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Procedimento amministrativo - Comunicazione di avvio – Atti vincolati – Omissione – Situazione sottesa complessa – Illegittimità.
E’ illegittima la mancata comunicazione di avvio del procedimento che porta all’adozione di un atto di natura vincolata ove la situazione sottesa si dimostri particolarmente complessa (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la natura vincolata degli atti impugnati non costituisce valido motivo per omettere il rispetto delle garanzie partecipative in situazioni peculiari e giuridicamente complesse; la giurisprudenza più avveduta afferma la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della condivisibile considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2000, n. 2443; id. n. 2953 del 2004; n. 2307 del 2004 e n. 396 del 2004).
Invero, non è rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria (Tar Napoli, sez. II, 19 ottobre 2006, n.8683).
Tale principio è stato riaffermato di recente dalla giurisprudenza sostenendo che “È illegittimo il provvedimento vincolato emesso senza che sia stata offerta al destinatario dello stesso provvedimento la preventiva “comunicazione di avvio del procedimento” ex art. 7, l. n. 241 del 1990, ove dal giudizio emerga che l'omessa comunicazione del procedimento avrebbe consentito al privato di dedurre le proprie argomentazioni, idonee a determinare l'emanazione di un provvedimento con contenuto diverso” (C.g.a. 26 agosto 2020, n.750). | Procedimento amministrativo |
Edilizia – Piano regolatore – Umbria – Parere ex art. 89, d.P.R. n. 380 del 2001 – Art. 29, comma 9, l. reg. Umbria n-. 11 del 2005 – Competenza dei Comuni, anziché dell’ufficio tecnico regionale competente – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 9, l. reg. Umbria 25 febbraio 2005, n. 11, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui stabilisce che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, stante il suo contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in ragione della interposta norma rafforzata, espressione di un principio generale dell’ordinamento giuridico, rappresentata dall’art. 89, d.P.R. n. 380 del 2001 (1).
(1) Ha chiarito che l’art. 24, comma 9, l. reg. Umbria 25 febbraio 2005, n.11 è stato abrogato dalla successiva legge regionale n. 11 del 2015 la quale, tuttavia, all’art. 28, comma 10, ha riprodotto lo stesso, identico contenuto della precedente disposizione.
Sennonché, l’articolo 28, comma 10, della legge regionale dell’Umbria n. 1/2015 è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con sentenza 5 aprile 2018, n. 68; più in particolare, il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche.
La questione di costituzionalità involge, pertanto, una norma (articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11) non più in vigore nell’ordinamento giuridico ma che, ciò nonostante, è stata applicata ratione temporis alla fattispecie che ha originato la controversia, assumendo così connotati della rilevanza in concreto in forza del principio tempus regit actum.
La Sezione non può, tuttavia, ignorare, ai fini della esaminanda rilevanza, la nota distinzione tra “disposizione” e “norma”; distinzione che riflette la dialettica tra legislazione e interpretazione.
Per disposizione si intende la proposizione normativa (o enunciato) contenuta in un testo, per norma ciò che risulta a seguito dell’attività interpretativa di una disposizione. Ragion per cui, tra una disposizione e una norma non sussiste necessariamente un parallelismo perfetto potendo ad una norma corrispondere più disposizioni (il caso del “combinato disposto”) come anche ad una disposizione corrispondere, invece, norme diverse.
Nella fattispecie in esame, le proposizioni normative recate dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11 (applicato ratione temporis alla fattispecie e tuttora vigente come enunciato) e dall’art. 28, comma 10, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 (la cui disposizione è stata dichiarata incostituzionale) sono diverse.
Pur tuttavia, le norme – quale frutto di esegesi delle due disposizioni - s’appalesano identiche.
Per cui, alla controversia in esame andrebbe applicata una norma regionale (ovvero un “diritto concreto”) non più esistente nella corrente interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale. Il che, espresso in altri termini, significherebbe applicare al rapporto tuttora ancora pendente una norma dichiarata incostituzionale eppur, tuttavia, presente nell’ordinamento giuridico come “diritto astratto”, in ragione della disposizione (testo legislativo) che la veicola.
E’ poiché l’oggetto del sindacato di legittimità costituzionale sono, non sempre le disposizioni quanto, piuttosto, proprio le norme (si pensi alle c.d. sentenze interpretative, di accoglimento e di rigetto, e tutte le nuove tipologie di sentenze: manipolative, additive, sostitutive; incidono per l’appunto, non sul testo delle disposizioni legislative, bensì sul loro significato), si potrebbe essere indotti a ritenere che la norma recata dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11, non sia più cogente a seguito della sentenza 5 aprile 2018, n. 68 abrogativa della stessa norma riprodotta nel testo degli artt. 28, co. 10, della legge regionale Umbria n. 1 del 2015 e, dunque, inapplicabile alla controversia.
Un’attività interpretativa, questa, che finirebbe però per essere operata dal giudice a quo e sottratta alla Corte ma che potrebbe legittimarsi alla luce di altri principi costituzionali, anche di matrice eurounitaria, altrettanto rilevanti e immediatamente precettivi quali quelli di economia processuale, concentrazione dei giudizi nonché ragionevole durata del processo; opzione questa che, tuttavia, proprio perché di carattere interpretativo e proveniente dal giudice sfornito della competenza sull’annullamento delle leggi, non potrebbe sortire l’effetto espulsivo della norma dall’ordinamento giuridico la quale, pertanto, continuerebbe ad esistere nella gerarchia formale delle fonti potendo in tal modo generare incertezza negli operatori e nell’attività regolatrice dei rapporti amministrativi tuttora incisi temporalmente dalla norma in questione, finendo per compromettere altrettanti valori ordinamentali come l’effettività della tutela e la certezza del diritto.
La Sezione ritiene, quindi, rilevante, anche sotto tale ultimo profilo, la questione di legittimità della norma rimettendone lo scrutinio alla Corte affinché il giudice delle leggi chiarisca se il sindacato di legittimità può e deve essere esercitato tutte le volte che di “efficacia” (art. 136 Cost.) e di “applicazione” (art. 30, legge 11 marzo 1953, n. 87) della legge possa parlarsi - indipendentemente dalla avvenuta abrogazione della medesima ad opera di una legge regionale sopravvenuta ma ratione temporis inapplicabile o dalla dichiarazione di incostituzionalità che ha investito la norma sopravvenuta recante il medesimo contenuto precettivo - poiché tale legge resterebbe pur sempre “efficace” ed “applicabile” nei limiti consacrati dai principi regolanti la successione delle leggi nel tempo.
Oppure se, a fronte di disposizioni diverse ma norme perfettamente identiche, la Corte ritiene che la declaratoria di incostituzionalità della norma successiva abbia una tale espansione abrogativa da esonerare il giudice a quo dalla necessità di operare, sempre e in ogni caso, il rinvio (anche) della norma anteriore, ab illo tempore vigente, il cui testo materiale continua ad essere presente nell’ordinamento gerarchico formale mentre il suo contenuto, identicamente riprodotto in una norma successiva poi dichiarata incostituzionale, non costituirebbe più, di fatto, il diritto vivente.
Va soggiunto, ad ogni buon fine, che la legge regionale n. 11 del 2005 (e con essa l’articolo 24, co. 10) è stata abrogata dalla successiva legge regionale n. 1 del 2015 (art. 271), a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo testo unico (29 gennaio 2015).
Deve ritenersi, quindi, che la norma in esame abbia prodotto effetti fino alla data del 29 gennaio 2015, regolando ratione temporis e tempus regit atum, il procedimento per cui è causa.
Anche per tal via, s’appalesa rilevante la questione di costituzionalità dell’articolo 24, co. 10, della legge regionale dell’Umbria n. 11 del 2005.
Sulla manifesta non infondatezza della questione.
L’articolo 89 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, così recita:
“1. Tutti i comuni nei quali sono applicabili le norme di cui alla presente sezione e quelli di cui all’articolo 61, devono richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio.
2. Il competente ufficio tecnico regionale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta dell'amministrazione comunale.
3. In caso di mancato riscontro entro il termine di cui al comma 2 il parere deve intendersi reso in senso negativo”.
Muovendo dalle considerazioni più volte affermate e ribadite dalla Corte secondo cui l’art. 89 del d.P.R. n. 380/2001 è norma di principio in materia non solo di “governo del territorio”, ma anche di “protezione civile”, in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica, se ne deve inferire che detta norma (di rango legislativo) si impone al legislatore regionale nella parte in cui in cui prescrive a tutti i Comuni, per la realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche, di richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1); disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo (comma 3).
Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla giurisprudenza della Corte (cfr. sentenze n. 167 del 2014, n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010), anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe a quella in esame (sentenze n. 64 del 2013 e n. 182 del 2006), “riveste una posizione ‘fondante’ […] attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali” (sentenza n. 167 del 2014).
Le disposizioni regionali di cui all’art. 24, c. 9, pertanto, nella parte in cui assegnano ai Comuni – piuttosto che al competente ufficio tecnico regionale ‒ il compito di rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, si pongono in contrasto con il principio fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001. | Edilizia |
Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale – Art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ratio - Individuazione
Nelle gare di appalto, il regime della clausola sociale richiede un bilanciamento fra più valori, tutti di rango costituzionale, ed anche europeo; ci si riferisce da un lato al rispetto della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost, ma anche dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce ‘la libertà di impresa’, conformemente alle legislazioni nazionali; dall’altro lato, in primo luogo al diritto al lavoro, la cui protezione è imposta dall’art. 35 Cost, e dall’art. 15 della Carta di Nizza, di analogo contenuto (1).
(1) Cons. Stato, Comm. spec., parere 21 novembre 2018, n. 2703.
La clausola sociale va formulata e intesa in maniera elastica e non rigida, rimettendo all’operatore economico concorrente finanche la valutazione in merito all’assorbimento dei lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario, anche perché solo in questi termini la clausola sociale è conforme alle indicazioni della giurisprudenza amministrativa secondo la quale l’obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali del precedente appalto va contemperato con la libertà d’impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell’appalto (Cons. Stato, sez. V, 12 settembre 2019, n. 6148; id., sez. VI, 21 luglio 2020, n. 4665; id. 24 luglio 2019, n. 5243; id., sez. V, 12 febbraio 2020, n. 1066).
Il tema delle modalità di attuazione della clausola sociale è stato peraltro affrontato dal Consiglio di Stato in sede consultiva, con il parere già citato reso sulle Linee guida dell’Anac relative all’applicazione dell’art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 (Linee guida n. 13, poi approvate con delibera n. 114 del 13 febbraio 2019).
Al riguardo è stata posta in risalto in particolare l’opportunità di prevedere un “vero e proprio ‘piano di compatibilità’ o ‘progetto di assorbimento’, nel senso che [l’offerta] debba illustrare in qual modo concretamente l’offerente, ove aggiudicatario, intenda rispettare la clausola sociale”; il che confluirebbe nella formulazione di “una vera e propria proposta contrattuale […] che contenga gli elementi essenziali del nuovo rapporto in termini di trattamento economico e inquadramento, unitamente all’indicazione di un termine per l’accettazione”, con conseguente possibilità per il lavoratore di “previa individuazione degli elementi essenziali del contratto di lavoro” (Cons. Stato, parere n. 2703 del 2018, cit.).
Allo stesso modo, la stazione appaltante potrebbe valutare se “inserire tra i criteri di valutazione dell’offerta quello relativo alla valutazione del piano di compatibilità, assegnando tendenzialmente un punteggio maggiore, per tale profilo, all’offerta che maggiormente realizzi i fini cui la clausola tende”.
Da ciò si ricava chiara conferma che è rimessa al concorrente la scelta sulle concrete modalità di attuazione della clausola, incluso l’inquadramento da attribuire al lavoratore, spettando allo stesso operatore formulare eventuale “proposta contrattuale” al riguardo, anche attraverso il cd. “progetto di assorbimento”, effettivamente introdotto dall’art. 3, ultimo comma, delle Linee guida Anac n. 13 (cfr., in proposito, Cons. Stato, sez. V, 1 settembre 2020, n. 5338); il che vale a escludere che dalla clausola sociale possa derivare sic et simpliciter un obbligo in capo al concorrente d’inquadrare il lavoratore con lo stesso livello d’anzianità già posseduto.
È stato recentemente sottolineato come la clausola non comporti “alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata, nonché alle medesime condizioni, il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria, ma solo che l’imprenditore subentrante salvaguardi i livelli retributivi dei lavoratori riassorbiti in modo adeguato e congruo”; di guisa che “l’obbligo di garantire ai lavoratori già impiegati le medesime condizioni contrattuali ed economiche non è assoluto né automatico” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche id. 16 gennaio 2020, n. 389, in cui si precisa, sotto altro concorrente profilo, che sull’aggiudicatario non grava “l’obbligo di applicare ai lavoratori esattamente le stesse mansioni e qualifiche che avevano alle dipendenze del precedente datore di lavoro”; v. anche Id. 13 luglio 2020, n. 4515, in ordine al Ccnl prescelto).
Per tali ragioni va escluso che la clausola sociale possa implicare la necessaria conservazione dell’inquadramento e dell’anzianità del lavoratore assorbito dall’impresa aggiudicataria.
Va peraltro rilevato, sotto altro profilo, che l’aspetto inerente al “modo [con cui] l’imprenditore subentrante dia seguito all’impegno assunto con la stazione appaltante di riassorbire i lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario (id est. come abbia rispettato la clausola sociale) attiene […] alla fase di esecuzione del contratto, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche la Linee guida Anac n. 13, che all’art. 5 prevedono: “L’inadempimento degli obblighi derivanti dalla clausola sociale comporta l’applicazione dei rimedi previsti dalla legge ovvero dal contratto. Nello schema di contratto le stazioni appaltanti inseriscono clausole risolutive espresse ovvero penali commisurate alla gravità della violazione. Ove ne ricorrano i presupposti, applicano l’articolo 108, comma 3, del Codice dei contratti pubblici”).
Per contro non vale il richiamare il precedente della Sezione che ha escluso che l’estensione della libertà imprenditoriale possa spingersi sino al punto di vanificare le sottostanti esigenze di tutela dei lavoratori sotto il profilo del mantenimento delle condizioni economiche e contrattuali vigenti, pena la legittimazione di politiche aziendali di dumping sociale in grado di vanificare gli obiettivi di tutela del lavoro (Cons. Stato, sez. V, 10 giugno 2019, n. 3885). | Contratti della Pubblica amministrazione |
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Principio di continuità - Ratio.
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Sostituzione ausiliaria – Limiti.
Il c.d. principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione si impone non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, dunque, della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A (1).
La sostituzione dell'ausiliaria durante la procedura di gara è istituto patentemente derogatorio al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), rispondendo all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione dell'operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso (2).
(1) Ha premesso il Tar che la valenza costitutiva della certificazione rilasciata da una SOA va correlata con lo scopo che la funzione di certificazione persegue, cioè l’attestazione che l'impresa possiede determinati requisiti soggettivi per eseguire opere pubbliche di un certo importo e che li mantiene nel corso di validità del periodo di vigenza della relativa certificazione; pertanto, il rinnovo, così come la verifica, di una SOA hanno effetti solutori della validità della stessa solo nel caso in cui venga accertata la perdita dei requisiti di qualificazione posseduti dall'impresa al momento del rilascio della prima attestazione. Ciò vale anche per il periodo intertemporale tra due certificazioni SOA: il rilascio di un nuovo attestato SOA, in fatto, certifica non solo la sussistenza dei requisiti di capacità da un data ad un’altra, ma anche che l'impresa non solo non ha mai perso quei requisiti in passato già valutati e certificati positivamente ma che, indubitabilmente, li ha mantenuti anche nel periodo di rilascio della nuova certificazione (Tar Catania, sez. I, 5 maggio 2017, n. 1008).
Alla luce di quanto appena evidenziato deve concludersi per il mancato rispetto del c.d. principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione, principio che si impone “non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, dunque, della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A.” (Cons. Stato, sez. V, 15 gennaio 2019, n. 374).
(2) La Sezione ha ricordato che l’art. 89, comma 3, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 stabilisce che “La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l'operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell'articolo 80. Essa impone all'operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione. Nel bando di gara possono essere altresì indicati i casi in cui l'operatore economico deve sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti tecnici”.
La disposizione de qua recepisce la previsione dell’art. 63 (Affidamento sulle capacità di altri soggetti) della direttiva 24/2014/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 («L’amministrazione aggiudicatrice verifica, conformemente agli articoli 59, 60 e 61, se i soggetti sulla cui capacità l’operatore economico intende fare affidamento soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 57. L’amministrazione aggiudicatrice impone che l’operatore economico sostituisca un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione. L’amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione»), con ampliamento dell’ambito di operatività a tutti i motivi di esclusione dell’art. 80, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Tar Basilicata 14 marzo 2020, n. 194).
Ciò chiarito, sul carattere “innovativo” dell’istituto della sostituzione del terzo ausiliario, si è soffermata la giurisprudenza, domestica ed eurounitaria (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2015, n. 5359, che ha evidenziato come lo stesso fosse “sconosciuto sia alla normativa nazionale che a quella europea”, e Corte di Giustizia UE, sez. I, 14 settembre 2017, C-223/16, Casertana costruzioni s.r.l., secondo la quale “l’articolo 63 […] apporta modifiche sostanziali per quanto concerne il diritto degli operatori economici di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti nell’ambito di un appalto pubblico” e “introduce nuove condizioni che non erano previste nel precedente regime giuridico”).
Più di recente sull’innovatività della previsione in esame è tornata la giurisprudenza domestica (Cons. Stato, sez. III, ord., 20 marzo 2020, n. 2005, che ha dubitato del contrasto dell’art. 89, comma 1, quarto periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 con i principi e le regole di cui al cit. art. 63 della direttiva 2014/24/UE e della compatibilità della disposizione nazionale con i principi concorrenziali di cui agli artt. 49 e 56 del TFUE), ricordando come sotto la vigenza del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 la modificazione soggettiva dell’offerta era consentita solo nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese, per i motivi ivi previsti (art. 37, comma 19, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) e solamente nella fase di esecuzione del contratto.
E’ stato osservato, inoltre, che la “sostituzione dell'ausiliaria durante la procedura è istituto patentemente derogatorio al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), rispondendo all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione dell'operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso” (Cons. Stato, sez. V, 26 aprile 2018, n. 2527; Tar Salerno, sez. I, 27 dicembre 2019, n. 2272). | Contratti della Pubblica amministrazione |
Giochi – Sala da gioco – Contrasto alla ludopatia - pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco – Necessità.
Al fine di contenere e contrastare il fenomeno della ludopatia è necessaria la pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che con riferimento alle varie misure adottate dalle amministrazioni locali per circoscrivere l’attività delle sale da gioco, il Consiglio di Stato (con parere della sez. II, n. 3323 del 2015) ha sottolineato che la significativa evoluzione della giurisprudenza amministrativa in materia, alla luce delle più recenti pronunce della Corte costituzionale (sentenza n. 220 del 18 luglio 2014), seguita da alcune decisioni del Consiglio di Stato (sez. V, n. 5251 del 23 ottobre 2014; n. 4861 del 22 ottobre 2015 e n. 4794 del 20 ottobre 2015; sez. II, n.1666 del 4 giugno 2015) ha affermato il legittimo esercizio delle potestà regolamentari degli enti locali di intervenire per regolare la materia in questione.
Inoltre, è stato evidenziato – proprio con riferimento alla libertà di iniziativa economica e alla sua comprimibilità - che anche la giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. ammette le idonee restrizioni alla disciplina europea in tema di libertà d’impresa qualora giustificate da esigenze imperative connesse all’interesse generale, “come ad esempio la tutela dei destinatari del servizio e dell’ordine sociale, la protezione dei consumatori, la prevenzione della frode e dell’incitamento dei cittadini ad una spesa eccessiva legata al gioco” (cfr. sentenza 24 gennaio 2013, nelle cause riunite C-186/11 e C-209/11, e sentenza 19 luglio 2012, nelle cause riunite C-213/11, C-214/11 e C-217/11), “con conseguente legittima introduzione, da parte degli Stati membri (e delle loro articolazioni ordinamentali), di restrizioni all’apertura di locali adibiti al gioco, a tutela della salute di determinate categorie di persone maggiormente vulnerabili in funzione della prevenzione della dipendenza dal gioco (interesse fondamentale, salvaguardato dallo stesso Trattato CE)” (nello stesso senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4498).
Questo stesso Consiglio di Stato, nella decisione della sez. V 30 giugno 2014, n. 3271, riteneva, infatti che “L'art. 3 del D.L. n. 138/2011, convertito nella legge n. 148 del 2011, sempre in tema di abrogazione delle restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche, ha poi disposto che "l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge", affermando un fondamentale principio, derogabile soltanto in caso di accertata lesione di interessi pubblici tassativamente individuati (sicurezza, libertà, dignità umana, utilità sociale, salute)”.
Su punto, si è pronunziata, peraltro, specificamente la Corte cost. con la sentenza n. 300 del 2011.
La Sezione ha aggiunto che sia la giurisprudenza amministrativa sia la Corte Costituzionale hanno ritenuto, in più occasioni, che le disposizioni sui limiti di distanza imposti alle sale da gioco dai luoghi sensibili siano dirette al perseguimento di finalità, anzitutto, di carattere “socio-sanitario” e anche di finalità attinenti al “governo del territorio”, sotto i profili della salvaguardia del contesto urbano.
La Corte Costituzionale ha ritenuto non irragionevoli, pertanto, le scelte regionali di ampliare il numero dei luoghi sensibili, includendovi persino luoghi adibiti ad “attività operative nei confronti del pubblico” che “si configurano altresì come luoghi di aggregazione, in cui possono transitare soggetti in difficoltà” (ad es. sentenza n. 27 del 2019). D'altra parte, la Corte Costituzionale, nei suoi numerosi interventi in materia, ha ritenuto che la tutela della salute (in cui rientra il contrasto alla ludopatia) è sussumibile tra gli obiettivi che, ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione, possono giustificare limitazioni all'iniziativa economica privata, tenuto conto della non assoluta preminenza del principio di libertà dell'attività economica privata nella nostra Costituzione.
Anche a livello comunitario, le esigenze di tutela della salute vengono ritenute del tutto prevalenti rispetto a quelle economiche (cfr. Corte di Giustizia Europea, sentenza del 22 ottobre 2014, C-344/13 e C367/13).
Si deve poi aggiungere, proprio per rafforzare la correttezza della interpretazione costituzionalmente orientata dalle disposizioni per il contenimento della ludopatia, che quest’ultima rappresenta oggi una forma diffusa di svilimento della dignità personale dei “ludopatici”, sicché la distanza prescritta tra la sala giochi e uno sportello bancomat è solo un ulteriore mezzo per evitare che l’occasione del prelievo sia facilmente colta dal soggetto ludopatico per continuare o aggravare la sua condizione sociale, personale e patologica: tutto questo, proprio in ossequio ai principi limitativi della iniziativa economica privata che l’art. 41 Cost. stabilisce, primo tra essi la “dignità umana”.
Allo stato, pertanto, deve concludersi nel senso di non ritenere irragionevole né sproporzionato imporre limitazioni ad attività economiche riconosciute scientificamente pericolose alla salute, o comunque tali da incidere negativamente sulla dignità umana, già assai colpita dai soggetti ludopatici proprio perché non si tratta di introduzione di divieti generalizzati, ma di regolamentazione in corrispondenza di luoghi particolari. | Giochi |
Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione - Occupazione appropriativa – Esistenza per effetto di giudicato civile – Trascrizioni e cancellazioni – Possibilità.
Processo amministrativo - Giudicato – Ambito di estensione.
Il privato ha titolo ad ottenere dalla P.A. espropriante le necessarie trascrizioni onde rendere conoscibile ed opponibile a terzi l’intervenuto passaggio di proprietà ed evitare i fastidi derivanti – in termini di pagamento tasse, formulazione dichiarazione redditi, e quant’altro - dalla condizione apparente per cui il bene in oggetto figurerebbe ancora nel compendio di pertinenza del privato espropriato; a tale risultato si può pervenire mediante accordo ricognitivo dell’avvenuto trasferimento della proprietà in virtù dei giudicati civili, ovvero mediante un decreto di esproprio (ora per allora), ovvero ancora attraverso un provvedimento ex art. 42 bis t.u. espr. (con esclusione di qualsiasi corresponsione di somme o indennità di sorta, ove la questione economica sia stata definita con i giudicati civili che abbiano riconosciuto al privato il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà degli immobili) (1).
Ai fini della estensione del giudicato il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione (2).
(1) Nella ricostruzione giurisprudenziale del principio della c.d. occupazione appropriativa, la perdita della proprietà del bene irreversibilmente destinato alle esigenze dell'opera pubblica dipendeva da un comportamento illecito della Pubblica Amministrazione che comportava l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della proprietà in capo all’ente procedente. Avvenendo l’acquisizione ipso iure, la sentenza (nel contenzioso promosso dal privato espropriato per il risarcimento del danno) avrebbe potuto solo accertare l’intervenuto acquisto.
Ma il giudicato doveva intendersi formato (anche) sul passaggio di proprietà, quale antecedente logico giuridico della statuizione sul risarcimento del danno.
In tal caso la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione. In tali situazioni, l’intervenuto giudicato sulla questione dell’assetto della proprietà non è più contestabile e impedisce la riproposizione del petitum mediante una domanda diretta alla restituzione del bene. Ciò anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, “il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della I Sez. del 16 marzo 2006 nel procedimento C-234/04)”.
(2) Cons. Stato, sez. III, 16 novembre 2018, n. 6471. | Espropriazione per pubblica utilità |
Covid-19 – Aiuti economici – Buoni spesa per generi alimentari – Fornitura – Non va sospesa.
Non va sospesa la determina di Roma Capitale che avrebbe disposto la fornitura dei buoni spesa - quale erogazione di contributi alle persone e/o famiglie in condizione di disagio economico e sociale causato dalla situazione emergenziale in atto, provocata dalla diffusione di agenti virali trasmissibili (Covid -19) - senza valutare correttamente l’aspetto della convenienza concreta dell’offerta proposta dalla parte istante, non essendo ravvisabile un danno grave e irreparabile per il ricorrente a fronte dell’impatto sociale ed assistenziale di notevole valore in presenza dell’attuale situazione emergenziale determinata dal coronavirus. | Covid-19 |
Covid-19 – Aiuti economici – Artigiani - Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato – Trattamento ordinario di integrazione salariale – Concessione – Previa iscrizione al Fondo - Va sospesa monocraticamente.
Deve essere sospesa la delibera di urgenza adottata dal Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato il 2 marzo 2020 nella parte in cui prevede, per la concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale agli artigiani nel periodo emergenziale Covid-19, la preventiva iscrizione al Fondo e la conseguente assunzione di vincoli contributivi nei confronti dello stesso (1).
(1) Giova ricordare che il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha previsto, quale misura emergenziale, che tutti i datori di lavoro che nell’anno 2020 hanno sospeso o ridotto la propria attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno la possibilità di presentare una domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale o di accesso all'assegno ordinario con causale "emergenza COVID-19".
Nel settore dell’artigianato, per agevolare e rendere più celere la concessione delle misure di sostegno, la gestione delle relative domande è stata affidata al Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato (FSBA). | Covid-19 |
Militare, forze armate e di polizia – Trattamento economico – Indennità di trasferimento - Quando spetta.
La natura autoritativa del movimento che dà diritto all’erogazione dell’indennità ex l. n. 86 del 2001 non viene meno allorché l’Amministrazione, in vista di una programmata rimodulazione riduttiva della propria organizzazione territoriale, ha invitato il militare ad esprimere il proprio gradimento per un’altra sede (1).
(1) Ha premesso la Sezione premette, in linea generale, che l’indennità ex lege n. 86 del 2001 compete, fra gli altri, al personale in s.p.e. delle Forze Armate, delle Forze di polizia ad ordinamento militare e civile e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco trasferito “d’autorità” ad altra sede di servizio sita in un Comune diverso da quello di provenienza.
Per movimento d’autorità deve intendersi quello disposto per perseguire, in via prioritaria, interessi dell’Amministrazione, non per soddisfare esigenze personali e familiari dell’interessato (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 6588).
La giurisprudenza, peraltro, ha precisato che la natura autoritativa del movimento (e la conseguente spettanza dell’indennità) non viene meno allorché l’Amministrazione, in vista di una programmata rimodulazione riduttiva della propria organizzazione territoriale, abbia invitato il militare ad esprimere il proprio gradimento per un’altra sede (Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 2016, n. 1).
In tal caso, infatti, “assume un valore decisivo la circostanza che il mutamento di sede origina da una scelta esclusiva dell’amministrazione militare che, per la miglior cura dell’interesse pubblico, decide di sopprimere un reparto (o una sua articolazione) obbligando inderogabilmente i militari di stanza a trasferirsi presso la nuova sede, ubicata in un altro luogo, onde prestare il proprio servizio” (così la citata Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 2016, n. 1).
4.4. Ove, tuttavia, la soppressione (o ridislocazione) del reparto di provenienza sia stata disposta in data successiva al 1 gennaio 2013 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 1 marzo 2017, n. 942), l’indennità non compete, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 86 del 2001, allorché il personale sia stato trasferito presso una sede ubicata in un Comune limitrofo, anche se distante oltre dieci chilometri da quello di provenienza (Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2018, n. 4355).
In tali specifici casi, in sostanza, l’indennità compete solo in caso di trasferimento d’autorità presso enti ubicati in Comuni non confinanti con quello ove è allocata la sede originaria e, comunque, distanti fra loro (prendendo a riferimento le rispettive case comunali) oltre dieci chilometri.
Il diritto alla percezione dell’indennità – aggiunge per completezza il Collegio – è rinunciabile (Cons. Stato, sez. IV, 5 dicembre 2019, n. 8332), si prescrive in cinque anni (Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2019, n. 1470) e prescinde dall’effettivo trasferimento fisico della residenza da parte dell’interessato (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 6588). | Militari, forze armate e di polizia |
Processo amministrativo – rito appalti – Domanda cautelare – Istanza di rinvio – Conseguenze – Disciplina
Processo amministrativo – Inammissibilità – Giudicato esterno - Preclusione - Principio del ne bis in idem – Funzione – Fattispecie
Processo amministrativo – rito appalti – Interesse a ricorrere - Aggiudicazione – Impresa esclusa – Non sussiste - Fattispecie
Nel rito speciale accelerato in materia di appalti, la disciplina posta dall’art. 120, comma 6, cod. proc. amm. (come novellata dall'art. 4, comma 4, lett. a), decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120) rende tendenzialmente obbligato, salvo eventi eccezionali tipizzati dalla stessa disposizione (e la cui valutazione è rimessa al collegio giudicante), l’iter processuale che esaurisce il giudizio nell’unica udienza camerale fissata per l’esame della domanda cautelare, escludendosi di conseguenza la sussistenza di un diritto potestativo di natura processuale della parte ricorrente, volto alla calendarizzazione della decisione mediante richiesta di rinvio al merito. (1)
Il principio del ne bis in idem comporta una preclusione da giudicato esterno, funzionale ad evitare la formazione di giudicati in potenziale conflitto fra di loro: tale preclusione opera ancorché la prima sentenza che sia stata pronunciata sulla medesima questione non sia ancora passata in autorità di cosa giudicata. (2)
Allorché venga impugnato un provvedimento di esclusione di un’impresa dalla partecipazione ad una gara pubblica, e tale impugnativa venga respinta sia in primo grado, sia in grado di appello, la proposizione del ricorso per revocazione e del ricorso per cassazione avverso tale sentenza, non sospesa nella sua efficacia esecutiva, non fa sorgere in capo alla impresa esclusa dalla gara l’interesse ad impugnare l’aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. (3).
Con la decisione in rassegna, il Consiglio di Stato affronta tre importanti questioni processuali.
La prima questione riguarda l’esegesi dell’art. 120, comma 6, prima parte, cod. proc. amm., (come novellato dall'art. 4, comma 4, lett. a), decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120), nella parte in cui si prevede che “Il giudizio, qualora le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell'articolo 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente”.
Il Consiglio di Stato interpreta detta disposizione nel senso che, nelle controversie aventi ad oggetto procedure di evidenza pubblica, il giudizio è di norma definito alla camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, ove proposta.
In ogni caso, la norma rimette al giudice la valutazione della sussistenza, o meno, di elementi impeditivi, tipizzati dalla stessa disposizione: nel qual caso la decisione sul merito, comunque da rendere in forma semplificata, viene rinviata ad una udienza prossima.
Tale disciplina rende tendenzialmente obbligato, salvo eventi eccezionali indicati dalla stessa disposizione, l’iter processuale che esaurisce il giudizio, nell’unica udienza camerale fissata per l’esame della domanda cautelare.
In ogni caso, la disposizione è sufficientemente chiara nel senso di escludere la sussistenza di un diritto potestativo di natura processuale della parte ricorrente, volto alla calendarizzazione della decisione: dopo la proposizione della domanda cautelare, di cui la parte processuale accetta le inevitabili conseguenze che ne derivano sul piano processuale, la norma impone la decisione immediata, salvo le eccezioni tipizzate previste, la cui valutazione è comunque rimessa al giudice).
Il Consiglio di Stato osserva anche che la ridetta disciplina è ragionevole e si fonda sulla necessità di una sollecita decisione di merito, onde consentire il sindacato giurisdizionale senza rallentare eccessivamente le procedure di evidenza pubblica. Poiché tale regime implica, inevitabilmente, la compressione di spazi processuali in danno di altre materie, parimenti afferenti alla complessiva domanda di giustizia, la disposizione in esame coerentemente ricollega alla proposizione della domanda cautelare, un effetto processuale non più negoziabile, salvo il ricorrere dei fatti impeditivi tipizzati.
La seconda questione processuale concerne l’applicazione del principio del ne bis in idem: nel ribadire il consolidato indirizzo esegetico della giurisprudenza amministrativa e di legittimità, secondo cui l’applicazione del principio è funzionale ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, in quanto “corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni
giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (essendo tale garanzia di stabilità, collegata all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive) (cfr. Cass. S.U. n. 13916/2006)” (Corte di Cassazione, sez. VI civile, ordinanza n. 16589/2021; nello stesso senso Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5422/2018), il Consiglio di Stato precisa che la ridetta preclusione opera anche quando la prima sentenza che sia stata pronunciata sulla questione, non sia ancora passata in autorità di cosa giudicata.
La terza questione processuale riguarda l’accertamento della sussistenza, o meno, dell’interesse di un’impresa esclusa dalla partecipazione alla gara, a ricorrere avverso la nuova aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. Secondo il Consiglio di Stato, allorché venga impugnato il provvedimento di esclusione e tale impugnativa venga respinta sia in primo grado, sia in grado di appello, la proposizione del ricorso per revocazione e del ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che ha definitivamente accertato l’esclusione dell’impresa, qualora non sospesa nella sua efficacia esecutiva, non fa sorgere in capo alla impresa esclusa dalla gara l’interesse ad impugnare l’aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. (3). | Processo amministrativo |
Processo amministrativo – Competenza - Difetto di competenza territoriale – Esame nella fase di merito – Se nella fase cautelare è stata implicitamente trattenuta la competenza - Art. 15, commi 1, 2 e 3, c.p.a. – Violazione artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza.
È rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, commi 1, 2 e 3, c.p.a. nella parte in cui precludono al Giudice di esaminare e pronunciare sulla proposta eccezione di parte del difetto di competenza territoriale anche nella fase di merito, qualora nella fase cautelare sia stata trattenuta implicitamente la competenza (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il secondo comma dell’art. 15 - il quale, secondo il diritto “vivente”, tramite l’inciso “in ogni caso” introduce una preclusione ai poteri del Giudice analoga a quella prevista dall’art. 38, comma 3 c.p.c. nel giudizio civile, arretrando e confinando, peraltro, la possibilità di rilevare ed esaminare la questione di competenza territoriale alla fase cautelare -, possa violare gli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost., sotto il duplice profilo dell’irragionevole limitazione del diritto alla tutela giurisdizionale e dell’eccesso di delega legislativa.
Invero, le parti diverse dai ricorrenti – cui spetta la facoltà processuale costituzionalmente tutelata di far valere la propria posizione giuridica nella sede di competenza del giudice precostituito per legge -, pur proponendo tempestivamente l’eccezione di incompetenza territoriale, si vedono preclusa la possibilità di una pronuncia esplicita e nella fase di merito sulla loro eccezione, qualora sia stata proposta domanda cautelare, e sono addirittura costretti ad impugnare l’ordinanza cautelare a loro favorevole che abbia ritenuto implicitamente la competenza, per evitare la definitiva eliminazione in entrambi i gradi del giudizio della suddetta facoltà processuale.
Sotto altro, concorrente profilo, l’art. 44 della legge n. 69 del 2009, che aveva delegato il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato”, è rimasto silente sullo specifico aspetto della disciplina afferente al rilievo dell’incompetenza territoriale.
L’assenza sul punto di principi e criteri direttivi, pur non essendo di per sé decisiva, di certo non autorizzava il legislatore delegato ad innovare radicalmente la disciplina in esame, trasformando il regime della competenza territoriale da “sempre derogabile” (come previsto in precedenza) a “sempre inderogabile”, fin dalla fase cautelare (come stabilito nel nuovo codice del processo amministrativo), e creando una inusitata interferenza tra fase cautelare e rilievo definitivo dell’incompetenza.
Si è dunque concretizzata un’ipotesi di vizio di eccesso di delega, per contrasto tra norma delegata e norma delegante (norma interposta e parametro di costituzionalità dei decreti legislativi delegati), in ragione dell’esorbitanza dall’oggetto della delega del sistema previsto dal legislatore delegato, con specifico riferimento, per quanto di interesse, alle limitazioni temporali e strutturali imposte al rilievo ed esame della questione di competenza territoriale.
Più in particolare, la sospetta violazione indiretta dell’art. 76 Cost. si è manifestata su due fronti concorrenti: da un lato, perché il silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico aspetto sul quale è intervenuto in modo particolarmente innovativo rispetto al previgente sistema il legislatore delegato (regime processuale del rilievo del difetto di competenza territoriale), non può non risultare chiaramente rivelatore della volontà di non introdurre sul punto alcuna modifica; dall’altro, perché le disposizioni delegate sotto esame non rappresentano un mezzo di attuazione delle finalità della delega, ma anzi risultano in contrasto, per la fortissima compressione delle facoltà processuali delle parti interessate ad ottenere una pronuncia dal giudice precostituito per legge, con gli indirizzi generali stabiliti dall’art. 44, l. n. 69 del 2009, secondo cui il nuovo codice del processo amministrativo avrebbe dovuto assicurare “l’effettività della tutela”.
Sulla base delle su esposte considerazioni, la Sezione ritiene dunque necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunci sulla questione.
Osserva che una pronuncia caducatoria delle norme censurate, che resti limitata all’eliminazione dell’inciso “in ogni caso” di cui al secondo comma dell’art. 15 c.p.a., risulterebbe congrua rispetto all’obiettivo perseguito dal rimettente, che è quello di potere esaminare e pronunciare esplicitamente sull’eccezione di incompetenza territoriale tempestivamente sollevata dalla difesa erariale anche nella fase di merito, nonostante la Sezione abbia già deciso sulla proposta domanda cautelare, ritenendo implicitamente, in quella diversa fase, la propria competenza territoriale.
L’eliminazione dell’inciso “in ogni caso”, infatti, riespanderebbe, secondo un’interpretazione costituzionalmente adeguata, l’applicabilità alla fattispecie in esame del comma 1 del citato art. 15, secondo cui “il difetto di competenza è rilevato d'ufficio finché la causa non è decisa in primo grado”. | Processo amministrativo |
Processo amministrativo – Legge Pinto - Adempimenti prescritti dall’art. 5 sexies, l. n. 89 del 2001 – Dichiarazione attestante “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo”- Omissione – Conseguenza.
Processo amministrativo – Eccezioni - Sollevate d’ufficio – Avviso ex art. 73, comma 3, c.p.a. – Quando occorre.
E’ inammissibile il ricorso, proposto ai sensi della c.d. Legge Pinto n. 89 del 2001, in cui – in spregio alla specifica prescrizione dettata dal primo comma dell’art. 5 sexies, l. 24 marzo 2001, n. 89 – nei moduli inviati al Ministero è stata omessa l’apposita dichiarazione, ex artt. 46 e 47, d.P.R. n.445 del 2000, attestante “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo” (1). | Processo amministrativo |
Energia elettrica – Biodisel – Regolamento n. 37 del 2015 - Retroattività – Legittimità.
Risarcimento danni – Affidamento – Annullamento regolamento – Condizione.
E’ legittimo il d.m. 17 febbraio 2015 n. 37 – recante “Regolamento recante modalità di applicazione dell'accisa agevolata sul prodotto denominato biodiesel, nell'ambito del programma pluriennale 2007-2010, da adottare ai sensi dell'articolo 22-bis del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 – atteso che il riesercizio del potere regolamentare dell’amministrazione si è realizzato legittimamente in ottemperanza ai giudicati del Consiglio di Stato e non poteva non implicare una rideterminazione dei coefficienti sulle quote di biodiesel fiscalmente agevolato già assegnate nelle annualità del programma trascorse (1).
La responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato da un regolamento, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento (2).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’irretroattività sia un predicato assoluto e irrefragabile della sola legge penale, mentre, nei limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e della tutela del legittimo affidamento, sia gli atti normativi (ai quali si iscrive oramai pacificamente il regolamento) sia i provvedimenti amministrativi possono dispiegare effetti retroattivi.
In proposito, è sufficiente ricordare i principi e la corposa giurisprudenza che vi ha dato attuazione in materia di “tetti di spesa”, in base ai quali la determinazione in corso d’anno dei “tetti di spesa”, che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate, non può considerarsi, in quanto tale, affetta da illegittimità (così, ex multis, Cons. Stato, Ad. pl., 12 aprile 2012 n. 3 e 4; sez. III, 7 marzo 2012, n. 1289; 23 dicembre 2011, n. 6811; 7 dicembre 2011, n. 6454; 17 ottobre 2011, n. 5550; 29 luglio 2011, n. 4529; sez. V, 8 marzo 2011, n. 1431; 28 febbraio 2011, n. 1252; Ad. pl., 2 maggio 2006 n. 8).
Nel caso di specie, peraltro, gli asseriti illegittimi effetti retroattivi sono la risultante dell’avvenuto annullamento, in parte qua, dei precedenti regolamenti e dei criteri “distributivi” in essi previsti.
Né si potrebbe ritenere che l’annullamento di un regolamento dalla cui immediata applicazione sono derivati determinati effetti giuridici e materiali reversibili dovrebbe comunque rimanere privo di ricadute concrete, poiché le precedenti assegnazioni di risorse, sia pure avvenute sulla scorta di criteri illegittimi, non potrebbero essere rimesse in discussione.
Tale tesi contraddice i principi basilari del processo amministrativo e dell’azione di annullamento.
Quanto avvenuto costituisce, infatti, piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. nn. 5 del 2019, 1 del 2018, 4 e 5 del 2015; Corte di giustizia UE, sez. II, 14 maggio 2020, C-15/19), il quale, nei limiti del noto brocardo secondo cui factum infectum fieri nequit, tende a riportare la situazione “di fatto” a conformità con quella “di diritto”, la quale ultima, evidentemente, non era quella prefigurata dall’art. 4, comma 2, del d.m. n. 25 luglio 2003 n. 256, e dall’art. 3, comma 4, del d.m. n. 156 del 3 settembre 2008 (in quanto regolamenti in parte qua illegittimi), ma quella delineata dal regolamento n. 37/2015, attuativo dei principi formulati da questo Consiglio con i giudicati di annullamento del 2012 e ritenuti compatibili con la disciplina euro-unitaria dalla sentenza della Corte di giustizia.
(2) Ha chiarito la Sezione che in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento” (Cons. Stato, Ad. pl., 29 novembre 2021, n. 21; sulla stessa linea in precedenza Ad. plen., n. 19 del 2021).
I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata dall’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”). | Energia elettrica |
Alimenti - Tutela - Produzioni Dop - Regolazione dell’offerta di formaggio - Piano Regolatore dell’offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019 – Legittimità.
E’ legittima l’adozione, per il triennio 2017-2019, del Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano. ai sensi dell’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, che autorizza gli Stati membri a “stabilire, per un periodo di tempo limitato, norme vincolanti per la regolazione dell’offerta di formaggio che beneficia di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta”, ad eccezione della disciplina della modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori, che si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione (1).
(1) La Sezione ha ritenuto complessivamente legittima l’adozione, per il triennio 2017-2019, del Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano. ai sensi dell’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, che autorizza gli Stati membri a “stabilire, per un periodo di tempo limitato, norme vincolanti per la regolazione dell’offerta di formaggio che beneficia di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta”.
Ha unicamente rilevato un profilo di illegittimità per disparità di trattamento circa la modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori che si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione.
La sentenza ha in primo luogo rilevato che la rinnovazione del piano di regolazione per un ulteriore triennio, dopo l’adozione del piano per il precedente triennio 2014-2017, non è vietata dalla normativa UE. Infatti, la lettera c) del par. 4 dell’art. 150 del Regolamento 1308/2013prevede che: "le norme di cui al par. 1 possono essere rese vincolanti per un massimo di tre anni ed essere rinnovate dopo questo periodo a seguito di una nuova richiesta di cui al paragrafo 1”.
Quanto alla scelta di mantenere lo stesso PRC (punto di riferimento comprensoriale) del precedente piano (pari a 1.762.000 ton di latte), tale scelta è stata ritenuta ragionevolmente e legittimamente motivata - nel Piano - dalla considerazione che il livello produttivo 2015 esprime condizioni di sostanziale equilibrio rispetto agli strumenti già disponibili, e pertanto non punta – a tali livelli produttivi – a reperire risorse aggiuntive dalla contribuzione aggiuntiva.
Il TAR ha poi ritenuto che la scelta di imperniare il sistema di regolazione dell’offerta sulle quote latte sia ragionevole in quanto per il Parmigiano Reggiano si verifica la sostanziale esclusività di impiego del latte prodotto dalle stalle inserite nel sistema di controllo della Dop. nella filiera del Parmigiano Reggiano, pertanto, il rapporto “vacche – latte – formaggio” è sostanzialmente esclusivo. (v. pag. 8 del Piano).
Il controllo delle quote latte, pertanto, consente di influire sulla regolazione della produzione del formaggio mediante lo strumento della contribuzione aggiuntiva in caso di c.d. “splaffonamento”.
Circa la questione dell’(eventuale e futuro) aumento incontrollato dei prezzi delle quote latte, paventata da parte ricorrente, la sezione ha ritenuto che si tratta di una conseguenza dell’andamento del mercato delle quote, che seppur non auspicabile, non può essere motivo per incrementare oltre misura la produzione del parmigiano, a scapito delle esigenze di tutela del prodotto poste a fondamento dell’adozione del piano.
Infine, il TAR ha ritenuto non ragionevole la modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori, laddove determina una irragionevole disparità di trattamento che finisce per agevolare e grandi produttori di latte a svantaggio dei piccoli produttori e dei caseifici aziendali, calcolando al contribuzione aggiuntiva non sul latte prodotto ma sullo splafonamento del caseificio cui essi conferiscono latte, e cioè su un dato che è al di fuori delle conoscenze, e ancor più di qualsiasi possibilità di influenza e previsione.
Il Tar ha pertanto disposto l’annullamento delle clausole del Piano relative allo splaffondamento del caseificio, respingendo per il resto tutte le altre censure dedotte. | Alimenti |
Processo amministrativo - Covid-19 – Udienza cautelare e di merito – Richiesta di discussione da remoto dell’avvocato di una parte – Opposizione di un avvocato – Mancanza di peculiarità della causa tale da superare il principio della concorde convergenza delle parti nel richiedere la discussione orale – Va accolta l’opposizione.
Va accolta l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa, e quindi la causa passa in decisione senza discussione orale, ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020, nel caso in cui – stante il contesto circostanziale e normativo speciale relativo allo svolgimento dell’udienza mediante modalità telematiche e fatta salva l’integrità del contraddittorio comunque pienamente garantita – l’opposizione risulti fondata su elementi di meritevolezza, non emergendo una obiettiva peculiarità della causa tale da superare il principio della concorde convergenza delle parti nel richiedere la discussione orale nelle modalità attualmente previste. | Processo amministrativo |
Autorità amministrative indipendenti – Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - Comunicazioni elettroniche – Operatori aventi significativo potere di mercato – Prezzi – Obblighi – Possibilità – Ratio – Abuso di posizione dominante - Qualificazione - Margin squueze – Prevenzione.
Autorità amministrative indipendenti – Discrezionalità tecnica - Sindacabilità – Limiti.
La normativa del Codice delle comunicazioni elettroniche prevede che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni possa imporre obblighi volti a prevenire la pratica di prezzi predatori da parte degli operatori aventi un “significativo potere di mercato”; tale normativa persegue il primario fine di tutela della concorrenza del mercato e del connesso interesse pubblico all’apertura dello stesso; si tratta, in buona sostanza, di prevenire un abuso di posizione dominante che prende il nome di “margin squeeze”; la compressione dei margini si configura quando il differenziale tra il prezzo dell’input, fornito dall’impresa dominante nel mercato a monte - impresa verticalmente integrata -,e il prezzo dell’output, offerto da quest’ultima sul mercato a valle, risulta essere negativo o insufficiente a coprire i costi di un operatore, attivo nel downstream market, efficiente quanto l’impresa che attua tale condotta; ciò che spinge l’impresa ad effettuare una compressione dei margini è l’intento di escludere le rivali dal mercato a valle, per cui si tratta di un abuso escludente (1).
Il sindacato giurisdizionale, pieno ed effettivo, sugli atti regolatori delle Autorità indipendenti si estende anche all’accertamento dei fatti operato dall’Autorità sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili, al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico, e implica la verifica del rispetto dei limiti dell’opinabile tecnico-scientifico (e, nell’ambito di tali confini, anche del grado di attendibilità dell’analisi economica e delle valutazioni tecniche compiute, alla stregua dei criteri della ragionevolezza e della proporzionalità), attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.); tale sindacato non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.
(1) In termini generali, ha ricordato la Sezione che le misure limitative della concorrenza, date dal regolatore, si giustificano in presenza di un operatore dominante o meglio che detenga un significativo potere di mercato.
Si interviene ex ante, indirizzando i comportamenti delle imprese che operano in questi settori con obblighi positivi specifici. E’ possibile che, in un determinato settore, la concorrenza non consenta il perseguimento di interessi meritevoli di tutela. In tal caso, si può intervenire regolamentando il settore e andando a limitare la concorrenza in nome di tali interessi. Non v’è alcuna contraddizione, tuttavia, fra regolazione ex ante e tutela della concorrenza.
Le Corti europee hanno più volte confermato il principio di applicabilità delle regole di concorrenza anche in presenza di specifiche regolazioni settoriali e il Tribunale stesso, in relazione al caso Telefònica, ha affermato che “le norme in materia di concorrenza previste dal trattato CE completano ,per effetto di un esercizio di controllo ex-post, il contesto normativo adottato dal legislatore dell’Unione ai fini della regolamentazione ex-ante dei mercati delle Telecomunicazioni”.
Tali misure, nella specie, come si vedrà si concretizzano nel test di replicabilità delle offerte.
In tale contesto, con delibera n. 623/15/CONS contenente l’analisi del mercato, l’Autorità ha evidenziato, in particolare, che Telecom Italia è ancora “l’unico operatore verticalmente integrato lungo tutta la catena tecnologica e impiantistica a livello nazionale” mentre gli operatori alternativi (cc.dd. “OLO”), quale è la ricorrente, da un lato “devono rispettare i vincoli imposti da Telecom Italia nell’acquisto dei servizi intermedi, dall’altro si trovano a competere con quest’ultima nel mercato a valle”.
Quindi, la stessa Autorità ha espressamente sancito, al comma 7 dell’art. 11 (rubricato Obblighi di non discriminazione), che “tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio (inclusi i bundle) devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente e, pertanto, sono sottoposte ad un test di replicabilità, in modalità ex ante ossia prima del lancio commerciale, da parte dell’Autorità”.
L’art. 65 della medesima delibera (Replicabilità dei servizi al dettaglio di accesso alla rete fissa) ha poi precisato che “In attuazione dell’obbligo di non discriminazione di cui all’art. 11 nonché dell’obbligo di controllo dei prezzi di cui all’art. 13, tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio – sia per effettuare e/o ricevere chiamate telefoniche ed accedere ai servizi correlati sia per accedere ai servizi di trasmissione dati a banda larga – offerti su rete in rame e su rete in fibra, commercializzati singolarmente o in bundle con altri servizi – incluse le promozioni – devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente. L’Autorità effettua la verifica della replicabilità economica e tecnica delle offerte di cui al comma precedente mediante i test definiti ai sensi della delibera n. 499/10/CONS e successive integrazioni, salvo quanto stabilito in merito alle gare per pubblici appalti ed alle procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore di cui all’articolo seguente”, inoltre fissa le modalità di espletamento delle verifica “de qua”, prescrivendo, tra l’altro, che essa avvenga mediante i test di cui alla delibera n. 499/2010 (doc. 5 ric.) e successive modificazioni ed integrazioni.
Quest’ultima delibera del 2010 è stata integrata dalla delibera n. 604/13 per quanto concerne l’applicabilità dei medesimi test di prezzo anche ai servizi a banda ultralarga su fibra ottica e, ancor prima, dalla Circolare applicativa, datata 8 luglio 2011 espressamente dedicata alle modalità applicative della delibera n. 499 cit.
Per quanto riguarda in dettaglio le analisi necessarie ai predetti fini di verifica, in particolare, nella stessa delibera n. 499/2010 si legge (par. 1.4, pag. 50, doc. 5 ric.) che le analisi multiperiodali possono essere effettuate sia analizzando (mediante il test c.d. “Period by Period”) ciascun periodo della “permanenza media del cliente nell’offerta”, sia analizzando unicamente il risultato a fine periodo (c.d. analisi “DCF”).
Quest’ultima analisi è più appropriata per la valutazione di offerte mediante le quali si realizzino investimenti fissi “ad hoc” da recuperare in un determinato intervallo temporale, il che corrisponde alla logica economica secondo cui il ritorno degli investimenti non si realizza in un unico periodo, ma nel corso della vita utile dell’investimento effettuato.
Quindi andrebbero valutati secondo il criterio DCF, in vista della verifica del risultato alla fine del “multi-periodo” considerato, gli investimenti e i relativi ammortamenti; al riguardo l’Autorità, nella delibera n. 499 ha mostrato di ritenere congruo un arco temporale di 24 mesi per i servizi in rame, fatte salve future modifiche di esso ove ritenute più congrue (in effetti per le offerte in fibra il periodo di osservazione è stato successivamente esteso a 36 mesi).
Viceversa i costi variabili dovrebbero essere recuperati in ciascun singolo periodo, su base annuale (o sulla base della durata minima contrattuale dell’offerta) e, pertanto a questa verifica meglio si adatta il test “Period by Period” (PbP) che consente di verificare che in ciascun singolo periodo (e non solo “alla fine” dell’arco temporale totale dell’investimento considerato) vengano coperti tutti i costi variabili relativi all’offerta (inclusi i costi “W” relativi ai fattori produttivi di rete essenziali, vedi pagg. 47 e pag. 50 delibera n. 499). “Al fine di garantire una corretta valutazione delle offerte, che tenga conto delle logiche economiche e di sviluppo del mercato, l’Autorità …(ha ritenuto) opportuno integrare l’utilizzo di entrambi i metodi di valutazione” (pag. 50 delibera ult. cit.).
Alla suddetta regola generale - secondo la quale la verifica di replicabilità si deve svolgere attraverso entrambi i metodi di analisi sopra citati - fanno eccezione alcune rilevanti fattispecie che lo stesso Regolatore, già a partire dalla delibera n. 499/10 ha ritenuto di sottrarre alla verifica “PdP”. Due di esse sono direttamente contemplate dalla delibera in commento che esclude dalla sottoposizione al test PbP: i) le offerte formulate in occasione di procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore, a cui si applicano criteri “ad hoc”; ii) le offerte c.d. “entry level” cioè finalizzate allo sviluppo del mercato, considerata la necessità di specifici investimenti destinati a tale sviluppo, da assoggettare al solo test DCF.
Con la Circolare del 8 luglio 2011, l’Autorità ha successivamente dettato le modalità attuative della delibera 499/10 e, per quanto di interesse nella specie, ha delineato ulteriori fattispecie da assimilare all’ipotesi di offerta “new entry” ai fini dell’esonero dall’analisi di tipo PdP (in deroga alla regola generale della doppia verifica): il par. 6, punto 27 della Circolare nominata individua tali fattispecie nelle “…offerte promozionali che presentano un impatto limitato sulle dinamiche competitive nei mercati al dettaglio. In tale categoria rientrano, a titolo di esempio, le promozioni commercializzate in modalità c.d. rush, ossia per intervalli di tempo particolarmente ridotti e/o attraverso alcuni specifici e limitati canali di acquisizione (ad esempio mediante il solo canale web)”.
L’assoggettamento di queste tipologie di promozioni al solo test DCF è stato ribadito dalla successiva delibera AGCOM n. 604/13 (in tema di offerte “ultrabroadband” in fibra) che espressamente menziona anche le offerte “limited edition” caratterizzate dal fatto che l’operatore prevede un numero massimo di acquisizioni nel periodo di commercializzazione, di limitato impatto percentuale rispetto al totale delle attivazioni dell’offerta nel periodo considerato.
(2) Ha ricordato la Sezione che se è vero che in generale sussiste la sindacabilità della discrezionalità tecnica delle determinazioni delle cc.dd. Autorità indipendenti, è altrettanto vero che sia inibito al Giudice imporre verifiche tecniche diverse da quelle previste dal vigente quadro regolatorio.
Infatti, sebbene il sindacato giurisdizionale, pieno ed effettivo, sugli atti regolatori delle Autorità indipendenti si estenda anche all’accertamento dei fatti operato dall’Autorità sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili (al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico; v. sul punto, ex plurimis, Cons. St., sez. III, 25 marzo 2013, n. 1645), e implichi la verifica del rispetto dei limiti dell’opinabile tecnico-scientifico (e, nell’ambito di tali confini, anche del grado di attendibilità dell’analisi economica e delle valutazioni tecniche compiute, alla stregua dei criteri della ragionevolezza e della proporzionalità), attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.), tale sindacato non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, come avvenuto nel caso di specie, peraltro sulla base di una motivazione apodittica non supportata da specifici riferimenti normativi ed adeguati elementi istruttori (Cons. St., sez. VI, 25 settembre 2017, n. 4460). | Autorità amministrative indipendenti |
Ambiente - Valutazione impatto ambientale – Subordinata al rispetto di specifiche prescrizioni – Legittimità.
E’ legittima una valutazione di impatto ambientale (VIA) che dichiari la compatibilità ambientale di un progetto subordinatamente al rispetto di specifiche prescrizioni e condizioni, da verificare all’atto del successivo rilascio dei titoli autorizzatori necessari per la concreta entrata in funzione dell’opus, nulla ostando in linea di principio a che l’Amministrazione attesti che, a seguito dell’adozione futura di ben precisi accorgimenti, l’opera possa risultare compatibile con le esigenze di tutela ambientale (1).
(2) Ha chiarito la Sezione che i limiti alla legittimità di tale modus procedendi attengono al grado di dettaglio e di specificità delle prescrizioni, nonché al numero ed alla complessiva incidenza delle stesse sui caratteri dell’opera, in quanto la formulazione di prescrizioni eccessivamente generiche, ovvero relative a pressoché tutti i profili di possibile criticità ambientale dell’opus, potrebbe risolversi in una sostanziale pretermissione del giudizio. Una simile evenienza, da accertarsi nel caso concreto, ha carattere patologico e lumeggia l’illegittimità dell’azione amministrativa, che, in casi siffatti, rinviene non dalla presenza di prescrizioni in sé e per sé considerate, ma dal fatto che il carattere abnorme (qualitativamente, tipologicamente o numericamente) di tali prescrizioni disvela, a monte, l’assenza di un’effettiva, concreta ed attuale valutazione di impatto ambientale, ossia il sostanziale rifiuto dell’esercizio del potere, pur nella formale spendita dello stesso.
Ha aggiunto la sezione che la situazione soggettiva comunemente nota come potestà, di cui è investita l’Amministrazione nell’esercizio di poteri discrezionali, presenta, oltre all’aspetto del “potere” (ossia della capacità di modificare unilateralmente ed autoritativamente la sfera giuridica degli amministrati), il contestuale e parallelo tratto del “dovere” (da intendersi tanto come dovere dell’esercizio, posto che tale situazione è indisponibile, quanto come dovere della finalizzazione teleologica di tale esercizio, che deve essere volto a conseguire gli scopi indicati dalla legge): tale situazione, del resto, è altresì nota come potere-dovere. | Ambiente |
Consiglio di Stato e Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana – Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana - Componente laico - Trasferimento al Consiglio di Stato – Esclusione.
E’ legittimo il diniego di trasferimento presso una delle Sezioni del Consiglio di Stato e dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato di un componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la previsione di componenti laici si correla all’istanza di decentramento degli organi giurisdizionali nazionali espressa nello statuto speciale della Regione siciliana, cui è stata poi data concreta attuazione con il decreto legislativo n. 373 del 2003. Come al riguardo affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 4 novembre 2004, n. 316, e di recente ribadito da questo Consiglio di Stato in sede consultiva (Cons. Stato, I, parere 11 febbraio 2021, n. 186), il decreto attuativo ha concretizzato il principio di specialità espresso nel più volte citato art. 23 dello statuto della Regione siciliana, il cui primo comma è così formulato: «Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione». Nella sentenza poc’anzi richiamata la Corte costituzionale ha precisato che il principio statutario di specialità risponde ad «un’aspirazione viva, e comunque saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali», e di esso è espressione la peculiare struttura e composizione del Consiglio di giustizia amministrativa, secondo un modello di giudice speciale rispondente alle istanze autonomistiche regionali recepite nello statuto speciale siciliano. In questa prospettiva si colloca il potere di designazione dei componenti laici spettante ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 373 del 2003 al presidente della Regione siciliana, quale rappresentante delle ora menzionate istanze autonomistiche regionali, il quale in ragione di ciò partecipa anche alla fase deliberativa presso il Consiglio dei ministri.
In pedissequa applicazione del fondamento istitutivo del Consiglio di giustizia amministrativa finora esposte, ed a prescindere dal fatto che, come statuito dalla sentenza di primo grado, esse non sarebbero state specificamente censurate dall’avvocato Zappalà, il diniego di trasferimento ad esso opposto ha legittimamente fatto riferimento alle norme di attuazione dello statuto regionale, di cui al d.lgs. n. 373 del 2003 sulla composizione e le funzioni del Consiglio di presidenza. Diversamente da quanto sostiene al riguardo l’appellante non è invece rilevante in contrario il fatto che il medesimo decreto legislativo non rechi alcun divieto in questo senso. Una simile previsione non avrebbe in realtà ragione di porsi, dal momento che il vincolo di permanenza del componente laico presso il Consiglio di giustizia amministrativa è innanzitutto insito nella dimensione esclusivamente regionale delle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa e di giurisdizione attribuite all’organo, in base ai sopra citati artt. 4, comma 3, e 9, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003; oltre che nella speciale composizione mista delle sue due Sezioni, consultiva e giurisdizionale, contraddistinta da distinti contingenti di consiglieri di Stato e componenti laici, e dalla partecipazione necessaria di questi ultimi ai relativi organi, secondo le disposizioni dei parimenti sopra richiamati artt. 3 e 4 d.lgs. n. 373 del 2003.
L’opposta tesi della libera mobilità dei componenti laici verso il Consiglio di Stato porta invece alle seguenti aporie: da un lato componenti espressione delle istanze autonomistiche della Regione siciliana andrebbero a svolgere le loro funzioni al di fuori del territorio regionale, con relativo svuotamento del principio di specialità che è alla base dell’istituzione del Consiglio di giustizia amministrativa da parte dello statuto speciale, avente rango costituzionale; dall’altro lato per ovviare alle scoperture di organico così venutesi a creare e per ripristinare i contingenti numerici previsti dagli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 373 del 2003 si renderebbe necessaria la nomina di altri componenti laici, e dunque, considerato anche il possibile flusso inverso, per un verso si altererebbe il rapporto laici - togati presso il Consiglio di giustizia amministrativa previsto dalla legislazione attuativa dello statuto regionale; e per altro verso si introdurrebbe un fonte di provvista dei consiglieri di Stato ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 19, l. n. 186 del 1982.
Con l’accoglimento della tesi sulla libera alla mobilità verso le sezioni del Consiglio di Stato si verrebbe quindi a spezzare il «legame funzionale esclusivamente con l’attività giurisdizionale e consultiva relativa agli affari di interesse regionale» che contraddistingue il rapporto organico dei componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa, ed in base al quale questi ultimi sono investiti di «una funzione legata all’amministrazione della giustizia esclusivamente nel territorio regionale e alle controversie in cui è interessata la regione stessa» (così il sopra citato parere della I Sezione di questo Consiglio di Stato del 11 febbraio 2021, n. 186). Si attribuirebbe inoltre prevalenza al distinto rapporto che viene ad instaurarsi tra il componente laico e la giustizia amministrativa, ovvero al «rapporto di servizio».
A quest’ultimo riguardo deve peraltro darsi atto che ai sensi del già richiamato art. 7, d.lgs. n. 373 del 2003 «vi è, per il periodo del mandato, l’equiparazione ai magistrati del Consiglio di Stato» dei componenti laici, i quali godono del «medesimo stato giuridico dei consiglieri di Stato» (così ancora il parere ora richiamato). Su tale previsione si imperniano gli assunti dell’avvocato Zappalà.
Nondimeno, la relazione tra i due distinti rapporti deve trovare la giusta collocazione nel senso che va tenuto fermo il rapporto organico su cui si fonda l’esercizio delle funzioni consultive e giurisdizionali del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, a sua volta indissolubilmente legato all’organo investito delle «funzioni consultive e giurisdizionali nella Regione siciliana, ai sensi dall’articolo 23 dello Statuto speciale» ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003).
Rispetto al rapporto organico il rapporto di servizio si pone invece in posizione accessoria. Ciò si desume dall’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003, il quale dispone che al medesimo componente si applicano «durante il periodo di durata in carica» le norme concernenti lo status giuridico ed economico del consigliere di Stato. Le norme sullo stato giuridico ed economico vanno quindi a disciplinare i contenuti del rapporto di servizio del componente laico per tutta la durata della carica, la quale deve comunque svolgersi presso il Consiglio di giustizia amministrativa e, per rispondere alle ulteriori pretese inerenti all’accertamento dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato avanzate dall’avvocato Zappalà, per il periodo di sei anni, senza possibilità di conferma, secondo quanto previsto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 373 del 2003.
Se dunque il componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa è equiparato al consigliere di Stato, egli intanto lo è nella misura in cui sia investito delle funzioni spettanti dell’organo previsto dallo statuto speciale della Regione siciliana ed espressione del principio di specialità che ne costituisce la ragione fondante. Come sopra esposto, l’attuazione di questo principio ad opera del medesimo d.lgs. n. 373 del 2003 si è tradotta nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa, con la previsione di consiglieri di Stato da un lato e dall’altro lato di componenti designati dalla Regione siciliana e nominati secondo modalità analoghe ai consiglieri di Cassazione per meriti insigni e ai consiglieri di Stato di nomina governativa. Tuttavia, mentre per i primi l’assegnazione al Consiglio di giustizia amministrativa costituisce una vicenda modificativa inerente al rapporto di organico e di servizio (con il collocamento fuori ruolo e il mutamento della sede, ai sensi dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 373 del 2003), per i secondi l’interesse regionale a base della loro nomina e della costituzione del rapporto organico con il Consiglio importa un vincolo di sede presso lo stesso organo di giustizia amministrativa, poiché solo nell’incardinamento in quest’ultimo si giustifica a termini di statuto speciale della Regione siciliana la figura del componente laico. Di riflesso, pur in presenza dell’equiparazione del trattamento giuridico ed economico al consigliere di Stato il rapporto di servizio del componente laico soffre di questa limitazione alla mobilità, giustificata sul piano statutario nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa e che va quindi ricondotta alle ragioni fondanti l’istituzione in questo settore dell’attività giurisdizionale di un organo speciale a competenza regionale.
L’equiparazione non può quindi essere intesa in senso assoluto.
Essa deve infatti tenere conto del diverso ed antitetico sistema di provvista dei componenti del Consiglio di presidenza, riferito a due distinte disposizioni dell’art. 106 della Costituzione: l’uno, in conformità al comma 1 della disposizione costituzionale ora richiamata, mediante il collocamento fuori ruolo di magistrati di carriera, reclutati mediante concorso pubblico, salva la peculiare figura del consigliere di Stato di nomina governativa, che si giustifica in ragione dell’origine storica dell’Istituto; l’altro, in attuazione del comma 3 del medesimo art. 106 Cost., relativo alla nomina di consiglieri di cassazione “laici”, ovvero nominati per meriti insigni, e dunque attraverso il ricorso a figure tratte dalla società civile - «professori ordinari di università nelle materie giuridiche e (...) avvocati che abbiano almeno quindici anni di effettivo esercizio e (…) iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori » (art. 1, comma 1, l. n. 303 del 1998) - in possesso di meriti professionali adeguati all’ufficio da assumere.
In assenza di vincoli a livello costituzionale o di statuto speciale della Regione siciliana, per il Consiglio di giustizia amministrativa la carica del componente laico la legislazione attuativa ne ha previsto la temporanea. Si tratta di una scelta di politica legislativa riconducibile alle ragioni di specialità che connotano l’organo giurisdizionale istituito nel territorio regionale e che è volta ad accentuare il carattere onorario dell’incarico, nel senso di renderlo rispondente a logiche di più ampia partecipazione all’ufficio degli esponenti della società civile siciliana. La scelta così descritta impedisce di configurare nel rapporto di servizio le caratteristiche del lavoro subordinato invece propria dei magistrati di carriera, reclutati mediante pubblico concorso. Le ora esposte considerazioni di politica legislativa a base della durata temporalmente definita dell’incarico prevista dal d.lgs. n. 373 del 2003 non consentono invece di richiamare a sostegno dell’opposta tesi della stabilità sostenuta dall’appellante, in analogia con quanto previsto per i consiglieri di Stato di nomina governativa, oltre che per i consiglieri di cassazione nominati per meriti insigni ex lege n. 303 del 1998. Ognuna di queste figure ha infatti ragioni fondanti e caratteristiche proprie, che impediscono di individuare un archetipo valevole per tutte queste e dunque una disciplina giuridica unitaria. | Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana |
Magistrati – Consiglio Superiore della Magistratura - Componenti laici – Rientro nella Amministrazione di provenienza - Assegno ad personam – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni se le disposizioni normative sull’assegno ad personam di cui all’art. 1, commi 457 e 458, l. n. 147 del 2013, nonché quelle di cui all’art. 8, comma 5, l. n. 370 del 1999 (nel testo vigente) siano applicabili anche ai componenti cc.dd. ‘laici’ del Consiglio Superiore della Magistratura (con la conseguenza di rendere inapplicabili nei loro confronti l’istituto dell’assegno ad personam) ovvero se questi ultimi siano esclusi dalla applicazione delle norme ivi contenute, anche in ragione del particolare munus ad essi affidato (art. 104, comma 4, Cost.); b) in caso di risposta affermativa al primo quesito, se le disposizioni normative de quibus siano applicabili ai ratei da corrispondersi a partire dal 1° febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147 del 2013 (1).
(1) Analoga rimessione è stata disposta con Cons. St., sez. VII, ord., 9 marzo 2022, n. 1673
Ha ricordato la Sezione che sulla questione si registra un contrasto giurisprudenziale.
Secondo un primo orientamento (sez. VI, 5 marzo 2018 nn. 1384 e 1385) l’art. 1, comma 459, l. n. 147 del 2013 “impone a tutte le Amministrazioni, nei cui ruoli siano rientrati propri dipendenti cessati da precedenti ruoli o incarichi, di adeguare - senza alcuna distinzione - i relativi trattamenti giuridici ed economici (disponendo la cessazione degli assegni ad personam in precedenza corrisposti) “a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore” della l. n. 147 del 2013. La prescrizione spiega dunque effetto per tutti i ratei retributivi da corrispondersi a partire dal 1 febbraio 2014 (ma, ovviamente, senza che vi sia luogo a restituzione di quanto fino a tale data percepito, in ciò sostanziandosi l'irretroattività, ove rettamente intesa, della norma sopravvenuta)”.
Secondo tali decisioni, il richiamato obbligo di adeguamento opererebbe anche in relazione allo speciale assegno ad personam di cui all’art. 3, l. n. 312 del 1971.
Il Consiglio di Stato (attraverso un percorso argomentativo che il Collegio ritiene in via di principio condivisibile) ha in particolare ritenuto che le nuove disposizioni normative siano connotate da retroattività c.d. “impropria”, che si realizza quando le norme sopravvenute regolano diversamente i tratti non esauriti dei rapporti di durata. Ha inoltre osservato che – pur dovendosi riconoscere ai richiamati interventi normativi valenza retroattiva, sia pure con salvaguardia degli emolumenti già corrisposti – gli stessi non si pongano in contrasto con i limiti che la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cedu hanno posto all’applicazione di discipline retroattive. È stato in particolare affermato che i richiamati interventi non si pongano in insanabile contrasto con le modalità e le condizioni di tutela del legittimo affidamento sancite – sia pure con declinazioni in parte diverse – dalla giurisprudenza costituzionale e da quella convenzionale.
Le richiamate sentenze della Sesta Sezione hanno inoltre rilevato che l’abrogazione espressa dell’art. 202 T.U. n. 3 del 1957 ad opera della legge n. 147 del 2013 ha altresì determinato come conseguenza l’abrogazione implicita (o, secondo una prospettiva in parte diversa, un vero e proprio fenomeno di “svuotamento normativo”) dell’articolo 3 della legge n. 312 del 1971 (secondo cui, è bene ricordarlo, il riconoscimento dell’assegno ad personam in favore degli ex componenti cc.dd. ‘laici’ del CSM opera “agli effetti e nei limiti stabiliti dall’articolo 202 [del d.P.R. n. 3 del 1957]”).
Ad analoghe conclusioni è pervenuto recentemente (con riguardo alla questione relativa al computo dell’assegno ad personam percepito da un componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, ai fini della determinazione della indennità di buonuscita) il Consiglio di Stato, Sezione III, nella sentenza n. 8026 dell’1 dicembre 2021.
Nelle predette pronunce è stato chiarito che le disposizioni normative introdotte nel 2013 dal legislatore nazionale, ai fini del contenimento della spesa pubblica, trovano applicazione anche agli incarichi di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, con la conseguenza che, a partire dalla mensilità successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 147/2013, non si ha più diritto a percepire l’assegno ad personam che in precedenza veniva erogato, al momento del rientro in servizio presso le Amministrazioni di appartenenza, per aver fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura.
La Sezione ha rilevato che in altre pronunce il Giudice amministrativo d’Appello è pervenuto a conclusioni sostanzialmente opposte.
In particolare, il Consiglio della Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, nella sentenza 14 aprile 2016 n. 89, partendo dall’assunto che l'elezione da parte del Parlamento di un professore a componente del Consiglio Superiore della Magistratura, prevista dal quarto comma dell'art. 104 della Costituzione, non può essere equiparata alla nomina a un incarico o a un servizio amministrativo in relazione al fondamento costituzionale del relativo munus, è pervenuto alla conclusione di ritenere che “l’art. 3 comma 1, l. n. 312 del 1971 è stato previsto espressamente per i componenti del C.S.M. ed è stato previsto per ristorare i peculiari sacrifici conseguenti alla rinunzia di svolgere altre attività (….) è necessario ritenere che si tratti di una norma speciale cioè di una norma che regola casi assolutamente particolari e specificamente individuati e, come tale, non può ritenersi che venga abrogata da una norma di carattere generale contenuta nell'art. 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 che - e questo sembra decisivo - comunque la si voglia interpretare fa riferimento a compiti, funzioni, incarichi svolti all'interno dell'amministrazione e non alle funzioni di competenza degli organi costituzionali”.
La tesi da ultimo richiamata sembra essere sostanzialmente ripresa anche da questo Consiglio di Stato, Sezione VI, nella sentenza dell’11 dicembre 2017 n. 5801, nella quale, in sede di ottemperanza, si afferma che: “l’effetto abolitivo, che per il personale universitario è comunque superfluo stante l’art. 8, comma 5, della l. 19 ottobre 1999, n. 370 (sul divieto di mantenimento di trattamenti economici goduti nel servizio o incarico svolto precedentemente), ha riguardato soltanto il predetto art. 202, mentre nella specie si versa nel diverso caso dell’assegno ex art. 3, primo comma, della 312/1971 (norma non incisa dal citato comma 458, primo periodo); – tale assegno segue sì la morfologia strutturale di quelli ex art. 202 del DPR 3/1957 ed è sì ad personam, ma, in quanto afferente al munus ex art. 104, quarto comma, Cost., giammai è assimilabile a quelli inerenti a qualunque incarico amministrativo cui possa esser applicato un pubblico dipendente, onde esso resta regolato non già dalla norma generale del medesimo comma 458, bensì dalla fonte speciale e riservata (la legge n. 312) anche sotto il profilo funzionale, servendo esso a ristorare quei peculiari sacrifici connessi all’incarico di rilevanza costituzionale e conseguenti alla rinuncia ai vari vantaggi attuali o potenziali del componente eletto nel CSM, ristoro di cui il legislatore s’è dato carico con la predetta regola ad hoc”.
La decisione da ultimo richiamata, in sintesi, perviene alla conclusione (di fatto, opposta rispetto a quella tracciata dalle richiamate sentenze numm. 1384 e 1385 del 2018) secondo cui gli interventi normativi del 2012-2013 non avrebbero determinato alcun effetto abrogativo nei confronti dello speciale assegno ad personam di cui alla legge n. 312 del 1971. E l’assenza di un tale effetto emergerebbe sia dalla mancanza di un’abrogazione espressa della richiamata disposizione, sia dal carattere del tutto speciale dell’attribuzione patrimoniale ivi disciplinata, che non potrebbe dirsi “travolta” in conseguenza dell’abrogazione dell’articolo 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 | Magistrati |
Processo amministrativo – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE – Giudice di ultima istanza – Obbligo – Limiti.
Processo amministrativo – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE – Dopo decisione parziale – Esclusione - Limiti.
Al fine di reprimere un “abuso del rinvio pregiudiziale”, devono ritenersi inammissibili questioni non pertinenti perché manifestamente irrilevanti per la soluzione del giudizio principale o perché del tutto generali o di natura meramente ipotetica, o comunque ove risulti in modo evidente che la richiesta di interpretazione del diritto dell’Unione non presenta alcun legame concreto con l’oggetto della causa (1).
Non è concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, quale può essere la rimessione alla Corte di giustizia Ue, ben sollevabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione – parziale - della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente (2).
(1) Ha ricordato la Sezione che Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2020, n. 4970, ha affermato che la presenza di una “inconferente” e “irrilevante” istanza di rimessione alla Corte di giustizia UE esclude l’obbligo di rinvio pregiudiziale.
Ha aggiunto che a seguito di ordinanza 5 marzo 2012 n. 1244, con la quale il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte di Giustizia il quesito “se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, [comma] 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma comunitaria”, la Corte (con la nota decisione 18 luglio 2013 causa C-136/12, punto 26) ha chiaramente risposto che “dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell’art. 267 TFUE deriva che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81).
(2) Ha ricordato il C.g.a. che secondo la Corte di giustizia UE (10 lugllio 2014 C-213/13) il giudicato nazionale è intangibile, se così stabiliscono le norme processuali interne, e per converso tangibile solo se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono.
In tale ottica, il C.g.a. (22 febbraio 2021, n. 131) ha avuto occasione di affermare che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della sez. I, 16 marzo 2006, C-234/04).
E se anche ci sono limitati spazi per superare un giudicato nazionale in contrasto con il diritto eurounitario, tanto deve ritenersi ammesso quando il contrasto non era denunciabile prima del giudicato, e si manifesta dopo di esso, a causa di sopravvenienze normativa o di una sopravvenuta decisione della Corte di giustizia.
Non è certo concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, ben prospettabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione- parziale- della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente. Questo costituisce una singolare inversione dell’ordine logico delle questioni, in cui quelle “pregiudiziali” vanno decise, per definizione normativa e logica, “prima” del “giudizio di merito” e non dopo, al fine di porre nel nulla un giudizio di merito non conforme alle aspettative di parte. | Processo amministrativo |
Concorrenza – Abusi posizione dominante – Coordinamento tra operatori economici formalmente autonomi – Configurabilità di unico centro decisionale – Rimessione alla Corte di Giustizia UE.
Sono rimesse alla Corte di Giustizia UE i quesiti: 1) al di fuori dei casi di controllo societario, quali sono i criteri rilevanti al fine di stabilire se il coordinamento contrattuale tra operatori economici formalmente autonomi e indipendenti dia luogo ad un’unica entità economica ai sensi degli artt. 101 e 102 TFUE; se, in particolare, l’esistenza di un certo livello di ingerenza sulle scelte commerciali di un’altra impresa, tipica dei rapporti di collaborazione commerciale tra produttore e intermediari della distribuzione, può essere ritenuto sufficiente a qualificare tali soggetti come parte della medesima unità economica; oppure se sia necessario un collegamento “gerarchico” tra le due imprese, ravvisabile in presenza di un contratto in forza del quale più società autonome si «assoggettano» all’attività di direzione e coordinamento di una di esse, richiedendosi quindi da parte dell’Autorità la prova di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale e commerciale; 2) al fine di valutare la sussistenza di un abuso di posizione dominante attuato mediante clausole di esclusiva, se l’art. 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all’autorità di concorrenza l’obbligo di verificare se l’effetto di tali clausole è quello di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, e di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità delle condotte contestate di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti; oppure se, in caso di clausole di esclusiva escludenti o di condotte connotate da una molteplicità di pratiche abusive (sconti fidelizzanti e clausole di esclusiva), non ci sia alcun obbligo giuridico per l’Autorità di fondare la contestazione dell’illecito antitrust sul criterio del concorrente altrettanto efficiente (1). | Concorrenza |
Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari - Consumo di cannabis light – E’ grave illecito disciplinare.
Il consumo di cannabis light da parte dell’appartenente all’Arma dei Carabinieri, anche laddove eventualmente documentato e provato, integra grave illecito disciplinare (1).
(1) Cass. pen., S.U, 30 maggio 2019, n. 30475.
Ha ricordato il C.g.a. che nel caso di un appartenente all’Arma dei Carabinieri, anche un solo episodio di consumo di sostanze stupefacenti legittima la sanzione di grado massimo applicata nel caso di specie, atteso che la condotta, non conforme a criteri di correttezza ed esemplarità anche per un comune cittadino, si rivela particolarmente grave per chi appartiene ad una struttura, come l’Arma dei Carabinieri, che ha come scopo istituzionale quello della lotta al traffico di stupefacenti (Cons. Stato, sez, IV, 3 marzo 2020, n. 1562). | Militari, forze armate e di polizia |
Agricoltura – Vigneti - Autorizzazione per nuovi impianti viticoli – Presupposti – Individuazione.
La disciplina europea in tema di autorizzazione per nuovi impianti viticoli, per concedere l’autorizzazione al nuovo impianto in “esubero”, ha richiesto una sorta di “garanzia”, che il legislatore nazionale può modulare o nella forma del mero impegno, ovvero in quella più stringente data dalla prova che l’imprenditore richiedente è degno di fiducia avendo già applicato, lui stesso, la disciplina biologica in modo integrale (l’intera superficie vitata di tutte le aziende) per un periodo di cinque anni.
(1) La Sezione ha preliminarmente ricordato che la materia trova la sua fonte primigenia e fondamentale nel diritto comunitario e, per quanto in questa sede di interesse, specificamente nel regolamento UE n. 1308/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio.
Assuma centralità, nel sistema di subcriteri o criteri dimostrativi previsto dal legislatore comunitario delegato, la manifestazione di volontà/ impegno del richiedente al rispetto di obblighi specifici nell’utilizzo delle superfici e, in via alternativa a questa, la circostanza, parimenti soggettiva, per cui i richiedenti devono essere già viticoltori al momento di presentare la richiesta e devono aver effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al primo capoverso all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta.
Il fatto che la previsione debba interpretarsi in chiave strettamente soggettiva/personalistica, essendo cioè rivolta alla persona del singolo imprenditore richiedente e non all’azienda oggetto dell’impresa agricola, si spiega ed è coerente rispetto alle sopracitate finalità che il complesso normativo comunitario intende perseguire: il bilanciamento tra incremento compatibile della produzione vitivinicola e rispetto delle esigenze di tutela del relativo comparto di mercato UE, evitando le discriminazioni e prevenendo gli abusi da parte degli imprenditori agricoli.
In questo senso, occorre premettere che l’applicazione di un criterio di priorità consente o comunque rende possibile all’imprenditore, in via sostanzialmente eccezionale, di usufruire della quota parte in “eccesso” degli impianti autorizzabili, sicché non è ammissibile un’interpretazione estensiva, e ancor meno analogica, dei criteri e dei subcriteri sopra ricordati.
Nel caso all’esame della Sezione, il criterio di priorità relativo <<alle superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, per quanto ritenuto dallo stesso legislatore europeo di natura oggettiva, collegandosi, testualmente, alle superfici e alla strumentale capacità dell’impianto di apportare un “vantaggio conservativo” all’ambiente, inevitabilmente sconta la necessità di trovare applicazione mediante elementi di natura soggettiva, in quanto si fonda, sostanzialmente, sulla “affidabilità” dell’imprenditore titolare delle superfici e dell’impianto, in ordine all’effettivo rispetto di tutti quegli obblighi e di quelle previsioni tecniche previste dalla normativa di settore, ad es., per le coltivazioni biologiche, a garanzia, cioè, dell’effettivo perseguimento di quella finalità di “conservazione ambientale”.
Si comprende, pertanto, come le disposizioni in esame si rivolgano non all’”azienda” o all’impresa considerata nella sua oggettività, ma proprio alla persona dello specifico imprenditore richiedente, dando luogo ad una fattispecie latamente assimilabile ad un rapporto intuitus personae.
In termini ancora più chiari, deve ritenersi che il legislatore comunitario, per concedere l’autorizzazione al nuovo impianto in “esubero”, abbia inteso richiedere una sorta di “garanzia”, che il legislatore nazionale può modulare o nella forma del mero impegno, ovvero in quella più stringente data dalla prova che l’imprenditore richiedente è degno di fiducia avendo già applicato, lui stesso, la disciplina biologica in modo integrale (l’intera superficie vitata di tutte le aziende) per un periodo di cinque anni.
Il legislatore nazionale ha, quindi, dato attuazione alle previsioni predette con il d.m. 15 dicembre 2015 n. 12272, come modificato dal d.m. 30 gennaio 2017, n. 527 e dal d.m. 13 febbraio 2018, n. 935.
In particolare, rileva, nella specie, l’art. 7 bis in forza del quale, dal 2018, le Regioni, laddove applichino il criterio di priorità relativo alle <<superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, di cui al par. 2, lett. b), art. 64 del regolamento e l’allegato II del regolamento delegato, ritengono tale criterio soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio e, se applicabile, al regolamento (CE) n. 889/2008 della Commissione all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta.
Quindi, il legislatore nazionale ha riprodotto la previsione più stringente prevista dall’Allegato II dei regolamenti delegati UE sopra visti, sicché, anche in ordine alla disposizione interna, valgono gli stessi ragionamenti ermeneutici sopra svolti con riferimento alla disciplina comunitaria. | Agricoltura |
Pubblica istruzione – Concorso - Concorso riservato – Immissione in ruolo su posti comuni e di sostegno dall’a.s. 2020/21 - iscritti ai TFA/Sostegno non avviati entro il 29 dicembre 2019 - Art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010 – Violazione artt. 2, 3, 32, 34 e 97 e 113 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 2, 3, 32, 34 e 97 e 113 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010, nella parte in cui pone: a) una data fissa per l’ammissione degli specializzandi iscritti ai Tirocini formativi attivi/Sostegno (TFA/S) al concorso riservato, per titoli ed esami, per l’immissione in ruolo di personale docente su posti comuni e di sostegno dall’a.s. 2020/21, in quanto iscritti ai TFA/Sostegno non avviati entro il 29 dicembre 2019, senza avere riguardo al fatto che il corso abilitante legittimante la partecipazione sia stato comunque avviato prima dell’indizione del concorso straordinario ed al fatto che l’ammissione al corso abilitante sia avvenuta in data utile per la presentazione della domanda al concorso straordinario; b) una data fissa pure per il conseguimento della abilitazione (senza considerare chi comunque consegua l’abilitazione in tempo utile per l’ammissione in servizio) (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010 è violativo dell’art. 3 Cost. ed in particolare dei principi di ragionevolezza che deve assistere ogni legge-provvedimento (nella specie giustificata ove ammette gli specializzandi ma non ove limita tale ammissione con un troppo rigido sbarramento temporale che non ha alcuna sua autonoma giustificazione a fronte della adozione delle diverse soluzioni divisate innanzi) e del principio di uguaglianza (ove discrimina fra soggetti che sono in situazioni del tutto similari tranne che per il profilo temporale) nonchè degli artt. 2, 32 e 34 Cost., ossia dei diritti fondamentali alla salute ed all’istruzione (ove restringe irragionevolmente la platea dei partecipanti alla selezione con possibile compromissione di tali valori evidentemente rilevanti nello svolgimento dell’insegnamento di sostegno a persone con disabilità) ed in ultimo degli artt. 97 Cost. (perché, pur in assenza di una attività riservata all’amministrazione, compromette con disposizioni di eccessivo dettaglio gli stessi interessi che la disposizione si propone di tutelare restringendo senza motivo la platea dei soggetti ammessi al concorso straordinario per soluzioni distoniche rispetto a quelle che – in assenza della norma – l’amministrazione avrebbe potuto tranquillamente adottare nella sua ordinaria attività di indizione dei concorsi) e 113 Cost. perché – legificando i bandi – sottrae senza motivazione alcuna alla tutela giurisdizionale le posizioni degli istanti lasciando al giudice amministrativo – per assicurare tutela – solo ed esclusivamente la strada della rimessione della norma al giudice delle leggi. | Pubblica istruzione |
Demanio – Demanio marittimo - Piani di gestione - Art. 5, comma 1, d.lgs. n. 201 del 2016 – Disciplina transitoria – Omessa previsione - Conseguenza.
Ambiente – Valutazione impatto ambientale - Contrasto tra amministrazioni – Conseguenza.
Ambiente – Tutela - Interesse paesaggistico con gli altri interessi in gioco – Fondamenta.
Il d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante "Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo" all’art. 5, comma 1, ha previsto l’adozione di appositi “piani di gestione”, da approvare entro il 31 dicembre 2020, per regolamentare la gestione dello spazio marittimo, distribuendo in termini spaziali e temporali le pertinenti attività e usi delle acque marine, presenti e futuri, avuto riguardo anche ad impianti ed infrastrutture per la produzione di energie da fonti rinnovabili; l'omessa previsione di una disciplina transitoria, tuttavia, in ossequio al principio generale di continuità dell'azione amministrativa, non può di per sé comportare la sostanziale paralisi di tutti i procedimenti in corso, dovendo al contrario gli stessi essere definiti secondo le regole preesistenti (1).
In caso di contrasto tra amministrazioni nell’ambito di un procedimento di VIA/VAS è dunque sempre possibile attivare il rimedio generale previsto dall’art. 5, comma 2, lett. c bis), introdotto nella l. 23 agosto 1988, n. 400 dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303. Nel declinare, infatti, le prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 95 Cost., la norma gli attribuisce anche la facoltà di «deferire al Consiglio dei Ministri, ai fini di una complessiva valutazione ed armonizzazione degli interessi pubblici coinvolti, la decisione di questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti tra amministrazioni a diverso titolo competenti in ordine alla definizione di atti e provvedimenti». La norma peraltro non obbliga il Presidente del Consiglio a sottoporre il conflitto al vaglio del Consiglio dei Ministri (“può”, non “deve” disporne la convocazione), né vincola la scelta di quest’ultimo, che resta un atto di alta amministrazione espressione di amplissima discrezionalità amministrativa (2).
É preclusa all’Amministrazione procedente la possibilità di cercare autonomamente di conciliare l’interesse paesaggistico con gli altri interessi in gioco, compreso quello ambientale appannaggio della Commissione tecnica costituita ai sensi dell’art. 7, d.l. 23 maggio 2008, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 luglio 2008, n. 123 all’uopo; la funzione di tutela del paesaggio, infatti, è estranea a ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione; tale regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost., il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili; anche laddove, cioè, il legislatore abbia scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza dei servizi, essa non comporta comunque un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale (3).
(1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema degli effetti della mancata adozione dei nuovi strumenti di pianificazione dello “spazio marittimo” previsti dal d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante "Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo" e denominati “Piani di gestione”. Dopo averne ricordato il procedimento -l’elaborazione dei piani di gestione deve avvenire, sulla base di linee guida redatte da un tavolo interministeriale di coordinamento istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri , a cura di un Comitato tecnico, allocato invece presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che provvederà avuto riguardo ad ogni area marittima individuata nelle linee guida- esamina le conseguenze della mancata previsione di una disciplina transitoria applicabile nelle more della loro adozione. Essa non può risolversi nella sostanziale paralisi dei procedimenti in corso, dovendo gli stessi continuare ad essere esaminati sulla base delle regole vigenti.
(2) Tra tali regole si colloca anche il doveroso coinvolgimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ciò anche in ragione dell’esplicito rinvio in tal senso contenuto nell’art. 14 quater, l. n. 241 del 1990 che, nel dettare a livello generale regole sulla conferenza dei servizi (istituto interamente novellato, con riferimento ai procedimenti avviati dopo la sua entrata in vigore, dal d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127), all’originario comma 5, oggi abrogato, sotto la rubrica "Effetti del dissenso espresso nella conferenza dei servizi", prevedeva espressamente che: «Nell'ipotesi in cui l'opera sia sottoposta a VIA e in caso di provvedimento negativo trova applicazione l'art. 5, comma 2, lett. c-bis), l. 23 agosto 1988, n. 400, introdotta dall'articolo 12, comma 2, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303».
(3) E’ per contro escluso che il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, competente al rilascio del provvedimento di VIA, da adottare “di concerto” con il MIBACT, sulla base delle disposizioni del Capo IV del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella versione applicabile, come nel caso di specie, ai procedimenti avviati prima del 16 maggio 2017, giusta la previsione in tal senso contenuta nell’art. 23, d.lgs. 16 giugno 2017, n. 104, di recepimento della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, possa autonomamente bilanciare i contrapposti interessi in gioco, operando una propria mediazione rispetto a quello paesaggistico. Alla funzione di tutela del paesaggio, infatti (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione. Esso è atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, attraverso il quale, similmente a quanto avviene nell’espressione del parere di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’intervento progettato viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, «valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto» (Cons. St., sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652; id. 10 giugno 2013, n. 3205). Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione, il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili (Corte Cost. 29 dicembre 1982, n. 239; 21 dicembre 1985, n. 359; 27 giugno 1986, n. 151; 10 marzo 1988, n. 302; Cons. St., sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2378). | Ambiente |
Processo amministrativo - Covid-19 – Udienza cautelare e di merito – Richiesta di discussione da remoto dell’avvocato di una parte – Opposizione di un avvocato – Accoglimento – Presupposti – Individuazione.
Va respinta l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa l’istituto dell’opposizione alla discussione orale ex art. 4, d.l. n. 28 del 2000 in quanto, avendo carattere straordinario perchè non prevista nel sistema processuale del codice del processo amministrativo, è di stretta interpretazione e pertanto può essere positivamente apprezzata solo con riguardo ad esigenze di sicurezza e funzionalità del sistema informatico, ovvero ad oggettive esigenze difensive, da esplicitarsi adeguatamente (1).
(1) E’ stato rilevato che non appaiono meritevoli di apprezzamento le motivazioni riferite alla copiosità della documentazione versata in atti ed alla ampiezza del contraddittorio scritto già espletato, in tal senso manifestando ex latere del resistente la superfluità della discussione orale. | Processo amministrativo |
Processo amministrativo – Astensione e ricusazione – Causa pendente al C.g.a. - Giudice relatore designato dalla Regione e retribuito dalla stessa – Reiezione - Ratio.
Deve essere respinta l’istanza di ricusazione del giudice relatore del Collegio decidente una causa incardinata al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana, che si fonda sulla circostanza che lo stesso, essendo stato designato dalla Regione e retribuito dalla stessa, non potrebbe trattare le cause di cui è parte la Regione ed essendo stato Assessore all’agricoltura non potrebbe trattare cause in cui è parte detto Assessorato, non essendo addotta alcuna delle cause di astensione obbligatoria del giudice previste dall’art. 51 c.p.c. (1).
L’ordinanza ha escluso la sussistenza di cause di astensione obbligatoria del giudice previste dall’art. 51 c.p.c., sul rilievo che: a) i giudici “laici” del CGARS non sono nominati dalla Regione, che si limita a designarli, ma dal Presidente della Repubblica, a seguito di un parere vincolante dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa; b) in ogni caso la designazione dei giudici “laici” da parte della Regione non determina nessun dovere, in astratto e di per sé sola, di astensione dalle cause in cui è parte la Regione stessa; seguendo tale ragionamento, nessun giudice ordinario potrebbe trattare le cause in cui è parte il Ministero della giustizia, che concorre al procedimento di nomina; nessun giudice “laico” del Consiglio di Stato potrebbe trattare le cause della Presidenza del Consiglio dei ministri che concorre nel procedimento di designazione; nessun giudice “laico” designato dalle province autonome di Trento e di Bolzano potrebbe mai trattare le cause in cui è parte la relativa Provincia (artt. 1 e 2, d.P.R. n. 426 del 1984); c) presso il C.g.a., il collegio giudicante deve essere necessariamente composto con la partecipazione di due giudici “laici”; essendo tutti i giudici laici designati dalla Regione, a seguire il ragionamento della parte ricusante, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti nelle cause in cui è parte la Regione, perché nessun giudice laico potrebbe farne parte (analogamente, nei collegi del Tar di Trento e della sezione autonoma di Bolzano, a partecipazione necessaria dei laici designati dalle rispettive Province autonome, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti se i relativi giudici laici dovessero astenersi dal trattare le cause in cui è parte la Provincia); d) non può rilevare la distinzione tra componente del collegio e giudice relatore, perché le cause di ricusazione e astensione si applicano a tutti i componenti del collegio e non solo ai giudici relatori; e) la “garanzia di indipendenza e imparzialità” dei giudici “laici” è assicurata dai rigorosi requisiti di legge prescritti e dal complesso procedimento di nomina in cui da un lato interviene un parere vincolante dell’organo di autogoverno che oltre a verificare il possesso dei requisiti formali, accerta la piena attitudine allo svolgimento imparziale delle funzioni, e dall’altro lato la nomina avviene con decreto del Presidente della Repubblica; oltre che dalla circostanza fattuale che il “mandato” del giudice laico eccede quello del governo regionale che lo designa, e non è automaticamente prorogabile; la previsione normativa dei giudici “laici” ha già superato positivamente il vaglio della Corte costituzionale; f) il procedimento descritto sub e) garantisce che la persona “designata dalla Regione” dopo la nomina a magistrato non ha alcun legame con la Regione sussumibile sotto l’art. 51 c.p.c. per il solo fatto della precedente designazione; mentre eventuali e diversi legami riconducibili all’art. 51 c.p.c. devono essere specificamente provati da chi li eccepisce; g) nemmeno rileva il rapporto di credito-debito inerente il pagamento dello stipendio del giudice laico (che in ogni caso non è a totale carico della Regione, ma solo nella misura del 50%); così ragionando, nessun giudice della Repubblica italiana potrebbe decidere le cause in cui sono parti il Ministero della giustizia, o dell’economia, o la P.C.M., quali soggetti erogatori della retribuzione dei magistrati o comunque partecipanti alla loro determinazione; non è questo il rapporto di credito-debito cui si riferisce l’art. 51 c.p.c.; le sezioni unite della Cassazione hanno statuito che la dipendenza del giudice dallo Stato non gli inibisce la trattazione di controversie in cui sia parte quest'ultimo, o altro ente pubblico cui egli sia collegato per ragioni di residenza (ad esempio comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo credibile in queste fattispecie che il giudice sia portato ad avvantaggiare o danneggiare, a seconda dei casi, il proprio debitore o creditore [Cass., sez. un., 11 aprile 2012, n. 5701]; h) la circostanza che il consigliere relatore sia stato, in anni risalenti a prima della nomina a magistrato, Assessore all’agricoltura non determina di per sé sola un obbligo di astensione sulle cause di cui sia parte detto Assessorato, in difetto di impugnazione di atti di tale Assessorato a cui il relatore abbia concorso in veste di Assessore. | Processo amministrativo |
Animali - Orsi - Pericolo per l'incolumità e la sicurezza pubblica - Cattura per captivazione e possibile soppressione - Ordinanza contingibile ed urgente del Presidente della Provincia di Trento - Legittimità.
E’ legittima l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Provincia Autonoma di Trento di intervento di rimozione dell’ orso M49 pericoloso per l’incolumità e la sicurezza pubblica (1).
(1) Ha premesso la Sezione che il Presidente della Provincia autonoma di Trento ha adottato l’ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 52, comma 2, d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 e dell’art. 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige 4 gennaio 1993, n. 1.
Nella specie, le ragioni di pubblica sicurezza che hanno portato alla adozione di tale provvedimento sono da ricondurre al comportamento dell’esemplare di orso denominato M49 e, in particolare, ai tentativi di intrusione in abitazioni di montagna e in strutture frequentate stagionalmente per attività zootecniche dallo stesso esemplare, tentati o portati a compimento, e all’intensificazione di tali comportamenti problematici, testimoniata da ben 14 tentativi di intrusione, di cui uno con contatto ravvicinato con un pastore.
A fronte di tali circostanze è stata ordinata la rimozione dell’orso, mediante cattura per captivazione permanente in area a ciò autorizzata, secondo quanto previsto dalla lettera j) del Piano d’Azione interregionale per la conservazione dell’Orso bruno sulle Alpi centro-orientali (denominato Pacobace). A seguito della fuga del plantigrado dall’area faunistica, in località Casteller, dove era stato rinchiuso, avvenuta la stessa notte della sua cattura, con nuova ordinanza il Presidente della Provincia ha ordinato la nuova cattura e, se necessario l’uccisione.
Ha affermato la Sezione che la valutazione in ordine alla pericolosità degli episodi di cui si è reso protagonista il plantigrado M49 ha carattere prettamente discrezionale ed è quindi sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo rimane estraneo l'accertamento della gravità degli episodi posti a base delle due ordinanze. Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato di questo giudice solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati.
Non costituisce profilo di illogicità o contraddittorietà la circostanza che il pericolo per l’incolumità pubblica che derivava dall’orso in libertà dovesse considerarsi al contempo “immediato” e “probabile”: il comportamento tenuto dal plantigrado, come può desumersi anche dai pareri dell’Ispra, richiedeva, in considerazione dell’intensificarsi degli episodi, un intervento immediato a tutela di persone, animali e cose senza che per legittimare la decisione di catturare l’orso fosse necessario il verificarsi di un evento di ancora maggiore gravità di quelli oggetto delle diverse relazioni intervenute nel tempo.
Ha aggiunto la sentenza che l’utilizzo, da parte del Presidente della Provincia, dei poteri ex artt. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993 non ha costituito un modo surrettizio per baipassare il procedimento ordinario dettato dall’art. 11, d.P.R. n. 357 del 1997, che richiede l’autorizzazione del Ministero dell’ambiente per poter catturare l’esemplare di orso o di lupo (specie protette) per la captazione permanente o addirittura la soppressione.
Ciò che, nella specie, ha spinto il Presidente della Provincia a ricorrere alle ordinanze contingibili e urgenti è, come è stato ampiamente illustrato, il pericolo per l’incolumità di persone, animali e cose in più Comuni della Provincia di Trento ad opera dell’orso M49, che più volte si è avvicinano all’uomo (e agli animali) ed ha tentato di entrare in manufatti. A fronte del silenzio serbato dal Ministero il Presidente della Provincia ha fatto ricorso al potere di carattere eccezionale che gli consentiva di pervenire, attraverso un procedimento più snello, al risultato oggetto della richiesta di autorizzazione (catturare l’orso).
Il fatto che tale provvedimento urgente – che è stato adottato con strumento normativo diverso da quello che impone il parere favorevole preventivo del Ministero dell’Ambiente – sia in questo caso specifico ritenuto legittimo, non significa certo che, in generale, la Provincia Autonoma possa procedere con atti di tal genere che, come appena detto, sono sindacabili e annullabili ove irragionevoli. Nel caso di specie, infatti, la “eccezionalità” dello strumento utilizzato è giustificata dal fatto che lo stesso Ispra non aveva negato né la “problematicità” dell’orso, né la possibilità – tra le altre – della soluzione della cattura, ma successivamente nessun atto, positivo o negativo in merito, era stato adottato dal Ministero dell’Ambiente, mentre la stagione estiva ormai sopraggiunta aumentava il pericolo di “incontri indesiderati” per l’aumento dei frequentatori, anche semplici turisti, nelle aree montane abitate dall’orso M49.
Corollario obbligato di tale premessa è che la presente decisione non può che riflettere la legittimità delle ordinanze alla luce dei fatti riferibili all’esemplare M49 e al contesto di riferimento. Né può rilevare il richiamo, operato dall’appellante, ad altre ordinanze contingibili e urgenti adottate dal Presidente della Provincia per catturare o abbattere altri orsi ritenuti pericolosi, a riprova che l’effettivo intendimento della Provincia sarebbe quello del contenimento di tale specie e non della tutela dell’incolumità di persone e animali; il giudice, infatti, non può che pronunciare sulla legittimità degli atti portati al suo esame e non è certo l’esistenza di più provvedimenti di contenuto analogo a quello delle ordinanze portato al suo esame a dimostrare ex se lo sviamento di potere.
Ancora, non può ritenersi che la normativa statale applicativa dei principi sovranazionali in materia di tutela delle specie protette (ursus arctos e canis lupus) escluda l’applicazione di poteri straordinari che eludano autorizzazioni e pareri degli organi competenti.
In altri termini, una volta ammessa dall’art. 1, l. prov. Trento n. 9 del 2018 - a determinate condizioni e secondo un procedimento che vede il coinvolgimento di alcune autorità - la possibilità di catturare o (in casi ancor più eccezionali) sopprimere l’orso per prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all'allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e ad altre forme di proprietà, per garantire l'interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica (Corte cost. 27 settembre 2019, n. 215), non può allora escludersi il ricorso al potere d’urgenza (attraverso l’ordinanza contingibile e urgente) nel caso di un pericolo tale da non consentire il ricorso alla disciplina ordinaria, e ciò nella fattispecie per le circostanze anche temporali sopra descritte.
Infine, va rilevato che il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente è ammesso anche dal Pacobace (punti 3.2.2 e 3.4.2 del Capitolo 3 – Criteri e procedure d’azione nei confronti degli orsi problematici e d’intervento in situazioni critiche). Più in particolare, il Capitolo 3, al punto 4.1 dispone che “è previsto l’intervento con azioni di controllo nei seguenti casi: su orsi individuati come problematici (dannosi o pericolosi); su orsi che si trovano in situazioni critiche, tali cioè da costituire rischio per le persone o per l'incolumità stessa degli orsi”. Un orso problematico può essere definito "dannoso" o "pericoloso" a seconda del suo comportamento, in relazione alle definizioni di seguito specificate. Un "orso dannoso" è un orso che arreca ripetutamente danni materiali alle cose (predazione di bestiame domestico, distruzione di alveari o danni a coltivazioni, o in generale danni a infrastrutture) o utilizza in modo ripetuto fonti di cibo legate alla presenza umana (alimenti per l’uomo, alimenti per il bestiame o per il foraggiamento della fauna selvatica, rifiuti, frutta coltivata nei pressi di abitazioni, ecc.). Un orso che causa un solo grave danno (o che ne causa solo assai raramente) non è da considerarsi un orso dannoso. Quanto all’”orso pericoloso”, esistono una serie di comportamenti che lasciano prevedere la possibilità che l’orso costituisca una fonte di pericolo per l’uomo. Salvo casi eccezionali e fortuiti, un orso dal comportamento schivo, tipico della specie, non risulta pericoloso e tende ad evitare gli incontri con l’uomo. La pericolosità di un orso è, in genere, direttamente proporzionale alla sua “abituazione” (assuefazione) all’uomo e al suo grado di confidenza con lo stesso. In altri casi la pericolosità prescinde dall’assuefazione all’uomo ed è invece correlata a situazioni particolari, ad esempio un’orsa avvicinata quando è coi piccoli o un orso avvicinato quando difende la sua preda o la carcassa su cui si alimenta. Il Pacobace, alla tabella 3.1 elenca alcuni possibili atteggiamenti dei plantigradi, a questi è affiancata una scala di problematicità e le azioni suggerite. Diversamente da quanto ritiene l’appellante, al punto 17 della tabella è prevista la situazione che ricorre con riferimento all’orso M49 e cioè dell’orso che “cerca di penetrare in abitazioni, anche frequentate solo stagionalmente”; verificandosi tale evenienza il Pacobace consente la captivazione permanente o – in casi estremi - la soppressione dell’orso. A tal fine è sufficiente la possibilità che nel manufatto sia presente l’uomo, potendo trattandosi anche di abitazione stagionale. | Animali |
Processo amministrativo - Notifica del ricorso – Notifica Pec – A Pubblica amministrazione – Dopo entrata in vigore del Pat – Solo indirizzo mutuato dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia – Errore scusabile – Va riconosciuto.
La notifica telematica del ricorso alle Amministrazioni deve essere effettuata presso gli indirizzi mutuati dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia escludendo, in apice, ogni forma di equipollenza, con la conseguenza che nemmeno l’indirizzo Pec risultante dal registro IPA e gli indirizzi internet indicati nei siti dell’amministrazione possono ritenersi validi ai fini della notifica degli atti giudiziari alle P.A.; l’oscillazione giurisprudenziale riscontrata sul punto giustifica il riconoscimento dell’errore scusabile (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che dalla lettura sistemica delle disposizioni normative, di fonte primaria e secondaria, che disciplinano le notifiche a mezzo PEC in ambito PAT, deve ritenersi che la PEC da utilizzare per la rituale partecipazione del ricorso alle Amministrazioni pubbliche sia quella tratta dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, di cui all’art. 16, comma 12, d.l. n. 179 del 2012. Segnatamente, l’art. 14, comma 2, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (Regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del PAT) prevede che le notificazioni alle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi PEC di cui all’art. 16, comma 12, d.l..n. 179 del 2012, conv. in L. n. 221 del 2012, fermo quanto previsto dal regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. Ai sensi del suddetto comma 12, dell’art. 16, d.l. n. 179 del 2012, nel testo risultante dalla modifica operata col D.L. n. 90 del 2014, convertito dalla l. n. 114 del 2014, le amministrazioni pubbliche dovevano comunicare, entro il 30 novembre 2014, al Ministero della Giustizia l’indirizzo PEC valido ai fini della notifica telematica nei loro confronti, da inserire in un apposito elenco.
Ciò in conformità con quanto previsto dal comma 1 bis dell’art. 16 ter del medesimo D.L. n. 179 (2012 (aggiunto dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. in l. 11 agosto 2014, n. 114) che ha reso applicabile alla giustizia amministrativa il comma 1 dello stesso art. 16 ter.
Tale ultima disposizione, nella versione vigente, prevede che "a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli artt. 6-bis, 6-quater e 62, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, dall'art. 16, comma 12, del presente decreto, dall'articolo 16, comma 6, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”.
E’, dunque, di tutta evidenza l’opzione del legislatore di conferire il predicato della ritualità della notifica telematica solo se effettuata presso gli indirizzi mutuati da elenchi ben individuati escludendo, dunque, in apice, ogni forma di equipollenza (Cass. civ., sez. VI, 27 giugno 2019, n.17346; id., ord., 25 maggio 2018, n. 13224; id. 11 maggio 2018, n. 11574; Cons. St., sez. III, 29 dicembre 2017, n. 6178; id. 20 gennaio 2016, n. 197; C.g.a. 12 aprile 2018, n. 217).
D’altro canto, ha indubbio fondamento l’esigenza di certezza sottesa alla richiamata disciplina, trattandosi di adempimenti che si pongono a presidio dell’effettività del contraddittorio siccome funzionali ad una tempestiva ed efficace organizzazione della linea difensiva delle Amministrazioni intimate.
In ragione di quanto fin qui evidenziato nemmeno l’indirizzo PEC risultante dal registro IPA può ritenersi valido ai fini della notifica degli atti giudiziari alle P.A. Il registro IPA, di cui all’art. 16, comma 8, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. in l. n. 2 del 2009, non viene, infatti, più espressamente menzionato tra i pubblici elenchi dai quali estrarre gli indirizzi PEC ai fini della notifica degli atti giudiziari. In particolare, l’elenco l’IPA era inizialmente equiparato agli elenchi pubblici dai quali poter acquisire gli indirizzi PEC validi per le notifiche telematiche dall’art. 16 ter, d.l. n. 179 del 2012, ma tale equiparazione è attualmente venuta meno in seguito alla modifica di tale disposizione.
Stessa conclusione di inidoneità va replicata, per le medesime ragioni suesposte, per gli indirizzi internet indicati nei siti dell’amministrazione, che non trovano autonoma legittimazione normativa ai fini delle notifiche degli atti giudiziari.
Ciò nondimeno, nemmeno può essere obliterato come l’esegesi della suddetta disciplina abbia avuto approdi non sempre univoci in giurisprudenza, rinvenendosi anche indirizzi inclini a riconoscere validità della notifica a mezzo posta elettronica certificata del ricorso effettuata all'amministrazione all'indirizzo tratto dall'elenco presso l'Indice PA vieppiù se l'amministrazione pubblica destinataria della notificazione telematica sia rimasta inadempiente all'obbligo di comunicare altro e diverso indirizzo PEC da inserire nell'elenco pubblico tenuto dal Ministero della Giustizia (Cons. St., sez. III, 27 febbraio 2019, n.1379; id., sez. V, 12 dicembre 2018, n. 7026).
Orbene, in siffatte evenienze, contraddistinte dalla evidenziata oscillazione giurisprudenziale, non può che accordarsi il beneficio della rimessione in termini ex art. 37 c.p.a., registrandosi, in definitiva, pur nel rigore valutativo qui esigibile, oggettive ragioni di incertezza sulla questione di diritto suesposta. | Processo amministrativo |
Rifiuti – Smaltimento - Rifiuti speciali – Impianti – Localizzazione – Criterio della prossimità.
Pur dovendosi escludere una soluzione che preveda il divieto assoluto di trattamento di rifiuti speciali provenienti da altre regioni, anche per tali rifiuti speciali deve tenersi conto del criterio della prossimità (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che la Corte Costituzionale ha affermato che i principi di autosufficienza e prossimità, in diretta attuazione dei quali sono definiti ambiti territoriali ottimali per le tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti, sono cogenti esclusivamente per quanto concerne lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti urbani, ma non già per le medesime attività riguardanti i rifiuti speciali, perché per questa tipologia di rifiuti occorre avere riguardo alle relative caratteristiche ed alla conseguente esigenza di specializzazione nelle operazioni di trattamento dello stesso (in questo senso si è espressa la Corte Costituzionale, a proposito della legislazione regionale veneta, nella sentenza 4 dicembre 2002, n. 505; si vedano anche le sentenze 19 ottobre 2001, n. 355 e 14 luglio 2000, n. 281).
Nella sentenza 23 gennaio 2009, n. 10, la Corte Costituzionale, seppur abbia ribadito l’esclusione della possibilità di imporre un divieto di trattamento dei rifiuti speciali provenienti da altri ambiti territoriali, ha confermato tuttavia che “nella disciplina statale l'utilizzazione dell'impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare, ma ne “permette” anche altre”.
Ha aggiunto la Sezione che il cd. criterio di prossimità valga anche per la gestione dei rifiuti speciali e non solo per quelli urbani (cfr. l’art. 182-bis e l’art. 199, comma 3, lett. g).
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ben chiarito che - seppur un divieto di smaltimento dei rifiuti di produzione extraregionale sia applicabile ai rifiuti urbani non pericolosi, mentre il principio dell’autosufficienza locale ed il connesso divieto di smaltimento dei rifiuti di provenienza extraregionale non possa valere né per quelli speciali pericolosi (sentenze n. 12 del 2007, n. 62 del 2005, n. 505 del 2002, n. 281 del 2000), né per quelli speciali non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001) - l’utilizzazione dell’impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali costituisce la prima opzione da adottare (sentenza 23 gennaio 2009, n. 10).
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato (11 giugno 2013, n. 3215; 19 febbraio 2013, n. 993) LINK ha precisato che per i rifiuti speciali ha rilievo primario il criterio della specializzazione dell’impianto, in relazione al quale deve essere coordinato il principio di prossimità, con cui si persegue lo scopo di ridurre il più possibile la movimentazione di rifiuti (Cons. Stato 23 marzo 2015, n. 1556).
In conclusione, ad avviso della Sezione, pur dovendosi escludere una soluzione che preveda il divieto assoluto di trattamento di rifiuti speciali provenienti da altre regioni, anche per tali rifiuti speciali deve tenersi conto del criterio della prossimità.
| Rifiuti |
Beni culturali – Tutela – Vincolo culturale - Casa famiglia del Giudice Livatino – Legittimità.
E’ legittimo il decreto dell’Assessorato dei beni culturali della Regione siciliana che ha posto il vincolo culturale sulla Casa famiglia del Giudice Livatino, rivestendo detta dimora e le cose mobili in essa custodita un interesse culturale particolarmente importante (1).
(1) Ha ricordato il C.g.a. che l’immobile "Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino", nella quale era vissuto il giudice Livantino (ucciso il 21 settembre del 1990, da quattro killer per ordine della “Stidda”, la mafia agrigentina) è sito nel Comune di Canicattì.
Si tratta di un palazzetto formato da tre piani fuori terra; la residenza del giudice ucciso è posta al primo livello del palazzetto.
Il C.g.a. ha premesso che compongono il patrimonio culturale i beni culturali e i beni paesaggistici.
La nozione di bene culturale risente, ora, delle definizioni che della stessa hanno dato gli atti normativi internazionali.
In modo particolare si tratta della Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale del 1972, la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 e la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società del 2005 (c.d. Convenzione di Faro, sottoscritta dall’Italia nel 2013 non ancora ratificata).
In Italia la nozione di “bene culturale” è stata utilizzata per la prima volta dalla c.d. Commissione Franceschini nel 1964.
Il “bene culturale” è stato definito come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”.
Tenendo conto dell’evoluzione normativa culminata con l’approvazione del Codice dei beni culturali, la giurisprudenza, in accordo con la dottrina più attenta, ha definito i caratteri comuni a tutti i beni culturali.
Tra questi rileva, nella presente fattispecie, il carattere dell’immaterialità.
Con “immaterialità” si intende l’attitudine del bene ad essere testimonianza di superiori valori di civiltà.
I valori si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società.
Rileva la migliore dottrina che il bene materiale è oggetto di diritti patrimoniali, il valore culturale immateriale è oggetto di situazioni soggettive attive da parte dei poteri pubblici.
Nota è la decisione Cons. Stato, sez. VI, 17 ottobre 2003, n. 6344, ove appunto si sottolineava come il bene culturale sia ormai «protetto per ragioni non solo e non tanto estetiche, quanto per ragioni storiche, sottolineandosi l’importanza dell’opera o del bene per la storia dell’uomo e per il progresso della scienza».
Tenendo conto di questa evoluzione normativa e dello sforzo interpretativo della giurisprudenza deve leggersi l’art. 2, comma 2 del Codice, secondo cui “Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
Alla stregua di questa lettura del complessivo quadro normativo non può revocarsi in dubbio che la “Casa famiglia Livatino” e le cose mobili in essa custodita rivestono un interesse culturale “particolarmente importante”.
Il valore culturale si identifica nel rimando all’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la normalità della sua vita, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione del predominio mafioso.
La relazione tecnica, parte integrante del provvedimento impugnato, dà atto di come il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici.
In quell’appartamento si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine ed indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato.
Nella memoria del giovane Livatino si radica la volontà di non cedere di fronte alle pressioni ed alle intimidazioni del potere mafioso.
Si ribadisce quanto si legge nella relazione tecnica che motiva il provvedimento oggi impugnato:
“La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore. Costituisce già un avamposto della lotta per la legalità essendo punto di incontro di molti giovani provenienti da tutta Italia, delle associazioni "Tecnopolis" e "Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino" di Canicattì nonché di Libera ed Arci”.
I manoscritti del giudice, anche in seguito alle scelte operate dalla Chiesa (la beatificazione), hanno certamente i requisiti richiesti dal comma 4 dell’articolo 10 del Codice: lo scritto autografo di un martire della giustizia e di un beato è certamente raro e di pregio.
Il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice.
Congruamente la relazione evidenzia anche le modalità della pubblica fruizione del bene, ulteriore requisito imposto dalla norma primaria di riferimento.
A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia. | Beni culturali |
Covid-19 – Sanità – Ospedali – Struttura sanitaria pubblica – Ripristino pronto soccorso - Riassegnazione del personale medico anestesista e operatività H24 del pronto soccorso – Esclusione – Non va sospesa.
Non deve essere sospesa, con decreto monocratico, la nota della direzione sanitaria aziendale Asl di Viterbo di "riorganizzazione dell'attività anestesiologica" (Covid-19), non ravvisandosi gli estremi di un danno grave e irreparabile (1).
(1) I ricorrenti hanno chiesto di ripristinare immediatamente la piena funzione di pronto soccorso tramite la riassegnazione del personale medico anestesista e la operatività H24 del pronto soccorso stesso in via diretta e non tramite ARES 118 | Covid-19 |
Giurisdizione - Elezioni – Indizione elezioni – Violazione principio parità di genere – Impugnazione – Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario l'impugnazione dell'indizione delle elezioni del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale se è censurata la violazione della parità di genere (1).
(1) Ad avviso del Tar oggetto del gravame non è il procedimento elettorale, di cui si assuma l’illegittimità, bensì il libero esercizio del diritto di voto, che si afferma leso dalla non conformità a Costituzione della legge regionale che disciplina le modalità di svolgimento delle elezioni.
Ed in effetti, la lesione lamentata deriverebbe non già del decreto impugnato, vincolato nell’an e connotato da stretti margini di discrezionalità solo quanto alla scelta della data di effettuazione della consultazione elettorali; bensì dall’inerzia del legislatore regionale, che non ha adeguato la disciplina legislativa alle disposizione di attuazione dell’art. 122 Cost., nella parte in cui impongono l’adozione di una regolamentazione che agevoli l’accesso agli incarichi elettivi del sesso meno rappresentato.
È in discussione, dunque, un diritto politico, la cui cognizione non può che spettare al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti (cfr. Cass. Civ.,Sez. I, ord. 17 maggio 2013, n. 12060), atteso che la giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale non è esclusiva (Cass. Civ., Sez. Un., ord. 20 ottobre 2016, n. 21262).
Non sarebbe, dunque, applicabile il previsto dall’art. 129, il quale attiene esclusivamente a “i provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni comunali, provinciali e regionali”; nel caso di specie, infatti, non si assume che le cittadine elettrici subiscano la lesione del loro diritto a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni regionali, ma che la disciplina elettorale non assicuri pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive.
Ma nemmeno sarebbe applicabile la disciplina dettata dall’art. 130 c.p.a., che si riferisce all’impugnazione degli atti successivi alla convocazione dei comizi elettorali. | Giurisdizione |
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Avvalimento tecnico-operativo –Risorse messe a disposizione dall’ausiliaria – Omessa indicazione nel contratto – Nullità del contratto di avvalimento
Nel caso in cui il disciplinare ponga tra i requisiti di capacità tecnico-professionale quelli che misurino la capacità del concorrente nell’eseguire le prestazioni, ove questi ricorra all’avvalimento, si è in presenza di un avvalimento c.d. tecnico operativo per il quale sussiste l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche per l'esecuzione dell'appalto da parte dell’ausiliaria, quanto meno individuando le esatte funzioni che essa andrà a svolgere e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione; è pertanto nullo, ai sensi dell’art. 89, comma 1, ultimo periodo, d.lgs. n. 50 del 2016, il contratto di avvalimento che sia privo dell’indicazione della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche con conseguente esclusione del concorrente che, avendo fatto ricorso ad un avvalimento nullo, non possegga i predetti requisiti (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’interpretazione del contratto di avvalimento non soggiace a rigidi formalismi e il suo oggetto è determinabile anche per relationem (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20/7/2021 n. 5464, tra le altre), ma ciò non può valere a snaturare la regola dettata dall’art. 89 cit. e a sovvertire l’esigenza di indicazione delle risorse messe a disposizione nel caso di avvalimento c.d. tecnico-operativo, nel senso che occorre quantomeno “"l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2017, n. 3682); deve cioè prevedere, da un lato, la messa a disposizione di personale qualificato, specificando se per la diretta esecuzione del servizio o per la formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata, dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30 giugno 2021, n. 4935)” (Cons. Stato n. 169/2022, cit.).
Aderendo ai suesposti principi, la Sezione ha ravvisato l’inadeguatezza del contratto di avvalimento contenente unicamente l’impegno dell’ausiliaria a mettere a disposizione i requisiti di cui è in possesso, di tal che “non può ritenersi valido ed efficace il contratto di avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante, per tutta la durata dell'appalto, senza però in alcun modo precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano (Cons. Stato, sez. V, 12 marzo 2018, n. 1543)” (TarLazio, sez. III-quater, 11 novembre 2021 n. 11585). | Contratti della Pubblica amministrazione |
Società in house – Agenzia delle accise, dogane e monopolio – Società costituita per i servizi ex comma 3 dell’art. 103, d.l. n. 104 del 2020 – E’ società in house.
L’art. 103, comma 1, d.l. 14 agosto 2020, n. 104 deve essere interpretato nel senso di prevedere la costituzione di una società in house, essendo i servizi di cui al comma 3 dello stesso art. 103 di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle accise, dogane e monopolio (1).
(1) Ad avviso della Sezione in tale direzione militano numerosi argomenti.
In primo luogo, va evidenziato che i servizi di cui all’art. 103, comma 3, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, sono in via primaria riconosciuti come di competenza dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio. Sotto tale aspetto, è chiarissima la formulazione letterale della parte iniziale del comma 1 del predetto art. 103, ove si utilizza la locuzione “al fine di consentire alla Agenzia delle dogane dei monopoli di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di cui al comma 3…”.
Viene affermato dunque che “i servizi di cui al comma 3” sono di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle dogane e dei monopoli. Da ciò ne scaturisce la conseguenza che, una volta individuati i servizi da rendere, il legislatore può optare per una delle diverse modalità di erogazione tra cui, naturalmente, anche il modello dell’in house.
La circostanza, in secondo luogo, che il legislatore abbia parlato di costituzione di “una apposita società, di cui la predetta Agenzia è socio unico” dimostra che il legislatore ha, seppure implicitamente, fatto riferimento allo schema dell’in house. È vero che oggi nella società in house vi possono essere – a determinate condizioni previste dalla legge statale (si veda il parere di questa Sezione 7 maggio 2019, n. 1389) – soci privati; tuttavia, lo schema dell’in house, per un verso, è stato costruito dal diritto pretorio della C.G.U.E. attorno al socio unico pubblico e, per altro verso, il predetto schema, anche nell’attuale disciplina, ruota ancora attorno al socio unico pubblico (si veda l’art. 5, comma 1, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2016). Detto in altri termini, il riferimento al socio unico esprime l’intenzione del legislatore di utilizzare lo schema dell’in house, attraverso la costituzione di una società che, essendo a totale partecipazione pubblica, risulti indubitabilmente essere la longa manus dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio.
Nonostante il fatto che i lavori preparatori, sotto il profilo dell’ermeneutica normativa, non possano essere ritenuti risolutivi dei dubbi interpretativi, in terzo luogo, va rilevato che la relazione illustrativa dell'art. 103, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, presentato al Senato della Repubblica per la conversione in legge (AS 1925), afferma che "la disposizione prevede la possibilità di costituire con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze una apposita società in house avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ...". Nel dossier del servizio studi di Camera e Senato, redatto sul testo approvato dal Senato della Repubblica (AC 2700), si legge che "L'art. 103, modificato al Senato, autorizza la costituzione, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di una apposita società in house — avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli — per lo svolgimento di alcuni servizi con criteri imprenditoriali ...". Anche l’intenzione del legislatore, quindi, spinge nella direzione dell’utilizzo del modello dell’in house.
In quarto luogo, va evidenziato che conferme indirette, circa l’intenzione del legislatore di far riferimento ad una società in house, sono rinvenibili nella chiara previsione per cui “l'organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, individuato nel direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”. Se la società non fosse la longa manus dell’amministrazione, difficilmente si spiegherebbe la previsione per cui è il direttore dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio ad essere ope legis amministratore unico.
In sintesi, anche se la disposizione di legge non lo dice chiaramente, la presenza del socio unico pubblico e l’attribuzione della carica di amministratore al Direttore dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio sono indizi inequivocabili della volontà del legislatore di ricorrere allo schema dell’in house.
Va esclusa la possibilità di ricondurre la società in questione allo schema delle società “di diritto singolare” perché manca nella disposizione di legge una compiuta, e dettagliata, disciplina della società, tale da poterla, si passi la ripetizione, considerare “di diritto singolare”. Peraltro, se l’art. 103 citato fosse sufficiente per ritenere autorizzata la costituzione di una società “di diritto singolare”, la conseguenza sarebbe l’assenza di una disciplina completa e, sotto altro aspetto, il possibile dubbio circa la compatibilità col principio della concorrenza di origine eurounitaria, interferendo l’attività in questione con servizi potenzialmente incidenti sul mercato | Società in house |
Covid–19 – Puglia – Didattica a distanza – Dopo il 26 aprile 2021 e sino alla conclusione dell’anno scolastico 2020-2021 – Possibilità su richiesta.
Deve essere respinta l’istanza di sospensione monocratica dell'Ordinanza del Presidente della Regione Puglia, con la quale è stato disposto che, con decorrenza dal 26 aprile 2021 e sino alla conclusione dell’anno scolastico 2020-2021, l’attività didattica delle scuole di ogni ordine e grado si svolge in presenza, salva la possibilità di chiedere la didattica a distanza per le istituzioni scolastiche della scuola primaria, della secondaria di primo grado, di secondo grado e CPIA , non ravvisandosi per gli alunni un danno grave e irreparabile in considerazione della possibilità di esercitare l’opzione per la didattica digitale integrata (DDI). | Covid-19 |
Processo amministrativo – Camera di consiglio ex art. 72 bis c.p.a. – Istanza di fissazione di udienza - Mancanza – Irrilevanza.
Per la trattazione di un ricorso ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. non osta la mancanza di una domanda di fissazione di udienza, essendo prioritaria la declaratoria d’ufficio di una causa di inammissibilità (1).
(1) Nella specie la camera di consiglio ex art. 72-bis c.p.a. è stata fissata sul duplice presupposto che il deposito dell’appello appare tardivo e che la procura alle liti non risulta, ad un sommario esame, regolare, essendo costituita da atto separato rispetto al ricorso, essendo anteriore alla sentenza appellata e perché, facendo generico riferimento “al presente ricorso” senza indicarne l’oggetto, non appare immediatamente e direttamente riferibile al presente appello. | Processo amministrativo |
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze da remoto – Note di udienza – Deposito – Termine – Individuazione.
Ai sensi dell’art. 4, comma 1, penultimo periodo, d.l. n. 28 del 2020, richiamato dall’art. 25, d.l. n. 137 del 2020, sono tardive le note d’udienza depositate pervenute oltre le ore 12 del giorno antecedente l’udienza, con la duplice precisazione che: a) il momento ultimo delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza deve essere inteso come mezzogiorno (ossia 21 ore prima dell’udienza) e non come mezzanotte, perché questa seconda interpretazione non consentirebbe al Collegio di prendere visione dei depositi in tempo utile per l’udienza; b) il termine delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza riguarda sia le note di udienza che le istanze di passaggio in decisione menzionate nell’art. 4, d.l. n. 28 del 2020, al fine della fictio iuris della presenza in udienza. | Processo amministrativo |
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Competenza organo liquidatore liquidazione di una somma, spettante a seguito della realizzazione di un’opera pubblica su fondo altrui - Epoca anteriore alla dichiarazione di dissesto dell’ente - Competenza dell’organo straordinario di liquidazione – Condizione.
L’atto di acquisizione sanante, generatore dell’obbligazione (e, quindi, del debito), è attratto nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, e non rientra quindi nella gestione ordinaria, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza ammnistrativa, se detto provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione è pronunciato entro il termine di approvazione del rendiconto della Gestione Liquidatoria e si riferisce a fatti di occupazione illegittima anteriori al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato (1).
(1) Cons. St., sez. IV, ord., 20 marzo 2020, n. 1994.
Ha chiarito l’Alto consenso che è pur vero che l’emanando provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione, che farebbe sorgere il debito oggetto della presente controversia, ha natura costitutiva, come confermato da questa Adunanza con la sentenza 20 gennaio 2020, n. 2, che ha escluso la rilevanza del risarcimento del danno ai fini dell’occupazione acquisitiva.
Il provvedimento dell’amministrazione che dispone la cd. acquisizione sanante, quindi, non accerta un debito preesistente, ma lo determina ex novo, quantificandone altresì l’ammontare e non ha, quindi, carattere ricognitivo, ma costitutivo, determinando, sul piano amministrativo e civilistico, un effetto traslativo ex nunc.
Tuttavia, detto provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, ha per presupposto (ai sensi del primo comma della predetta norma) l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”; inoltre il provvedimento di acquisizione, ai sensi del successivo comma 4, deve recare “l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”.
Pertanto, il provvedimento risulta certamente correlato, sul piano della stessa attribuzione causale, “ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data”, come specifica l’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004 (convertito con l. n. 140 del 2004).
Sul piano dell’interpretazione letterale, quindi, le “circostanze” (ovvero i fatti) che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area costituiscono il presupposto per l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante che l’amministrazione, prima della sua adozione, deve accertare.
Parimenti, anche l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico” costituisce un fatto che deve esser oggetto di un accertamento da parte dell’amministrazione, prodromico all’adozione del provvedimento in esame.
Si tratta quindi, in entrambi i casi di fatti necessariamente correlati al successivo provvedimento, il cui positivo accertamento costituisce uno dei presupposti di legittimità del medesimo.
Pertanto, sotto il profilo finanziario, se tali fatti sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, il provvedimento successivo (non necessariamente giurisdizionale, come è evidente dalla mera lettura del citato art. 5) che determina l’insorgere del titolo di spesa deve essere imputato alla Gestione Liquidatoria, purché detto provvedimento sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11, t.u. n. 267 del 2000.
In questo caso, non solo il debito viene imputato al Bilancio della Gestione Liquidatoria sotto il profilo amministrativo-contabile, e non a quello della gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il provvedimento che costituisce il titolo di spesa (nella specie, l’acquisizione sanante) deve essere attribuita al Commissario Liquidatore, in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita debitoria del bilancio da lui gestito.
| Enti locali |
Contratti della Pubblica amministrazione – Rotazione – Appalti sotto soglia – Procedura aperta - Svolta sulla piattaforma SINTEL – Inapplicabilità.
Il principio di rotazione, previsto dall’art. 36, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, non si applica agli appalti sottosoglia con procedura aperta svolta sulla piattaforma SINTEL (1).
1) La sentenza ha ricordato quanto previsto anche dalle Linee guida ANAC n. 4 [nella versione adottata con Delib. 1° marzo 2018, n. 206 (punto 3.6)], in ragione della natura aperta della procedura per cui è causa: “Il fondamento del principio di rotazione è individuato tradizionalmente nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), in particolare nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato. Peraltro, così come delineato dal richiamato art. 36, detto principio costituisce per gli appalti di lavori, servizi e forniture sotto soglia il necessario contrappeso alla significativa discrezionalità riconosciuta all’amministrazione nell’individuare gli operatori economici in favore dei quali disporre l’affidamento (nell’ipotesi di affidamento diretto) o ai quali rivolgere l’invito a presentare le proprie offerte (nel caso di procedura negoziata), in considerazione dell’eccentricità di tali modalità di selezione dei contraenti rispetto ai generali principi del favor partecipationis e della concorrenza. (…) detto principio non trova applicazione ove la stazione appaltante non effettui né un affidamento (diretto) né un invito (selettivo) degli operatori economici che possono presentare le loro offerte, ma la possibilità di contrarre con l’amministrazione sia aperta a tutti gli operatori economici appartenenti ad una determinata categoria merceologica”.
Nella specie la stazione appaltante ha invitato tutti i soggetti che avevano manifestato il loro interesse, senza esclusioni o vincoli in ordine al numero massimo di operatori ammessi alla procedura. Gli operatori economici erano unicamente tenuti ad effettuare l’accesso e l’iscrizione alla piattaforma telematica Sintel, che non prevedono alcuna istruttoria o a selezione da parte dell’amministrazione.
Ha ancora ricordato la sentenza che un eventuale precedente affidamento non ha carattere assolutamente preclusivo rispetto alla partecipazione dei precedenti affidatari alla procedura, se la procedura è aperta, ovvero se, in caso di diversa procedura, la stazione appaltante motiva le ragioni dell’invio anche a costoro.
In questa seconda ipotesi l’obbligo di motivazione che incombe sulla stazione appaltante concerne il fatto oggettivo del precedente affidamento impedisce alla stazione appaltante di invitare il gestore uscente, salvo che essa dia adeguata motivazione delle ragioni che hanno indotto, in deroga al principio generale di rotazione, a rivolgere l'invito anche all'operatore uscente e non già la partecipazione del precedente gestore ad una procedura aperta, bensì l’invito del medesimo ad una procedura ristretta (Cons. St., sez. V, 30 marzo 2020, n. 2182). | Contratti della Pubblica amministrazione |
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli edilizi - Vicinitas – Limiti.
In sede di impugnazione di strumenti urbanistici che non incidono direttamente su aree di proprietà della parte ricorrente è sempre necessario scrutinare la sussistenza dell’interesse ad agire, sub specie di lesione attuale e concreta o ragionevolmente certa, alla salute, all’ambiente, al valore dei terreni ecc. (1).
(1) In termini Cons. St., sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 962.
Ha chiarito la Sezione che la vicinitas non sempre da sola giustifica la proposizione del ricorso in materia di edilizia e urbanistica.
La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona interessata dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della legittimazione ad agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il provvedimento. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche l’interesse a ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato.
La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (Cons. St., sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278).
L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e l’interesse ad agire (cfr. Cons. St., Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente, sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278 citata; per ultimo sez. IV, 5 febbraio 2018, n. 707).
D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei ricorrenti.
La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (Cons. St., sez. V, 15 dicembre 2017, n. 5908).
Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico.
In quest’ultima ipotesi l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili (Cons. St., sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5674). Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico danno all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione.
Ha aggiunto la Sezione che in materia di tutela contro i danni all'ambiente, l’interesse ad agire può essere riconosciuto solo se gli stessi sono debitamente evidenziati in ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può svilupparsi anche mediante l’impugnativa degli atti aventi finalità urbanistica, non si può al contempo eludere la necessità che siano proposte censure sorrette da una specifica istanza di protezione degli interessi ambientali, da realizzare attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico (Cons. St., sez. IV, 30 settembre 2005, n. 5205). | Processo amministrativo |
Magistrati – Magistrati ordinari – In servizio presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione - Funzioni di “assistente di studio” - Indennità di trasferta - Non spetta.
I magistrati ordinari in servizio, in qualità di vincitori di concorso, presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione con funzioni di “assistente di studio” non hanno diritto all’indennità di trasferta, prevista dall’art. 3, comma 79, l. 24 dicembre 2003, n. 350 per i magistrati “che esercitano effettive funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura Generale” nel caso di residenza fuori dal distretto della Corte d’appello di Roma (1).
1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 79, comma 3, l. 24 dicembre 2003, n. 350, prevede, ai fini del riconoscimento del diritto a percepire l’indennità di trasferta, due condizioni, e cioè: a) l’esercizio “effettivo delle funzioni di legittimità” presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura generale; b) la residenza fuori del distretto della Corte d’appello di Roma.
Per definire il requisito sub a) (cioè l’esercizio effettivo di funzioni di legittimità presso la Cassazione e la relativa Procura generale) occorre riferirsi alle previsioni dell’art. 65, comma 1, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e dell’art. 10, comma 6, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160.
Il primo stabilisce che “La Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzione ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”; il secondo dichiara che “Le funzioni giudicanti di legittimità sono quelle di consigliere presso la Corte di cassazione; le funzioni requirenti di legittimità sono quelle di sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione”).
Dal coacervo di tali disposizioni si ricava che le “funzioni di legittimità” sono quelle svolte dai magistrati presso la Corte di Cassazione, che si compendiano nella specifica attività rivolta a garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”, a regolare “i conflitti di competenza e di attribuzione” e ad adempiere tutti gli altri compiti attribuiti dalla legge all’ufficio giudiziario della Corte di Cassazione.
L’effettività di tali funzioni ne implica il concreto svolgimento e che non ricorra una causa di temporanea sospensione dal loro esercizio (Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2006, n. 7210).
Gli “assistenti di studio” non compongono il collegio chiamato a decidere la controversia e non possono partecipare in alcun modo alla formazione della volontà della decisione, limitandosi piuttosto a svolgere un’attività (sia pur di particolare rilevanza) preparatoria e preliminare alla decisione giudiziale in senso stretto ed alla quale non prendono parte: essi pertanto non svolgono alcuna attività di jus dicere.
L’attività di “assistenza di studio” costituisce piena attuazione dei compiti propri dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione che, come avviene mediante la redazione delle “massime”, sono d’ausilio e supporto all’esercizio della funzione giurisdizionale: non vale a farla qualificare diversamente o addirittura a mutarne la natura giuridica il mero fatto che essa sia svolta direttamente presso - e a servizio di - una specifica sezione giudicante della Corte di Cassazione.
Non conduce a conclusioni diverse la circostanza che detti assistenti, nel periodo di svolgimento dell’attività, non si limitino a redigere le relazioni preliminari con il contenuto indicato dalla delibera del CSM, ma di aver anche predisposto veri e propri “schemi di sentenze”, che, deliberati ed approvati dal collegio giudicante, sono divenuti, poi, il testo ufficiale e definitivo della sentenza (circostanza ulteriormente comprovata dal fatto, attestato da apposita produzione documentale, che tali sentenze siano state accompagnate dalla dicitura“redatta con la
collaborazione dell’assistente di studio”, che darebbe conto dell’effettivo svolgimento della funzione propria del magistrato giudicante e quindi di quella di legittimità).
Sul punto è sufficiente osservare che lo “schema di sentenza” è solo una modalità, alternativa alla “relazione preliminare”, che dà conto dell’attività di studio e approfondimento della causa.
Il fatto che il contenuto della bozza sia più o meno integralmente trasfuso nel testo della sentenza non qualifica il redattore come un decisore: il trasferimento del contenuto della bozza nella sentenza non è l’effetto di una mera attività formale e materiale, ma implica un momento volitivo - la decisione - alla quale il redattore della bozza è assolutamente estraneo non solo in punto di fatto, ma anche dal punto di vista giuridico perché egli non fa (e non può far) parte del collegio giudicante.
Insomma è solo l’approvazione del collegio che trasforma lo “schema di sentenza” in “sentenza”, ovvero l’attività preparatoria in attività decisoria; per di più quell’approvazione è l’in sé della funzione di ius dicere e ad essa non è immediatamente riferibile l’attività preliminare e preparatoria dell’assistente di studio. | Magistrati |
Processo amministrativo – Procura alle liti - Mancanza dei requisiti di specialità – Presunzione di riferibilità – Presupposti – Individuazione.
Ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, la procura alle liti si considera apposta in calce, e perciò dotata dei requisiti della specialità, quando è depositata con modalità telematiche, unitamente all’atto cui si riferisce; tuttavia, se la procura è priva in concreto degli elementi di specialità di cui all’art. 40 c.p.a. che consentano l’immediata riconducibilità all’oggetto del ricorso, la presunzione di riferibilità viene meno nel caso in cui sussista nella procura un elemento incompatibile con il ricorso; tale ipotesi si verifica quando la data della procura sia antecedente a quella della sottoscrizione del ricorso (1).
(1) Quanto al contenuto della procura speciale la giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 5 ottobre 2018, n. 5723) ha precisato che deve indicare l'oggetto del ricorso, delle parti contendenti, dell'autorità davanti alla quale il ricorso deve essere proposto ed ogni altro elemento utile alla individuazione della controversia.
Le modalità di conferimento della procura sono disciplinate dall’art. 83 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39 c.p.a., che prevede che la procura speciale possa essere apposta a margine o in calce al ricorso, con certificazione dell’autografia della sottoscrizione da parte del difensore, e che la procura “si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all'atto cui si riferisce o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia”; fermo restando che se “la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica”.
A sua volta l’art. 8, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, stabilisce che “1. La procura alle liti è autenticata dal difensore, nei casi in cui è il medesimo a provvedervi, mediante apposizione della firma digitale. 2. Nei casi in cui la procura è conferita su supporto cartaceo, il difensore procede al deposito telematico della copia per immagine su supporto informatico, compiendo l'asseverazione prevista dall'art. 22, comma 2, del CAD con l'inserimento della relativa dichiarazione nel medesimo o in un distinto documento sottoscritto con firma digitale. 3. La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce; b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce. 4. In caso di ricorso collettivo, ove le procure siano conferite su supporti cartacei, il difensore inserisce in un unico file copia per immagine di tutte le procure”. | Processo amministrativo |
Alimenti - Distributore all’ingrosso - Alimenti di origine animale - Sistema di informazioni rese agli OSA - Strumento di trasmissione del dato relativo al lotto di appartenenza dei prodotti ceduti – legittimità.
E’ legittima, al fine di garantire la piena rintracciabilità “a valle” del processo distributivo dei prodotti alimentari di origine animale, la prescrizione formulata da parte dell’Autorità sanitaria nei confronti di un distributore all’ingrosso di prodotti alimentari di integrare il sistema di informazioni rese agli OSA (“operatori del settore alimentare”) con uno strumento di trasmissione del dato relativo al lotto di appartenenza dei prodotti ceduti (“fattura o altro appropriato sistema”), laddove la “necessità” dello stesso, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. g) Reg. UE n. 931/2011, sia motivata con riferimento alle inefficienze dimostrate dal sistema informativo in essere in occasione di una verifica finalizzata a ricostruire la catena distributiva di un lotto oggetto di “allerta” per la presenza di sostanze tossiche, né la “necessità” del prescritto mezzo informativo è smentita dalle indicazioni in ordine al lotto di appartenenza del prodotto obbligatoriamente recate dalle etichette applicate sulle singole confezioni, ex art. 17, d.lgs. n. 231 del 2017, in quanto, una volta che le stesse siano state cedute ai consumatori, resta preclusa, in mancanza del suddetto strumento informativo, ogni concreta possibilità di ricostruire a posteriori la filiera distributiva del lotto interessato (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’inefficienza del sistema di rintracciabilità applicato – e quindi, secondo la logica sottesa al Reg. UE n. 178/2002, la “necessità” di integrarlo attraverso lo strumento informativo in discorso – anche alla luce degli oneri di controllo che, secondo le deduzioni di parte appellante, fanno carico all’operatore “a valle”, emerge dalle stesse difficoltà di procedere alla ricostruzione a posteriori del percorso distributivo dei prodotti alimentari oggetto dell’”allerta”, da cui hanno preso le mosse le verifiche che hanno messo capo al verbale impugnato: difficoltà di cui quest’ultimo dà atto nelle relative premesse motivazionali.
In secondo luogo, ma in correlazione col precedente rilievo, l’indicazione del lotto di produzione sui prodotti alimentari preconfezionati, proprio perché ancorata a dati apposti sulle confezioni, non soddisfa le esigenze di una rintracciabilità ex post della catena distributiva, allorquando, cioè, i prodotti in questione abbiano già costituito oggetto di vendita ai consumatori: esigenza che emerge con prepotenza quando la necessità di procedere al controllo insorga allorché sia ragionevole presumere che il percorso di distribuzione/consumo si è già perfezionato (e quindi quei dati siano andati ormai dispersi).
Inoltre, proprio perché il sistema di rintracciabilità si fonda sulla responsabilità di tutti i soggetti che partecipano ed attuano la sequenza distributiva, è evidente che, ai fini dell’efficace funzionamento dei meccanismi di controllo, ciascuno di essi deve osservare le prescrizioni inerenti al segmento di appartenenza, indipendentemente dall’osservanza che vi abbiano prestato, per quanto di loro competenza, gli altri: solo in tal modo, infatti, è possibile ovviare ad eventuali falle del sistema di rintracciabilità, facendo leva sul corretto adempimento da parte dell’operatore “a monte” (e viceversa) degli oneri informativi ad esso facenti capo, in ipotesi di inosservanza da parte dell’operatore “a valle” di quelli di cui ha la diretta responsabilità. | Alimenti |
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione acquisitiva - Risarcimento del danno - Equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato - Giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno – Rimessione alla Adunanza plenaria di questioni connesse.
Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni: a) se - in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ - sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;
b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione - la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria; c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’Amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale); d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente) (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che ai fini dell’inquadramento della questione ed in particolare con l’obiettivo di valutare se nel caso di specie la proposizione della domanda restitutoria successivamente alla formazione del giudicato sulla domanda di risarcimento per equivalente integri o meno una violazione dell’art. 2909 c.c., va ricostruito il rapporto tra gli istituti del risarcimento in forma specifica e del risarcimento per equivalente.
Al riguardo, la giurisprudenza suole costantemente riconoscere l’esistenza di una relazione di continenza del secondo nel primo, ritenendo che la seconda domanda costituisca un minus rispetto alla prima, al punto che: a) mentre costituisce certamente domanda nuova quella volta ad ottenere il risarcimento in forma specifica rispetto alla domanda proposta di risarcimento per equivalente, viceversa la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione (“emendatio”), e non mutamento (“mutatio”), della domanda di reintegrazione in forma specifica, dovendosi la prima ritenere già compresa nella seconda (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. VI, 16 maggio 2017, n. 12168). Ne consegue che la domanda risarcitoria per equivalente, proposta in via alternativa a quella risarcitoria in forma specifica, non è incompatibile con quest’ultima, proprio perché è già contenuta in essa; b) in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica come domandato dall’attore in forza di quanto previsto dall’art. 2058, comma secondo, c.c. e ciò proprio perché il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in quest'ultima forma, per cui il giudice può condannare d’ufficio al risarcimento per equivalente senza violare l’art. 112 c.p.c.; per contro non è consentito al giudice, senza violare l'art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta (cfr., ex plurimis, Cass. civ. n. 259 del 2013; id., sez. III, 21 maggio 2004, n. 9709; id., sez. II, 18 gennaio 2002, n. 552; id., sez. I, 12 gennaio 2010, n. 254, sulla possibilità di ricondurre la domanda di restituzione del fondo allo schema dell'art. 2058 c.c., in tema appunto di reintegrazione in forma specifica); c) “per come ricavabile dal dato testuale dell'art. 2058 c.c. (là dove precisa che "il danneggiato può chiedere..."), mentre la richiesta del risarcimento per equivalente contiene la domanda di risarcimento in forma specifica, sicché domandata la prima si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d'ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata ad una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l'impraticabilità della riparazione in forma specifica” (Cons. St., sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500), ponendosi altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (C.g.a. 3 novembre 2017, n. 465); d) la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ., alternativa al risarcimento per equivalente e, quindi, mezzo concorrente per conseguire la riparazione del pregiudizio subito; di conseguenza è da escludere che la scelta, in corso di giudizio, per una delle due modalità costituisca una mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio libelli (cfr. Cons. St., sez. IV, 22 gennaio 2014, n. 306; id. 1° giugno 2011, n. 3331), essendo evidente, per un verso, che la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito, per altro verso, che tra esse vi è identità delle posizioni giuridiche soggettive (proprietari di suoli oggetto di illegittima occupazione e trasformazione), del petitum (la restituzione del suolo, salvo esercizio del potere discrezionale di acquisizione ex art. 42 bis) e della causa petendi (l’illecita perdurante occupazione e utilizzazione del suolo) (Cons. St., sez. IV, 22 gennaio 2014, n. 306).
Conclusivamente sul punto e con specifico riferimento al caso in esame, si dovrebbe quindi valutare se può essere riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione originariamente intentata dinanzi al giudice civile con l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in giudicato relativa alla domanda di risarcimento per equivalente dovrebbe coprire - a rigore - anche le pretese oggetto di questo giudizio.
A tale ultimo riguardo ed in particolare con riferimento all’efficacia del giudicato, rileva anche la giurisprudenza europea e nazionale per la quale il diritto europeo non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario.
Pur se di per sé la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi), è opportuno sottolineare come – in termini generali - la stessa Corte di giustizia (sentenza 3 settembre 2009, in causa C-2/8 Olimpiclub, e sentenza 16 marzo 2006, in causa C-234/4, Kapferer) ha sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (Corte di giustizia UE, sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20).
Ciò premesso, la Corte ha comunque ricordato che, in assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, sebbene esse non debbano essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza 16 maggio 2000, causa C 78/98, Preston e a., Racc. pag. I 3201, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).
In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (v. Corte di giustizia UE, 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, cit., punto 21; 1° giugno 1999, causa C 126/97, Eco Swiss, Racc. pag. I 3055, punti 46 e 47).
Peraltro, di recente, la Corte di giustizia, ritornando sulla questione (Corte giustizia, grande sezione, 6 ottobre 2015, causa C-69/14, T. c. Gov. Romania), con riguardo al diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi in uno Stato membro in violazione del diritto unionale, ha stabilito che il diritto dell’Unione, in base ai principi di equivalenza e di effettività, dev’essere interpretato nel senso che non osta al fatto che a un giudice nazionale non spetti la possibilità di revocare una decisione giurisdizionale definitiva pronunciata nel contesto di un ricorso di natura civile. E ciò anche quando tale decisione risulti incompatibile con un’interpretazione del diritto dell’Unione accolta dalla Corte di giustizia successivamente alla data in cui la decisione è divenuta definitiva, finanche qualora, di contro, una tale possibilità sussista per le decisioni giurisdizionali definitive incompatibili con il diritto dell’Unione pronunciate nel contesto dei ricorsi di natura amministrativa.
È stata, quindi, ribadita l’importanza che riveste anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione il principio dell’intangibilità del giudicato, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, di modo che il giudice nazionale non è vincolato dal diritto dell’Unione a disapplicare le norme processuali interne che conferiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò consentirebbe di rimediare ad una situazione nazionale contrastante col diritto unionale.
Conforme risulta la giurisprudenza nazionale, la quale ha precisato come il diritto dell’Unione europea non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario ovvero di contrasto con una decisione definitiva della Commissione europea emessa prima della formazione del giudicato (cfr. Cass., sez. trib., 28 novembre 2019, n. 31084; sez. V, 13 luglio 2018, n. 18642; Sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2046; Sez. trib., 29 luglio 2015, n. 16032; sez. I, 6 maggio 2015, n. 9127; sez. V, 29 luglio 2015, n. 16032; Sez. trib., 15 dicembre 2010, n. 25320).
Inoltre, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 71/2015, al punto n. 5.3, ha ammesso, implicitamente, che l’avvenuto giudicato formatosi precluda la rivisitazione della tematica (“Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, ne risulta che se la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene. In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell'indennizzo previsto dall'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni”).
Le conclusioni a cui conducono le sopra esposte considerazioni devono, d’altro canto, essere ponderate alla luce del peculiare rapporto intercorrente tra il diritto nazionale e le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Infatti, le sentenze della Corte di Strasburgo, anche quelle che hanno più volte condannato la Repubblica Italiana per le prassi nazionali sulla ‘occupazione appropriativa’, sono state pronunciate in casi in cui per definizione si erano formati giudicati sfavorevoli per i proprietari, all’esito dei relativi giudizi civili.
Dunque, mentre le sopra citate sentenze della Corte di Giustizia hanno espresso il principio per cui il diritto unionale non impone all’ordinamento e al giudice nazionale di superare il giudicato che con esso si sia posto in contrasto, quando si tratta invece della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la Corte di Strasburgo è competente a valutare proprio se il giudicato nazionale si sia posto in contrasto con la Convenzione, una volta esauriti i rimedi interni.
La Sezione ha altresì ricordato che la stessa Corte EDU, pur ritenendo la restituzione del bene quale forma privilegiata di riparazione, ammetteva, “quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto”, il risarcimento per equivalente in una misura pari al valore integrale del bene alla data della pronuncia (v. Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, § 69; 6 marzo 2007, Scordino c. Italia, § 16): la Corte ha ammesso sì in sostanza la sanatoria della situazione venutasi a verificare, ma purché vi sia il ristoro dei proprietari.
D’altra parte, per la soluzione della questione in esame, rilevano anche i principi enunciati dalle sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020 dell’Adunanza Plenaria, la quale:
a) ha ribadito la contrarietà alla Convezione europea dei diritti dell’uomo di qualunque forma di trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione che sia priva di una base legale, in tal modo negando l’ammissibilità nel nostro ordinamento anche della c.d. rinuncia abdicativa, quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; b) ha affermato che “l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali”; c) ha ritenuto che l’art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sia applicabile a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene).
Va dunque rimarcato come anche in sede d’appello si possa riconvertire la domanda di restituzione del bene in domanda di applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri (Cons. St., sez. IV, 21 settembre 2020, nn. 5527 e 5522), sicché anche per questa ragione si potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo tempo formatosi sulla domanda risarcitoria per l’accoglimento della eccezione di prescrizione, non precluda l’esame della domanda di tutela basata sul citato art. 42 bis (anche a seguito della conversione della domanda in sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal giudice civile quanto alla causa petendi (basata sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum (volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 42 bis). | Espropriazione per pubblica utilità |
Ambiente – Ulivi – Puglia – Infezione Xylella Fastidiosa – Piante sensibili alla Xylella Fastidiosa – Vitis – Inclusione – Legittimità.
È legittimo l’inserimento della Vitis nell’elenco delle piante specificate, cioè sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa, pur trattandosi di pianta non contaminata né contaminabile dallo specifico agente patogeno da debellare (1).
(1) Ha premesso la Sezione che la materia in esame è soggetta all’applicazione del principio di precauzione.
L’ordito delle pertinenti fonti comunitarie trae origine dalla direttiva UE n. 2000/29, la quale ha inteso perseguire l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione fitosanitaria contro l'introduzione nell'Unione di organismi nocivi nei prodotti importati da paesi terzi. Le più specifiche regole di contenimento della circolazione di piante contaminate o contaminabili dal batterio Xylella si sono conformate a questo obiettivo di fondo, in quanto sono state concepite come misure strettamente funzionali all’eradicazione del batterio, ovvero alla circoscrizione della sua ulteriore diffusione all'infuori della Regione Puglia.
Su questo sfondo strategico si innesta il richiamo al principio di precauzione, criterio di orientamento certamente invocabile in un ambito di interessi (la salubrità e la salute delle piante) quali quelli che rilevano nella materia fitosanitaria (v., in tal senso, Corte giustizia UE sez. I, n. 78/2016, punti 53-55).
Il principio di precauzione, estendendo l’azione di contrasto anche ad aree di rischio non ancora accertate ma potenziali, consente un approccio più efficace avverso l’introduzione e la diffusione degli agenti infestanti; esso quindi amplia l’impatto della tutela di interessi prevalenti (presi in considerazione dalla direttiva del 2000), attraverso una bilanciata e proporzionata opzione di preferenza su altri istanze con essi antagoniste (il commercio e l’iniziativa economico-imprenditoriale).
Se queste sono le finalità avute di mira dalle autorità regolatrici, in piena coerenza con i principi della normativa comunitaria, appare del tutto evidente l’irrilevanza della specifica destinazione d’uso della merce potenziale vettrice del batterio. È infatti trascurabile la circostanza che le barbatelle di vite non siano destinate al consumatore finale ma ad altri imprenditori, poiché ciò che rileva è unicamente il nesso tra la loro movimentazione e l’incremento del rischio di diffusione del batterio, nesso che, appunto, le misure di contrasto hanno inteso cautelativamente sciogliere.
Proprio nella materia delle misure di contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa sul territorio pugliese, questa sezione ha già avuto modo di ricordare, come del resto ha fatto la Corte di Giustizia UE nella già citata sentenza del 9 giugno 2016, in C-78/16 (punti 47-48): a) che il legislatore dell’Unione, al pari del legislatore nazionale, deve tenere conto del principio di precauzione, in virtù del quale, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi; b) che qualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito, a causa della natura non concludente dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale (per la salute pubblica o per l’equilibrio fitosanitario) nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive (v., in particolare, Corte di Giustizia UE, 17 dicembre 2015, in C-157/14, punti 81-82); c) che il suddetto principio deve, inoltre, essere applicato tenendo conto del principio di proporzionalità, il quale esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione e quelli adottati dalle amministrazioni nazionali in conseguenza non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno gravosa, e che gli inconvenienti causati non devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti (Cons. Stato, sez. III, n. 1692 del 2020).
Quanto, poi, all’inserimento della Vitis nell’elenco delle piante specificate, cioè sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa, ha ricordato la Sezione
che il quinto considerando della decisione UE n. 2352/2017 chiarisce che “Le prove scientifiche cui fa riferimento l'Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) nel parere scientifico del gennaio 2015 indicano che esiste la possibilità di una ricombinazione genetica tra diverse sottospecie dell'organismo specificato rilevato in altre parti del mondo, con effetti su nuove specie vegetali che non erano mai risultate infette dalle sottospecie interessate. Di conseguenza, al fine di garantire un approccio più precauzionale e dato che recentemente sono state rilevate diverse sottospecie nell'Unione, è importante chiarire che, qualora in una zona siano state rilevate più di una sottospecie dell'organismo specificato, tale zona dovrebbe essere delimitata in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie. Inoltre, se l'individuazione della presenza di una sottospecie è in corso, lo Stato membro interessato dovrebbe delimitare in via precauzionale anche tale zona in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie”.
Sono, dunque, le stesse fonti scientifiche prese in considerazione dalla Commissione UE a confermare come all’epoca non esistesse alcuna certezza assoluta sulla non contaminabilità della Vitis ad una delle sottospecie del batterio da Xylella, il che giustificava, in una logica di complessiva precauzione ed al fine di evitare anche solo la potenziale infezione e diffusione dell'organismo specificato, l’adozione delle misure qui contestate.
Su questa base si sono orientate le iniziative delle autorità comunitarie e nazionali, sino a che le evidenze scientifiche hanno giustificato un graduale cambio di strategia. | Ambiente |
Paesaggio – Tutela - Vincolo indiretto - Tutela del Castello del Catajo – Legittimità.
E’ legittimo il ricorso allo strumento di tutela di valori storico –artistici (vincolo indiretto) per finalità di tutela paesaggistica; l’estensione del vincolo non trova giustificazione nell’esigenza di preservare i valori del contesto territoriale in sé considerato (pur in sé dotato di valore), bensì i valori che lo stesso esprime in funzione del bene culturale del Castello del Catajo e delle sue pertinenze, a cui è inscindibilmente correlato, come ben evidenziato dai passaggi delle relazioni tecniche innanzi richiamati; non deve inoltre trascurarsi che l’estensione del vincolo trova una logica spiegazione nell’imponenza e nell’ubicazione del complesso monumentale da tutelare, in quanto nel perimetro del vincolo diretto sono incluse anche la collina che fiancheggia il Castello e alcune aree agricole; pertanto, sussiste una logica congruenza tra l’ampia estensione del vincolo indiretto e l’ampia estensione del vincolo diretto da tutelare (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che ai sensi dell’art. 45 del Codice dei beni culturali “Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”. La norma demanda all’amministrazione di delimitare con intensità variabile, non predeterminata, le misure più idonee a preservare il valore ed il significato che il bene colturale rappresenta nel territorio nel quale è collocato.
La giurisprudenza ha precisato che il vincolo indiretto concerne la c.d. cornice ambientale di un bene culturale (Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 1969, n. 722; id., sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2354). Ne deriva che non è il solo bene in sé – nel caso di specie il Castello del Catajo - a costituire oggetto della tutela, ma l’intero ambiente potenzialmente interagente con il valore culturale, che può richiedere una conservazione particolare. In questo senso il canone di verifica del corretto esercizio del potere deve avvenire secondo un criterio di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità.
La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, 3 luglio 2012, n. 3893) ha già avuto modo di precisare che tali criteri sono tra loro strettamente connessi e si specificano nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta funzionalità dell’esercizio del potere che deve essere congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto.
Ha aggiunto la Sezione che, tenuto conto del particolare rilievo che assume l’area in cui si colloca il Castello, non solo per garantirne la vista, la conservazione e la tutela, ma quale componente del valore e del pregio storico dello stesso (vedasi il richiamo alla relazione tecnica del 2011 che segue), la giurisprudenza ha precisato che il vincolo indiretto può essere apposto per consentire di comprendere l’importanza dei luoghi in cui gli immobili tutelati dal vincolo diretto si inseriscono mediante la loro conservazione pressoché integrale (Cons.Stato, sez. VI, 26 maggio 2017, n. 2493).
Deve anche ricordarsi che la valutazione dell’amministrazione nell’ambito in discorso è per lo più insindacabile, se non sotto il profilo della congruità e della logicità della motivazione ed in particolare per difetto o manifesta illogicità della motivazione o errore di fatto (Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2005, n. 3305; id., sez. VI, 22 agosto 2006, n. 4923; id., sez. IV, 9 febbraio 2006, n. 659).
In base alla relazione tecnico scientifica allegata al provvedimento impugnato, il vincolo indiretto attiene ad un’area che costituisce “una cornice ambientale che si pone in una relazione visuale e prospettica inscindibile con il Castello e ne costituisce il contesto concorrendo a determinarne il carattere di eccezionalità” e “qualsiasi considerazione di carattere architettonico sui contenuti intrinseci e formali del Castello del Catajo deve necessariamente essere accompagnata dalla consapevolezza che una parte fondamentale del suo valore e del suo stesso significato è riconducibile alla relazione attiva che il complesso esprime nei confronti del territorio circostante”.
In disparte ogni profilo attinente al merito della scelta, che resta insindacabile per il Giudice, la giustificazione del vincolo indiretto e la sua estensione ed incidenza (il vincolo è stato apposto per una estensione di circa km 3 e comporta l’inedificabilità assoluta delle aree) appaiono coerenti con la natura, le caratteristiche e le ragioni di tutela del bene monumentale al quale è funzionale, come innanzi anticipato.
Invero, nella relazione tecnico scientifica del vincolo diretto del 2011, avente ad oggetto il Castello i giardini e le aree limitrofe, si legge che “il Castello appare legato da un rapporto inscindibile al sistema territoriale destinato ad accoglierlo, in quanto baricentro e fulcro di un impianto ordinatore tanto delle pendici dei Colli Euganei, a ovest, quanto delle dirette pertinenze agricole che si estendono lungo il versante pianeggiante orientale, caratterizzate dalla presenza dello straordinario incrocio idraulico tra il Canale Battaglia e il Canale Rialto e dal reticolo di strade e canalizzazioni che nel tempo hanno improntato la morfologia dell’intero paesaggio agrario”; con la conseguenza che il Castello si pone “quale fulcro e origine di tale sistema organico, unico nel suo genere”; con l’ulteriore considerazione che “le architetture e i giardini, che si inseriscono in un disegno del territorio molto ampio da cui prendono senso e ragioni, si raccordano alla campagna proprio grazie alla presenza degli affacci multipli della compagine edilizia, nella sua variegata complessità di relazioni e tracciati, capaci di creare più punti di vista privilegiati rispetto all’intorno circostante”. | Paesaggio |
Processo amministrativo – Procura alle liti – Patrocinio facoltativo dell’Avvocatura di Stato – Scelta di conferire la procura ad avvocato del libero foro – Insindacabilità in via incidentale.
Processo amministrativo – Appello - Motivi aggiunti – Limiti.
Processo amministrativo – Abuso del processo – Motivi – Ordine di esame – Richiesta in appello - Ordine diverso da quello indicato in primo grado – È abuso del processo.
Concorso - Sanitari – Disciplina – D.P.R. n. 483 del 1997 – Ambito di applicazione - Dirigenti medici da assumere a tempo indeterminato nei ruoli del Servizio sanitario nazionale.
Concorso – Commissione di concorso – Concorso per sanitari - Dirigenti medici da assumere a tempo indeterminato nei ruoli del Servizio sanitario nazionale –Specifiche competenze della commissione – Sono riferite alla commissione e non ai singoli componenti.
In materia di patrocinio c.d. facoltativo o autorizzato dell’Avvocatura dello Stato previsto per una Amministrazione non statale, la validità della deliberazione richiesta perché l’Amministrazione possa avvalersi di avvocati del libero foro non può essere oggetto di sindacato incidentale in sede di esame dell’eccezione di nullità della procura ad litem sollevata - per difetto dei presupposti legittimanti la deroga alla difesa erariale - nel giudizio introdotto con il ricorso cui la procura si riferisce (1).
In materia di motivi aggiunti in appello ex art. 104, comma 3, c.p.a.., l’orientamento giurisprudenziale che richiede la “verifica della piena conoscenza dell’atto lesivo da parte del ricorrente, al fine di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale” deve applicarsi tenendo conto della peculiarità del rimedio, dal momento che i motivi aggiunti in appello si qualificano normativamente come un’eccezione alla regola del divieto dei nova nel giudizio di secondo grado e che l’art. 104, comma 3, c.p.a. individua come fatto che legittima tale eccezione la sopravvenienza di documenti non versati nel giudizio di primo grado: conseguentemente, ove venga eccepita la tardività di tale mezzo, la parte che lo ha proposto ha l’onere di allegare la sopravvenienza del fatto legittimante, di natura eccezionale rispetto al generale divieto di introdurre nuove domande, non nel senso di una generica affermazione della sussistenza in astratto del fatto legittimante, ma quanto meno in termini di una precisa enunciazione dello stesso, con indicazione dei relativi presupposti fattuali concreti.
La richiesta, nel corso del giudizio di appello, di una nuova e diversa graduazione dei motivi del ricorso di primo grado, rispetto a quella prospettata nel giudizio di prime cure e ribadita nelle precedenti fasi del giudizio di impugnazione, integra un venire contra factum proprium che costituisce abuso dello strumento processuale.
La disciplina regolamentare contenuta nel d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483 - espressamente derogata, per l’emergenza SARS-COV2, dall’art. 251, comma 4, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla l. 17 luglio 2020, n. 77 - concerne la selezione concorsuale dei dirigenti medici da assumere a tempo indeterminato nei ruoli del Servizio sanitario nazionale, ma non anche la selezione dei dirigenti medici assunti con contratto a tempo determinato per progetti specifici ex art. 15-octies, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (2).
In materia di procedure concorsuale per l’assunzione di dirigenti medici del servizio sanitario nazionale, le “specifiche competenze” richieste per la composizione della Commissione d’esame si riferiscono alla Commissione nel suo insieme, e non ai singoli componenti, specie laddove la procedura concorsuali miri alla selezione di medici da inserire nell’ambito di un progetto multidisciplinare, implicante competenze specialistiche diverse da reclutare nell’ambito della medesima procedura (3).
(1) Ad avviso della Sezione la rispondenza di tale provvedimento allo standard motivatorio legale non può essere sindacata incidentalmente, in sede di esame di verifica della validità della procura, trattandosi di provvedimento che, ove non ritualmente impugnato, deve ritenersi valido ed efficace sul piano della costituzione dei relativi effetti dispositivi.
(2) Il Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale, approvato con d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483, è attuativo della previsione di rango primario contenuta nell’art. 18, primo comma, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502: “Il Governo, con atto regolamentare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, adegua la vigente disciplina concorsuale del personale del Servizio sanitario nazionale alle norme contenute nel presente decreto ed alle norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, in quanto applicabili, prevedendo: a) i requisiti specifici, compresi i limiti di età, per l'ammissione; b) i titoli valutabili ed i criteri di loro valutazione; c) le prove di esame; d) la composizione delle commissioni esaminatrici; e) le procedure concorsuali; f) le modalità di nomina dei vincitori; g) le modalità ed i tempi di utilizzazione delle graduatorie degli idonei”.
Tale disposizione regola l’accesso alla dirigenza medica sanitaria, secondo la disciplina del personale medico del servizio sanitario nazionale recata dal Titolo V d.lgs. n. 502 del 1992.
Il richiamato Titolo V disciplina la dirigenza sanitaria “collocata in un unico ruolo” (art. 15, comma1): laddove il riferimento al ruolo, unitamente ai plurimi contenuti incompatibili con un diverso significato rinvenibili nell’intero articolato normativo, hanno riguardo a dirigenti medici in servizio a tempo indeterminato.
Conseguentemente, laddove il successivo comma 7 del citato art. 15 stabilisce che “Alla dirigenza sanitaria si accede mediante concorso pubblico per titoli ed esami, disciplinato ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483 ivi compresa la possibilità di accesso con una specializzazione in disciplina affine. (….)”, si riferisce (implicitamente, ma – ad un’interpretazione letterale e sistematica - inequivocamente) alla tipologia di accesso alla dirigenza disciplinata dal medesimo art. 15 (cui il successivo art. 18 ha riguardo nel rinvio alla fonte regolamentare per le modalità di svolgimento delle relative selezioni).
Nondimeno, il legislatore nel corpo del medesimo articolato normativo ha distinto diverse tipologie (e relativi regimi) di incarichi: prevedendo – agli artt. 15–septies e 15–octies – forme di assunzione a tempo determinato.
Come ricordato, ad esempio, in materia di stabilizzazione dal Consiglio di Stato (sez. IV, sentenza n. 426 del 2018), “i dirigenti assimilabili a quelli previsti dall'art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 sono solo quelli contemplati dall'art. 15-septies, comma 1, d.lgs. n. 502 del 1992 e non anche quelli di cui all'art. 15-septies, comma 2 (né, tanto meno, quelli di cui al successivo art. 15-octies)”.
Ne deriva che la complessiva trama normativa in esame, frutto peraltro di significativi interventi anche successivi all’originario disegno, contempla, accanto all’ipotesi (principale) di lavoro a tempo indeterminato dei dirigenti sanitari, soggetta all’ordinaria disciplina, anche ipotesi di assunzioni a tempo determinato assistite da minori garanzie, ma nel contempo affidate ad un regime di più agile costituzione del rapporto.
Oltre alle ipotesi di cui all’art. 15-septies, richiamate dall’arresto da ultimo citato, l’art. 15-octies (inserito dall'art. 13, comma 1, d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229) d.lgs. n. 502 del 1992 prevede che “Per l'attuazione di progetti finalizzati, non sostitutivi dell'attività ordinaria, le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere possono, nei limiti delle risorse di cui all'articolo 1, comma 34-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a tal fine disponibili, assumere con contratti di diritto privato a tempo determinato soggetti in possesso di diploma di laurea ovvero di diploma universitario, di diploma di scuola secondaria di secondo grado o di titolo di abilitazione professionale, nonché di abilitazione all'esercizio della professione, ove prevista”.
Tale disposizione non prevede – a differenza di quelle precedentemente esaminate – il rinvio alle forme di selezione disciplinate dal Regolamento di cui al d.P.R. n. 483 del 1997. | Concorso |
Covid-19 – Vaccino – Obbligo – Farmacisti – Omissione - Conseguenza.
In materia di obbligo vaccinale per i farmacisti, in disparte i dubbi sulla giurisdizione e salva la proposizione dell’eventuale questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, conv. in l. n. 76 del 2021, s.m.i., deve essere respinta l’istanza di sospensione, formulata ai sensi dell’art. 56 c.p.a., del provvedimento di accertamento dell’inadempimento in capo alla parte ricorrente dell’obbligo vaccinale, con conseguente sospensione dall’esercizio della professione di farmacista e ciò in quanto: l’obbligo discende direttamente da un atto avente forza di legge, il quale, in quanto atto politico, non può essere sindacato dal giudice amministrativo; il prospettato diritto all’esenzione dall’obbligo vaccinale avrebbe potuto da tempo essere oggetto di accertamento davanti al giudice ordinario, né risulta essere stata chiesta la temporanea sostituzione del direttore responsabile. | Covid-19 |
Covid-19 – Liguria – Obbligo mascherine sull’intero territorio del Comune di Genova – Eccezione per le sole proprietà private
Non deve essere sospesa in via monocratica l’ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco di Genova a tutela dell'igiene e sanità pubblica a seguito dell'emergenza sanitaria da Covid -19, nella parte in cui si discosta dalla previsione dell’art. 3, comma 2, d.P.C.M. 17 maggio 2020 e dall’ordinanza della Regione Liguria n. 30 del 2020 in punto di obbligo incondizionato dell’utilizzo della mascherina su tutto il territorio comunale ad eccezione delle aree di proprietà privata, tenuto conto dell’esigenza di prevenire il più possibile, nell’ambito del territorio comunale, le occasioni di contagio determinate dall’allentamento delle misure restrittive che caratterizzavano la c.d. fase 1, con la conseguenza che tale obbligo di utilizzo delle mascherine, a tutela della salute pubblica, non può considerarsi né incongruo né particolarmente gravoso (1).
(1) Ha ricordato il Tar che la precedente ordinanza sindacale n. 106 del 2020 prevedeva il necessario utilizzo delle mascherine in “parchi; giardini comunali; ville pubbliche; cimiteri; passeggiate per attività motoria; locali privati ad uso pubblico; locali adibiti ad attività commerciali; mezzi di trasporto pubblico”, mentre l’impugnata ordinanza n. 109 del 2020 lo contempla “nelle aree al di fuori della proprietà privata, tranne per chi pratica attività sportiva”, oltre che “all’interno di parchi, giardini e ville pubbliche, dei cimiteri, dei locali privati ad uso pubblico, dei locali adibiti ad attività commerciali e dei mezzi di trasporto pubblico”. Le prescrizioni dettate con l’ordinanza n. 109 del 2020 non prendono più in specifica considerazione le “passeggiate”, ma estendono l’obbligo di indossare le mascherine a tutte le ipotesi di circolazione in aree non di proprietà privata, senza che con ciò appaia sostanzialmente modificata la situazione precedente, nella quale era già imposto l’uso delle mascherine nell’ipotesi più rilevante di circolazione in area pubblica (“passeggiate”). | Covid-19 |
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - gestione dei rifiuti urbani a Milano – Sospensione cautelare – Esclusione – Limiti.
In sede di adeguato bilanciamento dei contrapposti interessi, la gara europea per la gestione dei rifiuti urbani a Milano non è sospesa in via cautelare ma non va aggiudicata prima della decisione di merito. | Contratti della Pubblica amministrazione |
Autorità amministrative indipendenti - Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - Operatori di telefonia – Fatturazione a 28 giorni – Indennizzo – Comminatoria – Legittimità.
E’ legittima l’applicazione di un indennizzo, da parte della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche senza previa diffida, a fronte della scelta degli principali operatori di telefonia di fatturare i servizi erogati con cadenza a 28 giorni, anziché con cadenza mensile (1).
(1) In termini v. Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 879
L’art. 2, comma 20, lett. d), l. n. 481 del 1995 assegna all’Autorità per far cessare comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, se del caso imponendo all’operatore, che li commetta, l’obbligo di corrispondere loro un indennizzo ai sensi del precedente comma 12, lett. g), che può esser anche automatico.L’indennizzo o indennità è termine riferito normalmente a prestazioni pecuniarie che ricorrono, in diritto civile, in situazioni molto diverse fra loro; in diritto amministrativo, si ricollega di solito o perlopiù all’adozione di un provvedimento amministrativo che incida sulla sfera patrimoniale di un privato (come nel caso dell’espropriazione). L’indennità si distingue dal risarcimento (collegato ad un danno ingiusto), in quanto essa dipende solo da un fatto di arricchimento a scapito di altri che si deve eliminare, senza alcuna indagine sull’ingiustizia del danno (spettante all’AGO: arg. ex Cass., sez. un., 29 agosto 2008 n. 21934, di norma senza pregiudizio per i poteri inibitori o conformativi spettanti alle ANR). Il danno è una lesione di un bene protetto, mentre il fatto genetico dell’obbligo restitutorio di natura indennitaria è la perdita o limitazione della sfera giuridico-patrimoniale altrui in correlazione ad un trasferimento forzoso od alla nascita di un diritto in capo ad altri che l’ordinamento vuole riequilibrare. L’indennizzo ha una funzione di corrispettività o di carattere sostitutivo del bene che è stato trasferito.
Nel caso di specie, l’erogazione gratuita della prestazione (di natura lato sensu indennitaria) sostituisce la somma di danaro che è stata prelevata dalla generalità degli utenti con il sistema di fatturazione a 28 giorni.
Da queste coordinate generali deriva l’individuazione dell’esatta natura del potere esercitato, che è un potere conformativo di natura lato sensu indennitaria e non certo un potere sanzionatorio.
Va altresì rilevato che la giurisprudenza da tempo ha riconosciuto alle Autorità indipendenti, per la loro collocazione istituzionale, dei poteri impliciti, da esercitarsi in relazione agli scopi stabiliti dalla legge.
In conclusione, in base all’art. 2, comma 20, lett. d), l’AGCOM non ha esercitato un vero e proprio potere sanzionatorio, ma ha attivato il rimedio generale posto dalla legge (dunque, tutt’altro che privo di base normativa) sull’ordinamento delle Autorità di regolazione. Tal rimedio indennitario, infatti e che per sua natura s’attaglia alla situazione cui intende por soluzione, appunto per questo sfugge al principio di tipicità proprio delle sanzioni. Ma non per ciò solo non risponde al fine generale dell’istituzione delle ANR e, in particolare, trova il suo fondamento nella necessità di assicurare, insieme con la promozione della concorrenza e con definizione di sistemi tariffari certi, trasparenti e basati su criteri predefiniti per i servizi erogati, la tutela degli interessi di utenti e consumatori. L’indennizzo, quindi e proprio perché in base alla delibera n. 114/2017/CONS non s’atteggia più a mero rimborso, contempera le esigenze di ripristino della fatturazione a cadenza mensile (il termine per il cui adempimento servendo a risolvere i problemi operativi di tal ripristino nei sistemi interni degli operatori di telefonia) con la refusione dei disagi subiti dagli utenti.
L’appellante adombra la necessità della previa diffida ai fini dell’imposizione dell’indennizzo, ma tal dicotomia temporale, non necessaria nella misura lato sensu ripristinatoria assunta da AGCOM, neppure si ravvisa nella legge. Questa, piuttosto, tende a unificare la regolazione del corretto modus agendi degli operatori con le misure di tutela consumeristica, giacché il ripristino dello statu quo ante consta anche della riparazione degli effetti pregiudizievoli: tutto ciò ad un unico fine, ossia al fine d’evitare che la scelta unilaterale degli operatori di telefonia (sul piano della trasparenza, della conoscibilità dei costi del servizio, della buona fede contrattuale e del buon andamento del servizio) incida senza controllo sulla sfera giuridica degli utenti. Questi ultimi, in mercati regolati come quello in esame, sono soggetti che tengono condotte di c.d. “apatia” solo in apparenza razionale, cioè soggetti di minorata difesa: l’attivazione, da parte degli utenti, di meccanismi ordinari di controllo comporterebbe effetti disfunzionali sul piano sia dell’andamento molecolare del contenzioso, sia dell’ingolfamento del sistema giudiziario, sia sul piano della rinuncia alla tutela da parte dei soggetti c.d. apatici.
Si tratta della c.d. tutela amministrativa dei diritti o public enforcement, un campo indispensabile di intervento delle Autorità di regolazione nella moderna realtà dei mercati, a fronte delle difficoltà dell’ordinaria risposta giudiziaria (basata sull’innesco di un contenzioso pulviscolare) a rispondere alle problematiche poste dall’economia di massa.
Ciò serve ad assicurare un’effettiva e concreta tutela a favore degli utenti, quali soggetti deboli del rapporto negoziale (e senza più necessità, dunque, d’una loro istanza di “rimborso”) e per dissuadere (su un piano general preventivo) gli operatori da condotte illegittime e pregiudizievoli.
L’indennizzo quindi non impone a questi ultimi alcuna erogazione patrimoniale né in denaro, né in servizi, né in alcunché d’altro che non sia, da un lato, il mero riallineamento (ovviamente, d’ufficio) della cadenza mensile di fatturazione e, dall’altro, il conseguente conguaglio (sempre d’ufficio) per il disallineamento cagionato da una fatturazione a cadenza diversa.
| Autorità amministrative indipendenti |
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Bancarotta fraudolenta – Omessa dichiarazione – Conseguenza.
Costituisce dichiarazione reticente, e quindi incompleta, ma non falsa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f bis, d.lgs. n. 50 del 2016, l’omessa indicazione di aver riportato una condanna per bancarotta fraudolenta di cui all’art. 216 c.p.; la bancarotta fraudolenta non rientra, infatti nel reato di frode - annoverato dalla stazione appaltante nel documento di gara unico europeo come condanna da indicare se riportata - secondo un interpretazione necessariamente non estensiva stante il principio di tassatività delle cause di esclusione valevole in subiecta materia (1).
(1) Ha ricordato il Tar che la più recente giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, 5 maggio 2020, n. 2850, id., A.P., 28 agosto 2020, n. 16; id. sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976; id., sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407; Tar Napoli, sez. VI, 26 febbraio 2021, n. 1301) ha distinto tra l’omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, che comprende anche la reticenza, cioè l’incompletezza, con conseguente facoltà della stazione appaltante di valutare la stessa ai fini dell’attendibilità e dell’integrità dell’operatore economico (Cons. Stato, sez. V, 3 settembre 2018, n. 5142) e la falsità delle dichiarazioni, ovvero la presentazione nella procedura di gara in corso di dichiarazioni non veritiere, dove si rappresenta una circostanza in fatto diversa dal vero, cui consegue l’automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico, mentre ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso (Cons. Stato, sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407).
Solo alla condotta che integra una falsa dichiarazione consegue l'automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell'inaffidabilità e della non integrità dell'operatore economico, mentre, ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l'esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull'affidabilità dello stesso (...). Il concetto di “falso”, nell'ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso (Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976).
Ha aggiunto il Tar, con precipuo riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, che il riferimento operato nel DGUE alla condanna (tra gli altri) per “frode” (ricompreso nell’elenco ivi predisposto dalla stazione appaltante) e non già a quelle di “bancarotta fraudolenta” concretamente riportata, può esimere da responsabilità il dichiarante, non rientrandovi la fattispecie di cui all’art. 216 c.p., secondo una interpretazione necessariamente non estensiva stante il principio di tassatività delle cause di esclusione valevole in subiecta materia (Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2015, n. 1565) e coerente con la disciplina comunitaria.
La condanna per frode indicata nello schema di DGUE predisposto dalla stazione appaltante tra le condanne da dichiarare da parte dei concorrenti opera un chiaro riferimento all’art. 80, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 in tema di condanne penali definitive automaticamente escludenti, tra cui alla lett. c) è ricompresa la “frode ai sensi dell’articolo 1 della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee”. Ad avviso del Tar si tratta di una fattispecie incriminatrice riguardante i soli fatti commessi in danno della predetta Comunità potendovi ad es. far rientrare la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 c.p.) ma non la bancarotta fraudolenta, stante la non identità del bene protetto dalla norma ovvero in tal ultima fattispecie dell'interesse dei creditori all'integrità del patrimonio del debitore a garanzia del soddisfacimento del credito (Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2007, n. 39043). Non a caso la stessa Anac nelle Linee Guida n. 6 pur non avendo tale atto valore normativo né vincolante per la stazione appaltante (Trga Bolzano 22 gennaio 2019, n. 14) annovera i reati fallimentari tra le cause di esclusione non automaticamente escludenti di cui al citato comma 5 lett c) e non del comma 1 dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016. | Contratti della Pubblica amministrazione |
Farmaci – Prezzo - Farmaci biosimilari - Prezzo ex factory delle confezioni del farmaco – Individuazione.
Per i farmaci biosimilari, il prezzo ex factory delle confezioni, e cioè la quota di spettanza delle aziende farmaceutiche produttrici è pari al 66,65%, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1, comma 40, l. 23 dicembre 1996, n. 662; nel caso di farmaco biosimilare manca uno dei due presupposti previsti dall’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 39 del 2009, e cioè l’essere il farmaco “equivalente” (ai sensi dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 347 del 2001) all’originator e dunque l’essere il farmacista obbligato a consegnare all’assistito l’equivalente in luogo dell’originator, salva diversa espressa prescrizione del medico (comma 3 dell’art. 7, d.l. n. 347 del 2001); il farmacista non può, infatti, sostituire automaticamente il farmaco biosimilare a quello biologico di riferimento (art. 15, comma 11-quater, d.l. n. 95 del 2012), con la conseguenza che alcun incentivo può essere previsto per invogliare il farmacista a fare ciò che per legge non potrebbe fare (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. 28 aprile 2009, n. 39 ha previsto, “al fine di conseguire una razionalizzazione della spesa farmaceutica territoriale”, che per i medicinali equivalenti di cui all'art. 7, comma 1, d.l. 18 settembre 2001, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla l. 16 novembre 2001, n. 405, le quote di spettanza sul prezzo di vendita al pubblico al netto dell'imposta sul valore aggiunto, stabilite dal primo periodo del comma 40 dell'art. 1, l. 23 dicembre 1996, n. 662, sono rideterminate, per le aziende farmaceutiche, nella misura del 58,65% in luogo del 66,65%.
Come chiarito dalla Sezione (30 novembre 2020, n. 7533; id. 2 novembre 2020, n. 6724) la modalità di distribuzione dei farmaci nella quale si inscrive la rimodulazione delle percentuali è necessariamente quella “ordinaria” o “territoriale”, non solo perché una chiara indicazione in tal senso si ricava dal primo comma dell’art. 13, d.l. n. 39 del 2009, ma anche perché solo attraverso la distribuzione “territoriale” ha modo di realizzarsi la prevista ripartizione interna dei margini di guadagno tra i diversi soggetti della filiera distributiva, fermo restando il prezzo complessivo rimborsato al farmacista dal Sistema sanitario nazionale.
Gli 8 punti di scarto tra le due quote sono traslate in favore di farmacisti e grossisti: la farmacia che distribuisce il farmaco, che attraverso il grossista acquista dal produttore, è in tal modo incentivato a vendere il farmaco generico in luogo dell’originator.
Nessun incentivo è possibile nel caso di distribuzione diretta del farmaco da parte del Servizio sanitario nazionale, con la conseguenza che viene meno la necessità di aumentare la quota di spettanza per il farmacista, a scapito di quella dovuta alla azienda farmaceutica perchè nella filiera non risultano coinvolti i farmacisti e i grossisti.
Poiché la ratio è, come si è detto, incoraggiare l’uso dei farmaci equivalenti, la norma non può che rivolgersi solo a tali farmaci.
Data la premessa, l’appello non è suscettibile di positiva valutazione non concorrendo, con riferimento ai farmaci biosimilari, entrambi detti elementi.
L’art. 13, comma 1, d.l. n. 39 del 2009 precisa di fare riferimento ai farmaci equivalenti “di cui all'art. 7, comma 1, d.l. 18 settembre 2001, n. 347”, secondo cui “I medicinali, aventi uguale composizione in principi attivi, nonché forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio, numero di unità posologiche e dosi unitarie uguali, sono rimborsati al farmacista dal Servizio sanitario nazionale fino alla concorrenza del prezzo più basso del corrispondente prodotto disponibile nel normale ciclo distributivo regionale, sulla base di apposite direttive definite dalla regione; tale disposizione non si applica ai medicinali coperti da brevetto sul principio attivo”.
Ciò premesso, va chiarito che il farmaco biosimilare è legato al farmaco biologico, del quale condivide il principio attivo; ma si tratta di un rapporto diverso da quello che lega il farmaco originale e quello equivalente.
Come affermato dalla Sezione (15 febbraio 2021, n. 1305; 28 dicembre 2020, n. 8370) i "farmaci biologici", ivi inclusi i farmaci biotecnologici, cioè ottenuti con biotecnologie, sono farmaci il cui principio attivo è rappresentato da una sostanza prodotta o estratta da un sistema biologico, oppure derivata da una sorgente biologica attraverso procedimenti di biotecnologia. La produzione di farmaci biologici è sicuramente più complessa di un farmaco di derivazione chimica, essendo svariati i fattori che incidono sul processo stesso di produzione.
I farmaci biologici, proprio per la complessità e la natura dei processi di produzione, non sono mai pienamente identici, ancorché si basino su un medesimo principio attivo ed abbiano le stesse indicazioni terapeutiche. Infatti nel loro caso non si usa il termine “equivalente” (o “generico”), bensì “similare” o “biosimilare” (Cons. Stato, sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5478; id. 13 giugno 2011, n. 3572).
Si distinguono, dunque, dai farmaci chimici dove “ogni prodotto è pienamente equivalente all’altro (originator o meno) sempreché sia accertata l’identità del composto chimico (molecola)” (Cons. Stato, sez. III, 13 giugno 2011, n. 3572).
Per farmaco biosimilare si intende, invece, “un medicinale simile ad un prodotto biologico/biotecnologico c.d. di riferimento, la cui messa in commercio sia già stata autorizzata. Secondo una definizione fornita dall’ European Medicine Agency (Ema) nel 2012, in particolare, “per farmaco biosimilare si intende un medicinale sviluppato in modo da risultare simile ad un prodotto biologico che sia già stato autorizzato – appunto, il c.d. medicinale di riferimento o originator” (Cons. Stato, sez. III, 15 febbraio 2021, n. 1305).
Quindi i prodotti biologici e biosimilari non sono equivalenti tra loro, per la complessità dei processi produttivi (e dunque non “equivalenti” in senso stretto), anche se nella generalità dei casi, salvo eccezioni, possono essere usati come se fossero equivalenti (Cons. Stato, sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5478; id. 13 giugno 2011, n. 3572).
Nel secondo position paper dell’Aifa del marzo 2018 sui farmaci biosimilari si legge che “La perdita della copertura brevettuale permette l’entrata sulla scena terapeutica dei farmaci cosiddetti ‘biosimilari’, medicinali ‘simili’ per qualità, efficacia e sicurezza ai prodotti biologici originatori di riferimento e non più soggetti a copertura brevettuale. La disponibilità dei prodotti biosimilari genera una concorrenza rispetto ai prodotti originatori e rappresenta perciò un fattore importante. Quindi, i medicinali biosimilari costituiscono un’opzione terapeutica a costo inferiore per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), producendo importanti risvolti sulla possibilità di trattamento di un numero maggiore di pazienti e sull’accesso a terapie ad alto impatto economico…Come dimostrato dal processo regolatorio di autorizzazione, il rapporto rischio-beneficio dei biosimilari è il medesimo di quello degli originatori di riferimento. Per tale motivo, l’Aifa considera i biosimilari come prodotti intercambiabili con i corrispondenti originatori di riferimento. Tale considerazione vale tanto per i pazienti naïve quanto per i pazienti già in cura. Inoltre, in considerazione del fatto che il processo di valutazione della biosimilarità è condotto, dall’Ema e dalle Autorità regolatorie nazionali, al massimo livello di conoscenze scientifiche e sulla base di tutte le evidenze disponibili, non sono necessarie ulteriori valutazioni comparative effettuate a livello regionale o locale… Lo sviluppo e l’utilizzo dei farmaci biosimilari rappresentano un’opportunità essenziale per l’ottimizzazione dell’efficienza dei sistemi sanitari ed assistenziali, avendo la potenzialità di soddisfare una crescente domanda di salute, in termini sia di efficacia e di personalizzazione delle terapie sia di sicurezza d’impiego. I medicinali biosimilari rappresentano, dunque, uno strumento irrinunciabile per lo sviluppo di un mercato dei biologici competitivo e concorrenziale, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario e delle terapie innovative, mantenendo garanzie di efficacia, sicurezza e qualità per i pazienti e garantendo loro un accesso omogeneo, informato e tempestivo ai farmaci, pur in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica”.
Nel secondo position paper del marzo 2018, quindi, l’Aifa, ritenendo i biosimilari come intercambiabili (n.d.r. a seguito di valutazione del medico curante che conosce le condizioni del proprio paziente e, quindi, non sostituibili in via automatica), ha fugato gran parte dei dubbi che si erano posti in precedenza sulla possibilità di “switch” dal farmaco originator a quello biosimilare e ha, quindi, implicitamente ribadito la sovrapponibilità, in termini di efficacia e di sicurezza, dei farmaci biosimilari presenti sul mercato rispetto all’originator e anche tra di loro.
Dunque, seppure simili i due farmaci non sono automaticamente interscambiabili come l’originator lo è con l’equivalente.
Come chiarito dalla Sezione in un recente arresto (6 dicembre 2021, n. 8158), il riconoscimento delle peculiari “specialità” dei farmaci biologici, cui si correla il principio della non automatica sostituibilità tra gli stessi, neppure tra l’originator (farmaco biologico già autorizzato e immesso sul mercato) e i suoi biosimilari, farmaci biologici similari a quello di riferimento, ha comportato, sul piano normativo, la definizione di un regime differenziato da quello dei farmaci a sintesi chimica.
E, infatti, il legislatore, mentre in via generale prevede la sostituibilità automatica da parte del farmacista, sulla scorta di un criterio di economicità, tra farmaci equivalenti (art. 7, d.l. 18 settembre 2001, n. 347, convertito in l. 16 novembre 2001, n. 405), al contrario per i farmaci biologici stabilisce che “non è consentita la sostituibilità automatica tra farmaco biologico di riferimento e un suo biosimilare né tra biosimilari” (art. 15, comma 11-quater, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 135). | Farmaci |
Edilizia – Sanatoria – Lazio – L. reg. n. 12 del 2004 - Opere realizzate in zone vincolate – Opere sanabili - Individuazione.
Ai sensi della l. reg. Lazio n. 12 del 2004, deve escludersi la sanabilità delle opere realizzate in zone vincolate anche quando il vincolo è posteriore alla realizzazione dell’opera (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’autonomizzazione “spinta” ed “assoluta” del requisito della “non conformità alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” – secondo l’interpretazione accolta dal giudice di primo grado - quale presupposto da accertare con rigore ed in totale autonomia rispetto al contenuto del vincolo, per escludere la sanabilità dell’opera condurrebbe proprio a ritenere sanabili, nonostante la violazione dei vincoli paesaggistico ambientali, interventi abusivi solo perché per essi sussista una conformità urbanistica sostanziale con interpretatio abrogans della disposizione regionale e travisamento della sua ratio che a questo punto sarebbe quella di escludere la sanabilità solo nel caso in cui ci trovi di fronte ad abusi sostanziali.
Ma la disposizione è volta ad escludere la sanabilità delle opere abusive oggetto del terzo condono in via generale nelle zone vincolate con la sola ipotesi che il vincolo sopravvenuto consenta l’accertamento di conformità ed in tali limiti; ma non vi è prova che la natura del vincolo sopravvenuto nella specie dia rilevanza a tali evenienze.
In assenza di questo non sussiste la possibilità di ottenere il condono in forza di un parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo ( non avendo il vincolo tanto consentito e dovendo quindi in conseguenza della sua mera esistenza – in assenza di previsioni legittimanti il recupero di abusi - ritenere l’opera non conforme alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ). | Edilizia |
Farmaci – Regioni – Competenza in materia di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità - Esclusione.
La Regione non può sovrapporre la propria valutazione tecnica ad una valutazione di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità già compiuta dall’AIFA a livello nazionale, in quanto attinente ai livelli essenziali di assistenza; il complesso delle disposizioni legislative dedicate a regolare la materia attribuisce esclusivamente all’AIFA le funzioni relative al rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio dei medicinali, alla loro classificazione, alle relative indicazioni terapeutiche, ai criterî delle pertinenti prestazioni, alla determinazione dei prezzi, al regime di rimborsabilità e al monitoraggio del loro consumo (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 48, comma 2, l. 24 novembre 2003, n. 326 dispone che il farmaco è uno strumento per la tutela della salute, con la conseguenza che la somministrazione del farmaco da parte del servizio sanitario nazionale deve essere inteso come diritto fondamentale dell’individuo e della collettività, nei casi previsti dalla normativa di settore.
L’accessibilità al farmaco a condizioni stabilite dal diritto positivo è, infatti, parametro dell’eguaglianza giuridica e attuazione del principio solidaristico stabilito dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Orbene, al fine di ampliare l'assistenza farmaceutica, da parte del Servizio sanitario nazionale, nella misura più ampia possibile, il cit. art. 48, d.l. n. 269 del 2003 ha attribuito alla Agenzia del farmaco il potere – di natura tecnico-discrezionale - di redigere l'elenco dei farmaci rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale, sulla base dei criteri del costo e dell’efficacia, stabilendo, peraltro, meccanismi di sconto sul prezzo dei farmaci rimborsabili, al fine del contenimento della spesa farmaceutica a “garanzia, nella misura più ampia possibile, del diritto alla salute mediante l'inserimento del maggior numero di farmaci essenziali nell'elenco di quelli rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale” (Corte cost. n. 279 del 2006).
In proposito, il diritto positivo fa dunque emergere un quadro ordinamentale in cui l’inserimento dei farmaci in fascia A risulta unicamente finalizzato a garantire il diritto degli utenti del Servizio sanitario nazionale a fruire di terapie farmacologiche gratuite, quando esse siano “essenziali” o riguardino malattie croniche, contemperandolo con la facoltà dello Stato di adottare misure economiche indirizzate al controllo della spesa farmaceutica”.
Ha quindi chiarito la Sezione che le competenze in materia di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità di un farmaco sono state ripetutamente ed univocamente qualificate come ‘esclusive’, nel senso che le suddette funzioni – legislative ed amministrative – spettano solo all’autorità statale, sia dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 29 maggio 2014, n. 151; 12 gennaio 2011, n. 8). | Farmaci |
Edilizia – Permesso di costruire – Istanza di rilascio – Comproprietario – Comunione legale - Condizione.
Se è vero che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene (pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso), non potendo riconoscersi legittimazione al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento, tuttavia tali principi non sono applicabili per gli immobili che ricadono in comunione legale tra i coniugi (1).
(1) In materia edilizia, se è vero che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene (pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso), non potendo riconoscersi legittimazione al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento, tuttavia tali principi non sono applicabili per gli immobili che ricadono in comunione legale tra i coniugi. Quest’ultima, infatti, non è una comproprietà in cui ciascun compartecipante è titolare di una quota pari ad 1/2 del bene. Si tratta, invece, di un istituto particolare (cosiddetto di tipo “germanico”) senza quote. In sostanza, si può solo dire che tutti i soggetti sono comproprietari dell’intero bene. Pertanto, ciascun coniuge deve ritenersi legittimato a presentare anche uti singuli l’istanza ad aedificandum, avendo la stessa, peraltro, effetti favorevoli anche nei confronti del coniuge rimasto inerte.
La l. 23 dicembre 1996, n. 662 (art. 2, comma 37) ha introdotto, tra le cause di improcedibilità e diniego delle domande di condono edilizio ex l. 23 dicembre 1994, n. 724, il tardivo deposito dell’integrazione documentale oltre novanta giorni dalla espressa richiesta notificata dal Comune (art. 39, comma 4, l. n. 724 del 1994), termine ritenuto perentorio (Cass. pen., sez. III, 29 maggio 2019, n. 30561; id., 25 novembre 2008, n. 3583; id., 11 luglio 2000, n. 10969; Tar Toscana, sez. III, 16 gennaio 2014, n. 75; Tar Sardegna 29 agosto 2003, n. 1043), la cui scadenza produce quindi l’effetto di rendere definitivamente improcedibile la domanda di sanatoria. Inoltre, tale disciplina è applicabile anche alle domande di condono precedentemente presentate ai sensi della l. 28 febbraio 1985, n. 47, per le quali non fosse maturato il silenzio-assenso a causa della carenza di integrazioni documentali necessarie, come previsto dall’art. 49, comma 7, l. 27 dicembre 1997, n. 449 (Tar Napoli, sez. IV, 25 febbraio 2016, n. 1032). Tuttavia, l’improcedibilità della domanda deve essere oggetto di una statuizione espressa del Comune, con la conseguenza che finché questa non sopravviene la documentazione tardivamente prodotta dall’istante è sempre esaminabile e suscettibile di portare a determinazioni diverse; ciò in quanto la norma non è strutturata in modo da configurare una sorta di ipotesi di silenzio-rigetto né una consumazione del potere dell’amministrazione comunale. | Edilizia |
Sport – Daspo – Accertamento di responsabilità in sede giudiziale – Non occorre.
Il Daspo è una misura amministrativa di tipo preventivo adottabile nei confronti di persone che risultano denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva, nei cinque anni precedenti, per alcuni reati espressamente elencati nel comma 1 dell’art. 6, l. n. 401 del 1989; in quanto tale, l’adozione di tale misura prescinde da un necessario avvenuto accertamento di responsabilità in sede giudiziale (1).
(l) Il Daspo c. d. semplice, o amministrativo, disciplinato all’art. 6, comma 1, l. n. 401 del 1989, misura precauzionale che incide sulla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), ma non implica restrizioni della libertà personale; e il Daspo con prescrizioni aggiuntive o accessorie, frutto di una autonoma valutazione del Questore, rispetto al divieto di accedere alle competizioni sportive, di cui all’art. 6, comma 2, l. n. 401 del 1989, misura “giurisdizionalizzata” che non soltanto prevede il divieto di accesso agli stadi ma che soprattutto implica l’obbligo di comparizione personale presso un ufficio o comando di polizia, incidendo così in via diretta sulla libertà personale (art. 13 Cost.) sia pure in misura assai meno afflittiva rispetto, ad esempio, a un’ordinanza di custodia cautelare, dato che comporta una restrizione della libertà di movimento durante una fascia oraria determinata, e in relazione al quale ultimo decreto ex art. 6 comma 2 vi è obbligo di convalida da parte del Gip con ordinanza ricorribile in Cassazione (conf. Corte cost., nn. 143 e 193 del 1996, p. 3. del Diritto, là dove si evidenzia che la norma primaria di cui all’art. 6 cit. dispone nel senso dell'adottabilità di due tipi di provvedimenti, vale a dire il divieto di accesso ai luoghi di svolgimento di manifestazioni sportive, e la prescrizione di comparire presso l'ufficio o il comando di polizia nel tempo di svolgimento della competizione sportiva, aventi portata ed effetti differenti, con riconduzione della misura di cui all’art. 6 comma 2 nell’alveo dell’art. 13 Cost. e conseguente riserva di giurisdizione; e le sentenze nn. 144 del 1997 e 512 del 2002- pp. 3 del Fatto e 3 del Diritto , sulla diversa incidenza delle misure di cui al comma 1 e al comma 2 sui valori costituzionalmente tutelati, con una conseguente, ragionevole differenziazione anche nella disciplina dei rimedi esperibili e delle garanzie in punto di tutela giurisdizionale; v. poi, sul tema, “ex multis”, Cass. pen. nn. 44273/04, 20780/10, 26641/13 e 24819/16).
In questa specifica materia si è cioè venuto a creare un sistema articolato “a doppio binario” di misure amministrativo – precauzionali di polizia, da un lato, ex art. 6, comma 1, e di misure preventive, come detto, giurisdizionalizzate, comportanti l’imposizione della presenza negli uffici di polizia, incidenti sulla libertà personale del destinatario e circondate da particolari garanzie, che si completano nel ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di convalida del Gip, come disposto dall’art. 6, comma 4. | Sport |
Elezioni – Lista - Alterità tra i sottoscrittori della lista elettorale ed i candidati della stessa – Necessità – Esclusione.
Per le elezioni comunali non può dirsi immanente nell’ordinamento il principio di necessaria alterità tra i sottoscrittori della lista elettorale ed i candidati della stessa, prevedendo sia l’art. 28 del d.P.R. n. 570 del 1960 (in parte abrogato), sia l’art. 3, l. n. 81 del 1993 (che lo ha sostituito), quale qualità soggettiva che deve essere posseduta dal sottoscrittore quella di “elettore”, senza ulteriori specificazioni (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la sentenza appellata ha giudicato sussistente nell’ordinamento giuridico un principio generale di necessaria alterità tra i sottoscrittori della lista ed i candidati della stessa, con conseguente divieto per i candidati di farsi essi stessi sottoscrittori della lista: orientamento affermato in applicazione di un precedente di questo Consiglio di Stato (Sez. V, 6 ottobre 2014, n. 4993).
Sulla scorta di un canone interpretativo di tipo testuale -certo rilevante in una materia come quella elettorale, in cui le limitazioni dell’elettorato passivo devono intendersi giocoforza in senso tassativo – le disposizioni statali che regolano le elezioni dei Consigli comunali non enunciano il principio di alterità tra i sottoscrittori della lista elettorale ed i candidati della stessa.
Anche alla stregua del criterio teleologico, attento alla ratio della disciplina da interpretare, il principio di necessaria diversità soggettiva tra sottoscrittori della lista e candidati della medesima non può essere ricostruito in via interpretativa valorizzando l’esigenza (certo sottesa alla disciplina che regola il segmento preparatorio del procedimento elettorale) di assicurare un’adeguata rappresentatività delle liste di candidati e sostenendo che la stessa finirebbe per essere neutralizzata se a sottoscrivere le liste fossero ammessi, sempre se elettori, gli stessi candidati inclusi nelle liste stesse.
I candidati, qualora siano anche elettori del Comune nel quale si svolge la competizione elettorale, ben possono concorrere, con la sottoscrizione della dichiarazione di presentazione della lista, a costituire quella base minima di rappresentatività che la disciplina di settore sostanzialmente pretende nel prescrivere un numero minimo di sottoscrizioni ad opera di “elettori”.
L’interpretazione volta a precludere la sottoscrizione al candidato, anche quando “elettore”, reca con sé il rischio di effetti paralizzanti o comunque di forte limitazione in casi di Comuni di piccole dimensioni con un corpo elettorale molto ristretto (di poco superiore a 1000), ove potrebbero manifestarsi conseguenti difficoltà (soprattutto per i nuovi attori politici) nel provvedere alla raccolta delle firme. | Elezioni |
Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Associazioni rappresentative di utenti o consumatori - Tutela degli interessi legittimi collettivi – Espressa previsione di legge – Non necessita.
Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso (1).
Tali norme di settore, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303, più volte citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente, escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento.
L’art. 32-bis, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che “Le associazioni dei consumatori inserite nell'elenco di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”.
Dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140” deriverebbe – secondo la ricostruzione giurisprudenziale citata - che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a: a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate” (così l’art. 140 cit.)
Dunque mancherebbe, nell’attuale ordinamento, nella materia de qua, una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento.
Ritiene questa Adunanza plenaria che nemmeno questo argomento, specificatamente riferito alla tutela consumeristica, sia in grado di incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione giurisprudenziale assolutamente prevalente, e in effetti consolidata.
Le disposizioni citate, a ben vedere, riguardano il diritto civile e il relativo processo. La circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come, nello specifico, quello amministrativo. Piuttosto essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante. Temi, questi ultimi, connotati da una dimensione eccedente la sfera giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art. 2 codice dei consumatori).
Questo processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte” suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolemente sui diritti collettivi fondamentali dei consumatori.
Interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, è chiaro che tale processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche esperibili da parte di un soggetto – quello a base associativa e con funzioni rappresentative, come anche il Codancos incluso nell’elenco citato – che non sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto “forte” e i singoli consumatori.
Non è così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla base dell’ordinamento positivo.
La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel diritto civile invece subordinati al principio consensualistico - ma vale anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità.
8. In conclusione, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli artt. 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla l. 12 aprile 2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa.
Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo oppure che sia munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità.
La legittimazione, in altri termini, si ricava o dal riconoscimento del legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità.
Alla luce di quanto sino ad ora argomentato può pertanto formularsi il seguente principio di diritto, in relazione al quesito prospettato:
“Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”.
| Processo amministrativo |
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo per gli alunni durante le lezioni – Alunno che abbia certificato problemi di difetto di ossigenazione durante l’orario di lezione – Va sospeso.
Deve essere sospeso l’obbligo di indossare la mascherina da parte di un alunno che abbia certificato problemi di difetto di ossigenazione per l’uso prolungato del dispositivo di protezione individuale durante tutto l’orario di lezione, essendo il pericolo di affaticamento respiratorio – in mancanza di una costante verificabilità con saturimetro – troppo grave e immediato (1).
(1) Nel decreto è stato chiarito che nella classe frequentata dalla minore non risulta essere disponibile neppure un apparecchio di controllo della ossigenazione – saturimetro, strumento di costo minimo e semplicissima utilizzabilità in casi come quello prospettato, ad opera di ogni insegnante, per intervenire ai primissimi segnali di difficoltà di respirazione con DPI da parte dell’alunno. | Covid-19 |
Beni culturali – Sito Unesco – Realizzazione fast food – Autorizzazione – Sospensione cautelare - Legittimità.
È legittimo il decreto con cui la competente Direzione Generale del Ministero dei Bei Culturali dispone la sospensione cautelare dei lavori eseguiti senza la previa autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 Codice BBCC, annullando il parere favorevole reso dal Soprintendente ai sensi della normativa urbanistica sui siti UNESCO per la realizzazione, nelle adiacenze del complesso monumentale delle Terme di Caracalla, di un ristorante ad alta affluenza, tipologia fast food con prelievo “drive thru”, cioè mediante passaggio in macchina (1).
(1) Ha ricordato il Tar che la Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale”, firmata a Parigi il 10 novembre 1972 e ratificata con l. 6 aprile 1977, n. 184, obbliga lo Stato in cui è localizzato il sito dichiarato “Patrimonio dell’Umanità” ad assicurarne la salvaguardia.
I siti dichiarati Patrimonio Mondiale dell’UNESCO in quanto riconosciuti di “eccezionale valore universale” sotto il profilo dell’interesse culturale o paesistico devono beneficiare di un grado di tutela almeno corrispondente a quella assicurata ai beni paesaggistici vincolati dalle Autorità Nazionali in quanto riconosciuti di interesse paesaggistico “notevole””, ai sensi dell’art. 136, d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice Beni Culturali e Paesaggio), oppure dichiarati di interesse culturale “particolarmente” importante ai sensi dell’art. 13 del medesimo Codice: il principio di proporzionalità e ragionevolezza impone di assicurare un grado di tutela corrispondente al grado di valore del bene tutelato; è paradossale non tutelare proprio i beni di maggior valore (Patrimonio dell’Umanità).
I lavori edilizi nei siti dichiarati Patrimonio Mondiale dell’UNESCO devono essere preceduti dalla valutazione della loro compatibilità paesaggistica nel procedimento di autorizzazione previsto dall’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice Beni Culturali e Paesaggio).
L’art. 135 del Codice prevede che sia assicurata un’adeguata tutela ai siti Unesco e non può essere derogato dalle Regione, in sede di pianificazione paesistica, privando di tutela detti siti o “rinviando” ad emanandi strumenti, quali il Piano di “gestione e valorizzazione” dei siti UNESCO disciplinato dalla legge n. 77 del 2006 (che ha oggetto e finalità diverse rispetto a quelle del PTPR), vanificando altresì il vincolo di tutela apposto dal PTP n. 15/12 Valle della Caffarella, Appia antica e Acquedotti (approvato con delibera del Consiglio Regionale n. 70 del 10 ottobre 2010).
La struttura organizzativa del Ministero dei Beni Culturali è articolata mediante Soprintendenze Periferiche e prevede un ruolo particolare del Direttore Generale, secondo un modello organizzativo disciplinato da normativa speciale dal Regolamento di organizzazione adottato con d.P.C.M. 29 agosto 2014 n. 171, emanato ai sensi dell'art. 16, comma 4, d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla l. 23 giugno 2014, n. 89, applicabile ratione temporis alla controversia in esame. Pertanto legittimamente il Direttore generale esercita il potere di annullamento di un parere paesaggistico reso dal Soprintendente in contrasto con le procedure prescritte dell’art. 146 del Codice.
| Beni culturali |
Sicurezza pubblica - Ammonimento - Natura.
L’ammonimento è uno strumento preventivo funzionale alle esigenze di tutela primaria di una parte debole; si tratta. di misura deputata a svolgere una funzione avanzata di prevenzione e di dissuasione dei comportamenti sanzionati dall’art. 612-bis c.p., fondata su una logica dimostrativa a base indiziaria e di tipo probabilistico che informa l’intero diritto amministrativo della prevenzione (1).
(1) Cons. Stato, sez. III, n. 1085 del 2019.
Ad avviso della Sezione nella fattispecie sottoposta al suo esame, anche in considerazione della consistenza e tipologia dei fatti segnalati, la finalità preventiva poteva essere perseguita, senza nulla cedere sul piano della sua efficacia, in forme e modalità compatibili con l’attuazione piena delle garanzie di partecipazione e di difesa della parte sospettata di essere autrice delle condotte moleste.
le condotte persecutorie in una prima fase denunciate sarebbero consistite, essenzialmente, nell’invio (tramite social network) di flussi costanti di messaggi e nell’instaurazione da parte del destinatario dell’ammonimento di contatti diretti con terze persone alle quali sarebbero stati riferiti fatti ed episodi riguardanti la sfera privata della donna.
Nella seconda denuncia sono state denunciate ulteriori condotte moleste consistite, sempre nella versione della denunciante, in un appostamento in scooter e nella ricezione di “richieste di amicizia” inoltrate, sempre tramite piattaforme “social”, da contatti “sospetti”.
Su quest’ultima serie di episodi l’appellato ha avuto modo di fornire le proprie controdeduzioni solo in sede giudiziale.
La Sezione ha rimarcato altresì il difetto della fase partecipativa.
Difetta di coerenza un incedere procedimentale che consente l’interlocuzione con la parte sino ad un certo punto e solo su una quota dei dati istruttori, assumendo questo apporto come rilevante ed anzi decisivo nella lettura dell’assetto probatorio sino a quel momento determinatosi; e che, in un secondo momento e senza motivata ragione - pur nel contesto di un quadro istruttorio innovato da elementi inediti, ma di contenuto omogeneo ai precedenti e, quindi, al pari dei primi meritevoli di valutazione e riscontro - ritenga quel medesimo contributo trascurabile e non più reiterabile.
Non convince appieno neppure l’ulteriore assunto di principio per cui – stante l’unitarietà del procedimento – la parte, avendo beneficiato delle garanzie partecipative offertele dall’originaria comunicazione di avvio del procedimento e dalla possibilità di presentare in allora le proprie controdeduzioni, potendo di ciò dirsi definitivamente appagata, null’altro avrebbe potuto pretendere nel corso del successivo sviluppo procedimentale.
L’argomento fonda su una considerazione formalistica e schematica degli obblighi partecipativi, oramai superata da un indirizzo interpretativo di tipo “funzionalistico e pragmatico” che, nel giudicare del rispetto delle facoltà riconosciute alle parti e a queste garantite o negate nella singola vicenda procedimentale, si ispira ad un criterio di “concretezza” e, quindi, guarda alla dinamica e alla ricaduta “effettiva” (in termini di esplicazione o di limitazione reale del diritto al contraddittorio) che la modalità applicativa della norma ha offerto al soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione.
Se, dunque, è il coefficiente di realizzazione “effettiva” delle garanzie partecipative il parametro chiave al quale rapportare, in questa materia, il giudizio di legittimità, non ci si può esimere dal considerare l’andamento concreto con il quale il contraddittorio è venuto a svolgersi nel singolo caso: ed in questa valutazione assume rilievo anche lo specifico profilo, qui rilevante, della corrispondenza dei dati ostesi alle parti, sottoposti al loro contributo e poi posti a base della decisione conclusiva. | Sicurezza pubblica |
Concessione amministrativa – Aree pubbliche – Regolamento comunale – Disciplina del pagamento per occupazione suolo pubblico – Motivazione – Non occorre.
Il Regolamento comunale che dispone che le concessioni per l’occupazione di spazi e aree pubbliche sono assoggettate al pagamento di un canone (la C.O.S.A.P.) e non più al pagamento di tassa (T.O.S.A.P.) e indica le modalità di calcolo del canone non deve essere motivato (1).
(1) La Sezione ha principiato sul rapporto tra normativa primaria e regolamento, indispensabili per definire la questione dell’obbligo di motivazione dei regolamenti.
La norma primaria che autorizza l’adozione di regolamenti di attuazione e integrazione del suo contenuto fissa modalità e criteri cui l’autorità amministrativa dovrà attenersi nell’elaborazione della disciplina della fattispecie; dalla larghezza di tali criteri dipende l’ampiezza del potere di scelta rimesso alla normazione secondaria, in ogni caso, però, sulla strada segnata dalla norma primaria le disposizioni regolamentari sono espressione di una scelta connotata da significativi spazi di discrezionalità.
Si spiega, allora, l’esclusione della motivazione per i regolamenti al pari de “gli atti normativi” di cui all’art. 3, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241; i regolamenti partecipano della stessa natura della legge (sono fonti del diritto) e come al legislatore – cui, peraltro, è riconosciuta libertà nel fine – non si domanda spiegazione delle scelte di cui v’è traduzione nelle specifiche disposizioni, poiché esse avvengono a livello politico, allo stesso modo l’ente locale che adotta il regolamento non è tenuto ad un onere motivazionale nell’esercizio della sua discrezionalità in quanto anch’essa collocata ad un livello politico, i regolamenti essendo in effetti deliberati da organi di rappresentanza che esprimono l’indirizzo politico – amministrativo dell’ente.
Si aggiunge, poi, che non necessita di puntuale motivazione quell’atto che, contenendo prescrizioni a carattere generale, non decide in concreto dell'assetto degli interessi, ma solo identifica regole suscettibili di successive applicazioni (cfr. Cons. St., sez. V, 17 novembre 2016, n. 4794).
Le ragioni delle disposizioni regolamentari vanno, dunque, ricavate dal dibattito che ha preceduto l’adozione del regolamento (gli atti interni dell’organo deliberativo) e dagli atti istruttori precedenti la deliberazione e l’onere di motivazione risulta comunque soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte, senza necessità di una puntuale motivazione.
Ciò non significa, peraltro, che la discrezionalità che si invera nelle disposizioni regolamentari – come accade per la legge – sia sottratta ad ogni forma di controllo, ma solo che il controllo è rivolto agli effetti dell’atto, ossia a verificare se le prescrizioni in esso contenute non diano luogo ad effetti discriminatori, irragionevoli o non proporzionati per i suoi destinatari.
Passando al caso all’esame della Sezione, l’Amministrazione non è, dunque, tenuta a dar puntualmente conto del percorso logico – argomentativo attraverso il quale ha trasfuso i criteri di cui all’art. 63, comma 2, d.lgs. n. 446 del 1997 nella disposizione regolamentare sulla tariffa base per le occupazioni permanenti di suolo pubblico; la discrezionalità si è tradotta in una cifra (di € 0,68 per l’occupazione del sottosuolo di strade di categoria A e di € 0,45 per quelle di categoria B: categorie determinate sulla base della suddivisione del territorio provinciale con conseguente elenco delle strade appartenenti all’una e all’altra categoria allegato al Regolamento come richiesto dalla lett. b) del comma 2 dell’art. 63 d.lgs. n. 446) che costituisce sintesi numerica, oltre che del criterio “dell’entità dell’occupazione, espressa in metri quadrati o lineari”, anche “del valore economico della disponibilità dell’area” e “del sacrificio imposto alla collettività”. | Concessione amministrativa |
Processo amministrativo – Intervento – Per la prima volta in appello - Condizione e limiti.
Edilizia – Permesso di costruire – Pluralità di manufatti non parcellizzabili – Parti per le quali non occorre permesso di costruire – Non rileva – Visione unitaria – Necessità.
Al fine di valutare la legittimazione di un dato soggetto a proporre intervento per la prima volta nel giudizio di appello, occorre avere riguardo alla posizione che quel soggetto avrebbe assunto se avesse proposto l’intervento stesso in primo grado; pertanto, rispetto all’appello proposto dall’Amministrazione o dal controinteressato, l’intervento in appello incontra gli stessi limiti di un intervento ad adiuvandum del ricorrente proposto nel primo grado di giudizio, presupponendo la titolarità di una posizione giuridica dipendente e accessoria rispetto a quella dedotta dal ricorrente, e non di una posizione autonoma: in quest’ultimo caso infatti l’interessato avrebbe dovuto impugnare il provvedimento ritenuto lesivo con un ricorso autonomo, e se non lo ha proposto nel relativo termine di decadenza, non ne può eludere l’inosservanza con un intervento ad opponendum stesso proposto in un momento successivo (1).
Ai fini della definizione del regime di un intervento urbanistico edilizio, seppure questo consista nella realizzazione di una pluralità di manufatti (come nel caso di una stazione di servizio), esso non è parcellizzabile, nel senso che va apprezzato guardandolo nel suo complesso, e non considerando separatamente le singole parti che lo compongono, come se si trattasse della giustapposizione di una serie. di elementi isolatamente considerabili (2).
(1) Ha ricordato la sezione che per valutare la legittimazione di un dato soggetto a proporre intervento per la prima volta nel giudizio di appello occorre avere riguardo alla posizione che quel soggetto avrebbe assunto se avesse proposto l’intervento stesso in primo grado. Di conseguenza, rispetto all’appello proposto dall’Amministrazione, ovvero come in questo caso dal controinteressato, l’intervento in appello incontra gli stessi limiti di un intervento ad adiuvandum del ricorrente proposto nel primo grado di giudizio.
Un intervento in primo grado di questo tipo presuppone poi, come è noto, la titolarità di una posizione giuridica dipendente e accessoria rispetto a quella dedotta dal ricorrente, e non una posizione autonoma. L’interveniente ad adiuvandum titolare di posizione autonoma avrebbe infatti dovuto impugnare il provvedimento ritenuto lesivo con un ricorso autonomo, e se non lo ha proposto nel relativo termine di decadenza, non ne può eludere l’inosservanza con l’intervento stesso proposto in un momento successivo.
Lo stesso principio vale per l’intervento ad opponendum nel secondo grado di giudizio rispetto all’appello dell’Amministrazione o del controinteressato, intervento che corrisponde appunto al non consentito intervento ad adiuvandum in primo grado per il soggetto titolare di posizione autonoma: nei termini, per tutte, Cons.St., sez. III, 9 febbraio 2021, n. 1230, e 14 dicembre 2016, n. 5268.
(2) Ha chiarito la Sezione che nel caso di specie ci si trova di fronte ad una stazione di servizio, intesa come unico impianto, e non, in ipotesi, alla semplice giustapposizione di un box, delle pensiline, delle pompe e delle altre attrezzature che la compongono. Rispetto quindi all’unico manufatto “stazione di servizio” si tratta di un’opera di urbanizzazione secondaria che integra una nuova costruzione e come tale va assentita con permesso di costruire, dato che essa, con tutta evidenza, incrementa il carico urbanistico sull’area. | Edilizia |
Autorità amministrative indipendenti – Ivass – Poteri – Prodotti assicurativi - Divieto di commercializzazione – Presupposti – Specifica violazione – Necessità.
Nel bilanciamento dei contrapposti interessi e dei relativi principi anche di origine costituzionale, la giustificazione del potere di divieto di commercializzazione affidato ad Ivass dagli artt. 183 e 184, d.lgs. n. 209 del 2005 (c.d. codice delle assicurazioni private), deve trovare fondamento nell’accertamento di una specifica violazione da correggere, come reso evidente dalla stessa formulazione della norma applicata sub art. 184, comma 2 cit., anche a fini di tutela dell’affidamento non solo dei privati incisi ma degli stessi utenti finali che l’attività dell’Istituto intende compiutamente tutelare (1).
(1) Ha premesso la Sezione che l’Ivass svolge compiti esclusivi di regolazione e vigilanza sul settore assicurativo, che lo hanno svincolato da ogni forma originaria, e sia pure attenuata, di assoggettamento a poteri governativi o ministeriali di indirizzo, controllo o vigilanza. L'ampiezza e l'esclusività dei poteri di regolazione e vigilanza del settore assicurativo, i connessi poteri regolamentari, i rapporti di collaborazione e scambio informativo con altre autorità indipendenti (Banca d'Italia, Commissione nazionale per le società e la borsa, Commissione di vigilanza sui fondi pensione) e la finalizzazione delle varie attribuzioni alla più complessiva funzione di garanzia della trasparenza e della concorrenzialità del mercato assicurativo, ne connotano la natura giuridica quale autorità amministrativa indipendente, presentando l'Istituto i tratti distintivi essenziali degli enti di tale tipo, costituiti dalla separazione e autonomia dal governo e, in generale, dal potere esecutivo nelle sue articolazioni ministeriali, in ragione della preposizione alla cura e tutela di diritti ed interessi costituzionalmente rilevanti, in settori ordinamentali di primaria importanza.
Orbene, proprio la rilevanza (in termini applicativi di precetti costituzionali fondamentali), l’autonomia e l’incisività dei compiti impongono che le relative statuizioni siano adeguate, conformi alle norme di riferimento, come nel caso di specie in cui la norma impone delle violazioni accertate. Pur nei limiti di sindacato tipici del presente giudizio amministrativo, occorre che il potere esercitato, nel caso di specie la singola prescrizione, risulti compresa dei presupposti dettati dalla norma, nonché accompagnata da attività istruttoria e da valutazione motivazionale, tipica di ogni attività provvedimentale incisiva su attività economiche (Cons. St., sez. VI, 10 maggio 2013, n. 2568).
Ha aggiunto la Sezione che nel bilanciamento dei contrapposti interessi e dei relativi principi anche di origine costituzionale, la giustificazione dello stesso potere affidato dagli artt. 183 s., d.lgs. n. 209 del 2005 nonché delle conseguenze limitative dell’esercizio di iniziativa economica, deve trovare fondamento nell’accertamento di una specifica violazione da correggere (come reso evidente dalla stessa formulazione della norma applicata sub art. 184, comma 2) anche a fini di tutela dell’affidamento non solo dei privati incisi ma, nel caso in esame, degli stessi utenti finali che l’attività dell’Istituto intende compiutamente tutelare.
Va poi ricordato il compito fondamentale di vigilare dell’Ivass sulla correttezza dei comportamenti delle imprese nei confronti del consumatore e sulla trasparenza dei prodotti assicurativi, stabilendo regole di comportamento che le imprese e gli intermediari sono tenuti a osservare nell’offerta e nell’esecuzione dei contratti e ne verifica il puntuale adempimento.
Orbene, proprio tali compiti impongono una adeguata chiarezza delle prescrizioni e del relativo fondamento, pena l’impossibilità di puntuale adempimento, come dimostrato nel caso di specie dove alla carenza di specificazione si è accompagnato un dialogo procedimentale fonte di incertezze per tutti i soggetti potenzialmente coinvolti.
| Autorità amministrative indipendenti |
Silenzio della P.A. – Obbligo di provvedere - Istanze che impattano sulla posizione giuridica del terzo – Sussiste.
L’interpretazione costituzionalmente orientata, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dell’obbligo di provvedere sull’istanza dell’interessato “negli altri casi previsti dalla legge”, sancito dall’art. 31, comma 1, c.p.a., porta ad affermare la sussistenza del dovere di provvedere in relazione alla posizione giuridica del terzo, titolare di un interesse legittimo oppositivo, i cui interessi materiali, oggetto di un rapporto negoziale posto a valle, siano pregiudicati, in via diretta o indiretta, da rapporto di diritto pubblico posto a monte (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che da tempo la giurisprudenza ha interpretato in senso sostanziale la previsione dell’obbligo di provvedere posto a carico dall’amministrazione stabilendo che “sussistete l’obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle fattispecie particolari” dove “ragioni di giustizia e di equità” impongano l'adozione di un provvedimento e quindi “tutte le volte in cui” in virtù del dovere di correttezza e di buona amministrazione “sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487; id., sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2468).
Difatti, va evidenziato che, ove si limitasse l’obbligo di provvedere alle sole ipotesi in cui sia il diretto destinatario a lamentarsi della mancata conclusione del procedimento, molte posizioni giuridiche sostanziali verrebbero private di tutela o comunque le istanze ad esse collegate rimarrebbero prive di una adeguata risposta proveniente dai soggetti destinatori delle stesse.
Quest’ultima evenienza si verifica in relazione a tutte quelle posizioni giuridiche di cui sono titolari soggetti, terzi rispetto ad un determinato rapporto di diritto pubblico, i cui interessi materiali sono comunque coinvolti, in via diretta o indiretta, in quel rapporto e che pertanto subiscono pregiudizio, nella propria sfera giuridica, dalla mancata conclusione di un procedimento oppure dalla mancata adozione di un provvedimento inerente al rapporto di diritto pubblico posto a monte collegato al rapporto a valle di cui sono titolari.
In queste ipotesi, ove non si dovesse ravvisare a carico dell’amministrazione l’obbligo di provvedere su istanze che impattano sulla posizione giuridica del terzo, gli interessi materiali di questi, sottesi alla predetta posizione, non riceverebbero adeguata protezione dall’ordinamento e ciò si risolverebbe nella violazione dei principi costituzionali di tutela del diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost.) nei confronti dell’attività dell’amministrazione (art. 113 Cost.).
Secondo un consolidato canone di interpretazione giuridica, tra le interpretazioni possibili di una disposizione occorre privilegiare quella che sia compatibile con le disposizioni costituzionali e ciò a maggior ragioni laddove viene in rilievo non solo la tutela di posizioni giuridiche sostanziali (artt. 24 e 113 Cost.), ma altresì il perseguimento del buon andamento e dell’imparzialità amministrativa dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.). | Silenzio della P.A. |
Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione sanante - Domande di restituzione e di risarcimento del danno - Presentazione - Conseguenza.
Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione sanante - Domande di risarcimento del danno - Effetto traslativo della proprietà - Esclusione. Errore scusabile - Riconoscibilità.
L’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001, determina l'improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno; tale provvedimento, infatti, costituisce l’unico rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente, alternativo alla restituzione del bene previa rimessione in pristino (1).
La richiesta del solo risarcimento del danno per occupazione sine titulo non può produrre alcun effetto traslativo della proprietà in capo alla p.a. procedente; il mutamento del quadro normativo e giurisprudenziale impone tuttavia di individuare i possibili strumenti per non privare la parte del suo diritto di difesa, “riqualificando” la domanda a suo tempo proposta in maniera coerente con l’assetto preesistente: in tale ottica è dunque possibile rimetterla in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a. o invitarla alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa (2).
(1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema degli effetti della sopravvenienza del decreto di acquisizione sanante ex art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001 sui contenziosi in corso, alla luce dei principi affermati in merito dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20 gennaio 2020, nn. 2, 3 e 4.
Esso costituisce il rimedio formale necessario per far cessare l’illecito permanente dell’occupazione sine titulo, alternativo solo alla restituzione del bene, previa rimessa in pristino, quale scelta da privilegiare previa valutazione della fattibilità e comparazione motivata degli interessi in gioco. La sua adozione fa sì che tutte le aspettative di tutela del privato, risarcitorie e restitutorie, si canalizzino nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di acquisizione sanante intervenuto nel corso del giudizio che, conseguentemente, deve concludersi con una declaratoria di improcedibilità del ricorso (cfr. Cons. St., sez. IV, 12 settembre 2018, n. 3848; id., sez. V, 22 maggio 2012, n. 2975; id. 13 ottobre 2010, n. 7472 e 5 maggio 2009, n. 2801).
(2) La proposizione in primo grado di una sola istanza risarcitoria non può implicare la rinuncia traslativa alla proprietà del bene oggetto di occupazione sine titulo, trattandosi di istituto che non trova spazio nel procedimento espropriativo. Al fine, tuttavia, di non privare le parti di garanzie di difesa, è necessario che il giudice si adoperi per individuare i possibili rimedi offerti dall’ordinamento processuale per adeguare la domanda, un tempo coerente con il quadro dottrinario e giurisprudenziale, al mutato contesto. A tale scopo, ove non sia possibile riqualificare la domanda, come suggerito dall’Adunanza Plenaria il giudice potrà rimettere le parti in termini per errore scusabile ex art. 37 c.p.a., ovvero comunque sottoporre la questione processuale sopravvenuta, ove rilevata d’ufficio, al vaglio delle parti ex art. 73 c.p.a.
Ove, tuttavia, il decreto di acquisizione sia sopravvenuto in ottemperanza ad una decisione di primo grado o a una pronuncia cautelare, ridetta riqualificazione d’ufficio o riformulazione della domanda non si rende più necessaria, dovendosi prendere atto dell’avvenuta adozione del provvedimento e della conseguente cessazione dello stato di illiceità che aveva fondato la domanda risarcitoria originaria. Ne consegue che, ferma restando l’estraneità alla giurisdizione del giudice amministrativo di eventuali residue controversie sul quantum di indennizzo e/o risarcimento previsto in tale provvedimento, diviene improcedibile il giudizio di appello, non potendo più considerarsi tale quello di primo grado. | Espropriazione per pubblica utilità |
Straniero – Emersione lavoro irregolare – Settore dell’agricoltura – Molteplicità delle domande e reddito del datore di lavoro incapiente - Criterio cronologico.
In tema di procedura per l’emersione del lavoro irregolare nel settore dell’agricoltura, ex art. 103, d.l. n. 34 del 2020, convertito in l. n. 77 del 2020, l’art. 9, d.m. 27 maggio 2020, da un lato, è chiaro nel fissare (in ogni caso) la soglia minima di 30.000,00 euro di fatturato riferendola al bilancio di esercizio dell’anno precedente a quello della presentazione dell’istanza (è pertanto inconferente il richiamo ad un successivo bilancio di esercizio), ma, dall’altro lato, non prevede che detta soglia minima debba essere automaticamente moltiplicata per il numero dei lavoratori da regolarizzare (affidando all’Ispettorato territoriale del lavoro, il giudizio sulla “congruità della capacità economica del datore di lavoro in rapporto al numero delle richieste presentate”); qualora il reddito del datore di lavoro non consenta la “capienza” di tutte le istanze presentate, è infine razionale il criterio fissato dal predetto decreto, secondo cui si segue l’ordine cronologico di presentazione delle istanze stesse (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità secondo ragionevolezza, ha posto come limite al prospettato “pericolo” che il reddito del datore di lavoro non consenta la “capienza” di tutte le istanze presentate, proprio quello dell’ordine di presentazione delle stesse. Tale elemento fattuale, oltre a costituire un criterio oggettivo, è comunque dipendente dalle scelte dell’imprenditore che intende regolarizzare lo straniero, rispondendo preliminarmente ad un interesse dello stesso datore di lavoro (che intende evitare sanzioni per il lavoro irregolare) e poi a quello generale ad una corretta alimentazione del gettito delle finanze pubbliche ed al fisiologico dispiegarsi dei rapporti di lavoro subordinato, secondo i principi costituzionali di tutela della dignità del lavoratore e contrasto allo sfruttamento. | Straniero |
Giurisdizione - giudice amministrativo - Obbligo vaccinazione Covid-19 -Sospensione del sanitario che rifiuta di sottoporsi al vaccino
Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di annullamento del provvedimento con cui il Consiglio dell’Ordine dispone, ai sensi dell’art. 4 d.l. n. 44/2021, la sospensione dal lavoro dell’esercente la professione sanitaria che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione per la patologia Covid -19. È infatti irrilevante la circostanza che le norme legislative in questione prevedano poteri vincolati in capo all’Amministrazione, atteso che, anche a fronte di un potere vincolato, la posizione soggettiva del Cittadino è di interesse legittimo ogni volta che – come accade nel caso di specie - alla pubblica amministrazione sia attribuito un potere autoritativo per tutelare gli interessi pubblici. | Giurisdizione |
Animali – Orsi – Orso M56 - Cattura per la captivazione – Parere Ispra – Omissione – Illegittimità - Fattispecie.
E’ illegittimo il provvedimento di cattura per la captivazione dell’orso denominato M57, adottato senza la previa acquisizione del parere Ispra, che avrebbe consentito una valutazione in merito al regime più adeguato, e maggiormente conforme ai parametri normativi, in relazione alle esigenze di tutela sia dell’animale che della collettività (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la mancanza della previa acquisizione del parere Ispra non è giustificata dalla natura extra ordinem del potere esercitato.
Ed invero, in disparte il possibile rischio di abuso degli strumenti del c.d. diritto amministrativo dell’emergenza, e di conseguente frizione con il principio di legalità, tutte le volte in cui sussista una disciplina normativa dei corrispondenti poteri tipici, ciò che appare dirimente è che la stessa parte appellata riconosce che al più la straordinarietà può predicarsi per provvedimenti ad effetto transitorio, laddove la captivazione permanente è una misura – nel caso di specie, disposta in deroga ai necessari adempimenti procedimentali – logicamente incompatibile con un orizzonte temporalmente limitato.
In argomento giova ricordare che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 127 del 1995, nel sottolineare come il potere straordinario, in quanto potere amministrativo, debba soggiacere ai limiti propri di questo (fra i quali il principio di proporzionalità), ha posto una relazione fra proporzionalità e tipicità, nel senso che l’assenza di tipicità deve essere compensata e bilanciata dal rapporto di proporzionalità esistente fra intensità dell’esigenza emergenziale e contenuto dispositivo della misura provvedimentale.
Una simile scelta, certamente non ancorata ai presupposti della decisione contingibile ed urgente, ma anzi proiettata in una prospettiva diacronica, implicava dunque la richiesta preventiva del necessario parere dell’ISPRA: proprio allo scopo di consentire una valutazione in merito al regime più adeguato, e maggiormente conforme ai parametri normativi, in relazione alle esigenze di tutela sia dell’animale che della collettività, avuto riguardo a quanto realmente accaduto, nonché alle condizioni di permanenza dell’animale presso il centro Casteller.
Avendo il provvedimento impugnato un contenuto plurimo, la tesi della adozione in deroga può, al più, essere sostenuta, per la fase della cattura: ma non anche per la successiva scelta dell’azione più idonea.
La circostanza che la provincia non abbia trasmesso all’ISPRA alcuna richiesta di valutazione tecnica conferma, anche sotto questo profilo, il deficit istruttorio che affligge il provvedimento impugnato in primo grado. | Animali |
Procedimento amministrativo – Algoritmo – Ammissibilità – Elementi di garanzia – Individuazione.
Il ricorso all’algoritmo nel procedimento amministrativo, pienamente ammissibile, va correttamente inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere. Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse (1).
Premessa la generale ammissibilità dell’algoritmo nell’esercizio dell’attività amministrativa, assumono rilievo fondamentale, anche alla luce della disciplina di origine sovranazionale, due aspetti preminenti, quali elementi di minima garanzia per ogni ipotesi di utilizzo di algoritmi in sede decisoria pubblica: a) la piena conoscibilità a monte del modulo utilizzato e dei criteri applicati; b) l’imputabilità della decisione all’organo titolare del potere, il quale deve poter svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della scelta e degli esiti affidati all’algoritmo (2).
(1) Ha premesso la Sezione che anche la pubblica amministrazione debba poter sfruttare le rilevanti potenzialità della c.d. rivoluzione digitale.
In tale contesto, il ricorso ad algoritmi informatici per l’assunzione di decisioni che riguardano la sfera pubblica e privata si fonda sui paventati guadagni in termini di efficienza e neutralità.
In molti campi gli algoritmi promettono di diventare lo strumento attraverso il quale correggere le storture e le imperfezioni che caratterizzano tipicamente i processi cognitivi e le scelte compiute dagli esseri umani, messi in luce soprattutto negli ultimi anni da un’imponente letteratura di economia comportamentale e psicologia cognitiva. In tale contesto, le decisioni prese dall’algoritmo assumono così un’aura di neutralità, frutto di asettici calcoli razionali basati su dati.
Peraltro, già in tale ottica è emersa altresì una lettura critica del fenomeno, in quanto l’impiego di tali strumenti comporta in realtà una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e messi insieme, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte operazioni frutto di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò ne consegue che tali strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono in gran parte dai criteri utilizzati e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali è apparso spesso difficile ottenere la necessaria trasparenza.
Sempre in linea generale va richiamato quanto già evidenziato dalla sezione in ordine all’elemento positivo derivante dal nuovo contesto di digitalizzazione; in proposito, non può essere messo in discussione che un più elevato livello di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sia fondamentale per migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini e agli utenti.
In tale ottica lo stesso Codice dell’amministrazione digitale rappresenta un approdo decisivo in tale direzione. I diversi interventi di riforma dell’amministrazione susseguitisi nel corso degli ultimi decenni, fino alla l. n. 124 del 2015, sono indirizzati a tal fine; nella medesima direzione sono diretti gli impulsi che provengono dall’ordinamento comunitario.
Ha aggiunto che la Sezione che non si tratta, infatti, di sperimentare forme diverse di esternazione della volontà dell’amministrazione, come nel caso dell’atto amministrativo informatico, ovvero di individuare nuovi metodi di comunicazione tra amministrazione e privati, come nel caso della partecipazione dei cittadini alle decisioni amministrative attraverso social network o piattaforme digitali, ovvero di ragionare sulle modalità di scambio dei dati tra le pubbliche amministrazioni.
Nel caso dell’utilizzo di tali strumenti digitali, come avvenuto nella fattispecie oggetto della presente controversia, ci si trova dinanzi ad una situazione che, in sede dottrinaria, è stata efficacemente qualificata con l’espressione di rivoluzione 4.0 la quale, riferita all’amministrazione pubblica e alla sua attività, descrive la possibilità che il procedimento di formazione della decisione amministrativa sia affidato a un software, nel quale vengono immessi una serie di dati così da giungere, attraverso l’automazione della procedura, alla decisione finale.
Come già evidenziato nella sentenza n. 2270 del 2019, l’utilità di tale modalità operativa di gestione dell’interesse pubblico è particolarmente evidente con riferimento a procedure, come quella oggetto del presente contenzioso, seriali o standardizzate, implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento discrezionale.
La piena ammissibilità di tali strumenti risponde ai canoni di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (art. 1, l. n. 241 del 1990), i quali, secondo il principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), impongono all’amministrazione il conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse e attraverso lo snellimento e l’accelerazione dell’iter procedimentale.
Ha ancora chiarito la Sezione che l'utilizzo di procedure informatizzate non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa.
In tale contesto, infatti, il ricorso all’algoritmo va correttamente inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere.
Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse.
In disparte la stessa sostenibilità a monte dell’attualità di una tale distinzione, atteso che ogni attività autoritativa comporta una fase quantomeno di accertamento e di verifica della scelta ai fini attribuiti dalla legge, se il ricorso agli strumenti informatici può apparire di più semplice utilizzo in relazione alla c.d. attività vincolata, nulla vieta che i medesimi fini predetti, perseguiti con il ricorso all’algoritmo informatico, possano perseguirsi anche in relazione ad attività connotata da ambiti di discrezionalità.
Piuttosto, se nel caso dell’attività vincolata ben più rilevante, sia in termini quantitativi che qualitativi, potrà essere il ricorso a strumenti di automazione della raccolta e valutazione dei dati, anche l’esercizio di attività discrezionale, in specie tecnica, può in astratto beneficiare delle efficienze e, più in generale, dei vantaggi offerti dagli strumenti stessi.
(2) Ha chiarito la Sezione che sul versante della piena conoscibilità, rilievo preminente ha il principio della trasparenza, da intendersi sia per la stessa p.a. titolare del potere per il cui esercizio viene previsto il ricorso allo strumento dell’algoritmo, sia per i soggetti incisi e coinvolti dal potere stesso.
In relazione alla stessa p.a., nel precedente richiamato la sezione ha già chiarito come il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) debba essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico.
Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. Ciò al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato.
In proposito, va ribadito che, la “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo (costruzione che certo non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative) non esime dalla necessità che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile. Con le già individuate conseguenze in termini di conoscenza e di sindacabilità (cfr. punto 8.3 della motivazione della sentenza 2270 cit.).
In senso contrario non può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza.
In relazione ai soggetti coinvolti si pone anche un problema di gestione dei relativi dati. Ad oggi nelle attività di trattamento dei dati personali possono essere individuate due differenti tipologie di processi decisionali automatizzati: quelli che contemplano un coinvolgimento umano e quelli che, al contrario, affidano al solo algoritmo l'intero procedimento.
Il più recente Regolamento europeo in materia (2016/679), concentrandosi su tali modalità di elaborazione dei dati, integra la disciplina già contenuta nella Direttiva 95/46/CE con l'intento di arginare il rischio di trattamenti discriminatori per l'individuo che trovino la propria origine in una cieca fiducia nell'utilizzo degli algoritmi.
In particolare, in maniera innovativa rispetto al passato, gli articoli 13 e 14 del Regolamento stabiliscono che nell'informativa rivolta all'interessato venga data notizia dell'eventuale esecuzione di un processo decisionale automatizzato, sia che la raccolta dei dati venga effettuata direttamente presso l’interessato sia che venga compiuta in via indiretta.
Una garanzia di particolare rilievo viene riconosciuta allorché il processo sia interamente automatizzato essendo richiesto, almeno in simili ipotesi, che il titolare debba fornire “informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato” . In questo senso, in dottrina è stato fatto notare come il legislatore europeo abbia inteso rafforzare il principio di trasparenza che trova centrale importanza all'interno del Regolamento.
L’interesse conoscitivo della persona è ulteriormente tutelato dal diritto di accesso riconosciuto dall'articolo 15 del Regolamento che contempla, a sua volta, la possibilità di ricevere informazioni relative all'esistenza di eventuali processi decisionali automatizzati.
Incidentalmente, è stato evidenziato come l’articolo 15, diversamente dagli articoli 13 e 14, abbia il pregio di prevedere un diritto azionabile dall'interessato e non un obbligo rivolto al titolare del trattamento, e permette inoltre di superare i limiti temporali posti dagli articoli 13 e 14, consentendo al soggetto di acquisire informazioni anche qualora il trattamento abbia avuto inizio, stia trovando esecuzione o abbia addirittura già prodotto una decisione. Ciò, ai fini in esame, conferma ulteriormente la rilevanza della trasparenza per i soggetti coinvolti dall’attività amministrativa informatizzata in termini istruttori e decisori.
Sul versante della verifica degli esiti e della relativa imputabilità, deve essere garantita la verifica a valle, in termini di logicità e di correttezza degli esiti. Ciò a garanzia dell’imputabilità della scelta al titolare del potere autoritativo, individuato in base al principio di legalità, nonché della verifica circa la conseguente individuazione del soggetto responsabile, sia nell’interesse della stessa p.a. che dei soggetti coinvolti ed incisi dall’azione amministrativa affidata all’algoritmo.
In tale contesto, lo stesso Regolamento predetto affianca alle garanzie conoscitive assicurate attraverso l'informativa e il diritto di accesso, un espresso limite allo svolgimento di processi decisionali interamente automatizzati. L'articolo 22, paragrafo 1, riconosce alla persona il diritto di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o incidano in modo analogo sull'individuo. Quindi occorre sempre l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata dall’algoritmo.
In tema di imputabilità occorre richiamare, quale elemento rilevante di inquadramento del tema, la Carta della Robotica, approvata nel febbraio del 2017 dal Parlamento Europeo. Tale atto esprime in maniera efficace questi passaggi, laddove afferma che “l’autonomia di un robot può essere definita come la capacità di prendere decisioni e metterle in atto nel mondo esterno, indipendentemente da un controllo o un'influenza esterna; (…) tale autonomia è di natura puramente tecnologica e il suo livello dipende dal grado di complessità con cui è stata progettata l'interazione di un robot con l'ambiente; (…) nell'ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la responsabilità del risarcimento né di esigere da tale soggetto la riparazione dei danni causati».
Quindi, anche al fine di applicare le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, occorre garantire la riferibilità della decisione finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge attributiva del potere.
A conferma di quanto sin qui rilevato, in termini generali dal diritto sovranazionale emergono tre principi, da tenere in debita considerazione nell’esame e nell’utilizzo degli strumenti informatici.
In primo luogo, il principio di conoscibilità, per cui ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata.
Il principio, in esame è formulato in maniera generale e, perciò, applicabile sia a decisioni prese da soggetti privati che da soggetti pubblici, anche se, nel caso in cui la decisione sia presa da una p.a., la norma del Regolamento costituisce diretta applicazione specifica dell’art. 42 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (“Right to a good administration”), laddove afferma che quando la Pubblica Amministrazione intende adottare una decisione che può avere effetti avversi su di una persona, essa ha l’obbligo di sentirla prima di agire, di consentirle l’accesso ai suoi archivi e documenti, ed, infine, ha l’obbligo di “dare le ragioni della propria decisione”.
Tale diritto alla conoscenza dell’esistenza di decisioni che ci riguardino prese da algoritmi e, correlativamente, come dovere da parte di chi tratta i dati in maniera automatizzata, di porre l’interessato a conoscenza, va accompagnato da meccanismi in grado di decifrarne la logica. In tale ottica, il principio di conoscibilità si completa con il principio di comprensibilità, ovverosia la possibilità, per riprendere l’espressione del Regolamento, di ricevere “informazioni significative sulla logica utilizzata”.
In secondo luogo, l’altro principio del diritto europeo rilevante in materia (ma di rilievo anche globale in quanto ad esempio utilizzato nella nota decisione Loomis vs. Wisconsin), è definibile come il principio di non esclusività della decisione algoritmica.
Nel caso in cui una decisione automatizzata “produca effetti giuridici che riguardano o che incidano
significativamente su una persona”, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente
su tale processo automatizzato (art. 22 Reg.). In proposito, deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed informativo il modello viene definito come HITL (human in the loop), in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina interagisca con l’essere umano.
In terzo luogo, dal considerando n. 71 del Regolamento 679/2016 il diritto europeo trae un ulteriore principio fondamentale, di non discriminazione algoritmica, secondo cui è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori e al fine di garantire la sicurezza dei dati personali, secondo una modalità che tenga conto dei potenziali rischi esistenti per gli interessi e i diritti dell'interessato e che impedisca tra l'altro effetti discriminatori nei confronti di persone fisiche sulla base della razza o dell'origine etnica, delle opinioni politiche, della religione o delle convinzioni personali, dell'appartenenza sindacale, dello status genetico, dello stato di salute o dell'orientamento sessuale, ovvero che comportano misure aventi tali effetti.
In tale contesto, pur dinanzi ad un algoritmo conoscibile e comprensibile, non costituente l’unica motivazione della decisione, occorre che lo stesso non assuma carattere discriminatorio.
In questi casi, come afferma il considerando, occorrerebbe rettificare i dati in “ingresso” per evitare effetti discriminatori nell’output decisionale; operazione questa che richiede evidentemente la necessaria cooperazione di chi istruisce le macchine che producono tali decisioni. | Procedimento amministrativo |
Informativa antimafia – Controllo giudiziario – Effetti sulla partecipazione alla gara
Alla luce dello scopo del controllo giudiziario la retroattività degli effetti dell’interdttiva può predicarsi oltre che per la fase successiva all’esecuzione, anche per la fase antecedente la verifica dei requisiti in esito all’aggiudicazione; ove l’impresa concorrente sia colpita da interdittiva l’esclusione può essere effettivamente congelata dall’intervento del controllo giudiziario (a volte anteceduto dalla sospensione degli effetti dell’interdittiva nelle more della decisione del controllo) se sopraggiunto anteriormente al momento di verifica dei requisiti in capo all’aggiudicatario(1).
(1) Ha chiarito il Tar che l’irretroattività dell’efficacia del controllo giudiziario ha, nel suo essere netta, gli indubbi pregi della chiarezza e del porre in primo piano l’interesse pubblico alla speditezza e certezza della contrattazione pubblica.
Ritiene, tuttavia, il Tar che la questione meriti una ulteriore riflessione, per appurare se la suddetta irretroattività sia, effettivamente, regola assoluta.
È bene, anzitutto, precisare che non viene in alcun modo in discussione il principio secondo cui il decreto ex art. 34 bis d.lgs. n. 159/2011 non modifica il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione: esso senza dubbio “non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza” (v. Cons. Stato, n. 6377/2018; Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268 e cfr. Cass. Pen. nn. 39.412 e 27.856 del 2019 che escludono che il controllo abbia la conseguenza di vanificare il provvedimento definitivo dell’informazione e che sia strumento alternativo di impugnazione) e, ove nelle more del giudizio amministrativo, il Tribunale della prevenzione rigettasse l’istanza di controllo per evidente esclusione del requisito della occasionalità, tale elemento costituirebbe ulteriore riscontro della legittimità dell’informativa nel giudizio amministrativo (così Tar Napoli sent. n. 6659/2018).
Ciò di cui si dubita è che il sopraggiungere del provvedimento di ammissione al controllo giudiziario possa avere in via assoluta effetti favorevoli solo per gli atti amministrativi ad esso successivi (limitando in questa sede l’analisi, per questione di rilevanza, ai soli atti contrattuali).
La questione dubitativa sorge, evidentemente, per effetto della scarsa puntualità delle norme che hanno introdotto e regolato l’istituto.
Di tali disposizioni, come si ricorderà, non a caso, da tempo gli interpreti hanno evidenziato la trascuratezza della regolazione dei rapporti tra giudizio amministrativo e procedimento di prevenzione, mancanza che ha portato Giudici penali e Giudici amministrativi ad intervenire per via interpretativa per configurare un coordinamento, divenuto indispensabile in ragione della ormai una larga applicazione dell’istituto.
Venendo alla specifica questione delle conseguenze dell’ammissione al controllo giudiziario sulle procedure contrattualistiche pubbliche, essa deve essere verificata tenendo conto della lettera della legge, della ratio dell’istituto del controllo e degli interventi giurisprudenziali.
In punto di littera legis, laconicamente il comma 7 dell’art. 34 bis cod.antim. prevede che “Il provvedimento che dispone l'amministrazione giudiziaria prevista dall'articolo 34 o il controllo giudiziario ai sensi del comma 6 del presente articolo sospende gli effetti di cui all'articolo 94” cod.antim. il quale, come noto, prevede, a sua volta, il divieto per le appaltanti di stipulare/approvare/autorizzare i contratti con imprese interdette ed obbliga al recesso dal contratto con esse stipulato (salvo la facoltà per la p.a. di non recedere per garantire l’interesse pubblico all’esaustiva esecuzione dell’appalto, con finalità analoga a quella del commissariamento prefettizio ex art. 32 co. 10 d.l. n. 90/14).
Il Legislatore, ancora, nel 2019 ha sentito la necessità di intervenire in via additiva per congelare espressamente gli effetti dell’interdittiva in conseguenza dell’ammissione al controllo giudiziario anche nella fase della partecipazione delle gare pubbliche, prevedendo all’art. 80 co. 2 c.c.p., di seguito alla enunciazione dell’essere il provvedimento prefettizio motivo di esclusione, che “Resta fermo altresi' quanto previsto dall'articolo 34-bis, commi 6 e 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”.
Tale formulazione, si badi, ha formula più generica della analoga previsione di inoperatività del motivo di esclusione previsto per le imprese sottoposte a confisca e sequestro in cui è chiara la lettera della legge nel riconoscere la sterilizzazione del motivo di esclusione solo alle imprese già sottoposte alla misura giudiziaria (“aziende o societa' sottoposte a sequestro o confisca …. ed affidate ad un custode o amministratore giudiziario o finanziario, limitatamente a quelle riferite al periodo precedente al predetto affidamento”).
Ci si deve, allora chiedere se la novella, giustificata dalla relazione illustrativa con la necessità del “coordinamento con le norme del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011”, con tale formulazione non voglia lasciare una chance favorevole all’impresa che abbia ottenuto la misura della “bonifica” durante la gara pubblica.
In punto di ratio legis va, poi, rammentato che il controllo giudiziario è istituto di sostegno previsto dall’ordinamento per l’imprenditore che sia marginalmente toccato dai clan e che individualmente (specie in realtà piccole e contaminate e ad economia scarsa) non sia in grado di reagire alla criminalità, sostegno costituito da un percorso imprenditoriale sorvegliato dall’amministratore giudiziale, finalizzato alla sua bonifica.
L’istituto va, però, coordinato con gli altri con cui esso si correla e, di conseguenza risulta necessario porre in evidenza i confliggenti interessi in gioco evincibili nell’incontro delle norme sulla contrattualistica con quelle del codice antimafia:
- i plurimi interessi pubblici (anche non convergenti) -) alla stipula del contratto con soggetto meritevole di fiducia in quanto non interessato da fenomeni di infiltrazione mafiosa, -) alla stipula del contratto con il migliore offerente, -) alla certezza del soggetto contraente, -) alla stipula nei tempi ristretti di cui all’art. 32 c.c.p.;
- l’interesse dell’impresa concorrente a quella interdetta a conservare gli effetti degli atti della stazione appaltante sfavorevoli a quest’ultima ex art. 94 cod.antim./e di quelli conseguenti a sé favorevoli;
- l’interesse dell’impresa interdetta ed ammessa al controllo a conservare i provvedimento di evidenza pubblica/ contrattuale a lei favorevoli/ reagire a quelli sfavorevoli comminati prima dell’ammissione al controllo giudiziario, interesse che in realtà piccole e contaminate e ad economia scarsa può coincidere con quello alla sopravvivenza dell’impresa (sottolinea tale aspetto la Corte di Cassazione nella sentenza n. 27856/2019 che afferma che la ratio dell’istituto sia “quella di consentire, a mezzo di specifiche prescrizioni e con l'ausilio di un controllore nominato dal Tribunale, la prosecuzione dell'attività di impresa nelle more della definizione del ricorso amministrativo al fine di evitare, in tale lasso di tempo, la decozione dell'impresa che, privata di commesse pubbliche e/o di autorizzazioni essenziali per la prosecuzione della propria attività, potrebbe subire conseguenze irreparabili a causa della "pendenza" del provvedimento prefettizio”) coincidente con quello pubblico (per come osservato dal Cons. St. n. 4619/2021) alla forza lavoro ivi impiegata.
| Informativa antimafia |
Contratti della Pubblica amministrazione – Gara – Offerta migliorativa - Art. 77, r.d. n. 827 del 1924 – Applicabilità – Condizioni.
La regola dell’offerta migliorativa, prevista dall’art. 77, r.d. n. 827 del 1924 ancora vigente anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti, deve essere applicata nel rispetto della regola che primariamente governa le procedure aperte in quanto precipitato applicativo del principio di par condicio: l’obbligo di previo invio di una comunicazione, o anche la semplice pubblicazione di un avviso sulla piattaforma telematica (quando il bando contempli tale possibilità) che renda manifesta le modalità e i tempi della gara suppletiva riservata agli ex aequo, a fortiori nei casi in cui il bando detta disposizioni apparentemente escludenti la possibilità dell’offerta migliorativa (1).
(1) Ha preliminarmente ricordato la Sezione che l’art. 77, r.d. n. 827 del 1924 (secondo cui “Quando nelle aste ad offerte segrete due o più concorrenti, presenti all'asta, facciano la stessa offerta ed essa sia accettabile, si procede nella medesima adunanza ad una licitazione fra essi soli, a partiti segreti o ad estinzione di candela vergine, secondo che lo creda più opportuno l'ufficiale incaricato. Colui che risulta migliore offerente è dichiarato aggiudicatario. Ove nessuno di coloro che fecero offerte uguali sia presente, o i presenti non vogliano migliorare l'offerta, ovvero nel caso in cui le offerte debbano essere contenute entro il limite di cui al secondo comma dell'art. 75 e all'ultimo comma dell'art. 76, la sorte decide chi debba essere l'aggiudicatario”) è disposizione normativa ancora vigente è ritenuta applicabile dall’Autorità di vigilanza, sulla base del principio di eterointegrazione del bando (parere n. 102 del 27 giugno 2012).
Il citato art. 77, sia pur con riferimento alle “aste”, detta una disciplina residuale destinata ad applicarsi nei rari casi in cui via sia un ex aequo del prezzo offerto, nelle gare al massimo ribasso. Siffatta disposizione è caratterizzata da un lessico non più in linea con l’attuale disciplina dei contratti pubblici passivi e comunque la stessa inevitabilmente risente della risalente disciplina generale dei contratti in cui essa contestualmente calata. Disciplina ben lontana dalle garanzie procedurali che contraddistinguono l’odierna procedura di evidenza pubblica; detta una regola residuale utile a colmare una lacuna del codice appalti in ordine ad un’evenienza possibile per quanto rara; regola che ben può considerarsi rispondente ai principi costituzionali ed eurounitari di imparzialità, buon andamento e concorrenza, nella misura in cui, imponendo agli offerenti ex aequo, un esperimento migliorativo prima del sorteggio, coniuga il principio di concorrenza con quello dell’oculato utilizzo delle risorse pubbliche | Contratti della Pubblica amministrazione |
Covid-19 – Green pass – Per insegnanti e studenti – Art. 9 ter, d.l. n. 52 del 2021 – Inammissibilità del ricorso.
Deve essere respinta l’istanza di ospensione cautelare monocratica dell'art. 1, comma 6, d.l. n. 111 del 6 agosto 2021, che aggiunge l'art. 9–ter al d.l. n. 52 del 27 aprile 2021 convertito, con modificazioni, dalla l. 17 giugno 2021, n. 87, nella parte in cui prevede che, ai fini dell'erogazione in presenza del servizio di istruzione, tutto il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario, nonché gli studenti universitari, devono possedere il green pass (1).
(1) E’ stato chiarito nel decreto che la natura dell’atto impugnato, ascrivibile al novero delle fonti normative primarie, determina l’inammissibilità del ricorso, non consentendo l’ordinamento – in virtù del principio di separazione dei poteri - l’impugnazione diretta di atti aventi forza di legge, ed essendo il processo amministrativo volto unicamente alla contestazione di atti amministrativi, ivi inclusi quelli generali aventi natura normativa di carattere secondario.
Ha aggiunto il decreto che nella specie manca la contestuale impugnazione di atti applicativi che del gravato decreto legge costituiscano concreta esecuzione, che sola potrebbe determinare l’ammissibilità del ricorso – limitatamente a tali atti – e consentire eventualmente di sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale in ordine al contestato decreto legge che ne costituisce la base normativa, essendo il sindacato sugli atti legislativi riservato alla Consulta sotto il profilo della conformità alla Costituzione ed alle nome interposte. | Covid-19 |
Edilizia – Abusi – Opere realizzate senza titolo – Conseguenza.
Solo gli interventi c.d. di “edilizia libera” possono essere realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra tali interventi – individuati dall’art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001 nonché dall’art. 3, lett. e.5), non sono riconducibili quelli che si compendiano nella trasformazione di finestre in porte-finestre. Simile intervento, invece, comportando una modifica dei prospetti, é sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cu all’art. 3, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, e deve essere segnalato con Scia (art. 22, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001) (1).
Ha affermato la Sezione che la nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza.” (Cons. Stato, sez. II, sent. n. 8835 del 27 dicembre 2019)
Ha aggiunto che le opere abusive, in quanto non assistite da titolo edilizio, anche se astrattamente assentibili fintanto che non siano regolarizzate mediante sanatoria, devono essere considerate, appunto, abusive.
Se è, poi, vero, che gli interventi volti all'eliminazione delle barriere architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi, servoscala e rampe rientrano tra i lavori di edilizia libera – come specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera di cui DM 2 marzo 2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla S.c.i.a. recata dal d.lgs. n. 222 del 2016 - è peraltro evidente che tale normativa va raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica: ed a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg., d.P.R. n. 380 del 2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio necessario, che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della Regione. | Edilizia |
Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Commissario ad acta – Nomina – Residuo potere dell’Amministrazione – Differenza con il Commissario nominato nel giudizio sul silenzio.
Gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati affetti da nullità, poiché essi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario medesimo; tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies, l. n. 241 del 1990), ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all’esito di domanda di annullamento in un ordinario giudizio di cognizione, ma non possono in ogni caso essere considerati emanati in difetto assoluto di attribuzione e, per questa ragione, ritenuti affetti da nullità; b) il commissario ad acta nominato dal giudice potrà esercitare il proprio potere fintanto che l’amministrazione non abbia eventualmente provveduto; qualora persista il dubbio del commissario in ordine all’esaurimento del proprio potere per intervenuta attuazione della decisione (poiché, ad esempio, questa è reputata dal commissario parziale o incompleta), lo stesso potrà rivolgersi al giudice che lo ha nominato, ai sensi dell’art. 114, comma 7, c.p.a.; c) gli atti emanati dal commissario ad acta, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dall’amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela; qualora l’amministrazione intenda dolersi di tali atti (ritenendoli illegittimi ovvero non coerenti con il comando contenuto nella decisione del giudice), potrà esclusivamente rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, comma 6, c.p.a., ovvero al giudice del silenzio, ai sensi dell’art. 117, comma 4, c.p.a.; d) qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del giudizio sul silenzio; allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto (1).
(1) La questione era stata rimessa dalla sez. IV con ord. 10 novembre 2020, n. 6925.
Ha chiarito l’Alto Consesso che l’amministrazione, che è risultata soccombente in sede giurisdizionale, non perda il proprio potere di provvedere, pur in presenza della nomina e dell’insediamento di un commissario ad acta al quale è conferito il potere di provvedere per il caso di sua inerzia nell’ottemperanza al giudicato (ovvero nell’adempimento di quanto nascente da sentenza provvisoriamente esecutiva ovvero da ordinanza cautelare), e fino a quando lo stesso non abbia provveduto.
Fino a tale momento, si verifica, dunque, una situazione di esercizio concorrente del potere da parte dell’amministrazione, che ne è titolare ex lege, e da parte del commissario, che, per ordine del giudice, deve provvedere in sua vece.
Anche l’Adunanza Plenaria, con decisone 14 luglio 1978, n. 23 - precisato che il giudizio di ottemperanza risponde all’esigenza “del completamento della tutela giurisdizionale nella fase esecutiva della decisione” - afferma che con tale giudizio “il giudice amministrativo si sostituisce all’amministrazione inadempiente ponendo in essere l’attività che questa avrebbe dovuto compiere per realizzare concretamente gli effetti scaturenti dalla sentenza da eseguire, conformando la realtà alle relative statuizioni”.
In definitiva, può affermarsi che il commissario ad acta è, sul piano della qualificazione soggettiva, ausiliario del giudice e ritrae i propri poteri dall’atto di nomina al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale, adeguando la realtà giuridica e fattuale al comando contenuto nella pronuncia. Tale comando costituisce il contenuto ed il limite del potere del commissario ad acta, che ad esso (solo ad esso e nei limiti di quanto prescritto) deve dare attuazione.
Sul piano oggettivo dell’attività concretamente posta in essere, esso agisce in virtù di un potere, normativamente previsto, fondato sull’esigenza dell’attuazione delle decisioni giurisdizionali in quanto funzionali a rendere concreta ed effettiva della tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive.
Ciò comporta che la fonte del potere del commissario ad acta è riconducibile, quanto all’investitura, all’atto di nomina e, quanto al contenuto, alla sentenza (o comunque al provvedimento giurisdizionale della cui esecuzione si tratta).
In conclusione, non può essere riconosciuta al commissario ad acta, nemmeno in via “aggiuntiva”, la natura di organo straordinario dell’amministrazione (dovendosi, in tal senso, precisare quanto – peraltro incidentalmente - affermato da Cons. Stato, Ad. Plen., 9 maggio 2019, n. 7, che riconosce invece al commissario una “duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione”), e ciò in quanto; per un verso, la natura di ausiliario del giudice del commissario ad acta è l’unica normativamente riconosciuta e definita; per altro verso, gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza (poteri) sono istituiti dalla legge, mentre, diversamente opinando, ricorrerebbe in questo caso l’ipotesi di un organo amministrativo di fonte giurisdizionale; per altro verso ancora, il compito del commissario ad acta non è quello di esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell’interesse pubblico, bensì quello di dare attuazione alla pronuncia del giudice, anche eventualmente attraverso l’esercizio di poteri amministrativi non esercitati, dei quali il comando contenuto in sentenza (o nell’ordinanza) costituisce il fondamento genetico e l’approdo funzionale; da ultimo, non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell’amministrazione per giustificare l’imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell’agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale.
L’Adunanza plenaria ha poi richiamato la sentenza della sez. IV, 10 maggio 2011, n. 2764 che, con riferimento alla conservazione del potere in capo all’Amministrazione dopo la nomina del commissario ad acta, ha chiarito che la stessa non determina di per sé l’esaurimento della competenza della p.a. sostituita a provvedere all’ottemperanza al giudicato, in quanto il venir meno dell’inerzia della p.a. stessa, pur dopo la scadenza del termine assegnatole, rende priva di causa la nomina e la funzione del commissario, secondo i principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, non smentiti dalla legge o dalla pronuncia del giudice dell’ottemperanza ed essendo indifferente per il privato che il giudicato sia eseguito dall’Amministrazione, piuttosto che dal Commissario, perché l’attività di entrambi resta comunque egualmente soggetta al controllo del giudice (Cons. Stato, sez. VI, 29 dicembre 2008, n. 6585; id., sez. IV, 10 aprile 2006, n. 1947; id., sez. V, 3 febbraio 1999, n. 109).
Può ulteriormente aggiungersi che la duplice possibilità di ottenere l’ottemperanza alla decisione sia da parte dell’amministrazione, sia da parte del commissario ad acta, rafforza la posizione della parte già vittoriosa in sede di cognizione.
E la concorrenza della competenza del commissario ad acta e dell’amministrazione ha termine allorché uno dei due soggetti dà attuazione alla decisione del giudice.
Infine, chiarito il rapporto intercorrente tra commissario ad acta ed amministrazione soccombente, l’Adunanza plenaria ha ricordato che resta ovviamente fermo il potere della parte vittoriosa di rivolgersi al giudice per ogni doglianza o chiarimento nei confronti degli atti adottati. | Processo amministrativo |
Covid-19 – Vaccino – Esenzione – Sindacabilità – Asl che accerta l’inottemperanza all’obbligo vaccinale -Limiti.
Il medico di medicina generale che certifica il pericolo di un proprio paziente, che svolge la professione sanitaria, a somministrare il vaccino anti covid-19 deve indicare la patologia di cui soffre l’interessato, e ciò in quanto il controllo demandato alla ASL – responsabile a verificare l’idoneità della certificazione all’uopo rilasciata - concerne pur sempre la certificazione del medico di medicina generale, la quale però, proprio perché costituente l’oggetto (diretto ed esclusivo) dell’attività di verifica della ASL, deve consentire all’Amministrazione di appurare la sussistenza dei presupposti dell’esonero (1).
(1) Ha ricordato la sezione che l’art. 4, comma 2, d.l. n. 44 del 2021 ricollega l’esonero dall’obbligo vaccinale Covid-19 al solo “caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”.
Ebbene, poiché la norma, nella sua formulazione testuale, attribuisce al medico di medicina generale il compito di attestare l’”accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate”, ne deriva che di tali elementi costitutivi della fattispecie di esonero deve darsi espressamente atto nella certificazione all’uopo rilasciata: l’”attestazione” delle “specifiche condizioni cliniche documentate”, quindi, non consiste nella (ed il relativo compito non può quindi ritenersi assolto mediante una) mera dichiarazione della loro esistenza “ab externo”, essendo necessario, ai fini del perfezionamento della fattispecie esoneratrice, che delle “specifiche condizioni cliniche documentate” sia dato riscontro nella certificazione, unitamente al “pericolo per la salute” dell’interessato che il medico certificatore ritenga di ricavarne.
Del resto, ove così non fosse, sarebbe neutralizzato qualsiasi potere di controllo – anche nella forma “minima” e “mediata” della esaustività giustificativa della certificazione, la quale implica e sottende la possibilità di vagliare, quantomeno secondo un parametro “minimo” di “attendibilità”, la rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista, che la parte appellante esclude essere esercitabile dalla ASL – spettante all’Amministrazione, restando devoluta al medico certificatore ogni decisione in ordine alla (in)sussistenza dell’obbligo vaccinale: esito interpretativo che, tuttavia, risulta dissonante rispetto alla pregnanza – in termini sostanziali (con il riferimento alle “specifiche condizioni cliniche” ed al “pericolo per la salute”) e probatori (allorché si richiede che le prime siano “documentate” ed il secondo “accertato”) delle condizioni esoneratrici, delineate nei termini esposti dal legislatore.
| Covid-19 |
Covid-19 – Vaccino – Sanitari – Obbligo – Violazione – Sospensione dal servizio – Legittimità.
Non va sospeso monocraticamente il provvedimento di sospensione dal servizio del sanitario che non si è sottoposto al vaccino obbligatorio per i sanitari ex art. 4, d.l. 1° aprile 2021, n. 44 e l. 28 maggio 2021, n. 76, per contrasto con il virus Covid-19, atteso che tale obbligo è giustificato non solo dal principio di solidarietà verso i soggetti più fragili, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.), ma immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, relazione che postula, come detto, la sicurezza delle cure, impedendo che, paradossalmente, chi deve curare e assistere divenga egli stesso veicolo di contagio e fonte di malattia (1).
(1) Ha chiarito il decreto che il rilascio delle dette autorizzazioni risultano conformi alla normativa e approfonditi comunque al punto da fornire, anche in un'ottica di rispetto del principio di precauzione, sufficienti garanzie - allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, unico possibile metro di valutazione - in ordine alla loro efficacia e sicurezza tali da far escludere l'irrazionalità della scelta legislativa di prevedere l'obbligatorietà della vaccinazione di talune categorie di lavoratori a fronte della grave minaccia alla salute pubblica determinata dalla diffusività globale del virus, situazione che ha indotto l'Organizzazione mondiale della sanità a dichiarare prima lo stato di "emergenza di salute pubblica di rilevanza internazionale" e poi quello di "pandemia" con conseguente dichiarazione dello stato di emergenza sul territorio nazionale da parte del Consiglio dei Ministri.
Ha aggiunto il decreto che nel bilanciamento tra gli interessi coinvolti dalla presente vicenda - pur tutti costituzionalmente rilevanti e legati a diritti fondamentali - deve ritenersi assolutamente prevalente la tutela della salute pubblica e, in particolare, degli utenti della sanità pubblica e privata specialmente “delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza” (Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045). | Covid-19 |
Processo amministrativo – Rito appalti – Adesione a convenzione – Impugnazione – Pubblicazione su sito istituzionale dell’Amministrazione.
Il termine per impugnare un atto di adesione a convenzione decorre dalla sua pubblicazione sul sito istituzionale dell’Amministrazione.
(1) Ha chiarito la Sezione che non può farsi riferimento all’art. 41, comma 2, c.p.a.. perché la norma si riferisce alla notificazione del ricorso giurisdizionale (sulla esclusione dell’applicabilità delle norme processuali in materia di notifiche alla comunicazione dei provvedimenti amministrativi, Cons.Stato, VI sez., n. 3725 del 2020).
Verrebbe semmai in (astratta) rilevanza l’art. 21-bis, l. n. 241 del 1990: ma a parte il problema qualificatorio (l’affidamento ad altra impresa come provvedimento limitativo della sfera giuridica: nel senso ritenuto dalla norma) il solo fatto che un soggetto sia citato nella motivazione del provvedimento (peraltro indirettamente, come nel caso di specie) non lo trasforma in destinatario diretto dello stesso.
Non soltanto dunque la pubblicazione sul sito era sufficiente – in fatto e in diritto - a far percepire il contenuto e la lesività del provvedimento: ma, analogamente a quanto accade nei procedimenti di evidenza pubblica che vedono coinvolte più imprese, e che si concludono con l’aggiudicazione, anche nella fattispecie concreta oggetto del giudizio l’impresa esclusa dalla commessa aveva un identico onere di verifica della pubblicazione del relativo provvedimento, dal momento che essa stessa tentava di impedire in via stragiudiziale l’adozione di tale – imminente - provvedimento | Processo amministrativo |
Contributi e finanziamenti - Cinema e teatro – Teatro Eliseo - Contributo straordinario – Art. 22, comma 8, d.l. n. 50 del 2017 – Violazione artt. 3, 9, 33, 41 e 97 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 22, comma 8, d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni in l. n. 96 del 21 giugno 2017, in relazione agli artt 3, 9, 33, 41 e 97 Cost. nella parte in cui introduce un contributo straordinario in favore del teatro Eliseo al di fuori della disciplina e del procedimento ordinariamente previsti ai fini dell’intervento pubblico a sostegno dei soggetti operanti nel settore del teatro e dello spettacolo dal vivo (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina dell’intervento pubblico nel settore dello spettacolo dal vivo prevede stanziamenti a bilancio di fondi pluriennali cui si accede sulla base di procedure comparative.
A tal fine, la l. n. 163 del 30 aprile 1985 ha istituito il Fondo unico per lo spettacolo (c.d. FUS), di cui è prevista la ripartizione annuale tra i diversi settori (attività cinematografiche, musicali, di danza, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante ed iniziative di carattere e rilevanza nazionali da svolgersi in Italia o all’estero) secondo la percentuale globalmente prevista dall’art. 2.
In via transitoria, l’art. 13 della legge ha poi, stabilito che sino all’entrata in vigore delle leggi di riforma dei diversi ambiti, “i criteri e le procedure per l'assegnazione dei contributi e dei finanziamenti ai destinatari degli stessi rimangono quelli previsti dalle leggi vigenti per ciascuno dei settori medesimi ed a tal fine il Ministro del turismo e dello spettacolo [...] ripartisce annualmente il Fondo [...] tra i settori di attività ed enti previsti dalla vigente legislazione sullo spettacolo”, in ragione delle percentuali ivi previste.
Analogamente, il d.l. 18 febbraio 2003, n. 24, ha stabilito che, “In attesa che la legge di definizione dei princìpi fondamentali di cui all'articolo 117 della Costituzione fissi i criteri e gli àmbiti di competenza dello Stato, i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo, previsti dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo sono stabiliti con decreti del Ministro per i beni e le attività culturali non aventi natura regolamentare” (art.1 ).
Per quanto qui interessa, il D.M. 1° luglio 2014 – vigente ratione temporis – ha dettato “Nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo Unico per lo spettacolo, di cui alla Legge 30 aprile 1985, n. 163”.
Per la concessione dei contributi ai diversi settori dello spettacolo dal vivo, l’art. 3 del citato D.M. prevede la presentazione di un progetto triennale (a partire dal triennio 2015-2017) e di un programma annuale per coloro le cui istanze triennali sono state approvate.
Inoltre, in base all’art. 46, comma 2, del medesimo decreto, su esclusiva iniziativa del Ministro, sentite le Commissioni consultive competenti per materia, possono essere sostenuti finanziariamente progetti speciali, a carattere annuale o triennale.
Il sistema dell’erogazione dei contributi allo spettacolo dal vivo è incentrato sulla valutazione comparativa dei progetti e persegue le finalità di interesse pubblico.
Si tratta di obiettivi ripresi e ribaditi anche dal D.M. 27 luglio 2017, attualmente vigente.
Al teatro Eliseo sono stati corrisposti contributi quale teatro di rilevante interesse culturale (ai sensi dell’art. 11 del D.M.), nonché contributi per progetti speciali (ai sensi dell’art. 46, comma 2, del D.M.).
Secondo quanto riportato nella “Scheda di lettura” del d.l. n. 50 del 2017, redatta dal Servizio Studi del Senato della Repubblica, risulta che, in qualità di teatro di rilevante interesse nazionale, con D.D. 538 del 12 giugno 2015 siano stati corrisposti al teatro Eliseo € 481.151 per il 2015, mentre con D.D. 1413 del 7 novembre 2016 siano stati corrisposti € 514.831 per il 2016.
Inoltre, con D.M. 497 del 3 novembre 2016 sono stati corrisposti € 250.000 per il progetto speciale “Generazioni”.
Va peraltro evidenziato che la possibilità di attribuire agli operatori del settore contributi ulteriori rispetto a quelli ordinari (c.d. “extra FUS”) ai sensi dell’art. 46, comma 2, del D.M. 1° luglio 2014, non altera gli obiettivi strategici indicati, né definisce una diversa procedura da seguire rispetto a quella ordinaria.
Il contributo straordinario di cui si verte – che fa seguito all’erogazione degli ingenti importati indicati nel Dossier sopra richiamato - è stato istituito con il citato articolo 22, comma 8, del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 21 giugno 2017.
Il testo originario del decreto adottato autorizzava in favore del Teatro Eliseo la spesa di due milioni di euro per l’anno 2017 “per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità della sua attività in occasione del centenario della sua fondazione”.
In sede di conversione, la legge 21 giugno 2017, n. 96, ha modificato il comma 8 del citato articolo 22, innalzando il finanziamento a complessivi otto milioni di euro, ripartiti in quattro milioni di euro per l’anno 2017 e quattro milioni per l’anno 2018.
L’excursus che precede conferma la natura di legge – provvedimento delle disposizioni in esame.
Esse riguardano un solo destinatario, specificamente individuato, ed hanno un contenuto particolare e concreto rappresentato dall’erogazione di un contributo in denaro finalizzato alla copertura delle spese ordinarie e straordinarie necessarie a consentire la prosecuzione dell’attività del teatro Eliseo in occasione del centenario dalla sua fondazione.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, le leggi provvedimento sono ammissibili solo entro i limiti del rispetto del principio della ragionevolezza e non arbitrarietà.
In considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare, la legge – provvedimento è soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità. Ed un tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia, come nella specie, la natura provvedimentale dell’atto legislativo.
Dalla giurisprudenza costituzionale si ricava pertanto che il legislatore, qualora emetta leggi a contenuto provvedimentale, deve applicare con particolare rigore il canone della ragionevolezza, affinché la legge non si risolva in una modalità per aggirare i principi di eguaglianza ed imparzialità.
In altri termini, la mancata previsione costituzionale di una riserva di amministrazione, con la conseguente possibilità per il legislatore di svolgere un'attività a contenuto amministrativo, non può giungere al punto di violare l’eguaglianza tra i cittadini.
Ne consegue che, qualora il legislatore ponga in essere un'attività a contenuto particolare e concreto, devono risultare con chiarezza i criteri ai quali sono ispirate le scelte e le relative modalità di attuazione.
Per applicare le richiamate coordinate esegetiche al caso di specie, occorre prendere le mosse dalle finalità enunciate dalla norma che, come detto, è quella di contribuire alle spese affrontate dal Teatro Eliseo al fine di garantire la continuità dell’attività in occasione del suo centenario.
Non si fa ivi riferimento, peraltro, ad un progetto o ad un programma specifico.
Sicché, a ben vedere, qualunque tipo di spesa potrebbe essere sovvenzionata, purché valutata dal teatro come funzionale alla prosecuzione della propria attività, e non necessariamente per l’effettuazione di iniziative collegate alla celebrazione del proprio centenario (essendo il dettato legislativo al riguardo del tutto generico).
La legge in questione potrebbe risultare anzitutto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza e della parità di trattamento.
Si tratta, infatti, di una sovvenzione attribuita ad una specifica impresa al di fuori di quelle che sono le regole generali di assegnazione di fondi statali ai teatri, sicché si potrebbe ravvisare una discriminazione delle altre imprese che, a parità di condizioni, si trovino a dover sostenere oneri economici per continuare la propria attività.
Tale rilievo risulta rafforzato dal fatto che i teatri appellanti – al pari del teatro Eliseo – si rivolgono al medesimo bacino di utenti ed operano non solo nello stesso settore di spettacolo (attività teatrali di prosa), ma anche nella stessa area geografica.
La disposizione potrebbe risultare altresì irragionevole e arbitraria, non rinvenendosi, neanche nei lavori preparatori, l’individuazione dell’interesse pubblico sotteso a tale speciale elargizione o, quantomeno, dei criteri ai quali si è ispirata la scelta legislativa (che non ha nemmeno indicato le specifiche modalità di attuazione). | Contributi e finanziamenti |
Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione - Concessione servizi - Personale – Richiesta di una adeguata qualificazione professionale – Apprendistato - Esclusione.
Laddove la legge di gara richieda che il personale impiegato per lo svolgimento della concessione di un servizio debba essere provvisto di adeguata qualificazione professionale e regolarmente inquadrato nei livelli professionali previsti dal C.C.N.L. di riferimento, non è ammissibile il ricorso allo strumento dell’apprendistato, quale contratto a causa mista finalizzato al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso la formazione sul lavoro, in termini di acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali. In tale ambito, infatti, il datore di lavoro è obbligato ad impartire un addestramento necessario a far conseguire all’apprendista la relativa qualifica professionale; tale contratto a causa mista, di formazione e lavoro, assume rilievo solo se l’aspetto formativo si sia effettivamente realizzato; ai fini di gara ciò rileva anche ai fini della verifica di sostenibilità dell’offerta, in quanto le retribuzioni sono quelle dovute al personale dotato di adeguata qualificazione, ed ai fini degli oneri di riassunzione (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che costituisce contratto a causa mista (Cass. civ., sez. lav., 3 febbraio 2020, n. 2365); in particolare, il contratto di apprendistato si configura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato a struttura bifasica, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge l'elemento specializzante costituito dallo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), mentre, la seconda, soltanto residuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2118 c.c., vede la trasformazione del rapporto in tipico rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, in caso di licenziamento intervenuto nel corso del periodo di formazione, è inapplicabile la disciplina relativa al licenziamento ante tempus nel rapporto di lavoro a tempo determinato.
Il contratto di apprendistato professionalizzante è finalizzato al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso la formazione sul lavoro, in termini di acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali ed il datore di lavoro è obbligato ad impartire un addestramento necessario a far conseguire all’apprendista la relativa qualifica professionale; tale contratto è a causa mista, di formazione e lavoro che assume rilievo solo se l’aspetto formativo si sia effettivamente realizzato.
Inoltre, la stessa modalità di svolgimento del rapporto di apprendistato si differenzia da quella ordinaria sotto diversi profili concreti, come a titolo esemplificativo attraverso l’onere della compresenza di un tutore nell’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa.
Ciò trova conferma dall’analisi del vigente ccnl in materia che, in relazione ad uno specifico livello (VI super) esclude il ricorso all’apprendistato.
A fronte di tali peculiarità del contratto di apprendistato non può pertanto ritenersi garantita la necessaria ed adeguata qualificazione professionale, richiesta dalla lex specialis.
Le peculiarità dell’apprendistato trovano conferma nel particolare regime di favore economico, evidenziato da risparmi rilevanti per l’impresa, sia in termini di retribuzione sia soprattutto in sede contributiva (dove il risparmio ammonta ordinariamente al 20 per cento della retribuzione). Un tale regime di favore si ricollega direttamente alla funzione formativa del contratto, sopra ricordata.
Ciò comporta altresì la fondatezza dei rilievi mossi avverso la verifica della congruità dell’offerta, nei termini di cui al secondo motivo di appello; infatti, applicando le retribuzioni dovute al personale dotato di adeguata qualificazione professionale l’offerta economica appare insufficiente nei termini dedotti. | Contratti della Pubblica amministrazione |
Covid-19 – Lazio - Orario di apertura degli esercizi commerciali dal 18 maggio 2020 – Ordinanza sindacale – Non va sospesa.
Non devono essere sospese l’ordinanza del Sindaco di Roma 7 maggio 2020, n. 91 - recante “emergenza Covid fase 2 misure urgenti e necessarie al fine di prevenire la diffusione del virus orari di apertura al pubblico delle attività commerciali artigianali e produttive’ (Covid 19)” - nonché la successiva ordinanza dello stesso Sindaco 15 maggio 2020, n. 92, che individua l’orario di apertura al pubblico delle attività commerciali a decorrere dal 18 maggio 2020; ciò in quanto la delicatezza della questione controversa, involgendo più interessi di stampo costituzionale, ne rende fortemente opportuno il vaglio collegiale (1).
(1) Le società ricorrenti hanno dedotto che detta nuova ordinanza (che entra in vigore a partire dal 18 maggio 2020), pur se elimina l’obbligo di chiusura domenicale degli esercizi commerciali, conferma la modulazione della fasce orarie di apertura nonchè il divieto di apertura, per gli esercizi commerciali delle società ricorrenti, prima delle ore 11 del mattino: e da tanto il loro persistente interesse alla sospensione interinale dei relativi effetti | Covid-19 |
a– Gestione – Criterio.
Farmacia – Farmacia comunale – Normativa sostanziale e processuale applicabile – Individuazione.
La revisione della pianta organica va qualificata come atto generale di pianificazione, funzionale al miglior assetto delle farmacie sul territorio comunale, al fine di garantire l'accessibilità dei cittadini al servizio farmaceutico (1).
La gestione di una farmacia comunale – da qualificarsi servizio pubblico di rilevanza economica – può essere esercitata dall’ente, oltre che con le forme dirette previste dall’ art. 9, l. n. 475 del 1968, sempre in via diretta, anche mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), ovvero può essere affidata in concessione a soggetti estranei al comune previo espletamento di procedure di evidenza pubblica in modo da garantire la concorrenza (2).
La scelta di affidare in house la gestione della farmacia comunale può essere attratta nella disciplina del Codice degli appalti (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) e conseguentemente nel regime processuale previsto dagli artt. 119 e 120 c.p.a. (2).
(1) Secondo consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 16 gennaio 2018, n. 223), le scelte relative alla localizzazione di una farmacia, laddove siano rispettati il criterio demografico e quello della distanza minima, sono caratterizzate da un elevato tasso di discrezionalità e, quindi, sono sindacabili solo nei ben noti limiti entro i quali è consentito il sindacato sull'eccesso di potere.
Pertanto, fermo il rispetto del nuovo parametro relativo alla popolazione, la localizzazione da parte dell'Amministrazione deve obbedire unicamente ai vincoli in tema di distanze minime stabiliti dalla legge e trarre ispirazione dall'obiettivo primario della maggiore fruibilità del servizio farmaceutico e della sua capillare articolazione sul territorio, purché la scelta in concreto adottata sia immune da illogicità o da palese irragionevolezza.
In particolare, è stato chiarito (Cons. Stato, sez. III, 12 febbraio 2015, n. 749; id., 10 aprile 2014, n. 1727) che non è manifestamente irrazionale l'ubicazione di una nuova farmacia in area già servita da preesistenti esercizi, laddove ciò risulti giustificato dall'entità della popolazione interessata; difatti, se è vero che l'aumento del numero delle farmacie risponde anche allo scopo di estendere il servizio farmaceutico alle zone meno servite, è anche vero che tale indicazione non è tassativa né esclusiva, stante il prioritario criterio della "equa distribuzione sul territorio", di cui all'art. 2, comma 1, l. n. 475 del 1968.
Inoltre, è stato precisato (Cons. Stato, sez. III, 20 marzo 2017, n. 1250) che la zonizzazione del territorio assolve alla funzione di vincolare l'esercente a mantenere il suo esercizio all'interno del perimetro assegnato e non anche a dislocare le farmacie secondo la regola della corrispondenza esatta di una ogni 3.300 residenti nella zona di riferimento; la scelta del legislatore statale di attribuire ai comuni il compito di individuare le zone in cui collocare le farmacie risponde, quindi, all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, corrispondente agli effettivi bisogni della collettività, tenendo conto di fattori diversi dal numero dei residenti, come l'individuazione delle maggiori necessità di fruizione del servizio che si avvertono nelle diverse zone del territorio, le correlate valutazioni di situazioni ambientali, topografiche e di viabilità, le distanze tra le diverse farmacie.
In definitiva, secondo la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 2 maggio 2016, n. 1659), rientra nella discrezionalità dell'amministrazione comunale consentire una relativa concentrazione di esercizi farmaceutici in alcune zone più frequentate e determinare la localizzazione delle nuove sedi in un determinato ambito territoriale, fermo restando il rispetto del generale parametro demografico e del parametro della distanza minima, così come è legittimo che il Comune determini l'ampiezza della circoscrizione di ciascuna sede valutando una pluralità di esigenze, ivi compresi i flussi quotidiani di spostamento per motivi di lavoro, di affari, etc., anche di chi non è residente.
Ha ancora chiarito il parere che l’ordinamento assegna all’ente il potere di istituire o meno la farmacia comunale, decisione che rientra dunque nella discrezionalità che l’ente locale deve esercitare, evidentemente, in relazione agli interessi pubblici da perseguire e alla promozione dello sviluppo della comunità amministrata: tale facoltà risulta esercitata, nel caso in esame, coerentemente con le finalità evidenziate.
L'esigenza di garantire l'accessibilità agli utenti del servizio farmaceutico non deve tradursi in una regola cogente secondo la quale occorre procedere all'allocazione delle nuove sedi di farmacia in zone disabitate o del tutto sprovviste di farmacie. Inoltre, la coincidenza con il bacino di utenza delle altre due farmacie non contrasta con la ratio della riforma, laddove è rispettata la distanza minima obbligatoria di duecento metri.
In conclusione, la scelta in concreto adottata dall’Ente è coerente con le finalità indicate dall’ordinamento, è immune da illogicità o da palese irragionevolezza e, pertanto, non è sindacabile.
(2) La giurisprudenza di questo Consiglio ha esaminato più volte la questione concernente l’ammissibilità di forme di gestione delle farmacie comunali non previste dall’art. 9, l. n. 475 del 1968, poiché, ad esempio, fra le forme di gestione individuate dalla predetta norma speciale non è stato previsto l’affidamento in concessione a terzi.
Sul punto osserva la sentenza, sez. III, 13 novembre 2014, n. 5587, che lo stesso legislatore ha previsto forme di gestione del servizio farmaceutico comunale ulteriori rispetto a quelle indicate nell'art. 9, l. n. 475 del 1968 che, dunque, non sono tassative.
Ed invero, “non si dubita … che la gestione di una farmacia comunale possa essere esercitata da un comune mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), benché tale modalità non sia stata prevista dal legislatore del 1968 (e del 1991), in coerenza con l’evolversi degli strumenti che l’ordinamento ha assegnato agli enti pubblici per svolgere le funzioni loro assegnate; e non si dubita che la gestione possa essere esercitata, come si è accennato, anche da società miste pubblico/private (…), con il superamento del limite dettato dall’art. 9 della l. n. 475 del 1968, secondo cui la gestione poteva essere affidata a società solo se costituite tra il comune e i farmacisti. (…) L’affidamento della gestione è peraltro consentito in house a patto che il Comune eserciti sulla società un “controllo analogo” a quello che eserciterebbe su proprie strutture organizzative, nel concetto di controllo analogo essendo peraltro ricompresa la destinazione prevalente dell’attività dell’ente in house in favore dell’amministrazione aggiudicatrice”.
È stato altresì chiarito con la stessa pronuncia che “si deve ritenere che un comune, nel caso in cui non intenda utilizzare per la gestione di una farmacia comunale i sistemi di gestione diretta disciplinati dall’art. 9 della legge n. 475 del 1968, possa utilizzare modalità diverse di gestione anche non dirette; purché l’esercizio della farmacia avvenga nel rispetto delle regole e dei vincoli imposti all’esercente a tutela dell’interesse pubblico. In tale contesto, pur non potendosi estendere alle farmacie comunali tutte le regole dettate per i servizi pubblici di rilevanza economica, non può oramai più ritenersi escluso l’affidamento in concessione a terzi della gestione delle farmacie comunali attraverso procedure di evidenza pubblica.
Del resto l’affidamento in concessione a terzi attraverso gare ad evidenza pubblica costituisce la modalità ordinaria per la scelta di un soggetto diverso dalla stessa amministrazione che intenda svolgere un servizio pubblico”.
Peraltro, si ritiene oggi unanimemente che l’assenza di una norma positiva che autorizzi la dissociazione tra titolarità e gestione non crei un ostacolo insormontabile all’adozione del modello concessorio. Con riguardo al profilo afferente alla tutela della salute, l’obiettivo del mantenimento in capo al Comune delle proprie prerogative di Ente che persegue fini pubblicistici può essere garantito – in caso di affidamento a terzi – dalle specifiche regole di gara e, più precisamente, dagli obblighi di servizio pubblico da imporre al concessionario, idonei a permettere un controllo costante sull’attività del gestore e di garantire standard adeguati di tutela dei cittadini. In questo senso, l’impostazione risulta perfettamente in linea con il principio comunitario di proporzionalità, per cui le restrizioni al regime di piena concorrenza sono effettivamente ammesse nei limiti in cui risulti strettamente necessario con l’obiettivo da perseguire (nella specie, la salvaguardia della salute pubblica e del benessere dei cittadini) (Tar Brescia, sez. II, 1 marzo 2016, n. 309).
(3) L’adunanza plenaria, con sentenza 27 luglio 2016, n. 22, ha affermato che con l’espressione lessicale utilizzata dagli articoli 119 e 120 c.p.a., “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture”, si intendono anche i provvedimenti che riguardano le procedure aventi ad oggetto le concessioni di servizi e che, pertanto, “gli artt.119 e 120 del c.p.a. sono applicabili alle procedure di affidamento di servizi in concessione”.
Sempre la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha altresì chiarito che le impugnazioni di affidamenti diretti di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house sono soggette al “rito appalti” di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a.. A tale conclusione deve giungersi in ragione dell’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore: «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture» e «atti delle procedure di affidamento». Esse si incentrano, infatti, sul concetto di «procedure», concetto questo che, nella sua latitudine, è idoneo a racchiudere tutta l’attività della pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo (“Sulla base di tale ricostruzione - ripetutamente affermata ai fini del riparto di giurisdizione in materia di contratti pubblici tra giudice amministrativo e giudice ordinario (ex multis: Cass., Sez. Un., ord. 10 aprile 2017, n. 9149, 18 novembre 2016, n. 23468; sent. 3 novembre 2016, n. 22233) – anche l’affidamento diretto di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house deve ritenersi riconducibile al concetto di «procedure» utilizzato dai più volte citati artt. 119, comma 1, lett. a), e 120, comma 1, del codice del processo amministrativo. Infatti, quand’anche estrinsecatosi uno actu, l’affidamento in questione è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa della pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta in via generale nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché in tesi con modalità estremamente semplificate”, Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2017, n. 2533; con specifico riferimento all’affidamento in house di una farmacia, id., sez. III, 3 marzo 2020, n. 1564 nonché id. 2 novembre 2020 n. 6760, sul ricorso avverso l’aggiudicazione della gara per l’affidamento della gestione, mediante concessione trentennale, della farmacia comunale di nuova istituzione). | Farmacia |
Sicurezza pubblica - Foglio di via obbligatorio – Lavoratore che ha fatto picchettaggio dinanzi alla azienda – Mancata individuazione atti di violenza – illegittimità.
E’ illegittimo il foglio di via obbligatorio adottato nei confronti di un lavoratore per avere preso parte attivamente alle manifestazioni sindacali attraverso il picchettaggio davanti ad uno stabilimento, senza tuttavia specificare quali concrete condotte violente egli abbia posto in essere (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che per l’adozione del foglio di via obbligatorio sono richiesti elementi di fatto, attuali e concreti, in base ai quali può essere formulato un giudizio prognostico sulla probabilità che il soggetto commetta reati che offendono o mettono in pericolo la tranquillità e sicurezza pubblica, perché, diversamente, si finirebbe per fondare la misura sulla responsabilità collettiva per fatti addebitabili ad anonimi esponenti di un gruppo o, come nel caso di specie, di un movimento sindacale.
Assumono rilievo centrale, sul piano istruttorio e motivazionale, il profilo soggettivo, relativo alla “dedizione” del soggetto alla commissione di reati, e quello oggettivo, inerente alla attitudine offensiva dei medesimi reati nei confronti dei beni nominativamente individuati dal legislatore e cioè, per quanto di interesse, quelli della sicurezza e della tranquillità pubblica.
Il foglio di via obbligatorio, previsto dall’art. 2, d.lgs. n. 159 del 2011, è infatti diretto a prevenire reati socialmente pericolosi, non già a reprimerli, e pertanto, benché non occorra la prova della avvenuta commissione di reati, è richiesta dalla giurisprudenza amministrativa una motivata indicazione dei comportamenti e degli episodi, desunti dalla vita e dal contesto socio ambientale dell’interessato, da cui oggettivamente emerga una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti e socialmente pericolose.
La misura preventiva in questione si presenta, sul piano della sua tipizzazione normativa, fortemente caratterizzata in termini penalistici, nel senso che entrambi i predetti profili, soggettivo e oggettivo, devono essere ricostruiti, da un lato, attingendo al vissuto criminale del soggetto interessato (nei suoi risvolti pregressi ed in quelli prognostici) e, dall’altro lato, analizzando il potenziale offensivo insito nelle condotte criminose alle quali il medesimo risulti essere dedito, con una precisa direzionalità lesiva, quanto ai beni esposti a pregiudizio.
Queste considerazioni valgono, a maggior ragione, dopo la recente sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019 della Corte costituzionale che, in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, e seppure con riferimento alle ipotesi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, ha sottolineato l’esigenza generale di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, essenziali garanzie di tassatività sostanziale, inerente alla precisione, alla determinatezza e alla prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale, che costituisce oggetto di prova, ed altrettanto essenziali garanzie di tassatività processuale, attinente invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio.
Ciò impone una interpretazione rigorosa e tassativizzante delle misure di prevenzione emesse dal Questore.
Ha chiarito la Sezione che il picchettaggio è definibile come un complesso di comportamenti materiali di diversa natura, aventi come carattere comune la tendenza a rafforzare la partecipazione, la riuscita, l’efficacia di uno sciopero e più specificamente, con riferimento all’elemento teleologico della condotta ed ai soggetti cui si rivolge l’azione dei picchetti, si è detto che «sotto la nozione di picchettaggio si ricomprendono tutte quelle attività e quei metodi posti in essere dagli scioperanti per indurre i lavoratori dissenzienti a non accedere nei luoghi di lavoro per fornire la prestazione lavorativa».
Il vocabolo trae origine dal linguaggio militare, laddove si collega alle funzioni di vigilanza e di controllo svolte da gruppi di soldati preposti al controllo degli accessi alle caserme e agli accampamenti.
Dal francese piquet, riferito alla picca, e cioè all’arma di normale dotazione dei militi addetti a tali incarichi, esso ha fatto ingresso nel gergo sindacale anglosassone (picket, picketing), per definire i gruppi di operai stazionanti all’ingresso degli stabilimenti presso i quali è in corso uno sciopero, che in Gran Bretagna costituiscono praticamente una costante di ogni conflitto industriale.
Di qui la traduzione italiana «picchettaggio» oppure il desueto «picchettamento».
L’attività dei picchetti può assumere rilevanza sotto diversi profili giuridici, dal momento che, nella pratica, essa tende ad assumere connotati tanto più energici quanto maggiore è l’asprezza del conflitto sindacale in corso.
Il picchettaggio viene notoriamente praticato per contrastare il fenomeno del crumiraggio e, cioè, il comportamento tenuto dai lavoratori dipendenti dall’azienda ovvero esterni, i quali ultimi concludono in occasione dello sciopero un contratto di lavoro – cosiddetti crumiri – stipulato dall’imprenditore al fine di attenuare od eliminare il pregiudizio economico derivante dallo sciopero e, quindi, vanificare gli intenti perseguiti dagli scioperanti.
I lavoratori dipendenti dell’azienda o esterni infatti, dissociandosi dall’azione di lotta, ben possono mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative ed eventualmente subentrare nelle posizioni ricoperte all’interno dell’organizzazione aziendale dai lavoratori assenti per sciopero.
Ha altresì chiarito la Sezione che la semplice presenza in un picchetto di molte persone finalizzato ad ostacolare gli automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale, non connotata da elementi fattuali che consentano di rintracciare specifici e individuali condotte di violenza o minaccia da parte di un determinato soggetto, non può integrare da sola sintomo di pericolosità sociale a carico di questo, se non si vuole trasformare il diritto della prevenzione e, in particolare, il foglio di via obbligatorio in un surrettizio, indebito, strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e, in ultima analisi, in una misura antidemocratica.
Elementi di maggiore tassatività, sia sostanziale che processuale, non si colgono poi per il caso di specie nemmeno nel riferimento, che si legge nel foglio di via, a precedenti denunce dell’appellante per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e violazione dell’art. 18 del T.U.L.P.S., secondo la mera e generica elencazione di tali denunce che si legge nel foglio stesso.
D’altro canto le esigenze di segreto istruttorio, opposte dall’amministrazione nella relazione depositata nel primo grado del giudizio, non consentono di approfondire ulteriori profili fattuali che indichino una reale, concreta, individualizzata carica di pericolosità sociale, nell’odierno appellante, che travalichi la normale, e non di rado, concitata dialettica tra le parti in occasione di manifestazioni sindacali particolarmente accese. | Sicurezza pubblica |
Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari - Nota di critica all’operato del Comandante generale dell’Arma - Omesso rispetto della prescritta via gerarchica dell’inoltro – Regole di disciplina – Applicabilità – Inoltro in veste di rappresentante di un’associazione parasindacale – Irrilevanza ex se.
Le regole di disciplina militare si applicano agli appartenenti alle Forze armate dal momento della loro incorporazione e fino a quello della cessazione dal servizio attivo, a condizione che gli interessati svolgano attività di servizio, si trovino in luoghi militari o comunque destinati al servizio, indossino l’uniforme ovvero si qualifichino, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgano ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali; pertanto, una condotta commessa in presenza delle predette condizioni (nella specie, divulgazione di una nota di critica all’operato del Comandante generale dell’Arma senza il rispetto della prescritta via gerarchica dell’inoltro) non è sottratta alle regole di disciplina per il solo fatto di essere posta in essere nella veste di privato cittadino ovvero di rappresentante di un’associazione parasindacale, diversamente consentendosi un facile aggiramento delle regole stesse, con grave nocumento della funzionalità del sistema che anche dalla loro compattezza trae il proprio prestigio e la propria autorevolezza (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il riconoscimento dei diritti associativi direttamente rivenienti dall’art. 39 Cost. costituisce il punto di approdo di una condivisibile rivendicazione di categoria degli appartenenti alle Forze armate, pur con i calibrati equilibrismi imposti dalla loro richiamata peculiarità ordinamentale, che rende comunque anacronistico il riferimento alla ricercata essenza dell’attività svolta concretamente dall’Associazione.
Giova ricordare in punto di fatto come l’U.N.A.C., nata effettivamente nel 1998 come Associazione a scopo culturale e assistenziale, seguendo gli sviluppi della giurisprudenza, in primo luogo della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di diritti sindacali dei militari, nell’anno 2013 si è trasformata in Sindacato autonomo Carabinieri e Militari, con regolare statuto, notificato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Difesa, al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comitato delle pari opportunità ed al Ministro dell’interno, procedendo altresì alla formazione dell’organico dirigenziale, con conseguente invio in via gerarchica delle prime deleghe sindacali.
Con la sentenza 13 giugno 2018, n. 120 della Corte costituzionale, di declaratoria dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), si è poi riconosciuto, traendo spunto da una vicenda che comunque vedeva coinvolta ridetta Associazione, il diritto di affiliazione ad associazioni sindacali da parte dei militari. Quanto detto in ragione del ritenuto contrasto della norma con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze in data 2 ottobre 2014 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09) e in relazione all’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30 (per una ricostruzione della vicenda, v. da ultimo Cons. Stato, sez. I consultiva, n. 2571 del 25 settembre 2019). Ciò senza negare la possibilità che la legge adotti restrizioni per determinate categorie di dipendenti pubblici, inclusi gli appartenenti alle Forze armate: con il risultato che la previsione di condizioni e limiti alla libertà di associazione sindacale tra militari, facoltativa per i parametri internazionali, è invece doverosa nell’ordinamento nazionale, al punto da escludere la possibilità di un vuoto normativo, che sarebbe d’impedimento al riconoscimento dello stesso diritto di associazione sindacale. Da qui la ribadita legittimità del comma 1 dell’art. 1475 COM, il quale subordina la costituzione di associazioni e circoli tra militari al preventivo assenso del Ministro della Difesa, disposizione valida, a fortiori, per le associazioni sindacali, in quanto species di quel genus, peraltro di particolare rilevanza (sul punto cfr. il parere rilasciato dalla sez. II consultiva di questo Consiglio di Stato sul quesito avanzato dal Ministero della Difesa proprio in ordine all’applicazione dell’articolo 1475, comma 1, del Codice dell’ordinamento militare, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 13 giugno 2018, relativamente al rilascio del preventivo assenso del Ministro della difesa per la costituzione di associazioni professionali tra militari a carattere sindacale, n. 2756 del 23 novembre 2018).
La necessità di attualizzare il contesto ordinamentale in materia di diritto associativo dei militari, non fa che rafforzare la ritenuta neutralità del ruolo di segretario dell’U.N.A.C. rivestito dal militare sanzionato nel caso di specie. Non a caso, nel ricostruire in fatto la vicenda, il T.A.R. afferma chiaramente che l’appartenenza all’Associazione culturale “anche secondo la resistente, non era, e non è, incompatibile col giuramento di fedeltà […] prestato”. Trattasi dunque non del punto di approdo di una scelta ermeneutica volta a legittimare la condotta associativa, ma di una riferita circostanza di fatto, incontestata tra le parti, posta “a contorno” dell’episodio accaduto, quale suo evidente contesto genetico. Ciò che rileva, cioè, è l’inoltro della lettera, non il fatto che la sua stesura sia avvenuta sotto l’egida dell’U.N.A.C.; argomentazione questa introdotta casomai dal militare in sede di difesa nel ricorso gerarchico, quasi a voler distinguere la propria condotta “ideativa” da quella “materiale” di invio agli organi di stampa, asseritamente avvenuto a cura di sedicenti uffici di comunicazione interni alla struttura associativa. E inopportunamente ripresa dalla difesa erariale nell’atto di appello, riproponendo inesistenti profili di illiceità dell’appartenenza associativa ex se, quand’anche ipotizzabili nel contesto storico sociale dell’epoca, tutt’affatto valutati dall’Amministrazione procedente, che non ne ha in alcun modo fatto oggetto di addebito.
Va escluso anche che la sigla associativa scrimini di per sé la condotta, dequotando le rimostranze mosse utilizzando la stessa, quale che ne sia stato il veicolo di trasmissione, prescindendo peraltro dai toni, seppur generici, del tutto irriguardosi, come riconosciuto dallo stesso giudice di prime cure, in una sorta di argomentazione a contrario di ciò che legittimamente si sarebbe potuto addebitare al militare e non si è invece stigmatizzato, dando rilievo ad aspetti ritenuti poi irrilevanti disciplinarmente (“essa [contestazione di addebito] avrebbe (pure) potuto porre l’accento sul contenuto della missiva "incriminata" (in cui il Comandante Generale dell’Arma viene accusato, la citazione è pressoché testuale, di non essere "super partes"; ma di avere a cuore solo la sorte di chi gli è vicino”).
Essa, cioè, non attrae alla sfera del “privato cittadino” il comportamento dei suoi iscritti, ammantando di “culturale” un rilievo mosso all’organizzazione del servizio da parte di chi quel determinato servizio è chiamato ad eseguire.
A tale riguardo l’art. 5, l. 11 luglio 1978, n. 382, applicabile ratione temporis al caso di specie, dopo avere ricordato (comma 3) che le regole di disciplina militare si applicano ai dipendenti “dal momento della incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo”, individua le “condizioni” in presenza delle quali il militare è da considerarsi tale. Esse sussistono quando gli interessati “a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”. Ove così non fosse, ovvero ove si riconoscesse la possibilità di dismettere temporaneamente l’uniforme, nel contempo ammantandosi della veste del privato cittadino per il solo tramite di un sodalizio, per quanto idealisticamente apprezzabili ne siano le finalità, per pretermettere le regole intrinseche dell’ordinamento di appartenenza, non è chi non veda la facilità di aggiramento delle stesse, con grave nocumento della funzionalità del sistema che anche dalla loro compattezza trae il proprio prestigio e la propria autorevolezza. Nel caso di specie, dunque, non soltanto il ricorrente, dipendente al momento della stesura della lettera all’Amministrazione della difesa, si è qualificato con il grado militare, ma egli si è rivolto al Comandante Generale dell’Arma, per dolersi di modalità gestionali inerenti il servizio, come tali in alcun modo qualificabili “culturali”, ovvero “assistenziali”. Ciò a prescindere finanche dalla voluta risonanza mediatica che si è inteso far avere alla rimostranza, nel momento in cui la relazione ha assunto la veste di un comunicato stampa, chiunque sia stato incaricato dell’inoltro agli organi competenti. La violazione della circolare sui rapporti con la stampa, infatti, pure evocata dall’Amministrazione appellante, serve a maggiormente contestualizzare la condotta addebitata al militare, ma non è stata oggetto di specifico addebito, al pari della ricordata appartenenza associativa. Essa dunque, pur aggravando complessivamente il disvalore dell’illecito per come oggettivamente percepibile, se anche ha assunto un qualche rilievo nel procedimento disciplinare, ciò è da intendersi limitatamente alla conferma per tabulas che non si è seguita la via gerarchica nell’inoltro. Infine, l’asserita inutilità di qualsivoglia reclamo incanalato correttamente per quel tramite, in quanto destinato a finire comunque nel nulla (l’evocato fin de non recevoir, aulicamente richiamato in sentenza), oltre che inconferente, appare alla Sezione immotivatamente critico di una prassi neppure documentata, e contraddittoriamente finanche giustificata (stante che “giustamente” l’Amministrazione avrebbe opposto la diplomatica formula soprassessoria in non meglio precisati “casi analoghi”). | Militari, forze armate e di polizia |
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Utilizzo delle piscine – D.P.C.M. - Non va sospeso.
Non può essere accolta l’istanza di sospensione monocratica delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria Covid-19 adottate dal Presidente del Consiglio dei Ministri con riferimento all’uso delle piscine, stante la prevalenza dell’interesse primario e generale alla tutela della salute pubblica - anche alla luce dei focolai Covid che negli ultimi giorni stanno emergendo in molteplici aree del Paese - rispetto all’interesse economico, fatto valere dall’appellante, alla riapertura anticipata della piscina | Covid-19 |
Straniero – Accoglienza – Accoglienza per i richiedenti asilo – Rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari – Conseguenza – Revoca misure di accoglienza.
I richiedenti asilo possono beneficiare delle misure di accoglienza solo per il tempo strettamente necessario per l’espletamento dell’esame della domanda di protezione internazionale sicché, una volta che lo straniero ha ottenuto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, l’Autorità amministrativa deve disporre la cessazione delle misure di accoglienza di primo livello (1).
(1) La Sezione ha ricordato che il d.l. n. 113 del 2018 (avendo l'art. 12, comma 2, lett. c) abrogato il comma 5 dell’art. 9, d.lgs. n. 142 del 2015), al fine di operare una razionalizzazione dei servizi di c.d. seconda accoglienza, ha stabilito che possono accedere allo SPRAR solo i titolari di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria) e i minori non accompagnati.
Invece, i richiedenti asilo non possono più accedere ai servizi dello SPRAR, ma potranno essere accolti solo nei CAS o nei centri governativi di prima accoglienza.
Una disposizione transitoria consente che i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria già presenti nel Sistema di protezione alla data di entrata in vigore del decreto-legge (5 ottobre 2018) possono rimanere in accoglienza nel Sistema fino alla scadenza del progetto di accoglienza in corso, già finanziato.
I minori non accompagnati richiedenti asilo, al compimento della maggiore età, potranno rimanere nel Sistema fino alla definizione della domanda di protezione internazionale.
Ha quindi concluso la Sezione che il migrante che manifesta l'intenzione di chiedere la protezione internazionale viene accompagnato nei centri governativi di prima accoglienza (anche preesistenti Centri di assistenza richiedenti asilo (CARA) e Centri di accoglienza (CDA) riconvertiti) che hanno la funzione di consentire l'identificazione dello straniero (ove non sia stato possibile completare le operazioni nei centri di primo soccorso dislocati nei luoghi di sbarco), la verbalizzazione e l'avvio della procedura di esame della domanda di asilo, l'accertamento delle condizioni di salute e la sussistenza di eventuali situazioni di vulnerabilità che comportino speciali misure di assistenza.
Le misure di accoglienza sono assicurate per la durata del procedimento di esame della domanda da parte della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di cui all'art. 4, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, e successive modificazioni, e, in caso di rigetto, fino alla scadenza del termine per l'impugnazione della decisione (art. 14, comma 4).
Infine, deve aggiungersi che nella prima fase dell'accoglienza, l’ufficio di polizia che riceve la domanda di protezione internazionale ha l'obbligo di informazione a favore del richiedente circa le condizioni di accoglienza e le fasi della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, attraverso la consegna di un opuscolo informativo, redatto possibilmente nella lingua del richiedente (art. 3, d.lgs. n. 142 del 2015). | Straniero |
Paesaggio – Autorizzazione paesaggistica – Postuma – Incremento delle superfici utili legittimamente edificate - Art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 - Presupposti.
La nozione di superficie utile da prendere in esame al fine di perimetrare la portata applicativa dell’art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004, nella parte in cui preclude il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma in caso di incremento delle superfici utili legittimamente edificate, fa riferimento al significato tecnico-giuridico che tali concetti assumono in materia urbanistico-edilizia, trattandosi di nozioni tecniche non già specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalla normativa urbanistico-edilizia (1).
(1) Come di recente chiarito dalla Sezione (6 aprile 2020, n. 2250), in materia di tutela paesaggistica, il rinvio ai concetti di volumetria e superficie utile, contenuto nell'art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, per cui l'autorità preposta alla gestione del vincolo accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati, non può che interpretarsi nel senso di un rinvio al significato tecnico-giuridico che tali concetti assumono in materia urbanistico-edilizia, trattandosi di nozioni tecniche non già specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalla normativa urbanistico-edilizia.
Con specifico riferimento alla nozione di “superfici utili”, la Sezione (13 maggio 2016, n. 1945; id. 1 dicembre 2014, n. 5932) ha precisato che le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23 luglio 1960, n. 1820; artt. 5 e 6, d.m. 2 agosto 1969; art. 3, d.m. 10 maggio 1977; art. 1, d.m. 26 aprile 1991; art. 6, d.m. 5 agosto 1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).
La necessità di distinguere le nozioni di superficie utile e di superficie accessoria trova attuale conferma nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, comunque invocabile quale parametro esegetico nell’interpretazione della pertinente disciplina edilizia.
Come rilevato dalla Sezione (10 gennaio 2020, n. 241), tale intervento è stato reso necessario al fine di omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici comunali, rispondente o meno a specifiche indicazioni regolamentari o urbanistiche locali.
Il riferimento a tali definizioni uniformi risulta, quindi, utile al fine di individuare il paradigma cui ricondurre, almeno astrattamente, l’intervento realizzato, alla stregua di quanto emergente dalla documentazione in atti.
Per quanto più di interesse, alla stregua di quanto emergente dal Regolamento edilizio-tipo: la superficie utile è rappresentata dalla sola superficie di pavimento degli spazi di un edificio misurata al netto della superficie accessoria e di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre; la superficie accessoria è, invece, rappresentata dalla superficie di pavimento degli spazi di un edificio aventi caratteri di servizio rispetto alla destinazione d’uso della costruzione medesima, misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre, comprendente, a titolo esemplificativo, anche i ballatoi, le logge, i balconi e le terrazze.
Per l’effetto, posto che l’art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 ha riguardo, quale causa generale ostativa alla sanatoria alle sole superfici utili, considerato che tali superfici escludono quelle accessorie, deve ritenersi che nel caso di specie l’ampliamento di superfici accessorie esterne (qualificabili come balconi o ballatoi o terrazze), sebbene sussumibili sotto la nozione di superfici utili lorde ai sensi di quanto previsto dalla normativa urbanistica comunale citata, non integrava gli estremi della superficie utile ai sensi dell’art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004, non potendo, dunque, ritenersi di per sé come ostativo all’avvio del procedimento di autorizzazione postuma paesaggistica, comunque necessario facendosi questione di opere comportanti un mutamento dello stato dei luoghi esterni, in relazione alle quali occorre, dunque, verificare la sua compatibilità con i valori paesaggistici espressi dall’area in cui l’intervento edilizio è stato realizzato. | Paesaggio |
Edilizia – Distanze – Rispetto – Necessità - Violazione – Natura di ristrutturazione o nuova costruzione – Irrilevanza ex se.
Qualora sia evidente la violazione delle distanze tra edifici diventa irrilevante la qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia e dunque l’inapplicabilità dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968, che riguarda esclusivamente le nuove costruzioni (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che la giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 8 gennaio 2018, n. 72; id. 2 marzo 2018, n. 1309) che civile (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2020, n. 28612; id. 28 ottobre 2019, n. 27476; id. 10 febbraio 2020, n. 3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 354).
Nel caso all’esame della Sezione, vengono in evidenza interventi sulla volumetria dell’immobile. In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze appare evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una complessiva riduzione dell’impatto; il che renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di vista civilistico.
Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno” (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2020, n. 28612). | Edilizia |
Militari, forze armate e di polizia – Procedimenti disciplinari - Carabinieri – Sanzione - Irrogata dalla stessa persona fisica oggetto del comportamento del militare, per cui è stata irrogata la sanzione – Legittimità.
Con riferimento alla impugnazione di una sanzione disciplinare a carico di un militare dell'Arma dei carabinieri, irrogata dalla stessa persona fisica oggetto del comportamento del militare, per cui è stata irrogata la sanzione, il principio di terzietà e di obiettività dell’azione amministrativa superi la previsione legislativa della competenza al comandante di reparto, in quanto il principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., ha portata generale e di questo l’obbligo di astensione rappresenta un corollario che non tollera alcun tipo di compressione ed ha quindi carattere immediatamente e direttamente precettivo (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che Il principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario, assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo (Cons. Stato, sez. VI, 24 luglio 2019, n. 5239).
L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione (Cons. Stato, sez. II, 21 ottobre 2019 n. 7113).
Tali orientamenti non possono non trovare applicazione anche rispetto all’ordinamento militare ed in particolare nei procedimenti sanzionatori, considerato anche che la consolidata giurisprudenza ritiene che l’individuazione della sanzione applicabile in ragione dell’illecito disciplinare nonché la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati costituisca, nell’ambito delle indicazioni fornite dal legislatore, espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione, censurabile da parte del giudice amministrativo in sede di giudizio di legittimità, solo per difetto di motivazione ovvero per eccesso di potere per illogicità o irragionevolezza, escludendo ogni sostituzione e/o sovrapposizione di criteri valutativi diversi (Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7335; id., 9 marzo 2018, n. 1507; id., 22 marzo 2017, n. 1302).
Costituisce principio generale per l’esercizio di un potere amministrativo, in particolare discrezionale, l’imparzialità del soggetto che adotta il provvedimento finale.
Deve, infatti, essere richiamato l’art. 6 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, inserito dall'art. 1, comma 41, della legge 6 novembre 2012, n. 190, non immediatamente applicabile alla presente fattispecie, ma utile quale ausilio interpretativo dell’ambito di estensione del principio di imparzialità, per cui “il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.
Inoltre, nel caso di specie, le concrete circostanze di fatto denotavano non una offesa dovuta ad un impulso momentaneo, ma una situazione complessa della quale il militare aveva interessato il Ministero della difesa- direzione generale per il personale militare con esposti propri relativi ai rapporti tra lui e il comandante e nel corso della quale sarebbero state espressi i “giudizi ed apprezzamenti non confacenti alla dignità e al decoro”, lesivi della personalità del detto comandante.
Prescindendo dall’esame dei presupposti della sanzione, non oggetto del presente giudizio, non essendo stati riproposti in appello gli ulteriori motivi di ricorso di primo grado, è evidente la situazione di incompatibilità del comandante all’adozione di un provvedimento disciplinare basato sulla espressione di giudizi e apprezzamenti a suo carico in una vicenda che inoltre ormai coinvolgeva anche l’apparato amministrativo della Difesa | Militari, forze armate e di polizia |
Risarcimento danni – Presupposti – Annullamento per vizi formali o per difetto di motivazione o di istruttoria – Esclusione.
Non spetta il risarcimento dei danni da annullamento (reiterato) del diniego di autorizzazione unica alla realizzazione di un impianto energetico da fonti rinnovabili ex art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003, per vizi formali o per difetto di motivazione o di istruttoria, in quanto non emerge la prova della concreta spettanza del bene della vita; in ogni caso, va esclusa la risarcibilità del danno emergente consistente nelle spese di progettazione rientrante nella alea propria dell’attività di impresa (1).
(1) La Sezione ha, altresì, precisato che in relazione ai presupposti per la configurabilità del danno da perdita di chance, la valutazione relativa al “grado di consistenza” della chance rileva sotto il profilo dell’accertamento dell’ingiustizia del danno e non del nesso di causalità, e deve essere compiuta dal giudice secondo le evidenze del caso concreto, per verificare che il fatto lesivo è effettivamente illecito, perché ha inciso, in maniera ingiustificata, su una situazione giuridicamente meritevole di tutela e non rispetto ad una mera aspirazione, ad un interesse di fatto o a circostanze che non assurgono al rango di “bene della vita”.
I profili di causalità, rispetto alla fattispecie di danno di cui si discorre, andranno accertati, invece, come segue: la causalità materiale dovrà intercorrere in termini di certezza, seppure accertata secondo la regola del “più probabile che non”, tra la condotta illecita e asseritamente lesiva e la lesione, per l’appunto, della situazione di vantaggio; la causalità giuridica dovrà intercorrere fra questa lesione (la compromissione definitiva dell’asserita probabile occasione di conseguire l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dell’impianto) e il tipo di pregiudizio patrimoniale che si assume essersi prodotto (ossia, il non avere potuto gestire con profitto l’impianto e non avere, conseguentemente, fruito dei vantaggi patrimoniali da ciò discendenti). | Risarcimento danni |
Covid-19 – Calabria – Ordinanza del Presidente della Regione Calabria n. 37 del 2020 - Ripresa delle attività di Bar, Pasticcerie, Ristoranti, Pizzerie, Agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto – Illegittimità.
É illegittima l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria 29 aprile 2020, n. 37, nella parte in cui dispone che, a partire dalla data di adozione dell’ordinanza medesima, sul territorio della Regione Calabria, è “consentita la ripresa delle attività di Bar, Pasticcerie, Ristoranti, Pizzerie, Agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto”, spettando al Presidente del Consiglio dei Ministri individuare le misure necessarie a contrastare la diffusione del virus COVID-19, mentre alle Regioni è dato intervenire solo nei limiti delineati dall’art. 3, comma 1, d.l. n. 19 del 2020, che però nel caso di specie è indiscusso che non risultino integrati (1).
(1) Il Tar Catanzaro ha accolto il ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’annullamento dell’ordinanza del Presidente della Regione Calabria 29 aprile 2020, n. 37 - adottata ai sensi dell’art. 32, comma 3 l. 23 dicembre 1978, n. 833 per dettare misure per la prevenzione e la gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 – nella parte in cui ha disposto che, sin dalla data di adozione dell’ordinanza, è consentita, nel territorio della Regione Calabria, la ripresa dell’attività di ristorazione, non solo con consegna a domicilio e con asporto, ma anche mediante servizio al tavolo, purché all’aperto e nel rispetto di determinate precauzioni di carattere igienico sanitario.
L’ordinanza violerebbe gli artt. 2, comma 1, e 3, comma 1, d.l. 25 marzo 2020, n. 19 e sarebbe stata emanata in carenza di potere per incompetenza assoluta. Infatti, l’art. 2, comma 1, dell’atto normativo citato attribuisce la competenza ad adottare le misure urgenti per evitare la diffusione del Covid-19 e le ulteriori misure di gestione dell’emergenza al Presidente del Consiglio dei ministri, che provvede con propri decreti previo adempimento degli oneri di consultazione specificati.
Per quel che rileva, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha provveduto con d.P.C.M. 26 aprile 2020 che, con efficacia dal 4 maggio 2020 al 17 maggio 2020, dispone la sospensione delle attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) e, in via di eccezione, consente la ristorazione con consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia per l’attività di confezionamento che di trasporto, nonché la ristorazione con asporto, fermo restando l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, il divieto di consumare i prodotti all’interno dei locali e il divieto di sostare nelle immediate vicinanze degli stessi.
Come visto, l’ordinanza regionale, in contrasto con quanto disposto dal d.P.C.M., ha autorizzato anche la ristorazione con servizio al tavolo.
Il Tar ha escluso che le prescrizioni del d.l. n. 19 del 2020 violino la Costituzione.
Ha osservato che l’art. 41 Cost., nel riconoscere libertà di iniziativa economica, prevede che essa non possa svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Come noto, non è prevista una riserva di legge in ordine alle prescrizioni da imporre all’imprenditore allo scopo di assicurare che l’iniziativa economica non sia di pregiudizio per la salute pubblica, sicché tali prescrizioni possono essere imposte anche con un atto di natura amministrativa.
Non si coglie dunque un contrasto, in particolare nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, tra la citata norma costituzionale e una disposizione legislativa che demandi al Presidente del Consiglio dei Ministri di disporre, con provvedimento amministrativo, limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti, allo scopo di affrontare l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del virus Covid-19.
Tanto più che, come rivela l’esame dell’art. 1, d.l. n. 19 del 2020, il contenuto del provvedimento risulta predeterminato («limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande (...)»), mentre alla discrezionalità dell’Autorità amministrativa è demandato di individuare l’ampiezza della limitazione in ragione dell’esame epidemiologico.
Non vi può essere dubbio che lo Stato rinvenga la competenza legislativa all’adozione del decreto de quo innanzitutto nell’art. 117, comma 2, lett. q, Cost., che gli attribuisce competenza esclusiva in materia di «profilassi internazionale».
Ma la competenza legislativa si rinviene anche nel terzo comma del medesimo art. 117 Cost., che attribuisce allo Stato competenza concorrente in materia di «tutela della salute» e «protezione civile».
A tale ultimo proposito, occorrono alcune ulteriori osservazioni, che traggono le mosse dal duplice rilievo critico secondo cui l’impianto normativo delineato dal d.l. n. 19 del 2020 comporterebbe un’inammissibile delega al Presidente del Consiglio dei Ministri del potere di restringere le libertà costituzionali dei cittadini e comporterebbe un’alterazione alla ripartizione dei compiti amministrativi delineata dall’art. 118 Cost.
Limitando, per evidenti ragioni, il campo dell’analisi alla sola possibilità di limitare o sospendere le attività di somministrazione al pubblico di cibi e bevande, il Tribunale ritiene che è la legge a predeterminare il contenuto della restrizione alla libertà di iniziativa economica, demandando ad un atto amministrativo la commisurazione dell’estensione di tale limitazione.
Ciò posto, il fatto che la legge abbia attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di individuare in concreto le misure necessarie ad affrontare un’emergenza sanitaria trova giustificazione nell’art. 118, comma 1, Cost.: il principio di sussidiarietà impone che, trattandosi di emergenza a carattere internazionale, l’individuazione delle misure precauzionali sia operata al livello amministrativo unitario.
Ma, una volta accertato che l’individuazione nel Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Autorità che deve individuare le specifiche misure necessarie per affrontare l’emergenza è conforme al principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., deve altresì essere affermato che ciò giustifica l’attrazione in capo allo Stato della competenza legislativa, pur in materie concorrenti quali la «tutela della salute» e la «protezione civile».
È noto, infatti, che la Corte costituzionale ha ritenuto (sin dalla sentenza dell’1 ottobre 2003, n. 303, con cui ha per la prima volta teorizzato la c.d. chiamata in sussidiarietà) che l’avocazione della funzione amministrativa si deve accompagnare all’attrazione della competenza legislativa necessaria alla sua disciplina, onde rispettare il principio di legalità dell’azione amministrativa, purché all’intervento legislativo per esigenze unitarie si accompagnino forme di leale collaborazione tra Stato e Regioni nel momento dell’esercizio della funzione amministrativa (cfr., sul punto, Corte cost. 22 luglio 2010, n. 278).
Nel caso di specie, conformemente al principio enucleato dalla Corte costituzionale, l’art. 2 d.l. n. 19 del 2020 prevede espressamente che il Presidente del Consiglio dei Ministri adotti i decreti sentiti – anche – i Presidenti delle Regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale.
É quindi da escludere che nel caso di specie siano stati attribuiti all’amministrazione centrale dello Stato poteri sostituitivi non previsti dalla Costituzione.
L’art. 120, comma 2 Cost., invero, prevede che «il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali».
In tali casi deve essere seguita la procedura prevista dall’art. 8, l. 5 giugno 2003, n. 131.
Ma nel caso di specie non vi è stato un intervento sostitutivo dello Stato, bensì avocazione delle funzioni amministrative in ragione del principio di sussidiarietà, accompagnata dalla chiamata in sussidiarietà della funzione legislativa. | Covid-19 |
Militari, forze armate e di polizia - Militari – Ferma temporanea – Anzianità di servizio – Non è computabile.
È legittimo il mancato riconoscimento, nella ricostruzione di carriera di un militare, del periodo trascorso in ferma temporanea e, quindi, il riconoscimento del solo servizio permanente effettivo (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la conclusione cui è pervenuta in ordine alla non computabilità della ferma temporanea non genera disparità di trattamento rispetto ai soggetti poi immessi in servizio permanente, atteso che il diverso trattamento consegue ai differenti percorsi ed alle diverse finalità del servizio. Quello militare non è un comune rapporto di lavoro dipendente ma un vero e proprio status, la cui acquisizione presuppone plurime verifiche di idoneità non solo professionale, ed una apposita formazione, con implicazioni che vanno al di là della semplice mansione svolta, tant’è che, ad esempio, una determinata collocazione in ruolo non incide solo sul trattamento economico ma anche sull’inserimento nella scala gerarchica nell’ambito delle forze armate.
Quanto all’invocata applicazione della giurisprudenza eurounitaria in materia di contratti a termine, con lamentati possibili profili di violazione dell’art. 117 Cost. o più correttamente esiti di possibile disapplicazione, ha chiarito la Sezione che la giurisprudenza eurounitaria si è sviluppata in tema di contratti di lavoro a termine, caratterizzati da scelte abusive del datore di lavoro (anche pubblico) per casi di reiterazione senza valida giustificazione di una serie di rapporti a tempo determinato tutti identici e con il sostanziale unico effetto di inserire stabilmente da subito in organico soggetti privi delle garanzie proprie dell’impiego a tempo indeterminato; essa non postula tuttavia affatto che qualsivoglia rapporto a tempo determinato immediatamente seguito da un rapporto a tempo indeterminato sia come tale abusivo.
Ora non vi è dubbio che il rapporto tra militari e Stato si caratterizza per assoluta peculiarità, anche nell’ambito dell’impiego pubblico.
Non a caso il d.lgs. n. 66 del 2010, al libro IV titolo I, disciplina lo stato di militare; lo status di militare beneficia di un intero corpus normativo dichiaratamente speciale rispetto alla ordinaria disciplina del pubblico impiego, per altro spesso finalizzato, per la peculiarità dei compiti, a riconoscere agli interessati benefici specifici rispetto agli ordinari dipendenti pubblici.
In siffatto contesto di specialità la ferma prefissata, d’altro canto, si colloca come forma di reclutamento che presuppone formazione e plurime valutazioni degli aspiranti al servizio permanente. | Militari, forze armate e di polizia |
Giustizia amministrativa – Legittimazione al ricorso – Servizio Idrico Integrato – Azione popolare - Inammissibilità
È inammissibile per carenza di legittimazione ad agire il ricorso proposto da cittadini residenti, in qualità di intestatari di contratti di servizio idrico, in rappresentanza dell’intera collettività, qualora agiscano al fine di ottenere la tutela giurisdizionale di un interesse privo di specifica qualificazione e differenziazione. Infatti, in mancanza di specifiche e dirette conseguenze nella propria sfera giuridica, la salvaguardia della gestione del servizio idrico integrato rappresenta un interesse di mero fatto alla migliore gestione del servizio pubblico, la cui cura è demandata esclusivamente ai soggetti pubblici che dei cittadini sono enti esponenziali.
Conformi: T.a.r. per la Lombardia, sez. I, 2 febbraio 2022, n. 235; T.a.r. per la Toscana, sez. III, 6 settembre 2021, n. 1159; T.a.r. per il Lazio, Latina, sez. I, 2 aprile 2019, n. 230.
Difformi: non risultano precedenti difformi. | Giustizia amministrativa |
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Pregresso illecito professionale anteriore al triennio – Omessa dichiarazione – Art.80, commi 5 e 10, d.lgs. n.50 del 2016 – Obbligo dichiarativo – Non sussiste
Dalla piana esegesi dell’art.80, commi 5 e 10, d.lgs. n.50 del 2016, nel testo vigente ratione temporis (gennaio-febbraio 2019), si evince che la risoluzione per inadempimento del contratto (e comunque la commissione di gravi illeciti professionali) assumono rilevanza ai fini della ammissione (e costituiscono quindi oggetto dell’obbligo dichiarativo) per un periodo di tempo non superiore a tre anni dalla data dell’accertamento definitivo; in mancanza di ulteriori indicazioni normative, la data dell’accertamento definitivo deve intendersi quella in cui è stato adottato il provvedimento amministrativo che ha accertato la violazione degli obblighi contrattuali ed ha quindi contestato la risoluzione in danno, e ciò a prescindere dalla eventuale impugnazione dello stesso provvedimento e dalla pendenza del relativo giudizio (1).
(1) Ha aggiunto il Tar che in tal senso è dirimente l’art. 57, comma 7, della direttiva 2014/24/UE, dotata di efficacia diretta e verticale nell’ordinamento interno, nella parte in cui stabilisce che, nell’ipotesi in esame, il periodo di esclusione non deve superare i tre anni dalla “data del fatto”, ciò che evidentemente non consente di attribuire rilevanza ai fini della decorrenza del termine ad accadimenti successivi all’accertamento dell’inadempimento da parte dell’amministrazione.
Il Tar ha chiarito che nel concreto caso di specie, la questione della collocazione temporale dell’illecito professionale assume una rilevanza centrale ed assorbente, nei termini appresso indicati.
Le disposizioni di cui all’art. 80, commi 5 e 10, d.gs. n. 50 del 2016 hanno subito ripetute modifiche nel corso del tempo e pertanto sussiste l’esigenza di individuare le norme applicabili alla fattispecie oggetto del giudizio.
Nel caso di specie devono trovare applicazione, ratione temporis, le norme di cui al comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 60/2016, nel testo introdotto dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, nonché al comma 10 dello stesso articolo, nel testo modificato dall'articolo 49, comma 1, lettera f), del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, entrambe vigenti nel periodo compreso tra la data di pubblicazione del bando della procedura concorsuale (11.01.2019) ed il termine di scadenza per la presentazione delle offerte (fissato al 22.02.2019).
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che “il riferimento alla definitività dell'accertamento” contenuto nella norma di cui all’art. 80, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 56 del 2017” deve essere interpretato nel senso che “il termine decorre da quando è stato adottato l'atto definitivo, cioè di conclusione del procedimento di risoluzione”(Cons. St., sez. V, 6 maggio 2019, n. 2895)
Il Tar ha osservato per inciso che la norma oggi vigente, e cioè il comma 10 bis, aggiunto dall'articolo 1, comma 20, lettera o), numero 5), d.l.. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla l.14 giugno 2019, n. 55, contiene prescrizioni sostanzialmente diverse, dal momento che prende espressamente in considerazione soltanto il caso in cui sia stato adottato un “provvedimento di esclusione” e stabilisce che, in caso di contestazione in giudizio del provvedimento amministrativo, il termine triennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della relativa sentenza, ciò che vale indubbiamente ad aggravare la posizione del dichiarante che abbia inteso insorgere in giudizio, in termini che non appaiono compatibili con la prescrizione di chiusura di cui l’art. 57, comma 7, della direttiva 2014/24/UE, che, come si è detto, non consente di attribuire rilevanza all’illecito dopo tre anni dalla data del fatto, a prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale del provvedimento amministrativo. | Contratti della Pubblica amministrazione |
Ricorsi amministrativi - Ricorso straordinario al presidente della regione siciliana – Revocazione
La censura di mancata autonoma valutazione del caso da parte del Presidente della Regione Sicilia, a cui spetta la decisione sul ricorso straordinario, rispetto al parere reso dal C.g.a., non è riconducibile a nessuno dei motivi tassativamente indicati nell’art. 395 c.p.c., ai fini della proponibilità della revocazione, a cui espressamente rinvia l’art. 15 del d.P.R. n. 1199/1971.
Il carattere di impugnazione eccezionale della revocazione, prevista per i soli motivi tassativamente indicati nell’art. 395 c.p.c., comporta l’inammissibilità di ogni censura non compresa in detta esaustiva elencazione ed esclude di conseguenza la deduzione di motivi di nullità afferenti alle pregresse fasi processuali. Attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi.
L’omessa comunicazione dell’inizio delle operazioni di verificazione non integra l’errore di fatto revocatorio, il quale si configura come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa. La violazione del principio del contraddittorio potrebbe semmai integrare gli estremi dell’error iuris e non una errata valutazione o interpretazione delle risultanze processuali, sicché non ricorre l’errore revocatorio.
La verificazione è mezzo di prova che consente al giudice di richiedere gli opportuni chiarimenti, oltre che a un’Amministrazione “terza”, anche alla stessa Amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato, senza che ciò implichi violazione del principio di terzietà, del diritto di difesa e del contraddittorio, in quanto l’onere istruttorio viene diretto all’Amministrazione in quanto autorità pubblica che, in tale specifica qualità, deve collaborare con il giudice al fine di accertare la verità dei fatti. | Ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana |
Atto amministrativo – Impugnazione – Termine – Autorità giurisdizionale – Omessa indicazione – Illegittimità – Non sussiste – Errore scusabile.
La mancata esplicitazione del termine di impugnazione nonché dell’organo giurisdizionale dinnanzi al quale ricorrere, nei termini legalmente scanditi nell’art. 9 della delibera ART n. 86 del 2015 (regolante il procedimento sanzionatorio per le violazioni del reg. UE n. 1177 del 2020), non determina l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, stante la sua sostanziale inidoneità lesiva; integra, per contro, una mera irregolarità, valutabile ai fini della concessione della rimessione in termini per errore scusabile in caso di impugnazione tardiva. (1)
Sanzione amministrativa pecuniaria – Legge n. 689 del 1981 – Normativa di principio.
Le norme di principio contenute nel Capo I, della l. n. 689 del 1981 sono dotate di applicazione generale, dal momento che, in base all’art. 12 della medesima legge, le stesse devono essere osservate con riguardo a tutte le violazioni per le quali è comminata la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro. (2)
Sanzione amministrativa – Contestazione – Obbligo – Termine – Novanta giorni – Decorrenza – Dall’accertamento dell’infrazione.
In carenza di una diversa regolamentazione di fonte normativa primaria, anche nei procedimenti sanzionatori di competenza dell’Autorità dei Trasporti opera la disposizione di cui all’art. 14 della l. n. 689 del 1981 (norma per altro richiamata nella delibera della medesima Autorità 15 ottobre 2015, n. 86, recante disposizioni in materia sanzionatoria), sull’obbligo d’immediata contestazione dell’infrazione, entro il termine di novanta giorni. (3)
Il dies a quo del termine di novanta giorni coincide temporalmente non con la data di commissione della violazione, bensì con il tempo di accertamento dell’infrazione, da intendersi in una prospettiva teleologicamente orientata all’acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita, mediante il riscontro effettivo della sua consistenza e dei suoi effetti.
Ne discende che il detto termine inizia a decorrere solo dal momento in cui si è compiuta o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie, l’attività amministrativa di verifica della sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi dell’infrazione stessa.
Sanzione amministrativa – Contraddittorio – Obbligatorietà – Illegittimità.
Nei procedimenti sanzionatori dell’Autorità dei trasporti vige il principio del contraddittorio prescritto dall’art. 4 della l. n. 129 del 2015, che rende necessaria l’interlocuzione con l’interessato anche durante la fase decisoria, in esplicazione del diritto di difesa.
E’ pertanto illegittima la sanzione irrogata senza la previa comunicazione della relazione di chiusura di istruttoria e senza il preventivo svolgimento del contraddittorio dinnanzi al collegio.
Ciò a maggior ragione se, alla luce dei criteri di identificazione elaborati dalla giurisprudenza (norma posta a tutela di beni giuridici primari, grado di severità della sanzione, funzione punitiva e deterrente), la sanzione irrogabile abbia natura precipuamente afflittiva e sostanzialmente penale. (4)
Giustizia amministrativa – Azione di annullamento – Obbligo del giudice di esaminare tutti i motivi – Limiti – Integrale annullamento del provvedimento sanzionatorio impugnato – Assorbimento dei restanti motivi.
L’accoglimento di uno o più motivi in grado d’appello, tale da determinare la riforma della sentenza appellata e l’integrale annullamento del provvedimento sanzionatorio impugnato, è idoneo a realizzare pienamente l’interesse sostanziale sotteso al gravame, con conseguente assorbimento degli ulteriori motivi di censura, riguardanti l’esistenza dell’infrazione per cui è causa ed il suo trattamento sanzionatorio. (5)
(1) Trattarsi di giurisprudenza consolidata sin da Cons. Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1.
(2) Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 2022, n. 3570.
(3) In termini, cfr. Corte cost., n. 151 del 2021, sia pure con riguardo al termine di conclusione del procedimento sanzionatorio.
(4) Cons. Stato, sez. VI, 10 luglio 2018, n. 4211; idem, 12 febbraio 2020, n. 1047.
(5) Contra, tuttavia, Cons. Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1; idem, Ad. plen. 27 aprile 2015, n. 5, §§ 9.3.2., 9.3.3., 9.3.4.2. | Atto amministrativo |
Atto amministrativo – Procedimento automatizzato – Motivazione
Il ricorso all’algoritmo all’interno del procedimento amministrativo non può mai comportare un abbassamento del livello delle tutele procedimentali e in particolare dell’obbligo di motivazione del provvedimento ex art. 3 l. 241 del 1990, il quale, al contrario, in questi casi appare rafforzato (1).
Amministrazione dello Stato - Atto amministrativo – Procedimento automatizzato - Discrezionalità
Il principio di trasparenza impone che nelle decisioni amministrative algoritmiche il processo automatizzato sia reso non solo conoscibile nei suoi aspetti tecnici, ma anche comprensibile, mediante una spiegazione che lo traduca nella “regola giuridica” ad esso sottesa, così rendendolo intellegibile ai suoi destinatari. Ciò al fine di consentire, da un lato, il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto inciso dal provvedimento, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dall’altro, il pieno sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo (2).
· Conformi: Cons. Stato, Sez. VI, 04/02/2020, n. 881; Cons. Stato, Sez. VI, 13/12/2019, n. 8472; Cons. Stato, Sez. VI, 13/12/2019, n. 8473; Cons. Stato, Sez. VI, 08/04/2019, n. 2270; T.a.r. per il Lazio, Sez. III-bis, 19/04/2019, n. 5139
· Difformi: non risultano precedenti difformi. | Amministrazione dello Stato |
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Criterio del minor prezzo – Scelta di tale criterio per selezionale l’offerta - Art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 – Condizione.
Il legittimo ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 4, lett. b), del Codice dei contratti pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta economicamente più vantaggiosa, si giustifica in relazione all’affidamento di forniture o di servizi che siano, per loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte differenziate (1).
(1) Cons. Stato, V, 20 gennaio 2020, n. 444; id., sez. III, 13 marzo 2018, n. 1609; id. 2 maggio 2017, n. 2014.
A loro volta, le linee guida Anac n. 2, approvate nel 2016 e aggiornate nel 2018, chiariscono che: i “servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato” sono quei servizi o forniture che, anche con riferimento alla prassi produttiva sviluppatasi nel mercato di riferimento, non sono modificabili su richiesta della stazione appaltante oppure che rispondono a determinate norme nazionali, europee o internazionali; “i servizi e le forniture caratterizzati da elevata ripetitività soddisfano esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla normale operatività delle stazioni appaltanti, richiedendo approvvigionamenti frequenti al fine di assicurare la continuità della prestazione”; i benefici del confronto concorrenziale basato sul miglior rapporto qualità e prezzo in tali casi “sono nulli o ridotti”; tale ipotesi si rinviene anche laddove la stazione appaltante vanti “una lunga esperienza nell’acquisto di servizi o forniture a causa della ripetitività degli stessi”.
Infine, sempre per le linee guida Anac n. 2, l’adeguata motivazione del ricorso al criterio richiesta dall’art. 95, comma 5, del Codice dei contratti pubblici è finalizzata a evidenziare il ricorrere degli elementi alla base della scelta dello stesso e altresì a dimostrare “che attraverso il ricorso al minor prezzo non sia stato avvantaggiato un particolare fornitore, poiché ad esempio si sono considerate come standardizzate le caratteristiche del prodotto offerto dal singolo fornitore e non dall’insieme delle imprese presenti sul mercato”. | Contratti della Pubblica amministrazione |
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