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​​​​​​Procedimento amministrativo - Comunicazione di avvio – Atti vincolati – Omissione – Situazione sottesa complessa – Illegittimità.               E’ illegittima la mancata comunicazione di avvio del procedimento che porta all’adozione di un atto di natura vincolata ove la situazione sottesa si dimostri particolarmente complessa (1).    ​​​​​​ (1) Ha chiarito la Sezione che la natura vincolata degli atti impugnati non costituisce valido motivo per omettere il rispetto delle garanzie partecipative in situazioni peculiari e giuridicamente complesse; la giurisprudenza più avveduta afferma la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della condivisibile considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2000, n. 2443; id. n. 2953 del 2004; n. 2307 del 2004 e n. 396 del 2004). Invero, non è rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria (Tar Napoli, sez. II, 19 ottobre 2006, n.8683). ​​​​​​​Tale principio è stato riaffermato di recente dalla giurisprudenza sostenendo che “È illegittimo il provvedimento vincolato emesso senza che sia stata offerta al destinatario dello stesso provvedimento la preventiva “comunicazione di avvio del procedimento” ex art. 7, l. n. 241 del 1990, ove dal giudizio emerga che l'omessa comunicazione del procedimento avrebbe consentito al privato di dedurre le proprie argomentazioni, idonee a determinare l'emanazione di un provvedimento con contenuto diverso” (C.g.a. 26 agosto 2020, n.750). 
Procedimento amministrativo
Edilizia – Piano regolatore  – Umbria – Parere ex art. 89, d.P.R. n. 380 del 2001 – Art. 29, comma 9, l. reg. Umbria n-. 11 del 2005 – Competenza dei Comuni, anziché dell’ufficio tecnico regionale competente – Rilevanza e non manifesta infondatezza.              E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 9, l. reg. Umbria 25 febbraio 2005, n. 11, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui stabilisce che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, stante il suo contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in ragione della interposta norma rafforzata, espressione di un principio generale dell’ordinamento giuridico, rappresentata dall’art. 89, d.P.R. n. 380 del 2001 (1).    (1) Ha chiarito che l’art. 24, comma 9, l. reg. Umbria 25 febbraio 2005, n.11 è stato abrogato dalla successiva legge regionale n. 11 del 2015 la quale, tuttavia, all’art. 28, comma 10, ha riprodotto lo stesso, identico contenuto della precedente disposizione.  Sennonché, l’articolo 28, comma 10, della legge regionale dell’Umbria n. 1/2015 è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con sentenza 5 aprile 2018, n. 68; più in particolare, il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche.  La questione di costituzionalità involge, pertanto, una norma (articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11) non più in vigore nell’ordinamento giuridico ma che, ciò nonostante, è stata applicata ratione temporis alla fattispecie che ha originato la controversia, assumendo così connotati della rilevanza in concreto in forza del principio tempus regit actum.  La Sezione non può, tuttavia, ignorare, ai fini della esaminanda rilevanza, la nota distinzione tra “disposizione” e “norma”; distinzione che riflette la dialettica tra legislazione e interpretazione.  Per disposizione si intende la proposizione normativa (o enunciato) contenuta in un testo, per norma ciò che risulta a seguito dell’attività interpretativa di una disposizione. Ragion per cui, tra una disposizione e una norma non sussiste necessariamente un parallelismo perfetto potendo ad una norma corrispondere più disposizioni (il caso del “combinato disposto”) come anche ad una disposizione corrispondere, invece, norme diverse.  Nella fattispecie in esame, le proposizioni normative recate dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11 (applicato ratione temporis alla fattispecie e tuttora vigente come enunciato) e dall’art. 28, comma 10, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 (la cui disposizione è stata dichiarata incostituzionale) sono diverse.  Pur tuttavia, le norme – quale frutto di esegesi delle due disposizioni - s’appalesano identiche.  Per cui, alla controversia in esame andrebbe applicata una norma regionale (ovvero un “diritto concreto”) non più esistente nella corrente interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale. Il che, espresso in altri termini, significherebbe applicare al rapporto tuttora ancora pendente una norma dichiarata incostituzionale eppur, tuttavia, presente nell’ordinamento giuridico come “diritto astratto”, in ragione della disposizione (testo legislativo) che la veicola.   E’ poiché l’oggetto del sindacato di legittimità costituzionale sono, non sempre le disposizioni quanto, piuttosto, proprio le norme (si pensi alle c.d. sentenze interpretative, di accoglimento e di rigetto, e tutte le nuove tipologie di sentenze: manipolative, additive, sostitutive; incidono per l’appunto, non sul testo delle disposizioni legislative, bensì sul loro significato), si potrebbe essere indotti a ritenere che la norma recata dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11, non sia più cogente a seguito della sentenza 5 aprile 2018, n. 68 abrogativa della stessa norma riprodotta nel testo degli artt. 28, co. 10, della legge regionale Umbria n. 1 del 2015 e, dunque, inapplicabile alla controversia.  Un’attività interpretativa, questa, che finirebbe però per essere operata dal giudice a quo e sottratta alla Corte ma che potrebbe legittimarsi alla luce di altri principi costituzionali, anche di matrice eurounitaria, altrettanto rilevanti e immediatamente precettivi quali quelli di economia processuale, concentrazione dei giudizi nonché ragionevole durata del processo; opzione questa che, tuttavia, proprio perché di carattere interpretativo e proveniente dal giudice sfornito della competenza sull’annullamento delle leggi, non potrebbe sortire l’effetto espulsivo della norma dall’ordinamento giuridico la quale, pertanto, continuerebbe ad esistere nella gerarchia formale delle fonti potendo in tal modo generare incertezza negli operatori e nell’attività regolatrice dei rapporti amministrativi tuttora incisi temporalmente dalla norma in questione, finendo per compromettere altrettanti valori ordinamentali come l’effettività della tutela e la certezza del diritto.   La Sezione ritiene, quindi, rilevante, anche sotto tale ultimo profilo, la questione di legittimità della norma rimettendone lo scrutinio alla Corte affinché il giudice delle leggi chiarisca se il sindacato di legittimità può e deve essere esercitato tutte le volte che di “efficacia” (art. 136 Cost.) e di “applicazione” (art. 30, legge 11 marzo 1953, n. 87) della legge possa parlarsi - indipendentemente dalla avvenuta abrogazione della medesima ad opera di una legge regionale sopravvenuta ma ratione temporis inapplicabile o dalla dichiarazione di incostituzionalità che ha investito la norma sopravvenuta recante il medesimo contenuto precettivo - poiché tale legge resterebbe pur sempre “efficace” ed “applicabile” nei limiti consacrati dai principi regolanti la successione delle leggi nel tempo.   Oppure se, a fronte di disposizioni diverse ma norme perfettamente identiche, la Corte ritiene che la declaratoria di incostituzionalità della norma successiva abbia una tale espansione abrogativa da esonerare il giudice a quo dalla necessità di operare, sempre e in ogni caso, il rinvio (anche) della norma anteriore, ab illo tempore vigente, il cui testo materiale continua ad essere presente nell’ordinamento gerarchico formale mentre il suo contenuto, identicamente riprodotto in una norma successiva poi dichiarata incostituzionale, non costituirebbe più, di fatto, il diritto vivente.  Va soggiunto, ad ogni buon fine, che la legge regionale n. 11 del 2005 (e con essa l’articolo 24, co. 10) è stata abrogata dalla successiva legge regionale n. 1 del 2015 (art. 271), a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo testo unico (29 gennaio 2015).   Deve ritenersi, quindi, che la norma in esame abbia prodotto effetti fino alla data del 29 gennaio 2015, regolando ratione temporis e tempus regit atum, il procedimento per cui è causa.  Anche per tal via, s’appalesa rilevante la questione di costituzionalità dell’articolo 24, co. 10, della legge regionale dell’Umbria n. 11 del 2005.  Sulla manifesta non infondatezza della questione.  L’articolo 89 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, così recita:   “1. Tutti i comuni nei quali sono applicabili le norme di cui alla presente sezione e quelli di cui all’articolo 61, devono richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio.   2. Il competente ufficio tecnico regionale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta dell'amministrazione comunale.   3. In caso di mancato riscontro entro il termine di cui al comma 2 il parere deve intendersi reso in senso negativo”.  Muovendo  dalle considerazioni più volte affermate e ribadite dalla Corte secondo cui l’art. 89 del d.P.R. n. 380/2001 è norma di principio in materia non solo di “governo del territorio”, ma anche di “protezione civile”, in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica, se ne deve inferire che detta norma (di rango legislativo) si impone al legislatore regionale nella parte in cui in cui prescrive a tutti i Comuni, per la realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche, di richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1); disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo (comma 3).  Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla giurisprudenza della Corte (cfr. sentenze n. 167 del 2014, n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010), anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe a quella in esame (sentenze n. 64 del 2013 e n. 182 del 2006), “riveste una posizione ‘fondante’ […] attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali” (sentenza n. 167 del 2014).   Le disposizioni regionali di cui all’art. 24, c. 9, pertanto, nella parte in cui assegnano ai Comuni – piuttosto che al competente ufficio tecnico regionale ‒ il compito di rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, si pongono in contrasto con il principio fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Edilizia
Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale – Art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ratio - Individuazione  ​​​​​​​          Nelle gare di appalto, il regime della clausola sociale richiede un bilanciamento fra più valori, tutti di rango costituzionale, ed anche europeo; ci si riferisce da un lato al rispetto della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost, ma anche dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce ‘la libertà di impresa’, conformemente alle legislazioni nazionali; dall’altro lato, in primo luogo al diritto al lavoro, la cui protezione è imposta dall’art. 35 Cost, e dall’art. 15 della Carta di Nizza, di analogo contenuto (1).    (1) Cons. Stato, Comm. spec., parere 21 novembre 2018, n. 2703. La clausola sociale va formulata e intesa in maniera elastica e non rigida, rimettendo all’operatore economico concorrente finanche la valutazione in merito all’assorbimento dei lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario, anche perché solo in questi termini la clausola sociale è conforme alle indicazioni della giurisprudenza amministrativa secondo la quale l’obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali del precedente appalto va contemperato con la libertà d’impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell’appalto (Cons. Stato, sez. V, 12 settembre 2019, n. 6148; id., sez. VI, 21 luglio 2020, n. 4665; id. 24 luglio 2019, n. 5243; id., sez. V, 12 febbraio 2020, n. 1066). Il tema delle modalità di attuazione della clausola sociale è stato peraltro affrontato dal Consiglio di Stato in sede consultiva, con il parere già citato reso sulle Linee guida dell’Anac relative all’applicazione dell’art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 (Linee guida n. 13, poi approvate con delibera n. 114 del 13 febbraio 2019).  Al riguardo è stata posta in risalto in particolare l’opportunità di prevedere un “vero e proprio ‘piano di compatibilità’ o ‘progetto di assorbimento’, nel senso che [l’offerta] debba illustrare in qual modo concretamente l’offerente, ove aggiudicatario, intenda rispettare la clausola sociale”; il che confluirebbe nella formulazione di “una vera e propria proposta contrattuale […] che contenga gli elementi essenziali del nuovo rapporto in termini di trattamento economico e inquadramento, unitamente all’indicazione di un termine per l’accettazione”, con conseguente possibilità per il lavoratore di “previa individuazione degli elementi essenziali del contratto di lavoro” (Cons. Stato, parere n. 2703 del 2018, cit.). Allo stesso modo, la stazione appaltante potrebbe valutare se “inserire tra i criteri di valutazione dell’offerta quello relativo alla valutazione del piano di compatibilità, assegnando tendenzialmente un punteggio maggiore, per tale profilo, all’offerta che maggiormente realizzi i fini cui la clausola tende”.  Da ciò si ricava chiara conferma che è rimessa al concorrente la scelta sulle concrete modalità di attuazione della clausola, incluso l’inquadramento da attribuire al lavoratore, spettando allo stesso operatore formulare eventuale “proposta contrattuale” al riguardo, anche attraverso il cd. “progetto di assorbimento”, effettivamente introdotto dall’art. 3, ultimo comma, delle Linee guida Anac n. 13 (cfr., in proposito, Cons. Stato, sez. V, 1 settembre 2020, n. 5338); il che vale a escludere che dalla clausola sociale possa derivare sic et simpliciter un obbligo in capo al concorrente d’inquadrare il lavoratore con lo stesso livello d’anzianità già posseduto.  È stato recentemente sottolineato come la clausola non comporti “alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata, nonché alle medesime condizioni, il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria, ma solo che l’imprenditore subentrante salvaguardi i livelli retributivi dei lavoratori riassorbiti in modo adeguato e congruo”; di guisa che “l’obbligo di garantire ai lavoratori già impiegati le medesime condizioni contrattuali ed economiche non è assoluto né automatico” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche id. 16 gennaio 2020, n. 389, in cui si precisa, sotto altro concorrente profilo, che sull’aggiudicatario non grava “l’obbligo di applicare ai lavoratori esattamente le stesse mansioni e qualifiche che avevano alle dipendenze del precedente datore di lavoro”; v. anche Id. 13 luglio 2020, n. 4515, in ordine al Ccnl prescelto). Per tali ragioni va escluso che la clausola sociale possa implicare la necessaria conservazione dell’inquadramento e dell’anzianità del lavoratore assorbito dall’impresa aggiudicataria.  Va peraltro rilevato, sotto altro profilo, che l’aspetto inerente al “modo [con cui] l’imprenditore subentrante dia seguito all’impegno assunto con la stazione appaltante di riassorbire i lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario (id est. come abbia rispettato la clausola sociale) attiene […] alla fase di esecuzione del contratto, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche la Linee guida Anac n. 13, che all’art. 5 prevedono: “L’inadempimento degli obblighi derivanti dalla clausola sociale comporta l’applicazione dei rimedi previsti dalla legge ovvero dal contratto. Nello schema di contratto le stazioni appaltanti inseriscono clausole risolutive espresse ovvero penali commisurate alla gravità della violazione. Ove ne ricorrano i presupposti, applicano l’articolo 108, comma 3, del Codice dei contratti pubblici”).  Per contro non vale il richiamare il precedente della Sezione che ha escluso che l’estensione della libertà imprenditoriale possa spingersi sino al punto di vanificare le sottostanti esigenze di tutela dei lavoratori sotto il profilo del mantenimento delle condizioni economiche e contrattuali vigenti, pena la legittimazione di politiche aziendali di dumping sociale in grado di vanificare gli obiettivi di tutela del lavoro (Cons. Stato, sez. V, 10 giugno 2019, n. 3885). ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Principio di continuità - Ratio. Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Sostituzione ausiliaria – Limiti.    Il c.d. principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione si impone non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, dunque, della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A (1).     La sostituzione dell'ausiliaria durante la procedura di gara è istituto patentemente derogatorio al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), rispondendo all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione dell'operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso (2). (1) Ha premesso il Tar che la valenza costitutiva della certificazione rilasciata da una SOA va correlata con lo scopo che la funzione di certificazione persegue, cioè l’attestazione che l'impresa possiede determinati requisiti soggettivi per eseguire opere pubbliche di un certo importo e che li mantiene nel corso di validità del periodo di vigenza della relativa certificazione; pertanto, il rinnovo, così come la verifica, di una SOA hanno effetti solutori della validità della stessa solo nel caso in cui venga accertata la perdita dei requisiti di qualificazione posseduti dall'impresa al momento del rilascio della prima attestazione. Ciò vale anche per il periodo intertemporale tra due certificazioni SOA: il rilascio di un nuovo attestato SOA, in fatto, certifica non solo la sussistenza dei requisiti di capacità da un data ad un’altra, ma anche che l'impresa non solo non ha mai perso quei requisiti in passato già valutati e certificati positivamente ma che, indubitabilmente, li ha mantenuti anche nel periodo di rilascio della nuova certificazione (Tar Catania, sez. I, 5 maggio 2017, n. 1008). Alla luce di quanto appena evidenziato deve concludersi per il mancato rispetto del c.d. principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione, principio che si impone “non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, dunque, della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A.” (Cons. Stato, sez. V, 15 gennaio 2019, n. 374). (2) La Sezione ha ricordato che l’art. 89, comma 3, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 stabilisce che “La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l'operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell'articolo 80. Essa impone all'operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione. Nel bando di gara possono essere altresì indicati i casi in cui l'operatore economico deve sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti tecnici”. La disposizione de qua recepisce la previsione dell’art. 63 (Affidamento sulle capacità di altri soggetti) della direttiva 24/2014/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 («L’amministrazione aggiudicatrice verifica, conformemente agli articoli 59, 60 e 61, se i soggetti sulla cui capacità l’operatore economico intende fare affidamento soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 57. L’amministrazione aggiudicatrice impone che l’operatore economico sostituisca un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione. L’amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione»), con ampliamento dell’ambito di operatività a tutti i motivi di esclusione dell’art. 80, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Tar Basilicata 14 marzo 2020, n. 194). Ciò chiarito, sul carattere “innovativo” dell’istituto della sostituzione del terzo ausiliario, si è soffermata la giurisprudenza, domestica ed eurounitaria (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2015, n. 5359, che ha evidenziato come lo stesso fosse “sconosciuto sia alla normativa nazionale che a quella europea”, e Corte di Giustizia UE, sez. I, 14 settembre 2017, C-223/16, Casertana costruzioni s.r.l., secondo la quale “l’articolo 63 […] apporta modifiche sostanziali per quanto concerne il diritto degli operatori economici di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti nell’ambito di un appalto pubblico” e “introduce nuove condizioni che non erano previste nel precedente regime giuridico”). Più di recente sull’innovatività della previsione in esame è tornata la giurisprudenza domestica (Cons. Stato, sez. III, ord., 20 marzo 2020, n. 2005, che ha dubitato del contrasto dell’art. 89, comma 1, quarto periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 con i principi e le regole di cui al cit. art. 63 della direttiva 2014/24/UE e della compatibilità della disposizione nazionale con i principi concorrenziali di cui agli artt. 49 e 56 del TFUE), ricordando come sotto la vigenza del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 la modificazione soggettiva dell’offerta era consentita solo nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese, per i motivi ivi previsti (art. 37, comma 19, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) e solamente nella fase di esecuzione del contratto. E’ stato osservato, inoltre, che la “sostituzione dell'ausiliaria durante la procedura è istituto patentemente derogatorio al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), rispondendo all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione dell'operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso” (Cons. Stato, sez. V, 26 aprile 2018, n. 2527; Tar Salerno, sez. I, 27 dicembre 2019, n. 2272).
Contratti della Pubblica amministrazione
Giochi – Sala da gioco – Contrasto alla ludopatia - pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco – Necessità.     Al fine di contenere e contrastare il fenomeno della ludopatia è necessaria la pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che con riferimento alle varie misure adottate dalle amministrazioni locali per circoscrivere l’attività delle sale da gioco, il Consiglio di Stato (con parere della sez. II, n. 3323 del 2015) ha sottolineato che la significativa evoluzione della giurisprudenza amministrativa in materia, alla luce delle più recenti pronunce della Corte costituzionale (sentenza n. 220 del 18 luglio 2014), seguita da alcune decisioni del Consiglio di Stato (sez. V, n. 5251 del 23 ottobre 2014; n. 4861 del 22 ottobre 2015 e n. 4794 del 20 ottobre 2015; sez. II, n.1666 del 4 giugno 2015) ha affermato il legittimo esercizio delle potestà regolamentari degli enti locali di intervenire per regolare la materia in questione. Inoltre, è stato evidenziato – proprio con riferimento alla libertà di iniziativa economica e alla sua comprimibilità - che anche la giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. ammette le idonee restrizioni alla disciplina europea in tema di libertà d’impresa qualora giustificate da esigenze imperative connesse all’interesse generale, “come ad esempio la tutela dei destinatari del servizio e dell’ordine sociale, la protezione dei consumatori, la prevenzione della frode e dell’incitamento dei cittadini ad una spesa eccessiva legata al gioco” (cfr. sentenza 24 gennaio 2013, nelle cause riunite C-186/11 e C-209/11, e sentenza 19 luglio 2012, nelle cause riunite C-213/11, C-214/11 e C-217/11), “con conseguente legittima introduzione, da parte degli Stati membri (e delle loro articolazioni ordinamentali), di restrizioni all’apertura di locali adibiti al gioco, a tutela della salute di determinate categorie di persone maggiormente vulnerabili in funzione della prevenzione della dipendenza dal gioco (interesse fondamentale, salvaguardato dallo stesso Trattato CE)” (nello stesso senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4498). Questo stesso Consiglio di Stato, nella decisione della sez. V 30 giugno 2014, n. 3271, riteneva, infatti che “L'art. 3 del D.L. n. 138/2011, convertito nella legge n. 148 del 2011, sempre in tema di abrogazione delle restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche, ha poi disposto che "l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge", affermando un fondamentale principio, derogabile soltanto in caso di accertata lesione di interessi pubblici tassativamente individuati (sicurezza, libertà, dignità umana, utilità sociale, salute)”. Su punto, si è pronunziata, peraltro, specificamente la Corte cost. con la sentenza n. 300 del 2011. La Sezione ha aggiunto che sia la giurisprudenza amministrativa sia la Corte Costituzionale hanno ritenuto, in più occasioni, che le disposizioni sui limiti di distanza imposti alle sale da gioco dai luoghi sensibili siano dirette al perseguimento di finalità, anzitutto, di carattere “socio-sanitario” e anche di finalità attinenti al “governo del territorio”, sotto i profili della salvaguardia del contesto urbano. La Corte Costituzionale ha ritenuto non irragionevoli, pertanto, le scelte regionali di ampliare il numero dei luoghi sensibili, includendovi persino luoghi adibiti ad “attività operative nei confronti del pubblico” che “si configurano altresì come luoghi di aggregazione, in cui possono transitare soggetti in difficoltà” (ad es. sentenza n. 27 del 2019). D'altra parte, la Corte Costituzionale, nei suoi numerosi interventi in materia, ha ritenuto che la tutela della salute (in cui rientra il contrasto alla ludopatia) è sussumibile tra gli obiettivi che, ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione, possono giustificare limitazioni all'iniziativa economica privata, tenuto conto della non assoluta preminenza del principio di libertà dell'attività economica privata nella nostra Costituzione. Anche a livello comunitario, le esigenze di tutela della salute vengono ritenute del tutto prevalenti rispetto a quelle economiche (cfr. Corte di Giustizia Europea, sentenza del 22 ottobre 2014, C-344/13 e C367/13). Si deve poi aggiungere, proprio per rafforzare la correttezza della interpretazione costituzionalmente orientata dalle disposizioni per il contenimento della ludopatia, che quest’ultima rappresenta oggi una forma diffusa di svilimento della dignità personale dei “ludopatici”, sicché la distanza prescritta tra la sala giochi e uno sportello bancomat è solo un ulteriore mezzo per evitare che l’occasione del prelievo sia facilmente colta dal soggetto ludopatico per continuare o aggravare la sua condizione sociale, personale e patologica: tutto questo, proprio in ossequio ai principi limitativi della iniziativa economica privata che l’art. 41 Cost. stabilisce, primo tra essi la “dignità umana”. Allo stato, pertanto, deve concludersi nel senso di non ritenere irragionevole né sproporzionato imporre limitazioni ad attività economiche riconosciute scientificamente pericolose alla salute, o comunque tali da incidere negativamente sulla dignità umana, già assai colpita dai soggetti ludopatici proprio perché non si tratta di introduzione di divieti generalizzati, ma di regolamentazione in corrispondenza di luoghi particolari.
Giochi
Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione - Occupazione appropriativa – Esistenza per effetto di giudicato civile – Trascrizioni e cancellazioni – Possibilità.  Processo amministrativo - Giudicato – Ambito di estensione.             Il privato ha titolo ad ottenere dalla P.A. espropriante le necessarie trascrizioni onde rendere conoscibile ed opponibile a terzi l’intervenuto passaggio di proprietà ed evitare i fastidi derivanti – in termini di pagamento tasse, formulazione dichiarazione redditi, e quant’altro - dalla condizione apparente per cui il bene in oggetto figurerebbe ancora nel compendio di pertinenza del privato espropriato; a tale risultato si può pervenire mediante accordo ricognitivo dell’avvenuto trasferimento della proprietà in virtù dei giudicati civili, ovvero mediante un decreto di esproprio (ora per allora), ovvero ancora attraverso un provvedimento ex art. 42 bis t.u. espr. (con esclusione di qualsiasi corresponsione di somme o indennità di sorta, ove la questione economica sia stata definita con i giudicati civili che abbiano riconosciuto al privato il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà degli immobili) (1).              Ai fini della estensione del giudicato il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione (2).    (1) Nella ricostruzione giurisprudenziale del principio della c.d. occupazione appropriativa, la perdita della proprietà del bene irreversibilmente destinato alle esigenze dell'opera pubblica dipendeva da un comportamento illecito della Pubblica Amministrazione che comportava l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della proprietà in capo all’ente procedente. Avvenendo l’acquisizione ipso iure, la sentenza (nel contenzioso promosso dal privato espropriato per il risarcimento del danno) avrebbe potuto solo accertare l’intervenuto acquisto.  Ma il giudicato doveva intendersi formato (anche) sul passaggio di proprietà, quale antecedente logico giuridico della statuizione sul risarcimento del danno.  In tal caso la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione. In tali situazioni, l’intervenuto giudicato sulla questione dell’assetto della proprietà non è più contestabile e impedisce la riproposizione del petitum mediante una domanda diretta alla restituzione del bene. Ciò anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, “il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della I Sez. del 16 marzo 2006 nel procedimento C-234/04)”.     (2) Cons. Stato, sez. III, 16 novembre 2018, n. 6471.
Espropriazione per pubblica utilità
Covid-19 – Aiuti economici – Buoni spesa per generi alimentari – Fornitura – Non va sospesa.     Non va sospesa la determina di Roma Capitale che avrebbe disposto la fornitura dei buoni spesa - quale erogazione di contributi alle persone e/o famiglie in condizione di disagio economico e sociale causato dalla situazione emergenziale in atto, provocata dalla diffusione di agenti virali trasmissibili (Covid -19) - senza valutare correttamente l’aspetto della convenienza concreta dell’offerta proposta dalla parte istante, non essendo ravvisabile un danno grave e irreparabile per il ricorrente a fronte dell’impatto sociale ed assistenziale di notevole valore in presenza dell’attuale situazione emergenziale determinata dal coronavirus.
Covid-19
Covid-19 – Aiuti economici – Artigiani - Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato – Trattamento ordinario di integrazione salariale – Concessione – Previa iscrizione al Fondo - Va sospesa monocraticamente.       Deve essere sospesa la delibera di urgenza adottata dal Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato il 2 marzo 2020 nella parte in cui prevede, per la concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale agli artigiani nel periodo emergenziale Covid-19, la preventiva iscrizione al Fondo e la conseguente assunzione di vincoli contributivi nei confronti dello stesso (1).   (1) Giova ricordare che il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha previsto, quale misura emergenziale, che tutti i datori di lavoro che nell’anno 2020 hanno sospeso o ridotto la propria attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno la possibilità di presentare una domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale o di accesso all'assegno ordinario con causale "emergenza COVID-19". Nel settore dell’artigianato, per agevolare e rendere più celere la concessione delle misure di sostegno, la gestione delle relative domande è stata affidata al Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato (FSBA).
Covid-19
Militare, forze armate e di polizia – Trattamento economico – Indennità di trasferimento - Quando spetta.    La natura autoritativa del movimento che dà diritto all’erogazione  dell’indennità ex l. n. 86 del 2001 non viene meno allorché l’Amministrazione, in vista di una programmata rimodulazione riduttiva della propria organizzazione territoriale, ha invitato il militare ad esprimere il proprio gradimento per un’altra sede (1).   (1) Ha premesso la Sezione premette, in linea generale, che l’indennità ex lege n. 86 del 2001 compete, fra gli altri, al personale in s.p.e. delle Forze Armate, delle Forze di polizia ad ordinamento militare e civile e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco trasferito “d’autorità” ad altra sede di servizio sita in un Comune diverso da quello di provenienza. Per movimento d’autorità deve intendersi quello disposto per perseguire, in via prioritaria, interessi dell’Amministrazione, non per soddisfare esigenze personali e familiari dell’interessato (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 6588). La giurisprudenza, peraltro, ha precisato che la natura autoritativa del movimento (e la conseguente spettanza dell’indennità) non viene meno allorché l’Amministrazione, in vista di una programmata rimodulazione riduttiva della propria organizzazione territoriale, abbia invitato il militare ad esprimere il proprio gradimento per un’altra sede (Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 2016, n. 1). In tal caso, infatti, “assume un valore decisivo la circostanza che il mutamento di sede origina da una scelta esclusiva dell’amministrazione militare che, per la miglior cura dell’interesse pubblico, decide di sopprimere un reparto (o una sua articolazione) obbligando inderogabilmente i militari di stanza a trasferirsi presso la nuova sede, ubicata in un altro luogo, onde prestare il proprio servizio” (così la citata Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 2016, n. 1). 4.4. Ove, tuttavia, la soppressione (o ridislocazione) del reparto di provenienza sia stata disposta in data successiva al 1 gennaio 2013 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 1 marzo 2017, n. 942), l’indennità non compete, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 86 del 2001, allorché il personale sia stato trasferito presso una sede ubicata in un Comune limitrofo, anche se distante oltre dieci chilometri da quello di provenienza (Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2018, n. 4355). In tali specifici casi, in sostanza, l’indennità compete solo in caso di trasferimento d’autorità presso enti ubicati in Comuni non confinanti con quello ove è allocata la sede originaria e, comunque, distanti fra loro (prendendo a riferimento le rispettive case comunali) oltre dieci chilometri. Il diritto alla percezione dell’indennità – aggiunge per completezza il Collegio – è rinunciabile (Cons. Stato, sez. IV, 5 dicembre 2019, n. 8332), si prescrive in cinque anni (Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2019, n. 1470) e prescinde dall’effettivo trasferimento fisico della residenza da parte dell’interessato (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 6588).
Militari, forze armate e di polizia
Processo amministrativo – rito appalti – Domanda cautelare – Istanza di rinvio – Conseguenze – Disciplina Processo amministrativo – Inammissibilità – Giudicato esterno - Preclusione - Principio del ne bis in idem – Funzione – Fattispecie Processo amministrativo – rito appalti – Interesse a ricorrere - Aggiudicazione – Impresa esclusa – Non sussiste - Fattispecie     Nel rito speciale accelerato in materia di appalti, la disciplina posta dall’art. 120, comma 6, cod. proc. amm. (come novellata dall'art. 4, comma 4, lett. a), decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120) rende tendenzialmente obbligato, salvo eventi eccezionali tipizzati dalla stessa disposizione (e la cui valutazione è rimessa al collegio giudicante), l’iter processuale che esaurisce il giudizio nell’unica udienza camerale fissata per l’esame della domanda cautelare, escludendosi di conseguenza la sussistenza di un diritto potestativo di natura processuale della parte ricorrente, volto alla calendarizzazione della decisione mediante richiesta di rinvio al merito. (1) Il principio del ne bis in idem comporta una preclusione da giudicato esterno, funzionale ad evitare la formazione di giudicati in potenziale conflitto fra di loro: tale preclusione opera ancorché la prima sentenza che sia stata pronunciata sulla medesima questione non sia ancora passata in autorità di cosa giudicata. (2) Allorché venga impugnato un provvedimento di esclusione di un’impresa dalla partecipazione ad una gara pubblica, e tale impugnativa venga respinta sia in primo grado, sia in grado di appello, la proposizione del ricorso per revocazione e del ricorso per cassazione avverso tale sentenza, non sospesa nella sua efficacia esecutiva, non fa sorgere in capo alla impresa esclusa dalla gara l’interesse ad impugnare l’aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. (3).     Con la decisione in rassegna, il Consiglio di Stato affronta tre importanti questioni processuali. La prima questione riguarda l’esegesi dell’art. 120, comma 6, prima parte, cod. proc. amm., (come novellato dall'art. 4, comma 4, lett. a), decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120), nella parte in cui si prevede che “Il giudizio, qualora le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell'articolo 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente”. Il Consiglio di Stato interpreta detta disposizione nel senso che, nelle controversie aventi ad oggetto procedure di evidenza pubblica, il giudizio è di norma definito alla camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, ove proposta. In ogni caso, la norma rimette al giudice la valutazione della sussistenza, o meno, di elementi impeditivi, tipizzati dalla stessa disposizione: nel qual caso la decisione sul merito, comunque da rendere in forma semplificata, viene rinviata ad una udienza prossima. Tale disciplina rende tendenzialmente obbligato, salvo eventi eccezionali indicati dalla stessa disposizione, l’iter processuale che esaurisce il giudizio, nell’unica udienza camerale fissata per l’esame della domanda cautelare. In ogni caso, la disposizione è sufficientemente chiara nel senso di escludere la sussistenza di un diritto potestativo di natura processuale della parte ricorrente, volto alla calendarizzazione della decisione: dopo la proposizione della domanda cautelare, di cui la parte processuale accetta le inevitabili conseguenze che ne derivano sul piano processuale, la norma impone la decisione immediata, salvo le eccezioni tipizzate previste, la cui valutazione è comunque rimessa al giudice). Il Consiglio di Stato osserva anche che la ridetta disciplina è ragionevole e si fonda sulla necessità di una sollecita decisione di merito, onde consentire il sindacato giurisdizionale senza rallentare eccessivamente le procedure di evidenza pubblica. Poiché tale regime implica, inevitabilmente, la compressione di spazi processuali in danno di altre materie, parimenti afferenti alla complessiva domanda di giustizia, la disposizione in esame coerentemente ricollega alla proposizione della domanda cautelare, un effetto processuale non più negoziabile, salvo il ricorrere dei fatti impeditivi tipizzati. La seconda questione processuale concerne l’applicazione del principio del ne bis in idem: nel ribadire il consolidato indirizzo esegetico della giurisprudenza amministrativa e di legittimità, secondo cui l’applicazione del principio è funzionale ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, in quanto “corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (essendo tale garanzia di stabilità, collegata all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive) (cfr. Cass. S.U. n. 13916/2006)” (Corte di Cassazione, sez. VI civile, ordinanza n. 16589/2021; nello stesso senso Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5422/2018), il Consiglio di Stato precisa che la ridetta preclusione opera anche quando la prima sentenza che sia stata pronunciata sulla questione, non sia ancora passata in autorità di cosa giudicata. La terza questione processuale riguarda l’accertamento della sussistenza, o meno, dell’interesse di un’impresa esclusa dalla partecipazione alla gara, a ricorrere avverso la nuova aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. Secondo il Consiglio di Stato, allorché venga impugnato il provvedimento di esclusione e tale impugnativa venga respinta sia in primo grado, sia in grado di appello, la proposizione del ricorso per revocazione e del ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che ha definitivamente accertato l’esclusione dell’impresa, qualora non sospesa nella sua efficacia esecutiva, non fa sorgere in capo alla impresa esclusa dalla gara l’interesse ad impugnare l’aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. (3).
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Competenza - Difetto di competenza territoriale – Esame nella fase di merito – Se nella fase cautelare è stata implicitamente trattenuta la competenza - Art. 15, commi 1, 2 e 3, c.p.a. – Violazione artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza.           È rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, commi 1, 2 e 3, c.p.a. nella parte in cui precludono al Giudice di esaminare e pronunciare sulla proposta eccezione di parte del difetto di competenza territoriale anche nella fase di merito, qualora nella fase cautelare  sia stata trattenuta implicitamente la competenza (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che il secondo comma dell’art. 15 - il quale, secondo il diritto “vivente”, tramite l’inciso “in ogni caso” introduce una preclusione ai poteri del Giudice analoga a quella prevista dall’art. 38, comma 3 c.p.c. nel giudizio civile, arretrando e confinando, peraltro, la possibilità di rilevare ed esaminare la questione di competenza territoriale alla fase cautelare -, possa violare gli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost., sotto il duplice profilo dell’irragionevole limitazione del diritto alla tutela giurisdizionale e dell’eccesso di delega legislativa. Invero, le parti diverse dai ricorrenti – cui spetta la facoltà processuale costituzionalmente tutelata di far valere la propria posizione giuridica nella sede di competenza del giudice precostituito per legge -, pur proponendo tempestivamente l’eccezione di incompetenza territoriale, si vedono preclusa la possibilità di una pronuncia esplicita e nella fase di merito sulla loro eccezione, qualora sia stata proposta domanda cautelare, e sono addirittura costretti ad impugnare l’ordinanza cautelare a loro favorevole che abbia ritenuto implicitamente la competenza, per evitare la definitiva eliminazione in entrambi i gradi del giudizio della suddetta facoltà processuale. Sotto altro, concorrente profilo, l’art. 44 della legge n. 69 del 2009, che aveva delegato il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato”, è rimasto silente sullo specifico aspetto della disciplina afferente al rilievo dell’incompetenza territoriale. L’assenza sul punto di principi e criteri direttivi, pur non essendo di per sé decisiva, di certo non autorizzava il legislatore delegato ad innovare radicalmente la disciplina in esame, trasformando il regime della competenza territoriale da “sempre derogabile” (come previsto in precedenza) a “sempre inderogabile”, fin dalla fase cautelare (come stabilito nel nuovo codice del processo amministrativo), e creando una inusitata interferenza tra fase cautelare e rilievo definitivo dell’incompetenza. Si è dunque concretizzata un’ipotesi di vizio di eccesso di delega, per contrasto tra norma delegata e norma delegante (norma interposta e parametro di costituzionalità dei decreti legislativi delegati), in ragione dell’esorbitanza dall’oggetto della delega del sistema previsto dal legislatore delegato, con specifico riferimento, per quanto di interesse, alle limitazioni temporali e strutturali imposte al rilievo ed esame della questione di competenza territoriale. Più in particolare, la sospetta violazione indiretta dell’art. 76 Cost. si è manifestata su due fronti concorrenti: da un lato, perché il silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico aspetto sul quale è intervenuto in modo particolarmente innovativo rispetto al previgente sistema il legislatore delegato (regime processuale del rilievo del difetto di competenza territoriale), non può non risultare chiaramente rivelatore della volontà di non introdurre sul punto alcuna modifica; dall’altro, perché le disposizioni delegate sotto esame non rappresentano un mezzo di attuazione delle finalità della delega, ma anzi risultano in contrasto, per la fortissima compressione delle facoltà processuali delle parti interessate ad ottenere una pronuncia dal giudice precostituito per legge, con gli indirizzi generali stabiliti dall’art. 44, l. n. 69 del 2009, secondo cui il nuovo codice del processo amministrativo avrebbe dovuto assicurare “l’effettività della tutela”. Sulla base delle su esposte considerazioni, la Sezione ritiene dunque necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunci sulla questione. Osserva che una pronuncia caducatoria delle norme censurate, che resti limitata all’eliminazione dell’inciso “in ogni caso” di cui al secondo comma dell’art. 15 c.p.a., risulterebbe congrua rispetto all’obiettivo perseguito dal rimettente, che è quello di potere esaminare e pronunciare esplicitamente sull’eccezione di incompetenza territoriale tempestivamente sollevata dalla difesa erariale anche nella fase di merito, nonostante la Sezione abbia già deciso sulla proposta domanda cautelare, ritenendo implicitamente, in quella diversa fase, la propria competenza territoriale. L’eliminazione dell’inciso “in ogni caso”, infatti, riespanderebbe, secondo un’interpretazione costituzionalmente adeguata, l’applicabilità alla fattispecie in esame del comma 1 del citato art. 15, secondo cui “il difetto di competenza è rilevato d'ufficio finché la causa non è decisa in primo grado”.
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Legge Pinto - Adempimenti prescritti dall’art. 5 sexies, l. n. 89 del 2001 – Dichiarazione attestante “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo”- Omissione – Conseguenza.    Processo amministrativo – Eccezioni - Sollevate d’ufficio – Avviso ex art. 73, comma 3, c.p.a. – Quando occorre.         E’ inammissibile il ricorso, proposto ai sensi della c.d. Legge Pinto n. 89 del 2001, in cui – in spregio alla specifica prescrizione dettata dal primo comma dell’art. 5 sexies, l. 24 marzo 2001, n. 89 – nei moduli inviati al Ministero è stata omessa l’apposita dichiarazione, ex artt. 46 e 47, d.P.R. n.445 del 2000, attestante “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo” (1). 
Processo amministrativo
Energia elettrica – Biodisel – Regolamento n. 37 del 2015 - Retroattività – Legittimità.  Risarcimento danni – Affidamento – Annullamento regolamento – Condizione.           E’ legittimo il d.m. 17 febbraio 2015 n. 37 – recante “Regolamento recante modalità di applicazione dell'accisa agevolata sul prodotto denominato biodiesel, nell'ambito del programma pluriennale 2007-2010, da adottare ai sensi dell'articolo 22-bis del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 – atteso che il riesercizio del potere regolamentare dell’amministrazione si è realizzato legittimamente in ottemperanza ai giudicati del Consiglio di Stato e non poteva non implicare una rideterminazione dei coefficienti sulle quote di biodiesel fiscalmente agevolato già assegnate nelle annualità del programma trascorse (1).             La responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato da un regolamento, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento (2).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’irretroattività sia un predicato assoluto e irrefragabile della sola legge penale, mentre, nei limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e della tutela del legittimo affidamento, sia gli atti normativi (ai quali si iscrive oramai pacificamente il regolamento) sia i provvedimenti amministrativi possono dispiegare effetti retroattivi.  In proposito, è sufficiente ricordare i principi e la corposa giurisprudenza che vi ha dato attuazione in materia di “tetti di spesa”, in base ai quali la determinazione in corso d’anno dei “tetti di spesa”, che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate, non può considerarsi, in quanto tale, affetta da illegittimità (così, ex multis, Cons. Stato, Ad. pl., 12 aprile 2012 n. 3 e 4; sez. III, 7 marzo 2012, n. 1289; 23 dicembre 2011, n. 6811; 7 dicembre 2011, n. 6454; 17 ottobre 2011, n. 5550; 29 luglio 2011, n. 4529; sez. V, 8 marzo 2011, n. 1431; 28 febbraio 2011, n. 1252; Ad. pl., 2 maggio 2006 n. 8).   Nel caso di specie, peraltro, gli asseriti illegittimi effetti retroattivi sono la risultante dell’avvenuto annullamento, in parte qua, dei precedenti regolamenti e dei criteri “distributivi” in essi previsti.  Né si potrebbe ritenere che l’annullamento di un regolamento dalla cui immediata applicazione sono derivati determinati effetti giuridici e materiali reversibili dovrebbe comunque rimanere privo di ricadute concrete, poiché le precedenti assegnazioni di risorse, sia pure avvenute sulla scorta di criteri illegittimi, non potrebbero essere rimesse in discussione.  Tale tesi contraddice i principi basilari del processo amministrativo e dell’azione di annullamento.  Quanto avvenuto costituisce, infatti, piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. nn. 5 del 2019, 1 del 2018, 4 e 5 del 2015; Corte di giustizia UE, sez. II, 14 maggio 2020, C-15/19), il quale, nei limiti del noto brocardo secondo cui factum infectum fieri nequit, tende a riportare la situazione “di fatto” a conformità con quella “di diritto”, la quale ultima, evidentemente, non era quella prefigurata dall’art. 4, comma 2, del d.m. n. 25 luglio 2003 n. 256, e dall’art. 3, comma 4, del d.m. n. 156 del 3 settembre 2008 (in quanto regolamenti in parte qua illegittimi), ma quella delineata dal regolamento n. 37/2015, attuativo dei principi formulati da questo Consiglio con i giudicati di annullamento del 2012 e ritenuti compatibili con la disciplina euro-unitaria dalla sentenza della Corte di giustizia.        (2) Ha chiarito la Sezione che in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento” (Cons. Stato, Ad. pl., 29 novembre 2021, n. 21; sulla stessa linea in precedenza Ad. plen., n. 19 del 2021).       I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata dall’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”). 
Energia elettrica
Alimenti - Tutela - Produzioni Dop -  Regolazione dell’offerta di formaggio - Piano Regolatore dell’offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019 – Legittimità.             E’ legittima l’adozione, per il triennio 2017-2019, del Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano. ai sensi dell’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, che autorizza gli Stati membri a “stabilire, per un periodo di tempo limitato, norme vincolanti per la regolazione dell’offerta di formaggio che beneficia di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta”, ad eccezione della disciplina della modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori, che si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione (1). (1) La Sezione ha ritenuto complessivamente legittima l’adozione, per il triennio 2017-2019, del Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano. ai sensi dell’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, che autorizza gli Stati membri a “stabilire, per un periodo di tempo limitato, norme vincolanti per la regolazione dell’offerta di formaggio che beneficia di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta”. Ha unicamente rilevato un profilo di illegittimità per disparità di trattamento circa la modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori che si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione. La sentenza ha in primo luogo rilevato che la rinnovazione del piano di regolazione per un ulteriore triennio, dopo l’adozione del piano per il precedente triennio 2014-2017, non è vietata dalla normativa UE. Infatti, la lettera c) del par. 4 dell’art. 150 del Regolamento 1308/2013prevede che: "le norme di cui al par. 1 possono essere rese vincolanti per un massimo di tre anni ed essere rinnovate dopo questo periodo a seguito di una nuova richiesta di cui al paragrafo 1”. Quanto alla scelta di mantenere lo stesso PRC (punto di riferimento comprensoriale) del precedente piano (pari a 1.762.000 ton di latte), tale scelta è stata ritenuta ragionevolmente e legittimamente motivata - nel Piano - dalla considerazione che il livello produttivo 2015 esprime condizioni di sostanziale equilibrio rispetto agli strumenti già disponibili, e pertanto non punta – a tali livelli produttivi – a reperire risorse aggiuntive dalla contribuzione aggiuntiva. Il TAR ha poi ritenuto che la scelta di imperniare il sistema di regolazione dell’offerta sulle quote latte  sia ragionevole in quanto per il Parmigiano Reggiano si verifica la sostanziale esclusività di impiego del latte prodotto dalle stalle inserite nel sistema di controllo della Dop. nella filiera del Parmigiano Reggiano, pertanto, il rapporto “vacche – latte – formaggio” è sostanzialmente esclusivo. (v. pag. 8 del Piano). Il controllo delle quote latte, pertanto, consente di influire sulla regolazione della produzione del formaggio mediante lo strumento della contribuzione aggiuntiva in caso di c.d. “splaffonamento”. Circa la questione dell’(eventuale e futuro) aumento incontrollato dei prezzi delle quote latte, paventata da parte ricorrente, la sezione ha ritenuto che si tratta di una conseguenza dell’andamento del mercato delle quote, che seppur non auspicabile, non può essere motivo per incrementare oltre misura la produzione del parmigiano, a scapito delle esigenze di tutela del prodotto poste a fondamento dell’adozione del piano. Infine, il TAR ha ritenuto non ragionevole la modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori, laddove determina una irragionevole disparità di trattamento che finisce per agevolare e grandi produttori di latte a svantaggio dei piccoli produttori e dei caseifici aziendali, calcolando al contribuzione aggiuntiva non sul latte prodotto ma sullo splafonamento del caseificio cui essi conferiscono latte, e cioè su un dato che è al di fuori delle conoscenze, e ancor più di qualsiasi possibilità di influenza e previsione. Il Tar ha pertanto disposto l’annullamento delle clausole del Piano relative allo splaffondamento del caseificio, respingendo per il resto tutte le altre censure dedotte.
Alimenti
Processo amministrativo - Covid-19 – Udienza cautelare e di merito – Richiesta di discussione da remoto dell’avvocato di una parte – Opposizione di un avvocato – Mancanza di peculiarità della causa tale da superare il principio della concorde convergenza delle parti nel richiedere la discussione orale – Va accolta l’opposizione.             Va accolta l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa, e quindi la causa passa in decisione senza discussione orale, ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020, nel caso in cui – stante il contesto circostanziale e normativo speciale relativo allo svolgimento dell’udienza mediante modalità telematiche e fatta salva l’integrità del contraddittorio comunque pienamente garantita – l’opposizione risulti fondata su elementi di meritevolezza, non emergendo una obiettiva peculiarità della causa tale da superare il principio della concorde convergenza delle parti nel richiedere la discussione orale nelle modalità attualmente previste.
Processo amministrativo
Autorità amministrative indipendenti – Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - Comunicazioni elettroniche – Operatori aventi significativo potere di mercato – Prezzi – Obblighi – Possibilità – Ratio – Abuso di posizione dominante - Qualificazione - Margin squueze – Prevenzione.   Autorità amministrative indipendenti – Discrezionalità tecnica - Sindacabilità – Limiti.             La normativa del Codice delle comunicazioni elettroniche prevede che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni possa imporre obblighi volti a prevenire la pratica di prezzi predatori da parte degli operatori aventi un “significativo potere di mercato”; tale normativa persegue il primario fine di tutela della concorrenza del mercato e del connesso interesse pubblico all’apertura dello stesso; si tratta, in buona sostanza, di prevenire un abuso di posizione dominante che prende il nome di “margin squeeze”; la compressione dei margini si configura quando il differenziale tra il prezzo dell’input, fornito dall’impresa dominante nel mercato a monte - impresa verticalmente integrata -,e il prezzo dell’output, offerto da quest’ultima sul mercato a valle, risulta essere negativo o insufficiente a coprire i costi di un operatore, attivo nel downstream market, efficiente quanto l’impresa che attua tale condotta; ciò che spinge l’impresa ad effettuare una compressione dei margini è l’intento di escludere le rivali dal mercato a valle, per cui si tratta di un abuso escludente (1).             Il sindacato giurisdizionale, pieno ed effettivo, sugli atti regolatori delle Autorità indipendenti si estende anche all’accertamento dei fatti operato dall’Autorità sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili, al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico, e implica la verifica del rispetto dei limiti dell’opinabile tecnico-scientifico (e, nell’ambito di tali confini, anche del grado di attendibilità dell’analisi economica e delle valutazioni tecniche compiute, alla stregua dei criteri della ragionevolezza e della proporzionalità), attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.); tale sindacato non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.     (1) In termini generali, ha ricordato la Sezione che le misure limitative della concorrenza, date dal regolatore, si giustificano in presenza di un operatore dominante o meglio che detenga un significativo potere di mercato. Si interviene ex ante, indirizzando i comportamenti delle imprese che operano in questi settori con obblighi positivi specifici. E’ possibile che, in un determinato settore, la concorrenza non consenta il perseguimento di interessi meritevoli di tutela. In tal caso, si può intervenire regolamentando il settore e andando a limitare la concorrenza in nome di tali interessi. Non v’è alcuna contraddizione, tuttavia, fra regolazione ex ante e tutela della concorrenza. Le Corti europee hanno più volte confermato il principio di applicabilità delle regole di concorrenza anche in presenza di specifiche regolazioni settoriali e il Tribunale stesso, in relazione al caso Telefònica, ha affermato che “le norme in materia di concorrenza previste dal trattato CE completano ,per effetto di un esercizio di controllo ex-post, il contesto normativo adottato dal legislatore dell’Unione ai fini della regolamentazione ex-ante dei mercati delle Telecomunicazioni”. Tali misure, nella specie, come si vedrà si concretizzano nel test di replicabilità delle offerte. In tale contesto, con delibera n. 623/15/CONS contenente l’analisi del mercato, l’Autorità ha evidenziato, in particolare, che Telecom Italia è ancora “l’unico operatore verticalmente integrato lungo tutta la catena tecnologica e impiantistica a livello nazionale” mentre gli operatori alternativi (cc.dd. “OLO”), quale è la ricorrente, da un lato “devono rispettare i vincoli imposti da Telecom Italia nell’acquisto dei servizi intermedi, dall’altro si trovano a competere con quest’ultima nel mercato a valle”. Quindi, la stessa Autorità ha espressamente sancito, al comma 7 dell’art. 11 (rubricato Obblighi di non discriminazione), che “tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio (inclusi i bundle) devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente e, pertanto, sono sottoposte ad un test di replicabilità, in modalità ex ante ossia prima del lancio commerciale, da parte dell’Autorità”. L’art. 65 della medesima delibera (Replicabilità dei servizi al dettaglio di accesso alla rete fissa) ha poi precisato che “In attuazione dell’obbligo di non discriminazione di cui all’art. 11 nonché dell’obbligo di controllo dei prezzi di cui all’art. 13, tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio – sia per effettuare e/o ricevere chiamate telefoniche ed accedere ai servizi correlati sia per accedere ai servizi di trasmissione dati a banda larga – offerti su rete in rame e su rete in fibra, commercializzati singolarmente o in bundle con altri servizi – incluse le promozioni – devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente. L’Autorità effettua la verifica della replicabilità economica e tecnica delle offerte di cui al comma precedente mediante i test definiti ai sensi della delibera n. 499/10/CONS e successive integrazioni, salvo quanto stabilito in merito alle gare per pubblici appalti ed alle procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore di cui all’articolo seguente”, inoltre fissa le modalità di espletamento delle verifica “de qua”, prescrivendo, tra l’altro, che essa avvenga mediante i test di cui alla delibera n. 499/2010 (doc. 5 ric.) e successive modificazioni ed integrazioni. Quest’ultima delibera del 2010 è stata integrata dalla delibera n. 604/13 per quanto concerne l’applicabilità dei medesimi test di prezzo anche ai servizi a banda ultralarga su fibra ottica e, ancor prima, dalla Circolare applicativa, datata 8 luglio 2011 espressamente dedicata alle modalità applicative della delibera n. 499 cit.   Per quanto riguarda in dettaglio le analisi necessarie ai predetti fini di verifica, in particolare, nella stessa delibera n. 499/2010 si legge (par. 1.4, pag. 50, doc. 5 ric.) che le analisi multiperiodali possono essere effettuate sia analizzando (mediante il test c.d. “Period by Period”) ciascun periodo della “permanenza media del cliente nell’offerta”, sia analizzando unicamente il risultato a fine periodo (c.d. analisi “DCF”). Quest’ultima analisi è più appropriata per la valutazione di offerte mediante le quali si realizzino investimenti fissi “ad hoc” da recuperare in un determinato intervallo temporale, il che corrisponde alla logica economica secondo cui il ritorno degli investimenti non si realizza in un unico periodo, ma nel corso della vita utile dell’investimento effettuato. Quindi andrebbero valutati secondo il criterio DCF, in vista della verifica del risultato alla fine del “multi-periodo” considerato, gli investimenti e i relativi ammortamenti; al riguardo l’Autorità, nella delibera n. 499 ha mostrato di ritenere congruo un arco temporale di 24 mesi per i servizi in rame, fatte salve future modifiche di esso ove ritenute più congrue (in effetti per le offerte in fibra il periodo di osservazione è stato successivamente esteso a 36 mesi). Viceversa i costi variabili dovrebbero essere recuperati in ciascun singolo periodo, su base annuale (o sulla base della durata minima contrattuale dell’offerta) e, pertanto a questa verifica meglio si adatta il test “Period by Period” (PbP) che consente di verificare che in ciascun singolo periodo (e non solo “alla fine” dell’arco temporale totale dell’investimento considerato) vengano coperti tutti i costi variabili relativi all’offerta (inclusi i costi “W” relativi ai fattori produttivi di rete essenziali, vedi pagg. 47 e pag. 50 delibera n. 499). “Al fine di garantire una corretta valutazione delle offerte, che tenga conto delle logiche economiche e di sviluppo del mercato, l’Autorità …(ha ritenuto) opportuno integrare l’utilizzo di entrambi i metodi di valutazione” (pag. 50 delibera ult. cit.). Alla suddetta regola generale - secondo la quale la verifica di replicabilità si deve svolgere attraverso entrambi i metodi di analisi sopra citati - fanno eccezione alcune rilevanti fattispecie che lo stesso Regolatore, già a partire dalla delibera n. 499/10 ha ritenuto di sottrarre alla verifica “PdP”. Due di esse sono direttamente contemplate dalla delibera in commento che esclude dalla sottoposizione al test PbP: i) le offerte formulate in occasione di procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore, a cui si applicano criteri “ad hoc”; ii) le offerte c.d. “entry level” cioè finalizzate allo sviluppo del mercato, considerata la necessità di specifici investimenti destinati a tale sviluppo, da assoggettare al solo test DCF. Con la Circolare del 8 luglio 2011, l’Autorità ha successivamente dettato le modalità attuative della delibera 499/10 e, per quanto di interesse nella specie, ha delineato ulteriori fattispecie da assimilare all’ipotesi di offerta “new entry” ai fini dell’esonero dall’analisi di tipo PdP (in deroga alla regola generale della doppia verifica): il par. 6, punto 27 della Circolare nominata individua tali fattispecie nelle “…offerte promozionali che presentano un impatto limitato sulle dinamiche competitive nei mercati al dettaglio. In tale categoria rientrano, a titolo di esempio, le promozioni commercializzate in modalità c.d. rush, ossia per intervalli di tempo particolarmente ridotti e/o attraverso alcuni specifici e limitati canali di acquisizione (ad esempio mediante il solo canale web)”. L’assoggettamento di queste tipologie di promozioni al solo test DCF è stato ribadito dalla successiva delibera AGCOM n. 604/13 (in tema di offerte “ultrabroadband” in fibra) che espressamente menziona anche le offerte “limited edition” caratterizzate dal fatto che l’operatore prevede un numero massimo di acquisizioni nel periodo di commercializzazione, di limitato impatto percentuale rispetto al totale delle attivazioni dell’offerta nel periodo considerato.     (2) Ha ricordato la Sezione che se è vero che in generale sussiste la sindacabilità della discrezionalità tecnica delle determinazioni delle cc.dd. Autorità indipendenti, è altrettanto vero che sia inibito al Giudice imporre verifiche tecniche diverse da quelle previste dal vigente quadro regolatorio.   Infatti, sebbene il sindacato giurisdizionale, pieno ed effettivo, sugli atti regolatori delle Autorità indipendenti si estenda anche all’accertamento dei fatti operato dall’Autorità sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili (al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico; v. sul punto, ex plurimis, Cons. St., sez. III, 25 marzo 2013, n. 1645), e implichi la verifica del rispetto dei limiti dell’opinabile tecnico-scientifico (e, nell’ambito di tali confini, anche del grado di attendibilità dell’analisi economica e delle valutazioni tecniche compiute, alla stregua dei criteri della ragionevolezza e della proporzionalità), attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.), tale sindacato non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, come avvenuto nel caso di specie, peraltro sulla base di una motivazione apodittica non supportata da specifici riferimenti normativi ed adeguati elementi istruttori (Cons. St., sez. VI, 25 settembre 2017, n. 4460).
Autorità amministrative indipendenti
Ambiente - Valutazione impatto ambientale – Subordinata al rispetto di specifiche prescrizioni – Legittimità.     E’ legittima una valutazione di impatto ambientale (VIA) che dichiari la compatibilità ambientale di un progetto subordinatamente al rispetto di specifiche prescrizioni e condizioni, da verificare all’atto del successivo rilascio dei titoli autorizzatori necessari per la concreta entrata in funzione dell’opus, nulla ostando in linea di principio a che l’Amministrazione attesti che, a seguito dell’adozione futura di ben precisi accorgimenti, l’opera possa risultare compatibile con le esigenze di tutela ambientale (1).    (2) Ha chiarito la Sezione che i limiti alla legittimità di tale modus procedendi attengono al grado di dettaglio e di specificità delle prescrizioni, nonché al numero ed alla complessiva incidenza delle stesse sui caratteri dell’opera, in quanto la formulazione di prescrizioni eccessivamente generiche, ovvero relative a pressoché tutti i profili di possibile criticità ambientale dell’opus, potrebbe risolversi in una sostanziale pretermissione del giudizio. Una simile evenienza, da accertarsi nel caso concreto, ha carattere patologico e lumeggia l’illegittimità dell’azione amministrativa, che, in casi siffatti, rinviene non dalla presenza di prescrizioni in sé e per sé considerate, ma dal fatto che il carattere abnorme (qualitativamente, tipologicamente o numericamente) di tali prescrizioni disvela, a monte, l’assenza di un’effettiva, concreta ed attuale valutazione di impatto ambientale, ossia il sostanziale rifiuto dell’esercizio del potere, pur nella formale spendita dello stesso. ​​​​​​​Ha aggiunto la sezione che la situazione soggettiva comunemente nota come potestà, di cui è investita l’Amministrazione nell’esercizio di poteri discrezionali, presenta, oltre all’aspetto del “potere” (ossia della capacità di modificare unilateralmente ed autoritativamente la sfera giuridica degli amministrati), il contestuale e parallelo tratto del “dovere” (da intendersi tanto come dovere dell’esercizio, posto che tale situazione è indisponibile, quanto come dovere della finalizzazione teleologica di tale esercizio, che deve essere volto a conseguire gli scopi indicati dalla legge): tale situazione, del resto, è altresì nota come potere-dovere. 
Ambiente
Consiglio di Stato e Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana – Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana - Componente laico - Trasferimento al Consiglio di Stato – Esclusione.      E’ legittimo il diniego di trasferimento presso una delle Sezioni del Consiglio di Stato e dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato di un componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la previsione di componenti laici si correla all’istanza di decentramento degli organi giurisdizionali nazionali espressa nello statuto speciale della Regione siciliana, cui è stata poi data concreta attuazione con il decreto legislativo n. 373 del 2003. Come al riguardo affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 4 novembre 2004, n. 316, e di recente ribadito da questo Consiglio di Stato in sede consultiva (Cons. Stato, I, parere 11 febbraio 2021, n. 186), il decreto attuativo ha concretizzato il principio di specialità espresso nel più volte citato art. 23 dello statuto della Regione siciliana, il cui primo comma è così formulato: «Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione». Nella sentenza poc’anzi richiamata la Corte costituzionale ha precisato che il principio statutario di specialità risponde ad «un’aspirazione viva, e comunque saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali», e di esso è espressione la peculiare struttura e composizione del Consiglio di giustizia amministrativa, secondo un modello di giudice speciale rispondente alle istanze autonomistiche regionali recepite nello statuto speciale siciliano. In questa prospettiva si colloca il potere di designazione dei componenti laici spettante ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 373 del 2003 al presidente della Regione siciliana, quale rappresentante delle ora menzionate istanze autonomistiche regionali, il quale in ragione di ciò partecipa anche alla fase deliberativa presso il Consiglio dei ministri. In pedissequa applicazione del fondamento istitutivo del Consiglio di giustizia amministrativa finora esposte, ed a prescindere dal fatto che, come statuito dalla sentenza di primo grado, esse non sarebbero state specificamente censurate dall’avvocato Zappalà, il diniego di trasferimento ad esso opposto ha legittimamente fatto riferimento alle norme di attuazione dello statuto regionale, di cui al d.lgs. n. 373 del 2003 sulla composizione e le funzioni del Consiglio di presidenza. Diversamente da quanto sostiene al riguardo l’appellante non è invece rilevante in contrario il fatto che il medesimo decreto legislativo non rechi alcun divieto in questo senso. Una simile previsione non avrebbe in realtà ragione di porsi, dal momento che il vincolo di permanenza del componente laico presso il Consiglio di giustizia amministrativa è innanzitutto insito nella dimensione esclusivamente regionale delle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa e di giurisdizione attribuite all’organo, in base ai sopra citati artt. 4, comma 3, e 9, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003; oltre che nella speciale composizione mista delle sue due Sezioni, consultiva e giurisdizionale, contraddistinta da distinti contingenti di consiglieri di Stato e componenti laici, e dalla partecipazione necessaria di questi ultimi ai relativi organi, secondo le disposizioni dei parimenti sopra richiamati artt. 3 e 4 d.lgs. n. 373 del 2003. L’opposta tesi della libera mobilità dei componenti laici verso il Consiglio di Stato porta invece alle seguenti aporie: da un lato componenti espressione delle istanze autonomistiche della Regione siciliana andrebbero a svolgere le loro funzioni al di fuori del territorio regionale, con relativo svuotamento del principio di specialità che è alla base dell’istituzione del Consiglio di giustizia amministrativa da parte dello statuto speciale, avente rango costituzionale; dall’altro lato per ovviare alle scoperture di organico così venutesi a creare e per ripristinare i contingenti numerici previsti dagli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 373 del 2003 si renderebbe necessaria la nomina di altri componenti laici, e dunque, considerato anche il possibile flusso inverso, per un verso si altererebbe il rapporto laici - togati presso il Consiglio di giustizia amministrativa previsto dalla legislazione attuativa dello statuto regionale; e per altro verso si introdurrebbe un fonte di provvista dei consiglieri di Stato ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 19, l. n. 186 del 1982. Con l’accoglimento della tesi sulla libera alla mobilità verso le sezioni del Consiglio di Stato si verrebbe quindi a spezzare il «legame funzionale esclusivamente con l’attività giurisdizionale e consultiva relativa agli affari di interesse regionale» che contraddistingue il rapporto organico dei componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa, ed in base al quale questi ultimi sono investiti di «una funzione legata all’amministrazione della giustizia esclusivamente nel territorio regionale e alle controversie in cui è interessata la regione stessa» (così il sopra citato parere della I Sezione di questo Consiglio di Stato del 11 febbraio 2021, n. 186). Si attribuirebbe inoltre prevalenza al distinto rapporto che viene ad instaurarsi tra il componente laico e la giustizia amministrativa, ovvero al «rapporto di servizio». A quest’ultimo riguardo deve peraltro darsi atto che ai sensi del già richiamato art. 7, d.lgs. n. 373 del 2003 «vi è, per il periodo del mandato, l’equiparazione ai magistrati del Consiglio di Stato» dei componenti laici, i quali godono del «medesimo stato giuridico dei consiglieri di Stato» (così ancora il parere ora richiamato). Su tale previsione si imperniano gli assunti dell’avvocato Zappalà.  Nondimeno, la relazione tra i due distinti rapporti deve trovare la giusta collocazione nel senso che va tenuto fermo il rapporto organico su cui si fonda l’esercizio delle funzioni consultive e giurisdizionali del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, a sua volta indissolubilmente legato all’organo investito delle «funzioni consultive e giurisdizionali nella Regione siciliana, ai sensi dall’articolo 23 dello Statuto speciale» ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003). Rispetto al rapporto organico il rapporto di servizio si pone invece in posizione accessoria. Ciò si desume dall’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003, il quale dispone che al medesimo componente si applicano «durante il periodo di durata in carica» le norme concernenti lo status giuridico ed economico del consigliere di Stato. Le norme sullo stato giuridico ed economico vanno quindi a disciplinare i contenuti del rapporto di servizio del componente laico per tutta la durata della carica, la quale deve comunque svolgersi presso il Consiglio di giustizia amministrativa e, per rispondere alle ulteriori pretese inerenti all’accertamento dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato avanzate dall’avvocato Zappalà, per il periodo di sei anni, senza possibilità di conferma, secondo quanto previsto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 373 del 2003. Se dunque il componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa è equiparato al consigliere di Stato, egli intanto lo è nella misura in cui sia investito delle funzioni spettanti dell’organo previsto dallo statuto speciale della Regione siciliana ed espressione del principio di specialità che ne costituisce la ragione fondante. Come sopra esposto, l’attuazione di questo principio ad opera del medesimo d.lgs. n. 373 del 2003 si è tradotta nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa, con la previsione di consiglieri di Stato da un lato e dall’altro lato di componenti designati dalla Regione siciliana e nominati secondo modalità analoghe ai consiglieri di Cassazione per meriti insigni e ai consiglieri di Stato di nomina governativa. Tuttavia, mentre per i primi l’assegnazione al Consiglio di giustizia amministrativa costituisce una vicenda modificativa inerente al rapporto di organico e di servizio (con il collocamento fuori ruolo e il mutamento della sede, ai sensi dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 373 del 2003), per i secondi l’interesse regionale a base della loro nomina e della costituzione del rapporto organico con il Consiglio importa un vincolo di sede presso lo stesso organo di giustizia amministrativa, poiché solo nell’incardinamento in quest’ultimo si giustifica a termini di statuto speciale della Regione siciliana la figura del componente laico. Di riflesso, pur in presenza dell’equiparazione del trattamento giuridico ed economico al consigliere di Stato il rapporto di servizio del componente laico soffre di questa limitazione alla mobilità, giustificata sul piano statutario nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa e che va quindi ricondotta alle ragioni fondanti l’istituzione in questo settore dell’attività giurisdizionale di un organo speciale a competenza regionale. L’equiparazione non può quindi essere intesa in senso assoluto. Essa deve infatti tenere conto del diverso ed antitetico sistema di provvista dei componenti del Consiglio di presidenza, riferito a due distinte disposizioni dell’art. 106 della Costituzione: l’uno, in conformità al comma 1 della disposizione costituzionale ora richiamata, mediante il collocamento fuori ruolo di magistrati di carriera, reclutati mediante concorso pubblico, salva la peculiare figura del consigliere di Stato di nomina governativa, che si giustifica in ragione dell’origine storica dell’Istituto; l’altro, in attuazione del comma 3 del medesimo art. 106 Cost., relativo alla nomina di consiglieri di cassazione “laici”, ovvero nominati per meriti insigni, e dunque attraverso il ricorso a figure tratte dalla società civile - «professori ordinari di università nelle materie giuridiche e (...) avvocati che abbiano almeno quindici anni di effettivo esercizio e (…) iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori » (art. 1, comma 1, l. n. 303 del 1998) - in possesso di meriti professionali adeguati all’ufficio da assumere. ​​​​​​​In assenza di vincoli a livello costituzionale o di statuto speciale della Regione siciliana, per il Consiglio di giustizia amministrativa la carica del componente laico la legislazione attuativa ne ha previsto la temporanea. Si tratta di una scelta di politica legislativa riconducibile alle ragioni di specialità che connotano l’organo giurisdizionale istituito nel territorio regionale e che è volta ad accentuare il carattere onorario dell’incarico, nel senso di renderlo rispondente a logiche di più ampia partecipazione all’ufficio degli esponenti della società civile siciliana. La scelta così descritta impedisce di configurare nel rapporto di servizio le caratteristiche del lavoro subordinato invece propria dei magistrati di carriera, reclutati mediante pubblico concorso. Le ora esposte considerazioni di politica legislativa a base della durata temporalmente definita dell’incarico prevista dal d.lgs. n. 373 del 2003 non consentono invece di richiamare a sostegno dell’opposta tesi della stabilità sostenuta dall’appellante, in analogia con quanto previsto per i consiglieri di Stato di nomina governativa, oltre che per i consiglieri di cassazione nominati per meriti insigni ex lege n. 303 del 1998. Ognuna di queste figure ha infatti ragioni fondanti e caratteristiche proprie, che impediscono di individuare un archetipo valevole per tutte queste e dunque una disciplina giuridica unitaria. 
Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana
Magistrati – Consiglio Superiore della Magistratura - Componenti laici – Rientro nella Amministrazione di provenienza - Assegno ad personam – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato       Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni se le disposizioni normative sull’assegno ad personam di cui all’art. 1, commi 457 e 458, l. n. 147 del 2013, nonché quelle di cui all’art. 8, comma 5, l. n. 370 del 1999 (nel testo vigente) siano applicabili anche ai componenti cc.dd. ‘laici’ del Consiglio Superiore della Magistratura (con la conseguenza di rendere inapplicabili nei loro confronti l’istituto dell’assegno ad personam) ovvero se questi ultimi siano esclusi dalla applicazione delle norme ivi contenute, anche in ragione del particolare munus ad essi affidato (art. 104, comma 4, Cost.); b) in caso di risposta affermativa al primo quesito, se le disposizioni normative de quibus siano applicabili ai ratei da corrispondersi a partire dal 1° febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147 del 2013 (1).    (1) Analoga rimessione è stata disposta con Cons. St., sez. VII, ord., 9 marzo 2022, n. 1673 Ha ricordato la Sezione che sulla questione si registra un contrasto giurisprudenziale.   Secondo un primo orientamento (sez. VI, 5 marzo 2018 nn. 1384 e 1385) l’art. 1, comma 459, l. n. 147 del 2013 “impone a tutte le Amministrazioni, nei cui ruoli siano rientrati propri dipendenti cessati da precedenti ruoli o incarichi, di adeguare - senza alcuna distinzione - i relativi trattamenti giuridici ed economici (disponendo la cessazione degli assegni ad personam in precedenza corrisposti) “a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore” della l. n. 147 del 2013. La prescrizione spiega dunque effetto per tutti i ratei retributivi da corrispondersi a partire dal 1 febbraio 2014 (ma, ovviamente, senza che vi sia luogo a restituzione di quanto fino a tale data percepito, in ciò sostanziandosi l'irretroattività, ove rettamente intesa, della norma sopravvenuta)”.  Secondo tali decisioni, il richiamato obbligo di adeguamento opererebbe anche in relazione allo speciale assegno ad personam di cui all’art. 3, l. n. 312 del 1971.  Il Consiglio di Stato (attraverso un percorso argomentativo che il Collegio ritiene in via di principio condivisibile) ha in particolare ritenuto che le nuove disposizioni normative siano connotate da retroattività c.d. “impropria”, che si realizza quando le norme sopravvenute regolano diversamente i tratti non esauriti dei rapporti di durata. Ha inoltre osservato che – pur dovendosi riconoscere ai richiamati interventi normativi valenza retroattiva, sia pure con salvaguardia degli emolumenti già corrisposti – gli stessi non si pongano in contrasto con i limiti che la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cedu hanno posto all’applicazione di discipline retroattive. È stato in particolare affermato che i richiamati interventi non si pongano in insanabile contrasto con le modalità e le condizioni di tutela del legittimo affidamento sancite – sia pure con declinazioni in parte diverse – dalla giurisprudenza costituzionale e da quella convenzionale.  Le richiamate sentenze della Sesta Sezione hanno inoltre rilevato che l’abrogazione espressa dell’art. 202 T.U. n. 3 del 1957 ad opera della legge n. 147 del 2013 ha altresì determinato come conseguenza l’abrogazione implicita (o, secondo una prospettiva in parte diversa, un vero e proprio fenomeno di “svuotamento normativo”) dell’articolo 3 della legge n. 312 del 1971 (secondo cui, è bene ricordarlo, il riconoscimento dell’assegno ad personam in favore degli ex componenti cc.dd. ‘laici’ del CSM opera “agli effetti e nei limiti stabiliti dall’articolo 202 [del d.P.R. n. 3 del 1957]”).   Ad analoghe conclusioni è pervenuto recentemente (con riguardo alla questione relativa al computo dell’assegno ad personam percepito da un componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, ai fini della determinazione della indennità di buonuscita) il Consiglio di Stato, Sezione III, nella sentenza n. 8026 dell’1 dicembre 2021.  Nelle predette pronunce è stato chiarito che le disposizioni normative introdotte nel 2013 dal legislatore nazionale, ai fini del contenimento della spesa pubblica, trovano applicazione anche agli incarichi di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, con la conseguenza che, a partire dalla mensilità successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 147/2013, non si ha più diritto a percepire l’assegno ad personam che in precedenza veniva erogato, al momento del rientro in servizio presso le Amministrazioni di appartenenza, per aver fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura.    La Sezione ha rilevato che in altre pronunce il Giudice amministrativo d’Appello è pervenuto a conclusioni sostanzialmente opposte.  In particolare, il Consiglio della Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, nella sentenza 14 aprile 2016 n. 89, partendo dall’assunto che l'elezione da parte del Parlamento di un professore a componente del Consiglio Superiore della Magistratura, prevista dal quarto comma dell'art. 104 della Costituzione, non può essere equiparata alla nomina a un incarico o a un servizio amministrativo in relazione al fondamento costituzionale del relativo munus, è pervenuto alla conclusione di ritenere che “l’art. 3 comma 1, l. n. 312 del 1971 è stato previsto espressamente per i componenti del C.S.M. ed è stato previsto per ristorare i peculiari sacrifici conseguenti alla rinunzia di svolgere altre attività (….) è necessario ritenere che si tratti di una norma speciale cioè di una norma che regola casi assolutamente particolari e specificamente individuati e, come tale, non può ritenersi che venga abrogata da una norma di carattere generale contenuta nell'art. 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 che - e questo sembra decisivo - comunque la si voglia interpretare fa riferimento a compiti, funzioni, incarichi svolti all'interno dell'amministrazione e non alle funzioni di competenza degli organi costituzionali”.     La tesi da ultimo richiamata sembra essere sostanzialmente ripresa anche da questo Consiglio di Stato, Sezione VI, nella sentenza dell’11 dicembre 2017 n. 5801, nella quale, in sede di ottemperanza, si afferma che: “l’effetto abolitivo, che per il personale universitario è comunque superfluo stante l’art. 8, comma 5, della l. 19 ottobre 1999, n. 370 (sul divieto di mantenimento di trattamenti economici goduti nel servizio o incarico svolto precedentemente), ha riguardato soltanto il predetto art. 202, mentre nella specie si versa nel diverso caso dell’assegno ex art. 3, primo comma, della 312/1971 (norma non incisa dal citato comma 458, primo periodo); – tale assegno segue sì la morfologia strutturale di quelli ex art. 202 del DPR 3/1957 ed è sì ad personam, ma, in quanto afferente al munus ex art. 104, quarto comma, Cost., giammai è assimilabile a quelli inerenti a qualunque incarico amministrativo cui possa esser applicato un pubblico dipendente, onde esso resta regolato non già dalla norma generale del medesimo comma 458, bensì dalla fonte speciale e riservata (la legge n. 312) anche sotto il profilo funzionale, servendo esso a ristorare quei peculiari sacrifici connessi all’incarico di rilevanza costituzionale e conseguenti alla rinuncia ai vari vantaggi attuali o potenziali del componente eletto nel CSM, ristoro di cui il legislatore s’è dato carico con la predetta regola ad hoc”.    La decisione da ultimo richiamata, in sintesi, perviene alla conclusione (di fatto, opposta rispetto a quella tracciata dalle richiamate sentenze numm. 1384 e 1385 del 2018) secondo cui gli interventi normativi del 2012-2013 non avrebbero determinato alcun effetto abrogativo nei confronti dello speciale assegno ad personam di cui alla legge n. 312 del 1971. E l’assenza di un tale effetto emergerebbe sia dalla mancanza di un’abrogazione espressa della richiamata disposizione, sia dal carattere del tutto speciale dell’attribuzione patrimoniale ivi disciplinata, che non potrebbe dirsi “travolta” in conseguenza dell’abrogazione dell’articolo 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 ​​​​​​​
Magistrati
Processo amministrativo – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE – Giudice di ultima istanza – Obbligo – Limiti.    Processo amministrativo​​​​​​​ – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE – Dopo decisione parziale – Esclusione - Limiti.  ​​​​​​​              Al fine di reprimere un “abuso del rinvio pregiudiziale”, devono ritenersi inammissibili questioni non pertinenti perché manifestamente irrilevanti per la soluzione del giudizio principale o perché del tutto generali o di natura meramente ipotetica, o comunque ove risulti in modo evidente che la richiesta di interpretazione del diritto dell’Unione non presenta alcun legame concreto con l’oggetto della causa  (1).                Non è concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, quale può essere la rimessione alla Corte di giustizia Ue, ben sollevabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione – parziale - della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente (2).    (1) Ha ricordato la Sezione che Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2020, n. 4970, ha affermato che la presenza di una “inconferente” e “irrilevante” istanza di rimessione alla Corte di giustizia UE esclude l’obbligo di rinvio pregiudiziale.  Ha aggiunto che a seguito di ordinanza 5 marzo 2012 n. 1244, con la quale il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte di Giustizia il quesito “se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, [comma] 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma comunitaria”, la Corte (con la nota decisione 18 luglio 2013 causa C-136/12, punto 26) ha chiaramente risposto che “dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell’art. 267 TFUE deriva che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81).    (2) Ha ricordato il C.g.a. che secondo la Corte di giustizia UE (10 lugllio 2014 C-213/13) il giudicato nazionale è intangibile, se così stabiliscono le norme processuali interne, e per converso tangibile solo se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono.  In tale ottica, il C.g.a. (22 febbraio 2021, n. 131) ha avuto occasione di affermare che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della sez. I, 16 marzo 2006, C-234/04).  E se anche ci sono limitati spazi per superare un giudicato nazionale in contrasto con il diritto eurounitario, tanto deve ritenersi ammesso quando il contrasto non era denunciabile prima del giudicato, e si manifesta dopo di esso, a causa di sopravvenienze normativa o di una sopravvenuta decisione della Corte di giustizia.  Non è certo concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, ben prospettabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione- parziale- della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente. Questo costituisce una singolare inversione dell’ordine logico delle questioni, in cui quelle “pregiudiziali” vanno decise, per definizione normativa e logica, “prima” del “giudizio di merito” e non dopo, al fine di porre nel nulla un giudizio di merito non conforme alle aspettative di parte. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Concorrenza – Abusi posizione dominante – Coordinamento tra operatori economici formalmente autonomi – Configurabilità di unico centro decisionale – Rimessione alla Corte di Giustizia UE.       Sono rimesse alla Corte di Giustizia UE i quesiti: 1) al di fuori dei casi di controllo societario, quali sono i criteri rilevanti al fine di stabilire se il coordinamento contrattuale tra operatori economici formalmente autonomi e indipendenti dia luogo ad un’unica entità economica ai sensi degli artt. 101 e 102 TFUE; se, in particolare, l’esistenza di un certo livello di ingerenza sulle scelte commerciali di un’altra impresa, tipica dei rapporti di collaborazione commerciale tra produttore e intermediari della distribuzione, può essere ritenuto sufficiente a qualificare tali soggetti come parte della medesima unità economica; oppure se sia necessario un collegamento “gerarchico” tra le due imprese, ravvisabile in presenza di un contratto in forza del quale più società autonome si «assoggettano» all’attività di direzione e coordinamento di una di esse, richiedendosi quindi da parte dell’Autorità la prova di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale e commerciale; 2) al fine di valutare la sussistenza di un abuso di posizione dominante attuato mediante clausole di esclusiva, se l’art. 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all’autorità di concorrenza l’obbligo di verificare se l’effetto di tali clausole è quello di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, e di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità delle condotte contestate di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti; oppure se, in caso di clausole di esclusiva escludenti o di condotte connotate da una molteplicità di pratiche abusive (sconti fidelizzanti e clausole di esclusiva), non ci sia alcun obbligo giuridico per l’Autorità di fondare la contestazione dell’illecito antitrust sul criterio del concorrente altrettanto efficiente (1).
Concorrenza
Militari, forze armate e di polizia -  Procedimenti disciplinari - Consumo di cannabis light – E’ grave illecito disciplinare.       Il consumo di cannabis light da parte dell’appartenente all’Arma dei Carabinieri, anche laddove eventualmente documentato e provato, integra grave illecito disciplinare   (1).    (1) Cass. pen., S.U, 30 maggio 2019, n. 30475. ​​​​​​​Ha ricordato il C.g.a. che nel caso di un appartenente all’Arma dei Carabinieri, anche un solo episodio di consumo di sostanze stupefacenti legittima la sanzione di grado massimo applicata nel caso di specie, atteso che la condotta, non conforme a criteri di correttezza ed esemplarità anche per un comune cittadino, si rivela particolarmente grave per chi appartiene ad una struttura, come l’Arma dei Carabinieri, che ha come scopo istituzionale quello della lotta al traffico di stupefacenti (Cons. Stato, sez, IV, 3 marzo 2020, n. 1562).
Militari, forze armate e di polizia
Agricoltura – Vigneti - Autorizzazione per nuovi impianti viticoli – Presupposti – Individuazione.              La disciplina europea in tema di autorizzazione per nuovi impianti viticoli, per concedere l’autorizzazione al nuovo impianto in “esubero”, ha richiesto una sorta di “garanzia”, che il legislatore nazionale può modulare o nella forma del mero impegno, ovvero in quella più stringente data dalla prova che l’imprenditore richiedente è degno di fiducia avendo già applicato, lui stesso, la disciplina biologica in modo integrale (l’intera superficie vitata di tutte le aziende) per un periodo di cinque anni.          (1) La Sezione ha preliminarmente ricordato che la materia trova la sua fonte primigenia e fondamentale nel diritto comunitario e, per quanto in questa sede di interesse, specificamente nel regolamento UE n. 1308/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio.    Assuma centralità, nel sistema di subcriteri o criteri dimostrativi previsto dal legislatore comunitario delegato, la manifestazione di volontà/ impegno del richiedente al rispetto di obblighi specifici nell’utilizzo delle superfici e, in via alternativa a questa, la circostanza, parimenti soggettiva, per cui i richiedenti devono essere già viticoltori al momento di presentare la richiesta e devono aver effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al primo capoverso all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta.   Il fatto che la previsione debba interpretarsi in chiave strettamente soggettiva/personalistica, essendo cioè rivolta alla persona del singolo imprenditore richiedente e non all’azienda oggetto dell’impresa agricola, si spiega ed è coerente rispetto alle sopracitate finalità che il complesso normativo comunitario intende perseguire: il bilanciamento tra incremento compatibile della produzione vitivinicola e rispetto delle esigenze di tutela del relativo comparto di mercato UE, evitando le discriminazioni e prevenendo gli abusi da parte degli imprenditori agricoli.       In questo senso, occorre premettere che l’applicazione di un criterio di priorità consente o comunque rende possibile all’imprenditore, in via sostanzialmente eccezionale, di usufruire della quota parte in “eccesso” degli impianti autorizzabili, sicché non è ammissibile un’interpretazione estensiva, e ancor meno analogica, dei criteri e dei subcriteri sopra ricordati.   Nel caso all’esame della Sezione, il criterio di priorità relativo <<alle superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, per quanto ritenuto dallo stesso legislatore europeo di natura oggettiva, collegandosi, testualmente, alle superfici e alla strumentale capacità dell’impianto di apportare un “vantaggio conservativo” all’ambiente, inevitabilmente sconta la necessità di trovare applicazione mediante elementi di natura soggettiva, in quanto si fonda, sostanzialmente, sulla “affidabilità” dell’imprenditore titolare delle superfici e dell’impianto, in ordine all’effettivo rispetto di tutti quegli obblighi e di quelle previsioni tecniche previste dalla normativa di settore, ad es., per le coltivazioni biologiche, a garanzia, cioè, dell’effettivo perseguimento di quella finalità di “conservazione ambientale”.    Si comprende, pertanto, come le disposizioni in esame si rivolgano non all’”azienda” o all’impresa considerata nella sua oggettività, ma proprio alla persona dello specifico imprenditore richiedente, dando luogo ad una fattispecie latamente assimilabile ad un rapporto intuitus personae.    In termini ancora più chiari, deve ritenersi che il legislatore comunitario, per concedere l’autorizzazione al nuovo impianto in “esubero”, abbia inteso richiedere una sorta di “garanzia”, che il legislatore nazionale può modulare o nella forma del mero impegno, ovvero in quella più stringente data dalla prova che l’imprenditore richiedente è degno di fiducia avendo già applicato, lui stesso, la disciplina biologica in modo integrale (l’intera superficie vitata di tutte le aziende) per un periodo di cinque anni.       Il legislatore nazionale ha, quindi, dato attuazione alle previsioni predette con il d.m. 15 dicembre 2015 n. 12272, come modificato dal d.m. 30 gennaio 2017, n. 527 e dal d.m. 13 febbraio 2018, n. 935.    In particolare, rileva, nella specie, l’art. 7 bis in forza del quale, dal 2018, le Regioni, laddove applichino il criterio di priorità relativo alle <<superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, di cui al par. 2, lett. b), art. 64 del regolamento e l’allegato II del regolamento delegato, ritengono tale criterio soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio e, se applicabile, al regolamento (CE) n. 889/2008 della Commissione all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta.   Quindi, il legislatore nazionale ha riprodotto la previsione più stringente prevista dall’Allegato II dei regolamenti delegati UE sopra visti, sicché, anche in ordine alla disposizione interna, valgono gli stessi ragionamenti ermeneutici sopra svolti con riferimento alla disciplina comunitaria.  ​​​​​​​
Agricoltura
Pubblica istruzione – Concorso - Concorso riservato – Immissione in ruolo su posti comuni e di sostegno dall’a.s. 2020/21 - iscritti ai TFA/Sostegno non avviati entro il 29 dicembre 2019 - Art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010 – Violazione artt. 2, 3, 32, 34 e 97 e 113 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.              E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 2, 3, 32, 34 e 97 e 113 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010, nella parte in cui pone: a) una data fissa per l’ammissione degli specializzandi iscritti ai Tirocini formativi attivi/Sostegno (TFA/S) al concorso riservato, per titoli ed esami, per l’immissione in ruolo di personale docente su posti comuni e di sostegno dall’a.s. 2020/21, in quanto iscritti ai TFA/Sostegno non avviati entro il 29 dicembre 2019, senza avere riguardo al fatto che il corso abilitante legittimante la partecipazione sia stato comunque avviato prima dell’indizione del concorso straordinario ed al fatto che l’ammissione al corso abilitante sia avvenuta in data utile per la presentazione della domanda al concorso straordinario; b) una data fissa pure per il conseguimento della abilitazione (senza considerare chi comunque consegua l’abilitazione in tempo utile per l’ammissione in servizio) (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010  è violativo dell’art. 3 Cost. ed in particolare dei principi di ragionevolezza che deve assistere ogni legge-provvedimento (nella specie giustificata ove ammette gli specializzandi ma non ove limita tale ammissione con un troppo rigido sbarramento temporale che non ha alcuna sua autonoma giustificazione a fronte della adozione delle diverse soluzioni divisate innanzi) e del principio di uguaglianza (ove discrimina fra soggetti che sono in situazioni del tutto similari tranne che per il profilo temporale) nonchè degli artt. 2, 32 e 34 Cost., ossia dei diritti fondamentali alla salute ed all’istruzione (ove restringe irragionevolmente la platea dei partecipanti alla selezione con possibile compromissione di tali valori evidentemente rilevanti nello svolgimento dell’insegnamento di sostegno a persone con disabilità) ed in ultimo degli artt. 97 Cost. (perché, pur in assenza di una attività riservata all’amministrazione, compromette con disposizioni di eccessivo dettaglio gli stessi interessi che la disposizione si propone di tutelare restringendo senza motivo la platea dei soggetti ammessi al concorso straordinario per soluzioni distoniche rispetto a quelle che – in assenza della norma – l’amministrazione avrebbe potuto tranquillamente adottare nella sua ordinaria attività di indizione dei concorsi) e 113 Cost. perché – legificando i bandi – sottrae senza motivazione alcuna alla tutela giurisdizionale le posizioni degli istanti lasciando al giudice amministrativo – per assicurare tutela – solo ed esclusivamente la strada della rimessione della norma al giudice delle leggi.  
Pubblica istruzione
Demanio – Demanio marittimo - Piani di gestione - Art. 5, comma 1, d.lgs. n. 201 del 2016 – Disciplina transitoria – Omessa previsione - Conseguenza.   Ambiente – Valutazione impatto ambientale - Contrasto tra amministrazioni – Conseguenza.   Ambiente – Tutela - Interesse paesaggistico con gli altri interessi in gioco – Fondamenta.         Il d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante "Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo" all’art. 5, comma 1, ha previsto l’adozione di appositi “piani di gestione”, da approvare entro il 31 dicembre 2020,  per regolamentare la gestione dello spazio marittimo, distribuendo in termini spaziali e temporali le pertinenti attività e usi delle acque marine, presenti e futuri, avuto riguardo anche ad impianti ed infrastrutture per la produzione di energie da fonti rinnovabili; l'omessa previsione di una disciplina transitoria, tuttavia, in ossequio al principio generale di continuità dell'azione amministrativa, non può di per sé comportare la sostanziale paralisi di tutti i procedimenti in corso, dovendo al contrario gli stessi essere definiti secondo le regole preesistenti (1).            In caso di contrasto tra amministrazioni nell’ambito di un procedimento di VIA/VAS è dunque sempre possibile attivare il rimedio generale previsto dall’art. 5, comma 2, lett. c bis), introdotto nella l. 23 agosto 1988, n. 400 dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303. Nel declinare, infatti, le prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 95 Cost., la norma gli attribuisce anche la facoltà di «deferire al Consiglio dei Ministri, ai fini di una complessiva valutazione ed armonizzazione degli interessi pubblici coinvolti, la decisione di questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti tra amministrazioni a diverso titolo competenti in ordine alla definizione di atti e provvedimenti». La norma peraltro  non obbliga il Presidente del Consiglio a sottoporre il conflitto al vaglio del Consiglio dei Ministri (“può”, non “deve” disporne la convocazione), né vincola la scelta di quest’ultimo, che resta un atto di alta amministrazione espressione di amplissima discrezionalità amministrativa (2).         É preclusa all’Amministrazione procedente la possibilità di cercare autonomamente di conciliare l’interesse paesaggistico con gli altri interessi in gioco, compreso quello ambientale appannaggio della Commissione tecnica costituita ai sensi dell’art. 7, d.l. 23 maggio 2008, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 luglio 2008, n. 123 all’uopo; la funzione di tutela del paesaggio, infatti, è estranea a ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione; tale regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost., il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili; anche laddove, cioè, il legislatore abbia scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza dei servizi, essa non comporta comunque un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale (3). (1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema degli effetti della mancata adozione dei nuovi strumenti di pianificazione dello “spazio marittimo” previsti dal d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante "Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo" e denominati “Piani di gestione”. Dopo averne ricordato  il procedimento -l’elaborazione dei piani di gestione deve avvenire, sulla base di linee guida redatte da un tavolo interministeriale di coordinamento istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri , a cura di un Comitato tecnico, allocato invece presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che provvederà avuto riguardo ad ogni area marittima individuata nelle linee guida- esamina le conseguenze della mancata previsione di una disciplina transitoria applicabile nelle more della loro adozione. Essa non può risolversi nella sostanziale paralisi dei procedimenti in corso, dovendo gli stessi continuare ad essere esaminati sulla base delle regole vigenti.    (2) Tra tali regole si colloca anche il doveroso coinvolgimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ciò anche in ragione dell’esplicito rinvio in tal senso contenuto nell’art. 14 quater, l. n. 241 del 1990 che, nel dettare a livello generale regole sulla conferenza dei servizi (istituto interamente novellato, con riferimento ai procedimenti avviati dopo la sua entrata in vigore, dal d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127), all’originario comma 5, oggi abrogato, sotto la rubrica "Effetti del dissenso espresso nella conferenza dei servizi", prevedeva espressamente che: «Nell'ipotesi in cui l'opera sia sottoposta a VIA e in caso di provvedimento negativo trova applicazione l'art. 5, comma 2, lett. c-bis), l. 23 agosto 1988, n. 400, introdotta dall'articolo 12, comma 2, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303».     (3)  E’ per contro escluso che il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, competente al rilascio del provvedimento di VIA, da adottare “di concerto” con il MIBACT, sulla base delle disposizioni del Capo IV del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella versione applicabile, come nel caso di specie, ai procedimenti avviati prima del 16 maggio 2017, giusta la previsione in tal senso contenuta nell’art. 23, d.lgs. 16 giugno 2017, n. 104, di recepimento della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, possa autonomamente bilanciare i contrapposti interessi in gioco, operando una propria mediazione rispetto a quello paesaggistico. Alla funzione di tutela del paesaggio, infatti (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione. Esso è atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, attraverso il quale, similmente a quanto avviene nell’espressione del parere di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’intervento progettato viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, «valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto» (Cons. St., sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652; id. 10 giugno 2013, n. 3205). Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione, il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili (Corte Cost. 29 dicembre 1982, n. 239; 21 dicembre 1985, n. 359; 27 giugno 1986, n. 151; 10 marzo 1988, n. 302; Cons. St., sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2378).
Ambiente
Processo amministrativo - Covid-19 – Udienza cautelare e di merito – Richiesta di discussione da remoto dell’avvocato di una parte – Opposizione di un avvocato – Accoglimento – Presupposti – Individuazione.             Va respinta l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa l’istituto dell’opposizione alla discussione orale ex art. 4, d.l. n. 28 del 2000 in quanto, avendo carattere straordinario perchè non prevista nel sistema processuale del codice del processo amministrativo, è di stretta interpretazione e pertanto può essere positivamente apprezzata solo con riguardo ad esigenze di sicurezza e funzionalità del sistema informatico, ovvero ad oggettive esigenze difensive, da esplicitarsi adeguatamente (1).   (1) E’ stato rilevato che non appaiono meritevoli di apprezzamento le motivazioni riferite alla copiosità della documentazione versata in atti ed alla ampiezza del contraddittorio scritto già espletato, in tal senso manifestando ex latere del resistente la superfluità della discussione orale.
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Astensione e ricusazione – Causa pendente al C.g.a. - Giudice relatore designato dalla Regione e retribuito dalla stessa – Reiezione - Ratio.              Deve essere respinta l’istanza di ricusazione del giudice relatore del Collegio decidente una causa incardinata al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana, che si fonda sulla circostanza che lo stesso, essendo stato designato dalla Regione e retribuito dalla stessa, non potrebbe trattare le cause di cui è parte la Regione ed essendo stato Assessore all’agricoltura non potrebbe trattare cause in cui è parte detto Assessorato, non essendo addotta alcuna delle cause di astensione obbligatoria del giudice previste dall’art. 51 c.p.c. (1).    L’ordinanza ha escluso la sussistenza di cause di astensione obbligatoria del giudice previste dall’art. 51 c.p.c., sul rilievo che: a) i giudici “laici” del CGARS non sono nominati dalla Regione, che si limita a designarli, ma dal Presidente della Repubblica, a seguito di un parere vincolante dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa; b) in ogni caso la designazione dei giudici “laici” da parte della Regione non determina nessun dovere, in astratto e di per sé sola, di astensione dalle cause in cui è parte la Regione stessa; seguendo tale ragionamento, nessun giudice ordinario potrebbe trattare le cause in cui è parte il Ministero della giustizia, che concorre al procedimento di nomina; nessun giudice “laico” del Consiglio di Stato potrebbe trattare le cause della Presidenza del Consiglio dei ministri che concorre nel procedimento di designazione; nessun giudice “laico” designato dalle province autonome di Trento e di Bolzano potrebbe mai trattare le cause in cui è parte la relativa Provincia (artt. 1 e 2, d.P.R. n. 426 del 1984); c) presso il C.g.a., il collegio giudicante deve essere necessariamente composto con la partecipazione di due giudici “laici”; essendo tutti i giudici laici designati dalla Regione, a seguire il ragionamento della parte ricusante, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti nelle cause in cui è parte la Regione, perché nessun giudice laico potrebbe farne parte (analogamente, nei collegi del Tar di Trento e della sezione autonoma di Bolzano, a partecipazione necessaria dei laici designati dalle rispettive Province autonome, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti se i relativi giudici laici dovessero astenersi dal trattare le cause in cui è parte la Provincia); d) non può rilevare la distinzione tra componente del collegio e giudice relatore, perché le cause di ricusazione e astensione si applicano a tutti i componenti del collegio e non solo ai giudici relatori; e) la “garanzia di indipendenza e imparzialità” dei giudici “laici” è assicurata dai rigorosi requisiti di legge prescritti e dal complesso procedimento di nomina in cui da un lato interviene un parere vincolante dell’organo di autogoverno che oltre a verificare il possesso dei requisiti formali, accerta la piena attitudine allo svolgimento imparziale delle funzioni, e dall’altro lato la nomina avviene con decreto del Presidente della Repubblica; oltre che dalla circostanza fattuale che il “mandato” del giudice laico eccede quello del governo regionale che lo designa, e non è automaticamente prorogabile; la previsione normativa dei giudici “laici” ha già superato positivamente il vaglio della Corte costituzionale; f) il procedimento descritto sub e) garantisce che la persona “designata dalla Regione” dopo la nomina a magistrato non ha alcun legame con la Regione sussumibile sotto l’art. 51 c.p.c. per il solo fatto della precedente designazione; mentre eventuali e diversi legami riconducibili all’art. 51 c.p.c. devono essere specificamente provati da chi li eccepisce; g) nemmeno rileva il rapporto di credito-debito inerente il pagamento dello stipendio del giudice laico (che in ogni caso non è a totale carico della Regione, ma solo nella misura del 50%); così ragionando, nessun giudice della Repubblica italiana potrebbe decidere le cause in cui sono parti il Ministero della giustizia, o dell’economia, o la P.C.M., quali soggetti erogatori della retribuzione dei magistrati o comunque partecipanti alla loro determinazione; non è questo il rapporto di credito-debito cui si riferisce l’art. 51 c.p.c.; le sezioni unite della Cassazione hanno statuito che la dipendenza del giudice dallo Stato non gli inibisce la trattazione di controversie in cui sia parte quest'ultimo, o altro ente pubblico cui egli sia collegato per ragioni di residenza (ad esempio comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo credibile in queste fattispecie che il giudice sia portato ad avvantaggiare o danneggiare, a seconda dei casi, il proprio debitore o creditore [Cass., sez. un., 11 aprile 2012, n. 5701]; h) la circostanza che il consigliere relatore sia stato, in anni risalenti a prima della nomina a magistrato, Assessore all’agricoltura non determina di per sé sola un obbligo di astensione sulle cause di cui sia parte detto Assessorato, in difetto di impugnazione di atti di tale Assessorato a cui il relatore abbia concorso in veste di Assessore. 
Processo amministrativo
Animali - Orsi - Pericolo per l'incolumità e la sicurezza pubblica - Cattura per captivazione e possibile soppressione - Ordinanza contingibile ed urgente del Presidente della Provincia di Trento - Legittimità.           E’ legittima l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Provincia Autonoma di Trento di intervento di rimozione dell’ orso M49 pericoloso per l’incolumità e la sicurezza pubblica (1).    (1) Ha premesso la Sezione che il Presidente della Provincia autonoma di Trento ha adottato l’ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 52, comma 2, d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 e dell’art. 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige 4 gennaio 1993, n. 1.  Nella specie, le ragioni di pubblica sicurezza che hanno portato alla adozione di tale provvedimento sono da ricondurre al comportamento dell’esemplare di orso denominato M49 e, in particolare, ai tentativi di intrusione in abitazioni di montagna e in strutture frequentate stagionalmente per attività zootecniche dallo stesso esemplare, tentati o portati a compimento, e all’intensificazione di tali comportamenti problematici, testimoniata da ben 14 tentativi di intrusione, di cui uno con contatto ravvicinato con un pastore.  A fronte di tali circostanze è stata ordinata la rimozione dell’orso, mediante cattura per captivazione permanente in area a ciò autorizzata, secondo quanto previsto dalla lettera j) del Piano d’Azione interregionale per la conservazione dell’Orso bruno sulle Alpi centro-orientali (denominato Pacobace). A seguito della fuga del plantigrado dall’area faunistica, in località Casteller, dove era stato rinchiuso, avvenuta la stessa notte della sua cattura, con nuova ordinanza il Presidente della Provincia ha ordinato la nuova cattura e, se necessario l’uccisione.  Ha affermato la Sezione che la valutazione in ordine alla pericolosità degli episodi di cui si è reso protagonista il plantigrado M49 ha carattere prettamente discrezionale ed è quindi sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo rimane estraneo l'accertamento della gravità degli episodi posti a base delle due ordinanze. Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato di questo giudice solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati.  Non costituisce profilo di illogicità o contraddittorietà la circostanza che il pericolo per l’incolumità pubblica che derivava dall’orso in libertà dovesse considerarsi al contempo “immediato” e “probabile”: il comportamento tenuto dal plantigrado, come può desumersi anche dai pareri dell’Ispra, richiedeva, in considerazione dell’intensificarsi degli episodi, un intervento immediato a tutela di persone, animali e cose senza che per legittimare la decisione di catturare l’orso fosse necessario il verificarsi di un evento di ancora maggiore gravità di quelli oggetto delle diverse relazioni intervenute nel tempo.  Ha aggiunto la sentenza che l’utilizzo, da parte del Presidente della Provincia, dei poteri ex artt. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993 non ha costituito un modo surrettizio per baipassare il procedimento ordinario dettato dall’art. 11, d.P.R. n. 357 del 1997, che richiede l’autorizzazione del Ministero dell’ambiente per poter catturare l’esemplare di orso o di lupo (specie protette) per la captazione permanente o addirittura la soppressione.  Ciò che, nella specie, ha spinto il Presidente della Provincia a ricorrere alle ordinanze contingibili e urgenti è, come è stato ampiamente illustrato, il pericolo per l’incolumità di persone, animali e cose in più Comuni della Provincia di Trento ad opera dell’orso M49, che più volte si è avvicinano all’uomo (e agli animali) ed ha tentato di entrare in manufatti. A fronte del silenzio serbato dal Ministero il Presidente della Provincia ha fatto ricorso al potere di carattere eccezionale che gli consentiva di pervenire, attraverso un procedimento più snello, al risultato oggetto della richiesta di autorizzazione (catturare l’orso).  Il fatto che tale provvedimento urgente – che è stato adottato con strumento normativo diverso da quello che impone il parere favorevole preventivo del Ministero dell’Ambiente – sia in questo caso specifico ritenuto legittimo, non significa certo che, in generale, la Provincia Autonoma possa procedere con atti di tal genere che, come appena detto, sono sindacabili e annullabili ove irragionevoli. Nel caso di specie, infatti, la “eccezionalità” dello strumento utilizzato è giustificata dal fatto che lo stesso Ispra non aveva negato né la “problematicità” dell’orso, né la possibilità – tra le altre – della soluzione della cattura, ma successivamente nessun atto, positivo o negativo in merito, era stato adottato dal Ministero dell’Ambiente, mentre la stagione estiva ormai sopraggiunta aumentava il pericolo di “incontri indesiderati” per l’aumento dei frequentatori, anche semplici turisti, nelle aree montane abitate dall’orso M49.  Corollario obbligato di tale premessa è che la presente decisione non può che riflettere la legittimità delle ordinanze alla luce dei fatti riferibili all’esemplare M49 e al contesto di riferimento. Né può rilevare il richiamo, operato dall’appellante, ad altre ordinanze contingibili e urgenti adottate dal Presidente della Provincia per catturare o abbattere altri orsi ritenuti pericolosi, a riprova che l’effettivo intendimento della Provincia sarebbe quello del contenimento di tale specie e non della tutela dell’incolumità di persone e animali; il giudice, infatti, non può che pronunciare sulla legittimità degli atti portati al suo esame e non è certo l’esistenza di più provvedimenti di contenuto analogo a quello delle ordinanze portato al suo esame a dimostrare ex se lo sviamento di potere.  Ancora, non può ritenersi che la normativa statale applicativa dei principi sovranazionali in materia di tutela delle specie protette (ursus arctos e canis lupus) escluda l’applicazione di poteri straordinari che eludano autorizzazioni e pareri degli organi competenti.  In altri termini, una volta ammessa dall’art. 1, l. prov. Trento n. 9 del 2018 - a determinate condizioni e secondo un procedimento che vede il coinvolgimento di alcune autorità - la possibilità di catturare o (in casi ancor più eccezionali) sopprimere l’orso per prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all'allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e ad altre forme di proprietà, per garantire l'interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica (Corte cost. 27 settembre 2019, n. 215), non può allora escludersi il ricorso al potere d’urgenza (attraverso l’ordinanza contingibile e urgente) nel caso di un pericolo tale da non consentire il ricorso alla disciplina ordinaria, e ciò nella fattispecie per le circostanze anche temporali sopra descritte.  Infine, va rilevato che il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente è ammesso anche dal Pacobace (punti 3.2.2 e 3.4.2 del Capitolo 3 – Criteri e procedure d’azione nei confronti degli orsi problematici e d’intervento in situazioni critiche). Più in particolare, il Capitolo 3, al punto 4.1 dispone che “è previsto l’intervento con azioni di controllo nei seguenti casi: su orsi individuati come problematici (dannosi o pericolosi); su orsi che si trovano in situazioni critiche, tali cioè da costituire rischio per le persone o per l'incolumità stessa degli orsi”. Un orso problematico può essere definito "dannoso" o "pericoloso" a seconda del suo comportamento, in relazione alle definizioni di seguito specificate. Un "orso dannoso" è un orso che arreca ripetutamente danni materiali alle cose (predazione di bestiame domestico, distruzione di alveari o danni a coltivazioni, o in generale danni a infrastrutture) o utilizza in modo ripetuto fonti di cibo legate alla presenza umana (alimenti per l’uomo, alimenti per il bestiame o per il foraggiamento della fauna selvatica, rifiuti, frutta coltivata nei pressi di abitazioni, ecc.). Un orso che causa un solo grave danno (o che ne causa solo assai raramente) non è da considerarsi un orso dannoso. Quanto all’”orso pericoloso”, esistono una serie di comportamenti che lasciano prevedere la possibilità che l’orso costituisca una fonte di pericolo per l’uomo. Salvo casi eccezionali e fortuiti, un orso dal comportamento schivo, tipico della specie, non risulta pericoloso e tende ad evitare gli incontri con l’uomo. La pericolosità di un orso è, in genere, direttamente proporzionale alla sua “abituazione” (assuefazione) all’uomo e al suo grado di confidenza con lo stesso. In altri casi la pericolosità prescinde dall’assuefazione all’uomo ed è invece correlata a situazioni particolari, ad esempio un’orsa avvicinata quando è coi piccoli o un orso avvicinato quando difende la sua preda o la carcassa su cui si alimenta. Il Pacobace, alla tabella 3.1 elenca alcuni possibili atteggiamenti dei plantigradi, a questi è affiancata una scala di problematicità e le azioni suggerite. Diversamente da quanto ritiene l’appellante, al punto 17 della tabella è prevista la situazione che ricorre con riferimento all’orso M49 e cioè dell’orso che “cerca di penetrare in abitazioni, anche frequentate solo stagionalmente”; verificandosi tale evenienza il Pacobace consente la captivazione permanente o – in casi estremi - la soppressione dell’orso. A tal fine è sufficiente la possibilità che nel manufatto sia presente l’uomo, potendo trattandosi anche di abitazione stagionale. 
Animali
Processo amministrativo - Notifica del ricorso – Notifica Pec – A Pubblica amministrazione – Dopo entrata in vigore del Pat – Solo indirizzo mutuato dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia – Errore scusabile – Va riconosciuto.                     La notifica telematica del ricorso alle Amministrazioni deve essere effettuata presso gli indirizzi mutuati dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia escludendo, in apice, ogni forma di equipollenza, con la conseguenza che nemmeno l’indirizzo Pec risultante dal registro IPA e gli indirizzi internet indicati nei siti dell’amministrazione possono ritenersi validi ai fini della notifica degli atti giudiziari alle P.A.; l’oscillazione giurisprudenziale riscontrata sul punto giustifica il riconoscimento dell’errore scusabile (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che dalla lettura sistemica delle disposizioni normative, di fonte primaria e secondaria, che disciplinano le notifiche a mezzo PEC in ambito PAT, deve ritenersi che la PEC da utilizzare per la rituale partecipazione del ricorso alle Amministrazioni pubbliche sia quella tratta dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, di cui all’art. 16, comma 12, d.l. n. 179 del 2012. Segnatamente, l’art. 14, comma 2, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (Regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del PAT) prevede che le notificazioni alle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi PEC di cui all’art. 16, comma 12, d.l..n. 179 del 2012, conv. in L. n. 221 del 2012, fermo quanto previsto dal regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. Ai sensi del suddetto comma 12, dell’art. 16, d.l. n. 179 del 2012, nel testo risultante dalla modifica operata col D.L. n. 90 del 2014, convertito dalla l. n. 114 del 2014, le amministrazioni pubbliche dovevano comunicare, entro il 30 novembre 2014, al Ministero della Giustizia l’indirizzo PEC valido ai fini della notifica telematica nei loro confronti, da inserire in un apposito elenco. Ciò in conformità con quanto previsto dal comma 1 bis dell’art. 16 ter del medesimo D.L. n. 179 (2012 (aggiunto dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. in l. 11 agosto 2014, n. 114) che ha reso applicabile alla giustizia amministrativa il comma 1 dello stesso art. 16 ter. Tale ultima disposizione, nella versione vigente, prevede che "a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli artt. 6-bis, 6-quater e 62, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, dall'art. 16, comma 12, del presente decreto, dall'articolo 16, comma 6, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”. E’, dunque, di tutta evidenza l’opzione del legislatore di conferire il predicato della ritualità della notifica telematica solo se effettuata presso gli indirizzi mutuati da elenchi ben individuati escludendo, dunque, in apice, ogni forma di equipollenza (Cass. civ., sez. VI, 27 giugno 2019, n.17346; id., ord., 25 maggio 2018, n. 13224; id.  11 maggio 2018, n. 11574; Cons. St., sez. III, 29 dicembre 2017, n. 6178; id. 20 gennaio 2016, n. 197; C.g.a. 12 aprile 2018, n. 217). D’altro canto, ha indubbio fondamento l’esigenza di certezza sottesa alla richiamata disciplina, trattandosi di adempimenti che si pongono a presidio dell’effettività del contraddittorio siccome funzionali ad una tempestiva ed efficace organizzazione della linea difensiva delle Amministrazioni intimate. In ragione di quanto fin qui evidenziato nemmeno l’indirizzo PEC risultante dal registro IPA può ritenersi valido ai fini della notifica degli atti giudiziari alle P.A. Il registro IPA, di cui all’art. 16, comma 8, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. in l. n. 2 del 2009, non viene, infatti, più espressamente menzionato tra i pubblici elenchi dai quali estrarre gli indirizzi PEC ai fini della notifica degli atti giudiziari. In particolare, l’elenco l’IPA era inizialmente equiparato agli elenchi pubblici dai quali poter acquisire gli indirizzi PEC validi per le notifiche telematiche dall’art. 16 ter, d.l. n. 179 del 2012, ma tale equiparazione è attualmente venuta meno in seguito alla modifica di tale disposizione. Stessa conclusione di inidoneità va replicata, per le medesime ragioni suesposte, per gli indirizzi internet indicati nei siti dell’amministrazione, che non trovano autonoma legittimazione normativa ai fini delle notifiche degli atti giudiziari. Ciò nondimeno, nemmeno può essere obliterato come l’esegesi della suddetta disciplina abbia avuto approdi non sempre univoci in giurisprudenza, rinvenendosi anche indirizzi inclini a riconoscere validità della notifica a mezzo posta elettronica certificata del ricorso effettuata all'amministrazione all'indirizzo tratto dall'elenco presso l'Indice PA vieppiù se l'amministrazione pubblica destinataria della notificazione telematica sia rimasta inadempiente all'obbligo di comunicare altro e diverso indirizzo PEC da inserire nell'elenco pubblico tenuto dal Ministero della Giustizia (Cons. St., sez. III, 27 febbraio 2019, n.1379; id., sez. V, 12 dicembre 2018,  n. 7026).  Orbene, in siffatte evenienze, contraddistinte dalla evidenziata oscillazione giurisprudenziale, non può che accordarsi il beneficio della rimessione in termini ex art. 37 c.p.a., registrandosi, in definitiva, pur nel rigore valutativo qui esigibile, oggettive ragioni di incertezza sulla questione di diritto suesposta.
Processo amministrativo
Rifiuti – Smaltimento - Rifiuti speciali – Impianti – Localizzazione – Criterio della prossimità.         Pur dovendosi escludere una soluzione che preveda il divieto assoluto di trattamento di rifiuti speciali provenienti da altre regioni, anche per tali rifiuti speciali deve tenersi conto del criterio della prossimità (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che la Corte Costituzionale ha affermato che i principi di autosufficienza e prossimità, in diretta attuazione dei quali sono definiti ambiti territoriali ottimali per le tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti, sono cogenti esclusivamente per quanto concerne lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti urbani, ma non già per le medesime attività riguardanti i rifiuti speciali, perché per questa tipologia di rifiuti occorre avere riguardo alle relative caratteristiche ed alla conseguente esigenza di specializzazione nelle operazioni di trattamento dello stesso (in questo senso si è espressa la Corte Costituzionale, a proposito della legislazione regionale veneta, nella sentenza 4 dicembre 2002, n. 505; si vedano anche le sentenze 19 ottobre 2001, n. 355 e 14 luglio 2000, n. 281). Nella sentenza 23 gennaio 2009, n. 10, la Corte Costituzionale, seppur abbia ribadito l’esclusione della possibilità di imporre un divieto di trattamento dei rifiuti speciali provenienti da altri ambiti territoriali, ha confermato tuttavia che “nella disciplina statale l'utilizzazione dell'impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare, ma ne “permette” anche altre”. Ha aggiunto la Sezione che il cd. criterio di prossimità valga anche per la gestione dei rifiuti speciali e non solo per quelli urbani (cfr. l’art. 182-bis e l’art. 199, comma 3, lett. g). La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ben chiarito che - seppur un divieto di smaltimento dei rifiuti di produzione extraregionale sia applicabile ai rifiuti urbani non pericolosi, mentre il principio dell’autosufficienza locale ed il connesso divieto di smaltimento dei rifiuti di provenienza extraregionale non possa valere né per quelli speciali pericolosi (sentenze n. 12 del 2007, n. 62 del 2005, n. 505 del 2002, n. 281 del 2000), né per quelli speciali non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001) - l’utilizzazione dell’impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali costituisce la prima opzione da adottare (sentenza 23 gennaio 2009, n. 10). Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato (11 giugno 2013, n. 3215; 19 febbraio 2013, n. 993) LINK ha precisato che per i rifiuti speciali ha rilievo primario il criterio della specializzazione dell’impianto, in relazione al quale deve essere coordinato il principio di prossimità, con cui si persegue lo scopo di ridurre il più possibile la movimentazione di rifiuti (Cons. Stato 23 marzo 2015, n. 1556). In conclusione, ad avviso della Sezione, pur dovendosi escludere una soluzione che preveda il divieto assoluto di trattamento di rifiuti speciali provenienti da altre regioni, anche per tali rifiuti speciali deve tenersi conto del criterio della prossimità.    
Rifiuti
Beni culturali – Tutela – Vincolo culturale - Casa famiglia del Giudice Livatino – Legittimità.              E’ legittimo il decreto dell’Assessorato dei beni culturali della Regione siciliana che ha posto il vincolo culturale sulla Casa famiglia del Giudice Livatino, rivestendo detta dimora e le cose mobili in essa custodita un interesse culturale particolarmente importante (1).    (1) Ha ricordato il C.g.a. che l’immobile "Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino", nella quale era vissuto il giudice Livantino (ucciso il 21 settembre del 1990, da quattro killer per ordine della “Stidda”, la mafia agrigentina) è sito nel Comune di Canicattì.  Si tratta di un palazzetto formato da tre piani fuori terra; la residenza del giudice ucciso è posta al primo livello del palazzetto.  Il C.g.a. ha premesso che compongono il patrimonio culturale i beni culturali e i beni paesaggistici.  La nozione di bene culturale risente, ora, delle definizioni che della stessa hanno dato gli atti normativi internazionali.  In modo particolare si tratta della Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale del 1972, la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 e la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società del 2005 (c.d. Convenzione di Faro, sottoscritta dall’Italia nel 2013 non ancora ratificata).  In Italia la nozione di “bene culturale” è stata utilizzata per la prima volta dalla c.d. Commissione Franceschini nel 1964.  Il “bene culturale” è stato definito come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”.  Tenendo conto dell’evoluzione normativa culminata con l’approvazione del Codice dei beni culturali, la giurisprudenza, in accordo con la dottrina più attenta, ha definito i caratteri comuni a tutti i beni culturali.  Tra questi rileva, nella presente fattispecie, il carattere dell’immaterialità.  Con “immaterialità” si intende l’attitudine del bene ad essere testimonianza di superiori valori di civiltà.  I valori si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società.  Rileva la migliore dottrina che il bene materiale è oggetto di diritti patrimoniali, il valore culturale immateriale è oggetto di situazioni soggettive attive da parte dei poteri pubblici.  Nota è la decisione Cons. Stato, sez. VI, 17 ottobre 2003, n. 6344, ove appunto si sottolineava come il bene culturale sia ormai «protetto per ragioni non solo e non tanto estetiche, quanto per ragioni storiche, sottolineandosi l’importanza dell’opera o del bene per la storia dell’uomo e per il progresso della scienza».  Tenendo conto di questa evoluzione normativa e dello sforzo interpretativo della giurisprudenza deve leggersi l’art. 2, comma 2 del Codice, secondo cui “Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.  Alla stregua di questa lettura del complessivo quadro normativo non può revocarsi in dubbio che la “Casa famiglia Livatino” e le cose mobili in essa custodita rivestono un interesse culturale “particolarmente importante”.  Il valore culturale si identifica nel rimando all’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la normalità della sua vita, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione del predominio mafioso.  La relazione tecnica, parte integrante del provvedimento impugnato, dà atto di come il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici.  In quell’appartamento si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine ed indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato.  Nella memoria del giovane Livatino si radica la volontà di non cedere di fronte alle pressioni ed alle intimidazioni del potere mafioso.  Si ribadisce quanto si legge nella relazione tecnica che motiva il provvedimento oggi impugnato:  “La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore. Costituisce già un avamposto della lotta per la legalità essendo punto di incontro di molti giovani provenienti da tutta Italia, delle associazioni "Tecnopolis" e "Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino" di Canicattì nonché di Libera ed Arci”.  I manoscritti del giudice, anche in seguito alle scelte operate dalla Chiesa (la beatificazione), hanno certamente i requisiti richiesti dal comma 4 dell’articolo 10 del Codice: lo scritto autografo di un martire della giustizia e di un beato è certamente raro e di pregio.  Il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice.  Congruamente la relazione evidenzia anche le modalità della pubblica fruizione del bene, ulteriore requisito imposto dalla norma primaria di riferimento.  A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia. 
Beni culturali
Covid-19 – Sanità – Ospedali – Struttura sanitaria pubblica – Ripristino pronto soccorso - Riassegnazione del personale medico anestesista e  operatività H24 del pronto soccorso – Esclusione – Non va sospesa.            Non deve essere sospesa, con decreto monocratico, la nota della direzione sanitaria aziendale Asl di Viterbo di "riorganizzazione dell'attività anestesiologica" (Covid-19), non ravvisandosi gli estremi di un danno grave e irreparabile (1).   (1) I ricorrenti hanno chiesto di ripristinare immediatamente la piena funzione di pronto soccorso tramite la riassegnazione del personale medico anestesista e la operatività H24 del pronto soccorso stesso in via diretta e non tramite ARES 118
Covid-19
Giurisdizione - Elezioni – Indizione elezioni – Violazione principio parità di genere – Impugnazione – Giurisdizione giudice ordinario.               Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario l'impugnazione dell'indizione delle elezioni del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale se è censurata la violazione della parità di genere (1).   (1) Ad avviso del Tar  oggetto del gravame non è il procedimento elettorale, di cui si assuma l’illegittimità, bensì il libero esercizio del diritto di voto, che si afferma leso dalla non conformità a Costituzione della legge regionale che disciplina le modalità di svolgimento delle elezioni. Ed in effetti, la lesione lamentata deriverebbe non già del decreto impugnato, vincolato nell’an e connotato da stretti margini di discrezionalità solo quanto alla scelta della data di effettuazione della consultazione elettorali; bensì dall’inerzia del legislatore regionale, che non ha adeguato la disciplina legislativa alle disposizione di attuazione dell’art. 122 Cost., nella parte in cui impongono l’adozione di una regolamentazione che agevoli l’accesso agli incarichi elettivi del sesso meno rappresentato. È in discussione, dunque, un diritto politico, la cui cognizione non può che spettare al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti (cfr. Cass. Civ.,Sez. I, ord. 17 maggio 2013, n. 12060), atteso che la giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale non è esclusiva (Cass. Civ., Sez. Un., ord. 20 ottobre 2016, n. 21262). Non sarebbe, dunque, applicabile il previsto dall’art. 129, il quale attiene esclusivamente a “i provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni comunali, provinciali e regionali”; nel caso di specie, infatti, non si assume che le cittadine elettrici subiscano la lesione del loro diritto a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni regionali, ma che la disciplina elettorale non assicuri pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive. Ma nemmeno sarebbe applicabile la disciplina dettata dall’art. 130 c.p.a., che si riferisce all’impugnazione degli atti successivi alla convocazione dei comizi elettorali.
Giurisdizione
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Avvalimento tecnico-operativo –Risorse messe a disposizione dall’ausiliaria – Omessa indicazione nel contratto – Nullità del contratto di avvalimento                  Nel caso in cui il disciplinare ponga tra i requisiti di capacità tecnico-professionale quelli che misurino la capacità del concorrente nell’eseguire le prestazioni, ove questi ricorra all’avvalimento, si è in presenza di un avvalimento c.d. tecnico operativo per il quale sussiste l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche per l'esecuzione dell'appalto da parte dell’ausiliaria, quanto meno individuando le esatte funzioni che essa andrà a svolgere e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione; è pertanto nullo, ai sensi dell’art. 89, comma 1, ultimo periodo, d.lgs. n. 50 del 2016, il contratto di avvalimento che sia privo dell’indicazione della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche con conseguente esclusione del concorrente che, avendo fatto ricorso ad un avvalimento nullo, non possegga i predetti requisiti  (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che l’interpretazione del contratto di avvalimento non soggiace a rigidi formalismi e il suo oggetto è determinabile anche per relationem (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20/7/2021 n. 5464, tra le altre), ma ciò non può valere a snaturare la regola dettata dall’art. 89 cit. e a sovvertire l’esigenza di indicazione delle risorse messe a disposizione nel caso di avvalimento c.d. tecnico-operativo, nel senso che occorre quantomeno “"l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2017, n. 3682);  deve cioè prevedere, da un lato, la messa a disposizione di personale qualificato, specificando se per la diretta esecuzione del servizio o per la formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata, dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30 giugno 2021, n. 4935)” (Cons. Stato n. 169/2022, cit.). Aderendo ai suesposti principi, la Sezione ha ravvisato l’inadeguatezza del contratto di avvalimento contenente unicamente l’impegno dell’ausiliaria a mettere a disposizione i requisiti di cui è in possesso, di tal che “non può ritenersi valido ed efficace il contratto di avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante, per tutta la durata dell'appalto, senza però in alcun modo precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano (Cons. Stato, sez. V, 12 marzo 2018, n. 1543)” (TarLazio, sez. III-quater, 11 novembre 2021 n. 11585).
Contratti della Pubblica amministrazione
Società in house – Agenzia delle accise, dogane e monopolio – Società costituita per i servizi ex comma 3 dell’art. 103, d.l. n. 104 del 2020 – E’ società in house.       L’art. 103, comma 1, d.l. 14 agosto 2020, n. 104 deve essere interpretato nel senso di prevedere la costituzione di una società in house, essendo i servizi di cui al comma 3 dello stesso art. 103 di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle accise, dogane e monopolio (1).    (1) Ad avviso della Sezione in tale direzione militano numerosi argomenti. In primo luogo, va evidenziato che i servizi di cui all’art. 103, comma 3, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, sono in via primaria riconosciuti come di competenza dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio. Sotto tale aspetto, è chiarissima la formulazione letterale della parte iniziale del comma 1 del predetto art. 103, ove si utilizza la locuzione “al fine di consentire alla Agenzia delle dogane dei monopoli di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di cui al comma 3…”.  Viene affermato dunque che “i servizi di cui al comma 3” sono di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle dogane e dei monopoli. Da ciò ne scaturisce la conseguenza che, una volta individuati i servizi da rendere, il legislatore può optare per una delle diverse modalità di erogazione tra cui, naturalmente, anche il modello dell’in house.  La circostanza, in secondo luogo, che il legislatore abbia parlato di costituzione di “una apposita società, di cui la predetta Agenzia è socio unico” dimostra che il legislatore ha, seppure implicitamente, fatto riferimento allo schema dell’in house. È vero che oggi nella società in house vi possono essere – a determinate condizioni previste dalla legge statale (si veda il parere di questa Sezione 7 maggio 2019, n. 1389) – soci privati; tuttavia, lo schema dell’in house, per un verso, è stato costruito dal diritto pretorio della C.G.U.E. attorno al socio unico pubblico e, per altro verso, il predetto schema, anche nell’attuale disciplina, ruota ancora attorno al socio unico pubblico (si veda l’art. 5, comma 1, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2016). Detto in altri termini, il riferimento al socio unico esprime l’intenzione del legislatore di utilizzare lo schema dell’in house, attraverso la costituzione di una società che, essendo a totale partecipazione pubblica, risulti indubitabilmente essere la longa manus dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio. Nonostante il fatto che i lavori preparatori, sotto il profilo dell’ermeneutica normativa, non possano essere ritenuti risolutivi dei dubbi interpretativi, in terzo luogo, va rilevato che la relazione illustrativa dell'art. 103, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, presentato al Senato della Repubblica per la conversione in legge (AS 1925), afferma che "la disposizione prevede la possibilità di costituire con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze una apposita società in house avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ...". Nel dossier del servizio studi di Camera e Senato, redatto sul testo approvato dal Senato della Repubblica (AC 2700), si legge che "L'art. 103, modificato al Senato, autorizza la costituzione, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di una apposita società in house — avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli — per lo svolgimento di alcuni servizi con criteri imprenditoriali ...". Anche l’intenzione del legislatore, quindi, spinge nella direzione dell’utilizzo del modello dell’in house. In quarto luogo, va evidenziato che conferme indirette, circa l’intenzione del legislatore di far riferimento ad una società in house, sono rinvenibili nella chiara previsione per cui “l'organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, individuato nel direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”. Se la società non fosse la longa manus dell’amministrazione, difficilmente si spiegherebbe la previsione per cui è il direttore dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio ad essere ope legis amministratore unico.  In sintesi, anche se la disposizione di legge non lo dice chiaramente, la presenza del socio unico pubblico e l’attribuzione della carica di amministratore al Direttore dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio sono indizi inequivocabili della volontà del legislatore di ricorrere allo schema dell’in house.  ​​​​​​​Va esclusa la possibilità di ricondurre la società in questione allo schema delle società “di diritto singolare” perché manca nella disposizione di legge una compiuta, e dettagliata, disciplina della società, tale da poterla, si passi la ripetizione, considerare “di diritto singolare”. Peraltro, se l’art. 103 citato fosse sufficiente per ritenere autorizzata la costituzione di una società “di diritto singolare”, la conseguenza sarebbe l’assenza di una disciplina completa e, sotto altro aspetto, il possibile dubbio circa la compatibilità col principio della concorrenza di origine eurounitaria, interferendo l’attività in questione con servizi potenzialmente incidenti sul mercato 
Società in house
Covid–19 – Puglia – Didattica a distanza – Dopo il 26 aprile 2021 e sino alla conclusione dell’anno scolastico 2020-2021 – Possibilità su richiesta.      Deve essere respinta l’istanza di sospensione monocratica dell'Ordinanza del Presidente della Regione Puglia, con la quale è stato disposto che, con decorrenza dal 26 aprile 2021 e sino alla conclusione dell’anno scolastico 2020-2021, l’attività didattica delle scuole di ogni ordine e grado si svolge in presenza, salva la possibilità di chiedere la didattica a distanza per le istituzioni scolastiche della scuola primaria, della secondaria di primo grado, di secondo grado e CPIA  , non ravvisandosi per gli alunni un danno grave e irreparabile in considerazione della possibilità di esercitare l’opzione per la didattica digitale integrata (DDI). ​​​​​​​
Covid-19
Processo amministrativo – Camera di consiglio ex art. 72 bis c.p.a. – Istanza di fissazione di udienza - Mancanza – Irrilevanza.           Per la trattazione di un ricorso ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. non osta la mancanza di una domanda di fissazione di udienza, essendo prioritaria la declaratoria d’ufficio di una causa di inammissibilità (1).    (1) Nella specie la camera di consiglio ex art. 72-bis c.p.a. è stata fissata sul duplice presupposto che il deposito dell’appello appare tardivo e che la procura alle liti non risulta, ad un sommario esame, regolare, essendo costituita da atto separato rispetto al ricorso, essendo anteriore alla sentenza appellata e perché, facendo generico riferimento “al presente ricorso” senza indicarne l’oggetto, non appare immediatamente e direttamente riferibile al presente appello.
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze da remoto – Note di udienza – Deposito – Termine – Individuazione.             Ai sensi dell’art. 4, comma 1, penultimo periodo, d.l. n. 28 del 2020, richiamato dall’art. 25, d.l. n. 137 del 2020, sono tardive le note d’udienza depositate pervenute oltre le ore 12 del giorno antecedente l’udienza, con la duplice precisazione che: a) il momento ultimo delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza deve essere inteso come mezzogiorno (ossia 21 ore prima dell’udienza) e non come mezzanotte, perché questa seconda interpretazione non consentirebbe al Collegio di prendere visione dei depositi in tempo utile per l’udienza; b) il termine delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza riguarda sia le note di udienza che le istanze di passaggio in decisione menzionate nell’art. 4, d.l. n. 28 del 2020, al fine della fictio iuris della presenza in udienza. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Competenza organo liquidatore liquidazione di una somma, spettante a seguito della realizzazione di un’opera pubblica su fondo altrui - Epoca anteriore alla dichiarazione di dissesto dell’ente - Competenza dell’organo straordinario di liquidazione – Condizione.     L’atto di acquisizione sanante, generatore dell’obbligazione (e, quindi, del debito), è attratto nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, e non rientra quindi nella gestione ordinaria, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza ammnistrativa, se detto provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione è pronunciato entro il termine di approvazione del rendiconto della Gestione Liquidatoria e si riferisce a fatti di occupazione illegittima anteriori al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato (1). (1) Cons. St., sez. IV, ord., 20 marzo 2020, n. 1994. Ha chiarito l’Alto consenso che è pur vero che l’emanando provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione, che farebbe sorgere il debito oggetto della presente controversia, ha natura costitutiva, come confermato da questa Adunanza con la sentenza 20 gennaio 2020, n. 2, che ha escluso la rilevanza del risarcimento del danno ai fini dell’occupazione acquisitiva. Il provvedimento dell’amministrazione che dispone la cd. acquisizione sanante, quindi, non accerta un debito preesistente, ma lo determina ex novo, quantificandone altresì l’ammontare e non ha, quindi, carattere ricognitivo, ma costitutivo, determinando, sul piano amministrativo e civilistico, un effetto traslativo ex nunc. Tuttavia, detto provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, ha per presupposto (ai sensi del primo comma della predetta norma) l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”; inoltre il provvedimento di acquisizione, ai sensi del successivo comma 4, deve recare “l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”. Pertanto, il provvedimento risulta certamente correlato, sul piano della stessa attribuzione causale, “ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data”, come specifica l’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004 (convertito con l. n. 140 del 2004). Sul piano dell’interpretazione letterale, quindi, le “circostanze” (ovvero i fatti) che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area costituiscono il presupposto per l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante che l’amministrazione, prima della sua adozione, deve accertare. Parimenti, anche l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico” costituisce un fatto che deve esser oggetto di un accertamento da parte dell’amministrazione, prodromico all’adozione del provvedimento in esame. Si tratta quindi, in entrambi i casi di fatti necessariamente correlati al successivo provvedimento, il cui positivo accertamento costituisce uno dei presupposti di legittimità del medesimo. Pertanto, sotto il profilo finanziario, se tali fatti sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, il provvedimento successivo (non necessariamente giurisdizionale, come è evidente dalla mera lettura del citato art. 5) che determina l’insorgere del titolo di spesa deve essere imputato alla Gestione Liquidatoria, purché detto provvedimento sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11, t.u. n. 267 del 2000. In questo caso, non solo il debito viene imputato al Bilancio della Gestione Liquidatoria sotto il profilo amministrativo-contabile, e non a quello della gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il provvedimento che costituisce il titolo di spesa (nella specie, l’acquisizione sanante) deve essere attribuita al Commissario Liquidatore, in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita debitoria del bilancio da lui gestito.  
Enti locali
Contratti della Pubblica amministrazione – Rotazione – Appalti sotto soglia – Procedura aperta - Svolta sulla piattaforma SINTEL – Inapplicabilità.      Il principio di rotazione, previsto dall’art. 36, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, non si applica agli appalti sottosoglia con procedura aperta svolta sulla piattaforma SINTEL (1).   1) La sentenza ha ricordato quanto previsto anche dalle Linee guida ANAC n. 4 [nella versione adottata con Delib. 1° marzo 2018, n. 206 (punto 3.6)], in ragione della natura aperta della procedura per cui è causa: “Il fondamento del principio di rotazione è individuato tradizionalmente nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), in particolare nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato. Peraltro, così come delineato dal richiamato art. 36, detto principio costituisce per gli appalti di lavori, servizi e forniture sotto soglia il necessario contrappeso alla significativa discrezionalità riconosciuta all’amministrazione nell’individuare gli operatori economici in favore dei quali disporre l’affidamento (nell’ipotesi di affidamento diretto) o ai quali rivolgere l’invito a presentare le proprie offerte (nel caso di procedura negoziata), in considerazione dell’eccentricità di tali modalità di selezione dei contraenti rispetto ai generali principi del favor partecipationis e della concorrenza. (…) detto principio non trova applicazione ove la stazione appaltante non effettui né un affidamento (diretto) né un invito (selettivo) degli operatori economici che possono presentare le loro offerte, ma la possibilità di contrarre con l’amministrazione sia aperta a tutti gli operatori economici appartenenti ad una determinata categoria merceologica”. Nella specie la stazione appaltante ha invitato tutti i soggetti che avevano manifestato il loro interesse, senza esclusioni o vincoli in ordine al numero massimo di operatori ammessi alla procedura. Gli operatori economici erano unicamente tenuti ad effettuare l’accesso e l’iscrizione alla piattaforma telematica Sintel, che non prevedono alcuna istruttoria o a selezione da parte dell’amministrazione. Ha ancora ricordato la sentenza che un eventuale precedente affidamento non ha carattere assolutamente preclusivo rispetto alla partecipazione dei precedenti affidatari alla procedura, se la procedura è aperta, ovvero se, in caso di diversa procedura, la stazione appaltante motiva le ragioni dell’invio anche a costoro. In questa seconda ipotesi l’obbligo di motivazione che incombe sulla stazione appaltante concerne il fatto oggettivo del precedente affidamento impedisce alla stazione appaltante di invitare il gestore uscente, salvo che essa dia adeguata motivazione delle ragioni che hanno indotto, in deroga al principio generale di rotazione, a rivolgere l'invito anche all'operatore uscente  e non già la partecipazione del precedente gestore ad una procedura aperta, bensì l’invito del medesimo ad una procedura ristretta (Cons. St., sez. V, 30 marzo 2020, n. 2182).
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli edilizi - Vicinitas – Limiti.            In sede di impugnazione di strumenti urbanistici che non incidono direttamente  su aree di proprietà della parte ricorrente è sempre necessario scrutinare la sussistenza dell’interesse ad agire, sub specie di lesione attuale e concreta o ragionevolmente certa, alla salute, all’ambiente, al valore dei terreni ecc.  (1).   (1) In termini Cons. St., sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 962.   Ha chiarito la Sezione che la vicinitas non sempre da sola giustifica la proposizione del ricorso in materia di edilizia e urbanistica. La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona interessata dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della legittimazione ad agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il provvedimento. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche l’interesse a ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (Cons. St., sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278). L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e l’interesse ad agire (cfr. Cons. St., Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente, sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278 citata; per ultimo sez. IV, 5 febbraio 2018, n. 707). D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei ricorrenti. La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (Cons. St., sez. V, 15 dicembre 2017, n. 5908). Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico. In quest’ultima ipotesi l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili (Cons. St., sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5674). Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico danno all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione. Ha aggiunto la Sezione che in materia di tutela contro i danni all'ambiente, l’interesse ad agire può essere riconosciuto solo se gli stessi sono debitamente evidenziati in ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può svilupparsi anche mediante l’impugnativa degli atti aventi finalità urbanistica, non si può al contempo eludere la necessità che siano proposte censure sorrette da una specifica istanza di protezione degli interessi ambientali, da realizzare attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico (Cons. St., sez. IV, 30 settembre 2005, n. 5205).
Processo amministrativo
Magistrati – Magistrati ordinari – In servizio presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione - Funzioni di “assistente di studio” - Indennità di trasferta - Non spetta.        I magistrati ordinari in servizio, in qualità di vincitori di concorso, presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione con funzioni di “assistente di studio” non hanno diritto all’indennità di trasferta, prevista dall’art. 3, comma 79, l. 24 dicembre 2003, n. 350 per i magistrati “che esercitano effettive funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura Generale” nel caso di residenza fuori dal distretto della Corte d’appello di Roma (1).   1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 79, comma 3, l. 24 dicembre 2003, n. 350, prevede, ai fini del riconoscimento del diritto a percepire l’indennità di trasferta, due condizioni, e cioè: a) l’esercizio “effettivo delle funzioni di legittimità” presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura generale; b) la residenza fuori del distretto della Corte d’appello di Roma. Per definire il requisito sub a) (cioè l’esercizio effettivo di funzioni di legittimità presso la Cassazione e la relativa Procura generale) occorre riferirsi alle previsioni dell’art. 65, comma 1, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e dell’art. 10, comma 6, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160. Il primo stabilisce che “La Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzione ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”; il secondo dichiara che “Le funzioni giudicanti di legittimità sono quelle di consigliere presso la Corte di cassazione; le funzioni requirenti di legittimità sono quelle di sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione”). Dal coacervo di tali disposizioni si ricava che le “funzioni di legittimità” sono quelle svolte dai magistrati presso la Corte di Cassazione, che si compendiano nella specifica attività rivolta a garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”, a regolare “i conflitti di competenza e di attribuzione” e ad adempiere tutti gli altri compiti attribuiti dalla legge all’ufficio giudiziario della Corte di Cassazione. L’effettività di tali funzioni ne implica il concreto svolgimento e che non ricorra una causa di temporanea sospensione dal loro esercizio (Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2006, n. 7210).  Gli “assistenti di studio” non compongono il collegio chiamato a decidere la controversia e non possono partecipare in alcun modo alla formazione della volontà della decisione, limitandosi piuttosto a svolgere un’attività (sia pur di particolare rilevanza) preparatoria e preliminare alla decisione giudiziale in senso stretto ed alla quale non prendono parte: essi pertanto non svolgono alcuna attività di jus dicere. L’attività di “assistenza di studio” costituisce piena attuazione dei compiti propri dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione che, come avviene mediante la redazione delle “massime”, sono d’ausilio e supporto all’esercizio della funzione giurisdizionale: non vale a farla qualificare diversamente o addirittura a mutarne la natura giuridica il mero fatto che essa sia svolta direttamente presso - e a servizio di - una specifica sezione giudicante della Corte di Cassazione. Non conduce a conclusioni diverse la circostanza che detti assistenti, nel periodo di svolgimento dell’attività, non si limitino a redigere le relazioni preliminari con il contenuto indicato dalla delibera del CSM, ma di aver anche predisposto veri e propri “schemi di sentenze”, che, deliberati ed approvati dal collegio giudicante, sono divenuti, poi, il testo ufficiale e definitivo della sentenza (circostanza ulteriormente comprovata dal fatto, attestato da apposita produzione documentale, che tali sentenze siano state accompagnate dalla dicitura“redatta con la collaborazione dell’assistente di studio”, che darebbe conto dell’effettivo svolgimento della funzione propria del magistrato giudicante e quindi di quella di legittimità). Sul punto è sufficiente osservare che lo “schema di sentenza” è solo una modalità, alternativa alla “relazione preliminare”, che dà conto dell’attività di studio e approfondimento della causa. Il fatto che il contenuto della bozza sia più o meno integralmente trasfuso nel testo della sentenza non qualifica il redattore come un decisore: il trasferimento del contenuto della bozza nella sentenza non è l’effetto di una mera attività formale e materiale, ma implica un momento volitivo - la decisione - alla quale il redattore della bozza è assolutamente estraneo non solo in punto di fatto, ma anche dal punto di vista giuridico perché egli non fa (e non può far) parte del collegio giudicante. Insomma è solo l’approvazione del collegio che trasforma lo “schema di sentenza” in “sentenza”, ovvero l’attività preparatoria in attività decisoria; per di più quell’approvazione è l’in sé della funzione di ius dicere e ad essa non è immediatamente riferibile l’attività preliminare e preparatoria dell’assistente di studio.
Magistrati
Processo amministrativo – Procura alle liti -  Mancanza dei requisiti di specialità – Presunzione di riferibilità – Presupposti – Individuazione.            Ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, la procura alle liti si considera apposta in calce, e perciò dotata dei requisiti della specialità, quando è depositata con modalità telematiche, unitamente all’atto cui si riferisce; tuttavia, se la procura è priva in concreto degli elementi di specialità di cui all’art. 40 c.p.a. che consentano l’immediata riconducibilità all’oggetto del ricorso, la presunzione di riferibilità viene meno nel caso in cui sussista nella procura un elemento incompatibile con il ricorso; tale ipotesi si verifica quando la data della procura sia antecedente a quella della sottoscrizione del ricorso (1).   (1) Quanto al contenuto della procura speciale la giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 5 ottobre 2018, n. 5723) ha precisato che deve indicare l'oggetto del ricorso, delle parti contendenti, dell'autorità davanti alla quale il ricorso deve essere proposto ed ogni altro elemento utile alla individuazione della controversia. Le modalità di conferimento della procura sono disciplinate dall’art. 83 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39 c.p.a., che prevede che la procura speciale possa essere apposta a margine o in calce al ricorso, con certificazione dell’autografia della sottoscrizione da parte del difensore, e che  la procura “si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all'atto cui si riferisce o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia”; fermo restando che se “la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica”.   A sua volta l’art. 8, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, stabilisce che “1. La procura alle liti è autenticata dal difensore, nei casi in cui è il medesimo a provvedervi, mediante apposizione della firma digitale. 2. Nei casi in cui la procura è conferita su supporto cartaceo, il difensore procede al deposito telematico della copia per immagine su supporto informatico, compiendo l'asseverazione prevista dall'art. 22, comma 2, del CAD con l'inserimento della relativa dichiarazione nel medesimo o in un distinto documento sottoscritto con firma digitale. 3. La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce; b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce. 4. In caso di ricorso collettivo, ove le procure siano conferite su supporti cartacei, il difensore inserisce in un unico file copia per immagine di tutte le procure”.
Processo amministrativo
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ItaCaseholdClassification

An MTEB dataset
Massive Text Embedding Benchmark

An Italian Dataset consisting of 1101 pairs of judgments and their official holdings between the years 2019 and 2022 from the archives of Italian Administrative Justice categorized with 64 subjects.

Task category t2c
Domains Legal, Government, Written
Reference https://doi.org/10.1145/3594536.3595177

How to evaluate on this task

You can evaluate an embedding model on this dataset using the following code:

import mteb

task = mteb.get_tasks(["ItaCaseholdClassification"])
evaluator = mteb.MTEB(task)

model = mteb.get_model(YOUR_MODEL)
evaluator.run(model)

To learn more about how to run models on mteb task check out the GitHub repitory.

Citation

If you use this dataset, please cite the dataset as well as mteb, as this dataset likely includes additional processing as a part of the MMTEB Contribution.


@inproceedings{10.1145/3594536.3595177,
  abstract = {Legal holdings are used in Italy as a critical component of the legal system, serving to establish legal precedents, provide guidance for future legal decisions, and ensure consistency and predictability in the interpretation and application of the law. They are written by domain experts who describe in a clear and concise manner the principle of law applied in the judgments.We introduce a legal holding extraction method based on Italian-LEGAL-BERT to automatically extract legal holdings from Italian cases. In addition, we present ITA-CaseHold, a benchmark dataset for Italian legal summarization. We conducted several experiments using this dataset, as a valuable baseline for future research on this topic.},
  address = {New York, NY, USA},
  author = {Licari, Daniele and Bushipaka, Praveen and Marino, Gabriele and Comand\'{e}, Giovanni and Cucinotta, Tommaso},
  booktitle = {Proceedings of the Nineteenth International Conference on Artificial Intelligence and Law},
  doi = {10.1145/3594536.3595177},
  isbn = {9798400701979},
  keywords = {Italian-LEGAL-BERT, Holding Extraction, Extractive Text Summarization, Benchmark Dataset},
  location = {<conf-loc>, <city>Braga</city>, <country>Portugal</country>, </conf-loc>},
  numpages = {9},
  pages = {148–156},
  publisher = {Association for Computing Machinery},
  series = {ICAIL '23},
  title = {Legal Holding Extraction from Italian Case Documents using Italian-LEGAL-BERT Text Summarization},
  url = {https://doi.org/10.1145/3594536.3595177},
  year = {2023},
}


@article{enevoldsen2025mmtebmassivemultilingualtext,
  title={MMTEB: Massive Multilingual Text Embedding Benchmark},
  author={Kenneth Enevoldsen and Isaac Chung and Imene Kerboua and Márton Kardos and Ashwin Mathur and David Stap and Jay Gala and Wissam Siblini and Dominik Krzemiński and Genta Indra Winata and Saba Sturua and Saiteja Utpala and Mathieu Ciancone and Marion Schaeffer and Gabriel Sequeira and Diganta Misra and Shreeya Dhakal and Jonathan Rystrøm and Roman Solomatin and Ömer Çağatan and Akash Kundu and Martin Bernstorff and Shitao Xiao and Akshita Sukhlecha and Bhavish Pahwa and Rafał Poświata and Kranthi Kiran GV and Shawon Ashraf and Daniel Auras and Björn Plüster and Jan Philipp Harries and Loïc Magne and Isabelle Mohr and Mariya Hendriksen and Dawei Zhu and Hippolyte Gisserot-Boukhlef and Tom Aarsen and Jan Kostkan and Konrad Wojtasik and Taemin Lee and Marek Šuppa and Crystina Zhang and Roberta Rocca and Mohammed Hamdy and Andrianos Michail and John Yang and Manuel Faysse and Aleksei Vatolin and Nandan Thakur and Manan Dey and Dipam Vasani and Pranjal Chitale and Simone Tedeschi and Nguyen Tai and Artem Snegirev and Michael Günther and Mengzhou Xia and Weijia Shi and Xing Han Lù and Jordan Clive and Gayatri Krishnakumar and Anna Maksimova and Silvan Wehrli and Maria Tikhonova and Henil Panchal and Aleksandr Abramov and Malte Ostendorff and Zheng Liu and Simon Clematide and Lester James Miranda and Alena Fenogenova and Guangyu Song and Ruqiya Bin Safi and Wen-Ding Li and Alessia Borghini and Federico Cassano and Hongjin Su and Jimmy Lin and Howard Yen and Lasse Hansen and Sara Hooker and Chenghao Xiao and Vaibhav Adlakha and Orion Weller and Siva Reddy and Niklas Muennighoff},
  publisher = {arXiv},
  journal={arXiv preprint arXiv:2502.13595},
  year={2025},
  url={https://arxiv.org/abs/2502.13595},
  doi = {10.48550/arXiv.2502.13595},
}

@article{muennighoff2022mteb,
  author = {Muennighoff, Niklas and Tazi, Nouamane and Magne, Lo{\"\i}c and Reimers, Nils},
  title = {MTEB: Massive Text Embedding Benchmark},
  publisher = {arXiv},
  journal={arXiv preprint arXiv:2210.07316},
  year = {2022}
  url = {https://arxiv.org/abs/2210.07316},
  doi = {10.48550/ARXIV.2210.07316},
}

Dataset Statistics

Dataset Statistics

The following code contains the descriptive statistics from the task. These can also be obtained using:

import mteb

task = mteb.get_task("ItaCaseholdClassification")

desc_stats = task.metadata.descriptive_stats
{
    "test": {
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            "Processo amministrativo": {
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            },
            "Militari, forze armate e di polizia": {
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            "Urbanistica": {
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            "Edilizia": {
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            },
            "Professioni e mestieri": {
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            "Farmaci": {
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            },
            "Contratti della Pubblica amministrazione": {
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            },
            "Circolazione stradale": {
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            "Risarcimento danni": {
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            "Covid-19": {
                "count": 29
            },
            "Concessione amministrativa": {
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            },
            "Beni culturali": {
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            "Autorit\u00e0 amministrative indipendenti": {
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            "Magistrati": {
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            "Energia elettrica": {
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            "Contributi e finanziamenti": {
                "count": 2
            },
            "Atto amministrativo": {
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            "Sicurezza pubblica": {
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            },
            "Agricoltura": {
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            },
            "Farmacia": {
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            },
            "Giurisdizione": {
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            "Silenzio della P.A.": {
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            "Accesso ai documenti": {
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            "Ambiente": {
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            "Universit\u00e0 degli studi": {
                "count": 2
            },
            "Amministrazione dello Stato": {
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            "Pesca": {
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            },
            "Ricorso straordinario al Capo dello Stato": {
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            "Cittadinanza": {
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            },
            "Pubblico impiego privatizzato": {
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            "Caccia": {
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            "Animali": {
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                "count": 1
            },
            "Ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana": {
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            },
            "Sanit\u00e0 pubblica": {
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            },
            "Rifiuti": {
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            },
            "Societ\u00e0 in house": {
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            },
            "Paesaggio": {
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            "Economia": {
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            "Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana": {
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            "Concorso": {
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            "Commercio": {
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            "Espropriazione per pubblica utilit\u00e0": {
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            },
            "Giustizia amministrativa": {
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            "Imposte e tasse": {
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            "Alimenti": {
                "count": 1
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            "Autorizzazione amministrativa": {
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            "Aeroporti": {
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                "count": 1
            },
            "Annullamento d\u2019ufficio e revoca": {
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            }
        }
    },
    "train": {
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        "average_text_length": 4610.651515151515,
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        "labels": {
            "Procedimento amministrativo": {
                "count": 7
            },
            "Edilizia": {
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            },
            "Contratti della Pubblica amministrazione": {
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            },
            "Giochi": {
                "count": 4
            },
            "Espropriazione per pubblica utilit\u00e0": {
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            },
            "Covid-19": {
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            },
            "Militari, forze armate e di polizia": {
                "count": 31
            },
            "Processo amministrativo": {
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