si discute dell’applicabilità dell’intero meccanismo alla revisione tariffaria prevista per l’anno 2020, cioè oltre un anno dopo la prima introduzione del nuovo sistema di revisione tariffaria. Nel caso concreto quindi, volendo seguire le indicazioni della Corte di giustizia, risultano ampiamente rispettati ragionevoli tempi per l’introduzione effettiva delle modifiche, che la Corte ha valutato come congrui per consentire agli interessati di adeguarsi al nuovo sistema quando ad esempio sono pari a 180 giorni. Ancora si legge nella sentenza resa in data 11.6.2015 in causa C-98/14, sempre in tema di modifiche normative incidenti su rapporti concessori: “La Corte ha parimenti dichiarato che un operatore economico non può basare il suo affidamento sulla mancanza totale di modifiche normative, ma unicamente mettere in questione le modalità applicative di siffatte modifiche (v., in tal senso, sentenza Gemeente Leusden e Holin Groep, C‑487/01 e C‑7/02, EU:C:2004:263, punto 81). Parimenti, il principio di certezza del diritto non impone la mancanza di modifiche legislative, ma richiede piuttosto che il legislatore nazionale tenga conto delle situazioni specifiche degli operatori economici e preveda, eventualmente, taluni adeguamenti all’applicazione delle nuove norme giuridiche (sentenze VEMW e a., C‑17/03, EU:C:2005:362, punto 81, nonché Plantanol, C‑201/08, EU:C:2009:539, punto 49; v., in tal senso, sentenza Gemeente Leusden e Holin Groep, C‑487/01 e C‑7/02, EU:C:2004:263, punto 70). In base a una giurisprudenza consolidata, spetta al solo giudice del rinvio esaminare se una normativa nazionale sia conforme ai principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento; la Corte, pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, è unicamente competente a fornire a tale giudice tutti gli elementi interpretativi rientranti nell’ambito del diritto dell’Unione che possano consentirgli di valutare tale conformità (v., segnatamente, sentenze Plantanol, C‑201/08, EU:C:2009:539, punto 45 e giurisprudenza ivi citata, nonché Ålands Vindkraft, C‑573/12, EU:C:2014:2037, punto 126)”. Nel caso di specie, già si è visto che la ragione della modifica del sistema tariffario è stata chiaramente individuata, tra l’altro, nella tutela dei consumatori, oltre che nel perseguimento di moderne politiche dei trasporti di certo interesse generale. Sulla coerenza e proporzionalità dell’intervento nulla è dato sapere in questa sede perché, come detto, la ricorrente non ha prospettato i concreti effetti economici del nuovo sistema tariffario. D’altro canto si consideri che la ricorrente ha prodotto in giudizio la convenzione di concessione senza gli allegati che ne regolano la disciplina economica e che da sempre i concessionari autostradali (anche attraverso la loro associazione di categoria) sostengono in ogni sede la sostanziale non ostensibilità dei dati economici relativi alle concessioni ed inerenti la remunerazione e lo stato di avanzamento degli investimenti (sul punto si veda la deliberazione 18 dicembre 2019, n. 18/2019/G della Corte dei conti, sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato). Quanto a possibili profili di costituzionalità, va premesso che la nuova disciplina delle tariffe autostradali regolamentata dall’ART con le delibere nn. 16 e 77 risponde ad esigenze di tutela dei consumatori, efficientamento del mercato ed adeguamento alle politiche eurounitarie dei trasporti, ferma la salvaguardia dell’equilibrio economico finanziario dei gestori; essa è stata inoltre implementata attraverso un procedimento regolatorio, condotto in contraddittorio con gli stakeholders, idoneo a rendere gli operatori tempestivamente consapevoli delle modifiche in atto. La giurisprudenza costituzionale declina il principio del legittimo affidamento in termini di: divieto di norme retroattive, rispetto del giudicato e salvaguardia dei rapporti esauriti, ragionevolezza di eventuali interventi pro futuro sui rapporti di durata. Tanto la valutazione di proporzionalità richiesta in sede eurounitaria che quella di ragionevolezza disegnata dal giudice costituzionale italiano postulano un vaglio concreto delle modifiche introdotte e dei loro effetti che, per essere condotto, necessita che la parte, che invoca la violazione del principio del legittimo affidamento, fornisca allegazione e prova delle diverse condizioni economico-finanziare sussistenti prima e dopo la modifica normativa e dei loro concreti effetti.
Concessione amministrativa