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Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione – Servizi sociali – Gold plating– Applicabilità.           Anche alle concessioni di servizi sociali si applica il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi (c.d. gold plating) (1).   (1) L’Anac ha posto alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato il quesito relativo all’estensione del regime applicabile alle concessioni di servizi sociali in relazione a quanto previsto dall’art. 19 della direttiva 2014/23/UE (“Le concessioni per i servizi sociali e altri servizi specifici elencati nell’allegato IV che rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva sono soggette esclusivamente agli obblighi previsti dall’articolo 31, paragrafo 3, e dagli articoli 32, 46 e 47”). L’Anac, ritenendo che “l'esclusione delle concessioni di servizi sociali dall'ambito di applicazione del codice comporterebbe la necessità di rimettere ad atti interni delle stazioni appaltanti l'intera regolazione di elementi fondamentali dell'istituto e, in specie, tutta la disciplina contenuta nella parte III del codice per le concessioni di servizi”, per evitare un vuoto normativo, ha individuato una soluzione in base alla quale “alle concessioni di servizi sociali si applicano le disposizioni indicate all’art. 164 del codice dei contratti pubblici”. Questa soluzione non ha convinto la Sezione. L’art. 213, comma 2, del codice dei contratti pubblici dispone al quarto periodo che “l’ANAC, per l’emanazione delle linee guida, si dota, nei modi previsti dal proprio ordinamento, di forme e metodi di consultazione, di analisi e di verifica dell’impatto della regolazione, di consolidamento delle linee guida in testi unici integrati, organici e omogenei per materia, di adeguata pubblicità, anche sulla Gazzetta Ufficiale, in modo che siano rispettati la qualità della regolazione e il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla legge n. 11 del 2016 e dal presente codice”. L’art. 1, comma 1, lett. a), l. n. 11 del 2016 individua, tra i criteri e i principi direttivi per il legislatore delegato, il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori  a quelli minimi richiesti dalle direttive”, come definiti dall'art. 14, comma 24-ter, lett. b), l. 28 novembre 2005, n. 246, ai sensi del quale “costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie:[...]l'estensione dell'ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari”. Pertanto, il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi (c.d. gold plating) esclude l’applicabilità di una disciplina aggravata introdotta attraverso le linee guida. Tale conclusione risulta confermata anche in relazione al caso di specie. Ed invero se, per un verso, è vero che si tratta di linee guida non vincolanti, per altro verso, è altrettanto vero che le stesse, anche alla luce della giurisprudenza della Sezione, per essere disattese richiedono che l’amministrazione specificamente motivi la ragione per cui decide di discostarsene. Si tratta dunque di atti provenienti da un’Autorità, particolarmente qualificata, con la conseguenza che devono mantenersi nell’ambito della cornice delineata dalle direttive e dal legislatore.
Contratti della Pubblica amministrazione
Concorso - Guardia di finanza - Esclusione – Per stato di gravidanza – Illegittimità.  ​​​​       E’ illegittima l’esclusione di una candidata dal concorso per allievi finanzieri perché in stato di gravidanza, contrastando tale esclusione sia con il quadro normativo di riferimento che con i principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza, entrambi volti ad evitare ogni forma di discriminazione fondata sul sesso e a garantire la parità di trattamento tra uomo e donna anche con riferimento all’accesso al lavoro (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’impianto normativo, sia nazionale che sovranazionale, è univoco nell’escludere che lo stato di gravidanza possa rappresentare un ostacolo nell’accesso al lavoro o fonte di discriminazione nell’ambito del rapporto lavorativo.  L’uguaglianza sostanziale tra i candidati, senza distinzione di genere, sarebbe frustrata in via definitiva se lo stato di gravidanza si trasformasse da impedimento temporaneo all’accertamento a causa definitiva di esclusione. Giova, sotto tale profilo, richiamare i principi espressi dalla Corte di Giustizia, secondo cui il rifiuto d'assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta, quindi, una discriminazione diretta a motivo del sesso (sent. 8 novembre 1990, Dekker, C-177/88, punto 12). Per tale ragione, l’art. 3, d.m. 17 maggio 2000, n. 155 (Regolamento recante norme per l'accertamento dell'idoneità al servizio nella Guardia di finanza) - secondo cui l'accertamento nei riguardi dei candidati che partecipano ai concorsi per il reclutamento nella Guardia di finanza è effettuato entro il termine stabilito dal bando di concorso in relazione ai tempi necessari per la definizione della graduatoria - non può che essere letto nel senso di essere volto a garantire l’uguaglianza sostanziale dei candidati che aspirano all’arruolamento in Guardia di Finanza e ad evitare che la gravidanza, di per sé, possa costituire una causa di esclusione dal concorso, e, quindi, fonte di una discriminazione diretta fondata sul sesso, la cui eliminazione si impone come un obiettivo multilivello. Il comma 3 del citato decreto non può essere letto in stretta correlazione con il comma 2, nel senso che l’accertamento nei confronti della candidata in gravidanza è precluso definitivamente oltre il termine stabilito dal bando. Osta a siffatta interpretazione la duplice considerazione per cui, sul piano logico, la durata dell’impedimento in questione non può che essere condizionata dallo sviluppo fisiologico della gravidanza e, sul piano giuridico, la lettura congiunta dei due commi suggerita dalla difesa erariale trasformerebbe l’impedimento da temporaneo in definitivo, configurando una clausola di esclusione non prevista espressamente dal bando e riferita esclusivamente alle candidate di sesso femminile. Dalla qualificazione della gravidanza come temporaneo impedimento all’accertamento discende, in via conseguenziale, una ammissione con riserva della candidata, come correttamente ritenuto dal Tar. Sotto tale profilo, l’art. 2139, comma 1 bis, del Codice militare, nel prevedere che l’accertamento di idoneità al servizio venga rinviato, per le candidate in stato di gravidanza, e svolto nel primo concorso utile successivo, si limita unicamente a disciplinare e chiarire, sul piano pratico-operativo, la fase posteriore alla cessazione dell’impedimento e le conseguenze dell’esito positivo dell’accertamento successivamente svolto, con riferimento alla frequenza del corso di formazione, agli effetti giuridici ed economici. La citata novella, tuttavia, nulla ha innovato in punto di temporaneità dell’impedimento che, già sulla base del d.m. n. 155 del 2000, non poteva che tradursi in una sospensione dell’accertamento dell’idoneità fino alla cessazione della causa impeditiva. ​​​​​​​La situazione della candidata in gravidanza al momento dell’accertamento è, del pari, non assimilabile a quella di chi versa nel medesimo momento in condizioni di infermità, per la già ricordata considerazione che la gravidanza è una situazione peculiare del sesso femminile, ad evoluzione fisiologica predeterminata e, in linea di massima, prevedibile, mentre l’infermità è una condizione comune a entrambi i sessi, la cui durata è, sul piano prognostico, non predeterminabile. Da ciò discende che l’applicazione del limite temporale previsto dall’art. 3, comma 3, d.m. n. 155 del 2000 esclusivamente a chi versi in stato di infermità non evidenzia alcuna irragionevolezza della disciplina, non determinando alcuna discriminazione nell’accesso all’impiego fondata sul sesso che il comma 2 del medesimo art. 3 mira ad evitare. 
Concorso
Edilizia ed urbanistica – Acquisizione al patrimonio del Comune – Giustizia amministrativa – Legittimazione al ricorso – Creditore ipotecario – Inammissibilità Il creditore ipotecario non è legittimato ad impugnare l’ordinanza di acquisizione avente ad oggetto beni insistenti sul fondo di proprietà del debitore, atteso che l’azione produrrebbe effetti giuridici nella sfera di un altro soggetto, e che - nel giudizio amministrativo – l’esercizio dell’azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall’azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi. Conformi: T.a.r. per la Valle D’Aosta, sez. unica, 12 ottobre 2018, n. 48. Difformi: T.a.r. per il Piemonte, sez. II, 27 giugno 2018, n. 791.
Edilizia
Processo amministrativo - Covid-19 - Tutela cautelare - Decisione cautelare collegiale - Calendarizzata in periodo ricompreso fra il 6 e il 15 aprile 2020 – Mancata decisione alla camera di consiglio – Per mancata presentazione di congiunta richiesta delle parti di passaggio in decisione - Art. 84, comma 2, d.l. n. 18 del 2020 – Decisione monocratica - Necessità.       Ove sull’istanza cautelare non si sia provveduto in sede collegiale, alla camera di consiglio fissata nel periodo dal 6 al 15 aprile 2020, ai sensi dell’art. 84, comma 2, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, per mancata presentazione di congiunta richiesta delle parti di passaggio in decisione, nelle more della successiva camera di consiglio deve provvedersi con decreto monocratico ai sensi dell’art. 84, comma 1, decreto-legge n. 18 cit. (1). (1) Ha ricordato il decreto che l’art. 84, commi 1 e 2, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha previsto che i procedimenti cautelari siano in questo momento decisi con decreto monocratico con il rito dell’art. 56 c.p.a. e fissazione della trattazione collegiale, in caso di accoglimento a data successiva al 6 aprile 2020. Nella specie sull’istanza cautelare non è stato finora provveduto con decreto monocratico in quanto la medesima era iscritta al ruolo della camera di consiglio dell’8 aprile 2020 e pertanto suscettibile di essere definita collegialmente in virtù della previsione derogatoria di cui all’84, comma 2, primo capoverso, d.l. n. 18 del 2020. La decisione collegiale non è stata, nella specie, però possibile non avendo le parti presentato nei termini di legge la necessaria richiesta congiunta di passaggio in decisione.
Processo amministrativo
Covid-19 – Scuola – Didattica a distanza – D.P.C.M. 2 marzo 2021 – Obbligo generalizzato di uso della mascherina per gli studenti di età inferiore tra i 6 e i 12 anni – Non va sospeso.        Deve essere respinta l’istanza di sospensione dell’obbligo generalizzato di uso della mascherina per gli studenti tra i 6 e i 12 anni, non caratterizzandosi per la “manifesta irragionevolezza” che, sola, consentirebbe al giudice amministrativo un intervento inibitorio (1). 
Covid-19
Covid-19 – Vaccino – Obbligo – Inadempimento – Conseguenza – Sospensione senza retribuzione – Assegno alimentare – Non è dovuto.             La disciplina sull’obbligo di vaccinazione per Covid-19 prevede, in caso di inadempimento dell’obbligo, la sospensione dal servizio senza retribuzione e altri emolumenti comunque denominati, ivi incluso l’assegno alimentare (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina sull’obbligo di vaccinazione per Covid-19 prevede, in caso di inadempimento dell’obbligo, la sospensione dal servizio senza retribuzione e altri emolumenti comunque denominati. Tale disciplina non consente la corresponsione di assegno alimentare, a differenza di altre ipotesi di sospensione dal servizio; si tratta di disciplina speciale, che non consente estensione analogica di regole dettate per altri casi di sospensione dal servizio; ove si intenda, come il giudice di primo grado, dubitare della costituzionalità della previsione, la stessa non può tuttavia essere disapplicata, non essendo consentito un sindacato diffuso di costituzionalità, ma va piuttosto rimessa alla Corte costituzionale, sicché non è consentita la sospensione del provvedimento amministrativo fondato su una norma primaria della cui costituzionalità si dubiti, senza una contemporanea rimessione della norma di legge alla Corte costituzionale; diversamente, la sospensione del provvedimento amministrativo si traduce in una non consentita disapplicazione della legge.
Covid-19
Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Forma - Audizione delle parti – Esclusione – Violazione art. 6 C.E.D.U. – Non viola.           L’art. 49, comma 1, r.d. n. 444 del 1942 – a mente del quale “gli affari sui quali è chiesto parere non possono essere discussi con l’intervento degli interessati o dei loro rappresentanti o consulenti” – non contrasta con l’art. 6 C.ED.U. alla luce della lettura che ne ha dato la giurisprudenza nazionale e la Corte EDU (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la ‘giurisdizionalizzazione’ del ricorso straordinario al Capo dello Stato non determina la totale equiparabilità ai rimedi giurisdizionali in considerazione della specificità e della sommarietà della procedura originata dal ricorso straordinario, a confronto con quella disciplinata dal codice del processo amministrativo. L’equiparazione alla giurisdizione” non “può dirsi piena”, soprattutto con riferimento al modello di istruttoria previsto dal d.P.R. n. 1199 del 1971, che è basato sull'affidamento dell’indagine e dell’acquisizione degli atti rilevanti in capo alle strutture ministeriali, senza contraddittorio orale con le parti. Ha ancora ricordato la Sezione che anche la Corte Costituzionale - che già si era espressa nel senso che “al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta” (Corte cost. 11 marzo 2011 n. 80) - con la sentenza 9 febbraio 2018 n. 24 ha affrontato nuovamente e trasversalmente la questione dell’applicabilità delle regole convenzionali in tema di equo processo. Per la Corte “il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è, come noto, rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale al giudice amministrativo, spettando al ricorrente di scegliere liberamente fra l’una e l’altra via, con l’unica conseguenza che una volta scelta una non è più possibile intraprendere l’altra, e salva restando naturalmente la facoltà dei controinteressati di chiedere la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario eventualmente prescelto dal ricorrente”. E “del resto, che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si traggano conclusioni negative sulla riferibilità alla decisione del ricorso straordinario delle garanzie convenzionali in tema di equo processo è confermato dalle pronunce nelle quali la stessa Corte si è direttamente occupata di questo particolare rimedio. Ciò è avvenuto in tre occasioni, e in due delle quali proprio con specifico riferimento alla previsione dell’art. 6 della CEDU” (Corte cost., 9 febbraio 2018, n. 24).  Va, infatti, ricordato che nella decisione 28 settembre 1999, Nardella contro Italia, la Corte EDU ricostruisce la disciplina dell’istituto del ricorso straordinario come rimedio speciale ed esclude che esso – del ritardo nella cui decisione il ricorrente si doleva nel caso di specie – ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione. Per la stessa ragione osserva che il ricorso al Presidente della Repubblica non rientra fra quelli che devono essere esperiti previamente al ricorso ex art. 35 della Convenzione stessa. Ciò premesso, nella pronuncia è sottolineato come, optando per il gravame speciale del ricorso straordinario, il ricorrente (che pure è stato informato della possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale) sceglie esso stesso di esperire un rimedio che si pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione. Sulla base dei medesimi argomenti e richiamando il caso Nardella, nella decisione 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia, la Corte EDU ha dichiarato irricevibile un ricorso proposto a essa dal ricorrente che aveva preventivamente esposto le sue ragioni in alcune lettere al Presidente della Repubblica. La Corte osserva che tali lettere, anche a volerle considerare equivalenti a un rimedio straordinario, non ricadono comunque nella sfera di applicazione dell’art. 35 della Convenzione. Particolarmente significativo è che alle stesse conclusioni la Corte di Strasburgo pervenga nella sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia, successiva quindi alla riforma del 2009, dove ribadisce che la parte ricorrente, «presentando un appello speciale al Presidente della Repubblica nel 2007, non ha avviato un procedimento contenzioso del tipo descritto all’articolo 6 della Convenzione (si veda Nardella c. Italia (dec.), n. 45814/99, CEDU 1999-VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra citata), e che, pertanto, la disposizione non è applicabile» (paragrafo 62). 
Ricorso straordinario al Capo dello Stato
Militari, forze armate e di polizia – Guardia di finanza - Condanna penale definitiva non sospesa – Pena accessoria della rimozione – Effetti Ai sensi degli artt. 866 e 2149, comma 8, cod. mil., applicabile anche al Corpo della Guardia di finanza, nei casi in cui un militare della Guardia di finanza sia attinto da una condanna penale definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o per delitto (comune) che comporti la pena accessoria della rimozione, l’effetto giuridico della rimozione si produca di pieno diritto, senza che sia necessario instaurare il procedimento disciplinare o, eventualmente, proseguire il procedimento in precedenza già avviato (1). (1) Ha ricordato la Sezione che la rimozione: - costituisce una pena militare accessoria (art. 24 c.p.m.p.); - “si applica a tutti i militari rivestiti di un grado appartenenti a una classe superiore all'ultima; è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe. La condanna alla reclusione militare, salvo che la legge disponga altrimenti, importa la rimozione quando è inflitta per durata superiore a tre anni” (art. 29 c.p.m.p); - di regola, “decorre, ad ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile” (art. 34 c.p.m.p.). A tenore dell’art. 33 c.p.m.p. la rimozione, inter alia, si applica ex lege ai casi in cui la pena della reclusione cui sia stato condannato, in sede penale, il militare debba essere sostituita, in fase esecutiva, con la pena della reclusione militare. Nella vicenda di specie accade proprio questo: ai sensi dell’art. 63, n. 3, c.p.m.p., infatti, la condanna inflitta al ricorrente, militare in s.p.e., è sostituita di diritto con la condanna alla reclusione militare “per egual durata”, giacché la relativa misura (anni 3 e mesi 8) non importa, ai sensi dell’art. 29 c.p., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, con conseguente inoperatività della più rigida previsione di cui all’art. 63, n. 2, c.p.m.p.. La Sezione osserva, incidentalmente, che la rimozione (e le misure interdittive equiparabili), come ripetutamente affermato da questo Consiglio (cfr. da ultimo Sez. IV, ord. n. 1606 del 2016; Sez. VI, n. 389 del 2014; Sez. IV, n. 4292 del 2012; Sez. IV, n. 6437 del 2010) e, proprio in quanto produce, quale effetto ineludibile, specifico e caratteristico, la perdita del grado, determina conseguentemente ed automaticamente, a valle, ai sensi dell’art. 923, comma 1, lett. i], cod.ord.mil., la cessazione del rapporto d’impiego. Del resto, la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 268 del 2016), nel dichiarare costituzionalmente illegittimi gli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i], cod.ord.mil. “nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici”, ha espressamente e specificamente valorizzato, a sostegno della decisione di accoglimento, il carattere “provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto” proprio della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Vi sono, dunque, evidenti ragioni per ritenere il decisum della Corte non estensibile alle conseguenze delle pene accessorie di carattere perpetuo, quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (art. 32-quinquies c.p.) e, appunto, la rimozione. Con specifico riferimento all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego, infatti, nell’arresto citato supra la Corte ha espressamente sostenuto, con argomentazioni perfettamente riferibili anche all’ipotesi della rimozione, che “solo eccezionalmente l’automatismo [della destituzione del militare] potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies c.p.. Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto”. Le esposte considerazioni consentono di ritenere superate le argomentazioni svolte nella precedente pronuncia della Corte costituzionale n. 363 del 1996, oltretutto riferite ad un corpus normativo frattanto abrogato. La Sezione ha escluso che ci siano ragioni per sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil.. La disposizione, come visto, fa salvo “quanto previsto dall'articolo 866”: questa disposizione, a sua volta, fa riferimento a condanne per un reato che “comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”. Il riferimento, dunque, non è a condanne che esplicitamente irroghino, tra l’altro, la pena accessoria della rimozione, ma a condanne che “comportino”, di diritto, siffatta pena accessoria. In sostanza, la norma che si trae dall’articolo in commento dimostra chiaramente, tramite l’esposta scelta lessicale, di prescindere dal tenore letterale della sentenza di condanna e di guardare, viceversa, alle relative conseguenze in diritto. Del resto, in una più ampia visione sistemica, la rimozione, quale pena accessoria perpetua che opera ope legis, non ope judicis e che è predeterminata nella specie e nella durata, trova (recte, deve trovare) applicazione indipendentemente dalla relativa menzione nella sentenza di condanna. Calando tali considerazioni generali nella fattispecie di cui al presente giudizio, si ha che già all’indomani della sentenza della Cassazione del 25 novembre 2015, l’Amministrazione avrebbe potuto adottare il provvedimento ricognitivo della cessazione del rapporto d’impiego: la sentenza della Corte d’appello di Milano del 10 gennaio 2014, infatti, comportava ex lege la pena accessoria della rimozione. Tale conclusione è, per vero, confermata: - sia dall’ordinanza della Corte di appello di Milano del 29 marzo 2016, emessa con la procedura prevista per la correzione dell’errore materiale, ove si precisa che “è possibile procedere … in quanto la richiesta pena accessoria discende con assoluta automaticità dalla condanna irrevocabile”; - sia dalla successiva ordinanza emessa in data 28 novembre 2017, con le forme dell’incidente di esecuzione, dalla medesima Corte a definizione del giudizio di opposizione (così riqualificato dalla Corte di cassazione, con ordinanza del 16 marzo 2017, l’originario ricorso per cassazione radicato dall’odierno ricorrente), ove si sostiene che “quella richiesta (rimozione dal grado) è una pena accessoria, che a norma degli articoli 29, 33 e 63 del c.p.m.p. consegue di diritto ed in modo automatico alla condanna per il reato di cui all’art. 319-quater c.p. e che, ove sia stata omessa in sentenza dal giudice della cognizione, può essere disposta dal giudice dell’esecuzione nelle forme del relativo procedimento”. La retrodatazione della decorrenza giuridica della cessazione del rapporto di impiego al momento della prima applicazione della misura della sospensione precauzionale dal servizio risponde al disposto della norma speciale di cui all’art. 867, comma 5, cod.ord.mil., ai sensi della quale “la perdita del grado decorre dalla data di cessazione dal servizio, ovvero, ai soli fini giuridici, dalla data di applicazione della sospensione precauzionale, se sotto tale data, risulta pendente un procedimento penale o disciplinare che si conclude successivamente con la perdita del grado, salvo che il militare sia stato riammesso in servizio”.
Militari, forze armate e di polizia
Urbanistica – Localizzazione - Impianti di distribuzione carburanti – Condizione.                 La localizzazione di impianti di distribuzione carburanti incontra i   limiti della esigenza di salvaguardia ambientale insita nella destinazione di zona agricola (1).     (1) Ha affermato la Sezione che  l’art. 2 comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998, si limita a prevedere la compatibilità funzionale degli impianti di carburante con le diverse parti del territorio comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali, con l'effetto che essi non devono di necessità essere collocati in zona territoriale omogenea a destinazione industriale; rimane comunque salva la potestà comunale di individuare le caratteristiche delle aree sulle quali possono essere realizzati tali impianti.  Il d.lgs. n. 32/1998 configura un potere conformativo della rete distributiva dei carburanti particolare rispetto all’ambito esclusivamente urbanistico, affidando ai Comuni il compito di definire i criteri, requisiti e caratteristiche delle aree su cui possono essere istallati gli impianti di distribuzione carburanti, con un apposito atto di raccordo con la disciplina urbanistica, in modo da consentire la razionalizzazione della rete di distribuzione e la semplificazione del procedimento di autorizzazione di nuovi impianti su aree private.  Il significato della norma è quello secondo cui è in facoltà degli enti locali consentire, in sede di pianificazione della rete, la localizzazione dei nuovi impianti anche nelle zone del P.R.G. soggette a diversa destinazione, purché non sottoposte a particolari vincoli. 
Urbanistica
Processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza - Azione esecutiva – Regione Calabria – Servizio sanitario regionale - Art. 16-septies, comma 2, lett. g), d.l. n. 146 del 2021 – Limiti – Violazione artt. 24 e 113 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.                 È rilevante e non manifestamente infondata la questione di    legittimità costituzionale dell’art. 16-septies, comma 2, lett. g), d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, come introdotto dalla legge di conversione, e cioè la l. 17 dicembre 2021, n. 215, per contrasto con l’art. 24 Cost., da solo e, nella misura in cui riguardi anche il giudizio d’ottemperanza svolto davanti al giudice amministrativo, in combinata lettura con l’art. 113 Cost. nella parte in cui prevede che «al fine di coadiuvare le attività previste dal presente comma (e cioè le attività di controllo, liquidazione e pagamento delle fatture, sia per la gestione corrente che per il pregresso, nonché le attività di monitoraggio e di gestione del contenzioso), assicurando al servizio sanitario della Regione Calabria la liquidità necessaria allo svolgimento delle predette attività finalizzate anche al tempestivo pagamento dei debiti commerciali, nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria di cui all'art. 19, d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive (…). Le disposizioni della presente lettera si applicano fino al 31 dicembre 2025» (1).    (1) Analoghe remissioni sono state disposte con ordd. 28 febbraio 2022, n. nn. 357 e 358.  Ha chiarito la Sezione che il dubbio di incompatibilità tra l’art. 16-septies, comma 2, lett. g), d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, e l’art. 24 Cost. è alimentato dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale  Essa ha ripetutamente affermato che la garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti comprende anche l’esecuzione forzata, che è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento del giudice (sentenza n. 522 del 2002).  La tutela in sede esecutiva, infatti, è componente essenziale del diritto di accesso al giudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore (ex plurimis, cfr. le sentenze n. 225 del 2018, n. 198 del 2010, n. 335 del 2004, n. 522 del 2002 e n. 321 del 1998; ordinanza n. 331 del 2001).  La fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria (sentenza n. 419 del 1995), stante che «il principio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale» (sentenze n. 225 del 2018 e n. 304 del 2011).  È certo riservata alla discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali, con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della disciplina (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2016, n. 10 del 2013 e n. 221 del 2008); ma tale limite è valicato «ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire» (sentenza n. 225 del 2018; negli stessi termini, tra le tante, sentenze n. 87 del 2021, n. 271 del 2019, n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004).  La sospensione delle procedure esecutive deve costituire, pertanto, un evento eccezionale: «un intervento legislativo − che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore − può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora […] siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale» (sentenza n. 186 del 2013).  È ben vero che il legislatore ordinario – in presenza di altri diritti meritevoli di tutela – può procrastinare la soddisfazione del diritto del creditore alla tutela giurisdizionale anche in sede esecutiva.  Deve però sussistere un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, da valutarsi considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite (ex plurimis, cfr. le sentenze n. 212 del 2020, n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988).  Sulla base dei principi testé illustrati, la Corte ha già dichiarato illegittimo, con sentenza del 12 luglio 2013, n. 186, l'art. 1, comma 51, l. 13 dicembre 2010, n. 220, sia nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 17, comma 4, lettera e), d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con mod. con l. 15 luglio 2011, n. 111, sia nel testo risultante a seguito delle ulteriori modificazioni apportate dall'art. 6-bis, comma 2, lettere a) e b), d.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. con mod. con l. 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui prevedeva che, nelle Regioni già commissariate in quanto sottoposte a piano di rientro dei disavanzi sanitari, non potessero essere intraprese o proseguite azioni esecutive, anche ai sensi dell'articolo 112 c.p.a., nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2012.  La Corte ha ribadito che un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore - può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte (sentenze n. 277 del 2012 e n. 364 del 2007).  Viceversa, la disposizione in quella sede censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, era stata differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere la estinzione delle procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, della spese di esecuzione già affrontate, non prevedeva alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati.  Essa, pertanto, si poneva, in entrambe le sue versioni, in contrasto con l'art. 24 Cost. in quanto, in conseguenza della norma censurata, venivano vanificati gli effetti della tutela giurisdizionale già conseguita dai numerosi creditori delle aziende sanitarie procedenti nei giudizi esecutivi.  Costoro non soltanto si trovano, in alcuni casi da più di un triennio, nella impossibilità di trarre dal titolo da loro conseguito l'utilità ad esso ordinariamente connessa, ma dovevano, altresì, sopportare, in considerazione della automatica estinzione (o, nella versione precedente, della inefficacia) delle procedure esecutive già intraprese e della liberazione dal vincolo pignoratizio dei beni già asserviti alla procedura, i costi da loro anticipati per l'avvio della procedura stessa.  Né si verificava la condizione che, secondo la giurisprudenza costituzionale, rende legittimo il blocco delle azioni esecutive, cioè la previsione di un meccanismo di risanamento che, come detto, canalizzasse in una unica procedura concorsuale le singole azioni esecutive, con meccanismi di tutela dei diritti dei creditori che non si rinvenivano nei piani di rientro cui la disposizione faceva riferimento, sicché la posizione sostanziale dei creditori trovasse una modalità sostitutiva di soddisfazione.  La disposizione in esame, infatti, non conteneva la disciplina di tale tipo di procedura né identificava le risorse finanziarie da cui attingere per il suo eventuale svolgimento.  La Corte ha, altresì, considerato rilevante la circostanza che, con la disposizione censurata, il legislatore statale avesse creato una fattispecie di ius singulare che determinava lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui all'art. 111 Cost.  Né poteva, infine, valere a giustificare l'intervento legislativo censurato il fatto che questo potesse essere ritenuto strumentale ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali connesse al servizio sanitario: infatti, a presidio di tale essenziale esigenza già risultava da tempo essere posta la previsione di cui all'art. 1, comma 5, del d.l. 18 gennaio 1993, n. 9, conv. con mod. con l. 18 marzo 1993, n. 67, in base alla quale è assicurata la impignorabilità dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari.  Recentissimamente, con la sentenza del 7 dicembre 2021, n. 236, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, conv. con l. 26 febbraio 2021, n. 21, che, in ragione dell’emergenza derivante dall’epidemia di Covid-19, aveva prorogato la sospensione delle esecuzioni e l’inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale, già precedentemente disposta.  Dopo aver ripercorso la motivazione della precedentemente evocata sentenza n. 186 del 2013, la Corte ha precisato che, nonostante l’evoluzione dell’emergenza sanitaria e la possibilità di ricalibrare su di essa la programmazione di cassa, la disposizione censurata aveva prorogato la misura in danno dei creditori per un intero anno senza alcun aggiornamento della valutazione comparativa tra i loro diritti giudizialmente accertati e gli interessi dell’esecutato pubblico.  In tal modo, gli effetti negativi della protrazione del “blocco” delle esecuzioni venivano lasciati invariabilmente a carico dei creditori, tra i quali pure possono trovarsi anche soggetti cui è stato riconosciuto un risarcimento in quanto gravemente danneggiati nella salute o operatori economici a rischio di espulsione dal mercato.  Costituzionalmente tollerabile ab origine, la misura era divenuta sproporzionata e irragionevole per effetto di una proroga di lungo corso e non bilanciata da una più specifica ponderazione degli interessi in gioco, che ha leso il diritto di tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. nonché, al contempo, la parità delle parti e la ragionevole durata del processo esecutivo.  Il protratto sacrificio imposto ai creditori sul piano della tutela giurisdizionale avrebbe potuto essere ricondotto a conformità con i parametri costituzionali ove fosse stata approntata una tutela alternativa di contenuto sostanziale, che però non era stata nella specie predisposta.  Ebbene, la disposizione che in questa sede va applicata replica, a parere di questo Tribunale, tutti i profili di illegittimità evidenziati con riferimento ai precedenti provvedimenti di sospensione.  Essa impedisce, per un lunghissimo periodo di quattro anni (che si aggiungono ai quasi due anni in cui, sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2021, le procedure esecutive nei confronti di tutti gli Enti del Servizio Sanitario Nazionale sono rimaste sospese), l’accesso alla tutela esecutiva.  Non prevede una procedura concorsuale idonea a garantire la soddisfazione, quanto meno pro quota, delle pretese dei creditori.  Crea un’ingiustificata disparità tra debitore pubblico e creditori privati, tra i quali possono ben esservi soggetti socialmente o economicamente svantaggiati.  Per tali ragioni, essa si pone in diretto contrasto con l’art. 24 Cost., che invece assicura a tutti il diritto ad agire, anche esecutivamente.  La violazione dell’art. 24 Cost. si apprezza, trattandosi di giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, anche in combinato disposto con l’art. 113 Cost, che assicura sempre «la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa» e ne vieta l’esclusione o la limitazione a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.    Infatti, ciò che la norma in questione determina è proprio l’impossibilità per il creditore degli Enti del servizio sanitario regionale della Calabria di ottenere dal giudice amministrativo la tutela giurisdizionale esecutiva, in ragione del provvedimento giurisdizionale definitivo ottenuto dal giudice ordinario.  Risulta quindi violato anche l’art. 113 Cost.   
Processo amministrativo
Pubblica istruzione – Concorso - Concorsi riservati ai docenti di musica precari Riserva al personale docente che abbia prestato tre anni di servizio nelle Istituzioni di Alta formazione artistica musicale e coreutica (Afam) statali e non anche nelle Afam non statali – D.M. n. 597 del 2018 – Legittimità.       E’ legittimo il decreto del Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca del 14 agosto 2018, n. 597, il quale ha previsto che l’inserimento in apposite graduatorie nazionali per l’attribuzione di incarichi di insegnamento a tempo indeterminato o determinato sia riservato, ai sensi dell’art. 1, comma 655, l. 27 dicembre 2017, n. 205, esclusivamente al personale docente che abbia prestato tre anni di servizio nelle Istituzioni di Alta formazione artistica musicale e coreutica (Afam) statali e non anche nelle Afam non statali (1). 
Pubblica istruzione
Processo amministrativo – Appello – Termine lungo – Computo - Criterio di scomputo del periodo feriale       Nel Codice del processo amministrativo il termine lungo per appellare è di sei mesi decorrenti dalla pubblicazione della sentenza; per il computo dei termini a mesi, si osserva il calendario comune; la scadenza del termine che si computa a mesi si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale; se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese; i termini processuali sono sospesi dal primo agosto al 31 agosto di ciascun anno. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Militari, forze armate e di polizia – Trasferimenti – Disciplina.  Militari, forze armate e di polizia – Trasferimenti – Segnalazione whistleblower – Carattere ostativo – Esclusione.              Il trasferimento del militare, anche per ragioni di incompatibilità ambientale, rientra nel genus degli ordini militari e ad essi non si applicano, ex art. 1349 c.m., le garanzie della l. n. 241 del 1990, mentre prevalgono le esigenze poste a base del trasferimento per incompatibilità ambientale prevalgono su quelle relative ai benefici di cui all’art. 33 comma 5, l. n. 104 del 1992 (1).              Il trasferimento di un militare intervenuto in conseguenza di segnalazioni non viola la disciplina in materia di c.d. whistleblowing nel caso in cui le appaiono motivate non tanto dall’esigenza di una mera e lata volontà di concorrere a perseguire l’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, quanto, piuttosto, da un interesse personale e, comunque, strettamente connesso a rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori (2).    (1) Ha ricordato la Sezione che l’ordinamento militare è connotato da un peculiare carattere di specialità e autosufficienza rispetto all’ordinamento generale, manifestata, tra l’altro, dalla circostanza che la fonte della sua disciplina - il d.lgs. n. 66 del 2010 - è denominata «codice dell'ordinamento militare».  Con il lemma «codice» si va ad indicare, difatti, un sistema conchiuso e autosufficiente di principî e di regole, tendenzialmente autoreferenziale e impermeabile a discipline esterne, cosicché, in linea di massima, al personale militare rimane estranea e non applicabile la disciplina posta per il personale civile (Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1489).”. E di tanto è fondamentalmente corollario quanto detto dal citato Cons. Stato, sez. IV, n. 1489 del 2020, per cui vale “il principio della autosufficienza della disciplina contenuta nel codice dell’ordinamento militare (…) in forza del quale lo statuto del personale militare è costituito dalle sole norme recate dal codice ovvero da esso richiamate o da leggi speciali che espressamente vi deroghino.  La peculiarità del rapporto di servizio del personale militare è tale, infatti, da rendere impossibile un confronto su basi omogenee fra lo statuto del predetto personale militare e quello civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2381 del 2007): in questa direzione si è mosso il legislatore enfatizzando la specificità dello statuto del personale militare (art. 19, l. n. 183 del 2010)  Per i militari i trasferimenti ‘d’ordine’ ai sensi dell’art. 976 c.o.m., dopo la prima assegnazione della sede di servizio del militare, possono avvenire se a domanda oppure d’autorità. Trasferimenti d’autorità peraltro conseguenti ad un’accertata situazione di incompatibilità ambientale, per la cui sussistenza in concreto e per la cui perimetrazione dimensionale (dell’ambiente interessato da detta incompatibilità) l’Amministrazione di riferimento ha ampio margine di valutazione tecnica e di merito, la cui scrutinabilità in sede giurisdizionale, peraltro ab externo, presuppone vizi macroscopici d’irragionevolezza ed incongruenza che nel caso in discorso neppure risultano comprovati.  Trattandosi poi di trasferimento d’autorità per incompatibilità ambientale, eminentemente volti alla tutela dell’interesse pubblico, teso a preservare il decoro e il prestigio dell’Amministrazione, essi – oltre che godere di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che li giustificano – non presupponevano la colpa in capo all’interessato né abbisognavano di una particolare o diffusa motivazione.  In sede giurisdizionale, per reputarli esenti da vizio residuo, è sufficiente peraltro riscontrare un’effettiva sussistenza della presupposta situazione di incompatibilità venutasi a creare, oltre che un’adeguata proporzionalità del rimedio (ossia il trasferimento) occorrente a rimuoverla. Proporzionalità non intaccata dagli argomenti della parte appellata, anche perché il perimetro geografico dell’area di incompatibilità è materia di valutazione discrezionale dell’Amministrazione, non misurabile sulla base di una mera disagevolezza della nuova sede da raggiungere rispetto a quella precedente.  La giurisprudenza neppure accorda prevalenza automatica, onde resistere ad un trasferimento del tipo in argomento, a ragioni soggettive quali quelle legate alla fruizione dei benefici di cui alla l.n. 104 del 1992.    (2) Ha ricordato la Sezione che in occasione del parere reso dal Consiglio di Stato in occasione dell’esame di un atto generale connesso all’introduzione nell’ordinamento della disciplina sopra citata (v. parere n. 615/2020 del 24 marzo 2020, adottato dalla Sezione I^ nell’adunanza del 4 .3.2020, avente ad oggetto la “Richiesta di parere in ordine al documento «Linee Guida in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza in ragione di un rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 54-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (c.d. whistleblowing)»”), è stato affermato che occorresse “una puntuale perimetrazione dell’ambito applicativo in modo da evitare che la nuova disciplina possa essere strumentalmente utilizzata per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Di questo aspetto si è occupato lo stesso Consiglio di Stato (sez. VI, n. 28 del 2020) quando ha annotato che la disciplina di cui all’art. 54-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 si pone «in rapporto di eccezione rispetto al principio generale di accessibilità nei casi in cui sussista un interesse giuridicamente rilevante. Tale eccezionalità è suffragata anche dalla lettura della disposizione stessa, che collega la sua applicabilità a una serie di presupposti molto stringenti (in particolare, l'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione e i soggetti tassativamente indicati come destinatari della segnalazione). Ne deriva che l’istituto, secondo le regole delle norme eccezionali, non possa essere applicato “oltre i casi e i tempi in esse considerati”, secondo la regola di cui all’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale».”  Ed invero in occasione di Cons. St., sez. VI, n. 28 del 2020, è stato sostenuto che “Se quindi le ragioni pubbliche devono necessariamente sussistere, la lettera della legge (che riporta, tra i presupposti di applicabilità dell’istituto stesso, che la segnalazione sia fatta “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione” (…) deve essere letta in senso opposto nel senso che “l’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Questo tipo di conflitti infatti sono disciplinati da altre normative e da altre procedure.”  E tale lettura va confermata, evidenziando come, in tema di applicazione dell’istituto del cd. Whistleblowing (…), ogni qualvolta si sia in presenza di una segnalazione (…) non motivata “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione” (come avviene quando vi confluiscano anche scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro), la segnalazione stessa non è sottratta all’accesso (…).”. 
Militari, forze armate e di polizia
Giochi – Scommesse - Raccolta scommesse – Sistema del cd. doppio binario - Soggetti terzi, anche esteri, non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli - Prosecuzione, a determinate condizioni, dell’attività di raccolta delle scommesse per conto di soggetti terzi - Art. 1, comma 644, l. n. 190 del 2014 – Possibilità - Condizione.   Giochi – Scommesse - Raccolta scommesse – Sistema del cd. doppio binario - Soggetti terzi, anche esteri, non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli - Prosecuzione, a determinate condizioni, dell’attività di raccolta delle scommesse per conto di soggetti terzi - Art. 1, comma 644, l. n. 190 del 2014 – Interpretazione – Criterio.             Alla luce della giurisprudenza eurounitaria e nazionale che, in materia di esercizio dell’attività di raccolta delle scommesse, ha sancito la legittimità del sistema del così detto “doppio binario”, per cui l’esercizio di tali attività commerciali ben può essere sottoposto, per motivi imperativi di tutela dell’ordine pubblico, alla doppia limitazione della concessione statale e dell’autorizzazione di polizia, il comma 644 dell’art. 1 della legge di stabilità per l’anno 2015 (l. 23 dicembre 2014, n. 190) - che ha consentito anche ai soggetti che non hanno aderito alla regolarizzazione prevista dal precedente comma 643 la prosecuzione, a determinate condizioni, dell’attività di raccolta delle scommesse per conto di soggetti terzi, anche esteri, non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli - è applicabile solo ai soggetti che già svolgevano l’attività di raccolta delle scommesse (così “centri di trasmissione dati”) alla data del 31 ottobre 2014, con esclusione dei soggetti che abbiano iniziato tale attività successivamente (1).             Il comma 644 dell’art. 1, l. 23 dicembre 2014, n. 190 deve interpretarsi nel senso che la comunicazione al Questore ivi prevista, se non può considerarsi alla stregua di una domanda di rilascio dell’autorizzazione di polizia prevista dall’art. 88 del TULPS, dà comunque origine, ove sussistano i requisiti soggettivi e oggettivi in capo al soggetto che l’ha effettuata, a un rapporto di controllo autorizzatorio nel corso del quale l’Autorità di pubblica sicurezza può in qualunque momento esercitare tutti i poteri di controllo previsti dal TULPS e da ogni altra norma speciale applicabile alla fattispecie, non potendo la suddetta comunicazione essere equiparata a una s.c.i.a. e dovendosi pertanto escludere la sussistenza di termini perentori e decadenziali per l’esercizio dei poteri di controllo e repressivi del Questore (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che i commi 643-644 dell’art. 1, l. 23 dicembre 2014, n. 190 – nasce dall’esigenza di porre rimedio a un ampio contenzioso che si era in precedenza generato riguardo alla possibilità di operare in Italia da parte di primari bookmaker e gestori di case da gioco stabiliti in altri paesi dell’Unione, che agivano nel mercato italiano tramite l'intermediazione di numerose agenzie, comunemente denominate «centri di trasmissione dati» («CTD»), che offrono i loro servizi in locali aperti al pubblico in cui mettono a disposizione degli scommettitori un percorso telematico che consente di accedere al server del bookmaker estero, al di fuori, dunque, del collegamento al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli. Come ha ricordato il Ministero, le linee interpretative vincolanti in questa materia sono state dettate dalle note sentenze della Corte di giustizia del Lussemburgo 6 marzo 2007, nelle cause riunite C-338/04, C-359/04 E C-360/04 (Placanica), 16 febbraio 2012, nelle cause riunite C-72/10 e C-77/10 (Costa-Cifone) e 12 settembre 2013, nelle cause C-660/11 e C-8/12 (Biasci), in base alle quali gli artt. 43 CE e 49 CE ostano alla normativa nazionale che escludeva dal settore dei giochi di azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati (per difetto di identificabilità dei soci), ostano altresì alla successiva normativa nazionale che ha imposto l'obbligo per i nuovi concessionari (chiamati in esecuzione della sentenza “Placanica”) di insediarsi ad una distanza minima da quelli già esistenti, ostano inoltre a una normativa nazionale che impedisca di fatto qualsiasi attività transfrontaliera nel settore del gioco indipendentemente dalla forma di svolgimento della suddetta attività e, in particolare, nei casi in cui avviene un contatto diretto fra il consumatore e l’operatore ed è possibile un controllo fisico, per finalità di pubblica sicurezza, degli intermediari dell’impresa presenti sul territorio. La medesima giurisprudenza eurounitaria ha peraltro chiarito (sentenza Biasci, cause riunite C‑660/11 e C‑8/12, cit.) che “l’obiettivo attinente alla lotta contro la criminalità collegata ai giochi d’azzardo è idoneo a giustificare le restrizioni alle libertà fondamentali derivanti da tale normativa, purché tali restrizioni soddisfino il principio di proporzionalità e nella misura in cui i mezzi impiegati siano coerenti e sistematici (v., in tal senso, citate sentenze Placanica e a., punti da 52 a 55, nonché Costa e Cifone, punti da 61 a 63)”. Il Giudice eurounitario ha in tal modo legittimato il sistema della cd. doppia autorizzazione, affermando che gli articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che imponga alle società interessate a esercitare attività collegate ai giochi d’azzardo l’obbligo di ottenere un’autorizzazione di polizia, in aggiunta a una concessione rilasciata dallo Stato al fine di esercitare simili attività, rilevando in sostanza che l'obiettivo della lotta contro la criminalità collegata ai giochi d'azzardo è idoneo a giustificare quelle misure restrittive che soddisfino il principio di proporzionalità. La Corte del Lussemburgo ha altresì escluso l’obbligo dello Stato, nel cui territorio si intende svolgere l’attività di raccolta delle scommesse, di riconoscere i titoli concessori/autorizzatori rilasciati dallo Stato di stabilimento dell’operatore economico (non esistendo allo stato attuale un “obbligo di mutuo riconoscimento delle autorizzazioni rilasciate dai vari Stati membri: v., in tal senso, sentenze dell’8 settembre 2010, Stoß e a., C-316/07, da C-358/07 a C-360/07, C-409/07 e C-410/07, Racc. pag. I-8069, punto 112, nonché del 15 settembre 2011, Dickinger e Ömer, C-347/09, Racc. pag. I-8185, punti 96 e 99)”, con la conseguenza per cui “il fatto che un operatore debba disporre sia di una concessione sia di un’autorizzazione di polizia per poter accedere al mercato di cui trattasi non è, in sé, sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore nazionale, ossia quello della lotta alla criminalità collegata ai giochi d’azzardo”. Questa impostazione – secondo la quale la disciplina dei giochi d’azzardo incide (anche) sulla materia dell’ordine pubblico, giustificando la vigenza del regime autorizzatorio previsto dagli artt. 86 e 88 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 - è stata ribadita recentemente dalla Corte costituzionale con la sentenza 27 febbraio 2019, n. 27 [“Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi più volte riguardo alla disciplina dei giochi leciti, ricondotta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordine pubblico e sicurezza» per le modalità di installazione e di utilizzo degli apparecchi da gioco leciti e per l’individuazione dei giochi leciti. Si tratta di profili, infatti, che evocano finalità di prevenzione dei reati e di mantenimento dell’ordine pubblico (sentenze n. 72 del 2010 e n. 237 del 2006), giustificando la vigenza del regime autorizzatorio previsto dagli artt. 86 e 88 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza)]”. In questa stessa direzione si muove, infine, la giurisprudenza del Consiglio di Stato e del Giudice amministrativo di primo grado (si vedano, in tema, il parere della sez. I 15 gennaio 2020, n. 137 e la sentenza della sez. III, 10 agosto 2018, n. 4905; per recenti casi applicativi cfr. Tar Brescia 12 maggio 2020, n. 354; TAR Liguria, sez. II, 11 aprile 2019, n. 345; Tar Milano, sez. I, 16 aprile 2019, n. 848), nonché quella penale (Cass. pen., sez. III, n. 20879 del 2018; id. n. 51843 del 2018). La Corte di Giustizia dell'Unione europea, peraltro, ha di recente chiarito – esaminando la disciplina tedesca (sentenza n. 336 del 4 febbraio 2016, in causa C-336/14, Sebat) – che l’art. 56 TFUE osta a che uno Stato membro punisca l’intermediazione senza autorizzazione di scommesse sportive nel suo territorio effettuata per conto di un operatore titolare di una licenza per l’organizzazione di scommesse sportive in un altro Stato membro qualora il rilascio di un’autorizzazione all’organizzazione di scommesse sportive sia subordinato all’ottenimento, da parte di detto operatore, di una concessione sulla base di una procedura di assegnazione di concessioni che non rispetta i principi di parità di trattamento e di non discriminazione in ragione della nazionalità, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva. Con la conseguenza che un operatore economico, autorizzato nel paese d'origine, può legittimamente esercitare il gioco d'azzardo in un altro Stato membro qualora la legislazione di quest'ultimo ostacoli o impedisca l'ottenimento di una concessione (fermo restando l’obbligo di munirsi, per i centri di raccolta delle scommesse, delle previste autorizzazioni di polizia).
Giochi
Processo amministrativo – Giudizio cautelare – Decreto monocratico – Poteri cautelari atipici – Possibilità.    Nell’ambito della fase cautelare, e ancor più nella fase monocratica, caratterizzata dall’estrema urgenza, è possibile, in applicazione dell’art 55 comma 1 cpa, adottare misure atipiche al fine di garantire la tutela del ricorrente, che siano diverse dalla sospensione dell’esecutività degli atti impugnati  (1). (1) Il decreto, in applicazione dell’art 55 comma 1 cpa, nella parte in cui autorizza il giudice ad adottare le misure cautelari che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, ha ritenuto di poter contemperare gli interessi della ricorrente con quelli della amministrazione, non sospendendo gli atti impugnati nella parte in cui prevedono la compilazione dello stato di consistenza e l’immediata immissione in possesso dei terreni, ma inibendo, alla società delegata dal comune ad eseguire le operazioni di esproprio, la successiva esecuzione di lavori sino alla prossima camera di consiglio in cui il collegio potrà adottare ogni decisione sull’istanza cautelare.
Processo amministrativo
Straniero - Minori – Comitato per i minori stranieri – Disciplina – Regolamento del Ministero del lavoro – Possibilità.      ​​​​​​​Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali può farsi proponente della emanazione di un regolamento governativo avente ad oggetto l’attuazione della normativa primaria in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati (1).    (1) Ha premesso la Sezione che l’art. 12, comma 20, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135 ha soppresso il Comitato per i minori stranieri, operante presso la Presidenza del Consiglio Il Ministero ha radicato la propria competenza ad adottare il lo schema di regolamento oggetto del richiesto parere negli artt. 33, comma 2, del Testo Unico Immigrazione e 22, l. n. 47 del 7 aprile 2017 su ricordati. L’art. 33 richiamato, al comma 1, istituiva “presso la Presidenza del Consiglio dei ministri” il Comitato per i minori stranieri. Al comma 2, specificamente richiamato dal Ministero a fondamento dello schema in esame (e, per la parte che qui interessa, non alterato dalle modifiche successivamente intervenute), stabiliva che: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro da lui delegato, sentiti i Ministri degli affari esteri, dell’interno e di grazia e giustizia, sono definiti i compiti del Comitato, concernenti la tutela dei diritti dei minori stranieri in conformità alle previsioni della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176, [...]”. Al comma 3 prevedeva che: “Il Comitato si avvale, per l'espletamento delle attività di competenza, del personale e dei mezzi in dotazione al Dipartimento degli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ha sede presso il Dipartimento medesimo”.  ​​​​​​​​​​​​​​​​​La Sezione ha ricordato che sullo schema di regolamento si era già pronunciata dapprima con parere interlocutorio n. 822 del 2020 e poi con parere (negativo) n. 1535 del 28 settembre 2020 affermando, entrambe le volte, che - stante la non dimostrata sussistenza di una esplicita norma primaria che, prima della soppressione, abbia trasferito il Comitato e le relative competenze al Ministero del lavoro e delle politiche sociali - all’atto della soppressione il Comitato fosse tuttora incardinato presso la Presidenza del Consiglio; che, in conseguenza di quanto previsto dalla norma soppressiva, tali competenze siano state definitivamente trasferite ai competenti uffici dell’amministrazione nell’ambito della quale l’organo collegiale al momento operava, e cioè la Presidenza del Consiglio; che pertanto il Ministero non risulti avere titolo a disciplinare con regolamento competenze che non risultano essergli state attribuite da una fonte primaria Il Ministero del lavoro ha chiesto alla Sezione atti normativi alla luce di nuovi argomenti forniti La Sezione ha ritenuto persuasivi tali ulteriori elementi ed ha quindi concluso che la norma primaria attributiva al Ministero stesso della competenza sul Comitato – della quale i primi pareri della Sezione lamentavano la mancata indicazione - vada identificata nei decreti-legge n. 217 del 2001, n. 181 del 2006 e n. 85 del 2008, i quali presupponevano, ai fini della determinazione del loro contenuto, la individuazione delle competenze ministeriali  La Sezione si è posto quindi il quesito se la norma attributiva del potere di disciplinare con d.P.C.M. le competenze del Comitato, oggi collocate come detto presso il Ministero (l’art. 33, comma 2, del Testo Unico sull’Immigrazione) sia tuttora vigente o non debba piuttosto essere considerata incompatibile con l’evoluzione normativa successiva (e specificamente con l’avvenuto trasferimento delle suddette competenze al Ministero) e quindi tacitamente abrogata. ​​​Al riguardo, un elemento testuale è offerto dal preambolo al d.P.C.M. recante il regolamento di attuazione del Comitato, laddove viene richiamato l’art. 17, comma 3, l. n. 400 del 1988, cioè la norma fondante la legittimazione ad adottare regolamenti ministeriali. Questo dato testuale conferma ciò che comunque può essere desunto implicitamente, e cioè che il potere di dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 33 del Testo Unico sui compiti del Comitato istituito dal comma 1 è conferito dal comma 2 dello stesso articolo alla fonte “d.P.C.M.” nel presupposto dell’incardinamento di tale Comitato in seno alla Presidenza del Consiglio, come del resto chiaramente statuito dal comma 3 nella sua versione originaria. Venuto meno tale presupposto con il trasferimento del Comitato e delle sue competenze al Ministero, deve trarsene, come necessaria conseguenza, la avvenuta abrogazione tacita dell’art. 33, comma 2, del Testo Unico sull’Immigrazione, laddove demanda a un d.P.C.M. la disciplina dei compiti del Comitato, giacché tali compiti non spettano più alla Presidenza del Consiglio; ne consegue altresì la non applicabilità dell’art. 22, l. n. 47 del 2017, nella parte in cui autorizza il Governo ad apportare, al d.P.C.M. n. 535 del 1999, le modifiche conseguenti all’entrata in vigore della legge stessa. D’altra parte, appare incongruo che venga disciplinata con d.P.C.M. una materia rientrante in toto nella competenza di un Ministero. Venuta meno nei termini su esposti la facoltà di disciplinare la materia con d.P.C.M., e nella mancanza di una specifica disposizione attributiva al Ministero della facoltà di adottare un regolamento ministeriale ai sensi dell’art. 17, comma 3, l. n. 400 del 1988, non può che concludersi per la riespansione, nella materia de qua, della regola generalissima, di cui all’art. 17, comma 1, della medesima legge, che autorizza il Governo ad emanare regolamenti per l’attuazione delle leggi. In conclusione, ritiene la Sezione che il Ministero possa farsi proponente della emanazione di un regolamento governativo ai sensi dell’art. 17, comma 1, avente ad oggetto l’attuazione della normativa primaria in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati, nelle materie attribuite dalla legge alla propria competenza sua versione originaria.​​​  
Straniero
Covid-19 - Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo per gli alunni durante le lezioni – D.P.C.M. 2 marzo 2021 – Sospensione cautelare monocratica - Deposito di  documentazione scientifica concernente l’impatto psico-fisico dell’uso delle mascherine sugli studenti       In occasione dell’impugnazione del d.P.C.M. 2 marzo 2021, nella parte in cui si prevede che “è obbligatorio l'uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie salvo che per i bambini di età inferiore ai sei anni”, il giudice di appello ribadisce la necessità che sia prodotta agli atti documentazione scientifica concernente l’impatto psico-fisico sugli studenti delle varie classi di età, giacché, ad esempio, la stessa O.M.S. raccomanda trattamenti e cautele specifiche per la fascia 6-12 anni e diversi principi per gli studenti meno giovani (1).    (1) Ha chiarito il decreto che appare evidente come in questa sede di delibazione sommaria il giudice non può trarre conclusioni in assenza - e, men che meno, in sostituzione - dei documenti scientifici posti a base delle contestate regole, giacché di esse, anche per gli effetti sugli studenti, le commissioni scientifiche portano per intero la responsabilità, e le autorità di governo su di esse fondano le decisioni nell’ambito delle misure anti contagio, sicché solo all’esito della valutazione di ragionevolezza, coerenza e proporzionalità, tenuto conto dei dati scientifici, sarà possibile una decisione in sede giurisdizionale. ​​​​​​​Il decreto ha quindi ribadito che l’esibizione tempestiva di tutti gli atti richiesti dal decreto presidenziale appellato, non solo costituisce ineludibile esecuzione dell’ordine del giudice, presidiata, in caso di inottemperanza, da diverse efficaci norme di garanzia, ma rappresenta la base istruttoria minima indispensabile affinché la funzione giurisdizionale possa essere svolta con compiutezza a tutela degli interessi meritevoli, sicché, ad esempio nel caso di specie, la circostanza che lo svolgimento della camera di consiglio innanzi al T.A.R. avverrà in data successiva alla cessazione di efficacia del decreto impugnato - ed allorché, presumibilmente, analogo obbligo di indossare le mascherine in classe sarà in vigore in forza di nuovo decreto governativo - non potrà in nessun caso essere addotta quale giustificazione per non esibire tutti gli atti richiesti dal primo giudice, dovendo semmai l’Amministrazione - giacché la lealtà e la trasparenza tra Istituzioni e cittadini è pilastro fondante del nostro ordinamento - esibire anche ulteriori documenti scientifici sopravvenuti rispetto all’ordine del decreto presidenziale appellato. 
Covid-19
Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale – Settore trasporti – Assunzione generalizzata di tutto il personale dell’appaltatore uscente – Legittimità.      E’ legittima la disposizione della lex specialis di gara concernente l’affidamento del servizio di trasporto pubblico locale su gomma contenente la c.d. clausola sociale, che obbliga il concorrente ad assumere tutti i dipendenti, con la sola eccezione dei dirigenti, della precedente gestione, indifferentemente rispetto alle sue esigenze organizzative e gestionali (1). (1) La Sezione ha dato preliminarmente atto di come l’art. 48, comma 7, lett. e), d.l. n. 50 del 2017 (che richiama la direttiva 2001/23/CE, avente ad oggetto il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese) riconosca all’Autorità di regolazione dei trasporti il potere di dettare regole generali in materia di «previsione nei bandi di gara del trasferimento senza soluzione di continuità di tutto il personale dipendente dal gestore uscente al subentrante con l'esclusione dei dirigenti, applicando in ogni caso al personale il contratto collettivo nazionale di settore e il contratto di secondo livello o territoriale applicato dal gestore uscente, nel rispetto delle garanzie minime».   Nel particolare settore del trasporto pubblico la normativa è dunque nel senso di ammettere una clausola sociale particolarmente forte, garantendo in caso di subentro il trasferimento di tutto il personale dipendente (tranne i dirigenti) dal gestore uscente al subentrante, con l’applicazione del CCNL di settore e del contratto di secondo livello applicato dal gestore uscente almeno per un anno dalla data di subentro. Per l’effetto, se è evidente che all’ART è demandata la fissazione di regole e principi esecutivi e di dettaglio, deve altresì darsi atto che la norma enuncia comunque principi di immediata applicabilità, ad opera delle stazioni appaltanti, in ragione della loro determinatezza.
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Accesso ai documenti – Dati forniti dalla Protezione civile – Dati incompleti – Impugnazione dei Bollettini da parte del Codacons - Inammissibilità.            É inammissibile il ricorso proposto da Codacons avverso i bollettini quotidiani pubblicati dalla, contenenti la raccolta di elementi acquisiti presso le Regioni su una pluralità di dati relativi alla situazione Covid-19, non sembrando la suddetta impugnazione configurare lo strumento processuale idoneo a tutelare l’asserito diritto di parte ricorrente a conoscere, per le finalità di cui è portatrice, informazioni e dati mancanti in detti bollettini, atteso che l’informazione ai cittadini non risulta espressione di potere autoritativo pubblico, bensì attività sindacabile dal giudice amministrativo in quanto conforme ai parametri di legittimità recati dalla disciplina sulla trasparenza amministrativa e sul corrispondente diritto all’accesso documentale, civico e generalizzato (1). (1) Ha aggiunto il decreto che nella fattispecie, inoltre, non sembra che i comunicati stampa, i bollettini e la pubblicazione delle schede riepilogative dei dati impugnati abbiano integrato un atto, espresso o implicito, di diniego delle informazioni richieste, per cui appare inesistente, almeno alla data di proposizione del ricorso e dei primi motivi aggiunti, l’oggetto della impugnazione.
Covid-19
Contratti della Pubblica amministrazione – Progettazione – Progettista ex art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 – É professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo – Conseguenza – Avvalimento – Esclusione. Il progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia dell’art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006, va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo; pertanto non rientra nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico, nel significato attribuito dalla normativa interna e da quella dell’Unione europea, con la conseguenza che non può utilizzare l’istituto dell’avvalimento per la doppia ragione che esso è riservato all’operatore economico in senso tecnico e che l’avvalimento cosiddetto “a cascata” era escluso anche nel regime del codice dei contratti pubblici, ora abrogato e sostituito dal d.lgs. n. 50 del 2016, che espressamente lo vieta (1).   (1) Ha ricordato l’Alto Consesso che la legge delega 28 gennaio 2016, n. 11, ha dettato uno specifico criterio di delega per l’avvalimento (criterio di cui all’art. 1, comma 1, lett. zz), in attuazione dell’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE), stabilendo sia l’esclusione della possibilità di fare ricorso al cosiddetto “avvalimento a cascata”, sia il divieto che oggetto dell’avvalimento possa essere “il possesso della qualificazione dell’esperienza tecnica e professionale necessarie per eseguire le prestazioni da affidare”. Le disposizioni sono poi penetrate nell’art. 89 del nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che, al comma 6, vieta espressamente il cosiddetto avvalimento “a cascata”, consentendo invece quello plurimo e frazionato; con possibilità, in via eccezionale, di non consentire l’avvalimento, purché venga indicato nel bando con il rispetto del principio di proporzionalità. Questo rende nuovamente di attualità la giurisprudenza formatasi nel vigore del precedente codice, secondo cui nelle gare pubbliche non è consentito avvalersi di un soggetto che, a sua volta, utilizza i requisiti di un altro soggetto, sia pure ad esso collegato. Ciò, in quanto una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione è collegata alla possibilità per la stazione appaltante di avere un rapporto diretto e immediato con l’ausiliaria, che non viene assicurato dalla semplice dichiarazione dell’ausiliaria in esecuzione del contratto di avvalimento con l’impresa ausiliata, anche se dal meccanismo ne consegue la responsabilità solidale delle due imprese in relazione all’intera prestazione dedotta nel contratto da aggiudicare. In proposito il collegio osserva come il divieto contenuto nel Codice dei contratti pubblici attualmente in vigore, pur non essendo direttamente applicabile alla fattispecie in esame, ha comunque un ruolo di orientamento per l’interprete, che è tenuto a tenere nel debito conto le tendenze evolutive dell’ordinamento. In sintesi, quanto all’art. 53, comma 3, d.lgs. n 163 del 2006, nonostante non esistesse nel vecchio codice dei contratti pubblici un divieto espresso del cosiddetto “avvalimento a cascata”, la giurisprudenza maggioritaria già propendeva per la non ammissibilità. Era ritenuta decisiva la considerazione che, pur essendo pacifico il carattere generalizzato dell’avvalimento strumentale ai principi comunitari della massima partecipazione nelle gare di appalto e dell’effettività della concorrenza, l’applicazione dell’istituto deve essere comunque contemperato con l’esigenza di assicurare garanzie idonee alla stazione appaltante al fine della corretta esecuzione del contratto (Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2014, n. 1072; id., sez. V, 13 marzo 2014, n. 1251).
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta - Criteri valutazionali c.d. tabellari on /off  - Individuazione.    Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Valutazione -Natura.          L’art. 95, comma 10-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 impone alle stazioni appaltanti di non superare nell’assegnazione del “monte punti” il tetto del 30 per cento del punteggio complessivo per la componente economica dell’offerta, mentre relativamente al punteggio da attribuire per la componente tecnica delle offerte alle imprese partecipanti ad una gara da aggiudicarsi mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il Legislatore non impone alle stazioni committenti di privilegiare i fattori valutazionali di tipo discrezionale rispetto a quelli dal taglio oggettivo (1).              Non è anomala un’offerta per avere l’aggiudicataria effettuato una sottostima dei costi relativi ai compensi per l’assistenza legale resa nella fase della gestione dei sinistri sotto franchigia di legali all’uopo incaricati, a causa di uno scostamento dai valori tabellari concernenti i compensi professionali spettanti agli avvocati in base al d.m. n. 55 del 2015 e non integra una palese incongruità la clausola della legge di gara che abbia previsto l’importo di € 250, prefissato quale compenso per ogni sinistro per il quale venga prestata assistenza legale (2).    (1) La Sezione ha ricordato che anche il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla legittimità del criterio di valutazione “on/off”, sia pur in termini più generali, sancendo che “Il sistema di valutazione “on-off” non è di per sé incompatibile con il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Ai sensi dell'art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, è necessario assicurare, attraverso i criteri valutativi, la valorizzazione delle offerte tecniche e un confronto concorrenziale tra i partecipanti, rientrando nell'ampia discrezionalità della stazione appaltante la loro concreta individuazione e ponderazione” (Cons. St., sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5026). La stessa Sezione ha di recente ritenuto legittima una la gara sotto il profilo dell’utilizzazione di criteri valutazionali tabellari, tipo on/off.” (Tar Lazio, sez. III, 11 gennaio 2021, n. 330). Ha poi chiarito la Sezione che la preminenza valutativa accordata a fattori oggettivamente riscontrabili sulla scorta di analisi tabellare, scevri quindi da giudizi discrezionali, risponde ad una avvertita istanza di arginamento e compressione della discrezionalità dell’amministrazione appaltante in armonia con i principi di trasparenza e non discriminazione enunciati all’art. 30, comma 1, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che li eleva a canoni basilari dell’affidamento di appalti e concessioni (Tar Lazio, sez. III, 18 settembre 2020, n. 9610 sull’illegittima attrazione di fattori tabellari, misurabili quantitativamente, nell’alveo dei criteri discrezionali). L’aver conferito peso preponderante ai fattori on/off rispetto a quelli descrittivo discrezionali rimonta ad una scelta discrezionale dell’amministrazione, insindacabile dal Giudice amministrativo fatte salve le ipotesi di emersione di macroscopici vizi logici, irragionevolezza o travisamento che nella specie non traspaiono (Cons. St., sez. V, 7 giugno 2021, n. 4031, che ha ribadito il principio, attinto più volte dalla giurisprudenza, secondo cui “la scelta operata dall’amministrazione appaltante, in una procedura di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione delle offerte … è espressione dell’ampia discrezionalità attribuitale dalla legge per meglio perseguire l’interesse pubblico”).     (2) La Sezione ha chiarito che ha natura discrezionale il giudizio di congruità di un’offerta formulata in una gara d’appalto pubblico ove non vengano ad emergere macroscopiche illogicità o irragionevolezze, solo in costanza delle quali è consentito al giudice amministrativo operare un sindacato di pura legittimità la quale costituisce la soglia invalicabile che non è consentito al giudice superare, procedendo ad una diretta ed autonoma valutazione della congruità dell’offerta in sostituzione dell’organismo tecnico (commissione di gara ovvero commissione di valutazione della congruità dell’offerta appositamente nominata dalla stazione appaltante) deputato a formulare siffatto giudizio, avente natura spiccatamente connotata da discrezionalità tecnica. La valutazione di anomalia (e non anomalia) dell’offerta deve essere particolarmente motivato, solo nell’ ipotesi in cui la valutazione di anomalia o meno di un’offerta risulti di segno negativo, ossia esiti, a seguito dell’esame delle giustificazioni prodotte dall’impresa aggiudicataria in sede procedimentale ovvero acquisite in seno al subprocedimento delineato dall’art. 97, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, in un giudizio finale di non congruità; là dove qualora il giudizio risulti di segno positivo – come nel caso di specie- dichiarando la congruità e bontà dell’offerta e la conseguente aggiudicazione, non si richiede l’assolvimento di un onere di rigorosa motivazione, potendo la positiva valutazione dell’amministrazione (ovvero della commissione appositamente nominata) essere operata anche per relationem alle giustificazioni prodotte.  ​​​​​​​Infine, la Sezione ricorda la natura discrezionale del giudizio di congruità di un’offerta formulata in una gara d’appalto pubblico ove non vengano ad emergere macroscopiche illogicità o irragionevolezze, solo in costanza delle quali è consentito al giudice amministrativo operare un sindacato di pura legittimità la quale costituisce la soglia invalicabile che non è consentito al giudice superare, procedendo ad una diretta ed autonoma valutazione della congruità dell’offerta in sostituzione dell’organismo tecnico (commissione di gara ovvero commissione di valutazione della congruità dell’offerta appositamente nominata dalla stazione appaltante) deputato a formulare siffatto giudizio, avente natura spiccatamente connotata da discrezionalità tecnica. Secondo indirizzo costante anche del Giudice d’appello, “Il giudizio sull’anomalia delle offerte presentate in una gara è un giudizio ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; il giudice amministrativo … non procedere ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, che costituirebbe un’inammissibile invasione della sfera propria della P.A. e tale sindacato rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti, oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto (Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2016, n. 211; nello stesso senso, già Cons. di Stato, sez. VI, 14 agosto 2015, n. 3935 e, di recente, Cons. Stato, V, 24 agosto 2018, n. 5047)” 
Contratti della Pubblica amministrazione
Risarcimento danni – Danno da ritardo – Indennizzo – Art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 - Natura    Risarcimento danni – Danno da ritardo – Indennizzo – Art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 - Conseguenza del mero decorso del termine -  Esclusione.                L’indennizzo per il ritardo della pubblica amministrazione è previsto a fronte di una attività illegittima della stessa Amministrazione, ossia in conseguenza alla violazione di un termine cogente (1).               La natura compensativa dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 e la circostanza che esso sia configurato quale rimedio ad una attività illecita della Pubblica amministrazione ostano a ritenere che il relativo diritto sorga solamente come conseguenza automatica della violazione del termine per provvedere, e cioè a prescindere dalla sussistenza di una lesione ad un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento (2).      (1) Ha preliminarmente ricordato il Tar che l’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 riconosce al danneggiato dal ritardo della P.A. due azioni concorrenti tra loro, una avente ad oggetto il risarcimento del danno vero e proprio e l’altra relativa all’indennizzo per il “mero” ritardo. Quest’ultimo istituto è immediatamente applicabile alle fattispecie regolate dalla norma, anche se non risulta emanato il regolamento al quale lo stesso art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 consente di disciplinare modi e condizioni (atteso che la stessa norma rinvia prima di tutto “alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge”, rispetto alla quale l’emanazione del regolamento ai sensi dell'art. 17, comma 2, l. 23 agosto 1988, n. 400 è dunque solo facoltativa).    Le due azioni dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 dipendono da un medesimo presupposto in fatto (ossia la violazione del termine di conclusione del procedimento) e condividono la medesima finalità compensativa (dato che l’importo dell’indennizzo, ove riconosciuto dal giudice, va detratto da quello del risarcimento, escludendosene dunque la cumulatività, cfr. anche Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2018, punto 6.3.2), differenziandosi solo quanto a presupposti ed ambito oggettivo dell’illecito risarcibile.    A tal proposito, si osserva che il termine “indennizzo” o “indennità” è utilizzato dal legislatore in significati diversi e non univoci, essendo talvolta sinonimi di risarcimento (come nel caso dell’art. 2045 cod.civ.), anche in rapporto a pregiudizi conseguenti ad un legittimo provvedimento di revoca (art. 21 quinquies, l. n. 241 del 1990), o comunque di attività legittime della PA (come nel caso delle della dipendenza da cause di servizio), altre volte di corrispettivo (come nei casi dell’espropriazione), o ancora di ristoro per un mancato esercizio di attività dovuta (come nel caso dell’art. 1381 cod.civ.) o necessitata per ragioni di protezione dell’agente (come nel caso dell’art. 2045 cod.civ.) e così via.  L’indennizzo è, dunque, un meccanismo che la legge predispone a fronte di attività legittime l’esercizio delle quali comporta il sacrificio di altri valori o interessi (ritenuti cedevoli) e che è rivolto ad assicurare un ristoro ed un parziale riequilibrio di questi ultimi per motivi di equità sostanziale.  Ma, nel caso di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, non è possibile rinvenire i tratti caratteristici dell’istituto appena descritti, perché l’indennizzo per il ritardo è previsto a fronte di una attività illegittima della PA, ossia in conseguenza alla violazione di un termine cogente.   Non si è, dunque, in presenza dell’esercizio di una facoltà della parte pubblica (perché quest’ultima è titolare dell’obbligo a provvedere, che va esercitato nei termini previsti, a meno di non voler sostenere che l’Amministrazione abbia l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine ed al contempo la facoltà di non rispettare quest’ultimo) e per tale ragione non si pone un problema di riequilibrio di interessi meritevoli di tutela in conflitto tra loro.    (2) Ha chiarito la Sezione che la natura compensativa dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 e la circostanza che esso sia configurato quale rimedio ad una attività illecita della P.A., ostano, dunque, a ritenere che il relativo diritto sorga solamente in consegua automatica della violazione del termine per provvedere, e cioè a prescindere dalla sussistenza di una lesione ad un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento.  A ciò conducono due ordini di considerazioni.    Secondo un primo rilievo, laddove si affermasse, come prospettano i ricorrenti, il diritto all’indennizzo anche all’esito del provvedimento (tardivo ma) pienamente satisfattivo (ovvero il diritto ad un indennizzo in assenza di un interesse leso ulteriore e distinto rispetto a quello strumentale alla tempestiva conclusione del procedimento), la fattispecie di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 avrebbe natura sostanzialmente sanzionatoria, ma come tale sarebbe di dubbia compatibilità costituzionale perché la sanzione risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice (non essendo configurabile la sua commisurazione “secondo equità”, dato che la liquidazione ex art. 1226 del cod.civ. ha ad oggetto solo l’entità del pregiudizio risarcibile in funzione risarcitoria o compensativa).  Secondo un diverso ordine esegetico, sono decisive le differenze con la parallela disposizione di cui all’art. 28, d.l. n. 69 del 2013, conv. in legge, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98.  La giurisprudenza che se n’è occupata mostra, invero, di considerare fungibili le discipline delle due diverse disposizioni di legge, tanto da ritenere che l’azione di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 è esperibile anche in assenza del regolamento del comma 12 dell’art. 28 (salvo ritenerla soggetta all’onere della previa proposizione della procedura sostitutiva costituita dal comma 2 dell’art. 28, senza chiarire le ragioni di una siffatta estensione, specie se si considera che una procedura sostitutiva è prevista dall’art. 2, comma 9bis e 9 ter, l. n. 241 del 1990 ed il comma 2 bis non la richiama).   Tale impostazione, quindi, induce ad ingenerare il dubbio che anche l’indennizzo di cui all’art. 2 bis cit. – in parallelo all’indennizzo di cui all’art. 28 cit. - debba operare quale mero automatismo conseguente alla violazione del termine.  Tuttavia, è la stessa disposizione dell’art. 28, d.l. n. 69 del 2013 a fondare la necessità di una esegesi adeguatamente differenziata dell’istituto indennitario di cui all’art. 2 bis della l. 241/90, posto che quest’ultima norma è stata introdotta dalla prima in un testo ben differente (che non subordinata l’indennizzo ai medesimi presupposti di rito che sono disciplinati per l’azione ex art. 28 cit.) e tanto che se ne riconosce l’applicabilità anche in assenza del regolamento di cui al comma 12 (laddove si ritenesse diversamente, l’art. 2 bis, l. 241 del 1990 in nulla si differenzierebbe dalla previsione dell’art. 28, comma 1, d.l. n. 69 del 2013; dovrebbero quindi applicarsi anche alla domanda di indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 i limiti quantitativi di 30 euro/giorno per un massimo di 2.000,00 euro; non avrebbe alcun senso ripetere una norma identica nella disciplina generale del procedimento amministrativo; neppure sussisterebbero ragioni per escludere le limitazioni della sfera di applicazione dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 previste dal comma 10 dell’art. 28 cit. per “le disposizioni del presente articolo”).  Chiarito che le due disposizioni operano su piani diversi, le differenze implicano che l’istituto di cui all’art. 28, d.l. n. 69 del  2013 è “speciale” rispetto alla norma di ordine generale di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 ed appresta una tutela semplificata in favore delle attività di impresa (mediante una forfetizzazione dell’indennizzo da ritardo, bilanciata da un onere procedimentale specifico), per le quali è non irragionevole ritenere il “tempo” e la certezza della conclusione del procedimento quale interesse meritevole di tutela; mentre, nell’ambito della disciplina ordinaria di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, l’indennizzo (stante la mancata predeterminazione del suo importo) rimane ancorato alla ordinaria funzione compensativa-ripristinatoria e dunque presuppone la dimostrazione della sussistenza di un pregiudizio nel ritardo della conclusione del procedimento ulteriore e distinto rispetto al “bene tempo” (che per i soggetti diversi dagli operatori economici è un valore fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario).  In altri termini, nel caso dell’art. 28, d.l. 69 del 2013, l’indennizzo da ritardo sorge in quanto la lesione è presunta dalla legge, che infatti predetermina il valore dell’importo da liquidare; nel caso dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, la lesione va invece allegata dal richiedente e (specie nell’assenza del regolamento meglio indicato nello stesso art. 2 bis) costituirà il referente oggettivo al quale il giudice dovrà agganciare la commisurazione dell’indennizzo così da poterlo ad essa parametrare per il tramite della liquidazione equitativa.   Attesa l’evidente unitarietà dell’area dell’illecito e dunque del presupposto oggettivo sia del risarcimento che dell’indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo, deve perciò affermarsi che l’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 ritaglia, entro il perimetro del danno risarcibile, una fattispecie di liquidazione semplificata per i pregiudizi riconducibili alla lesione di interessi non patrimoniali. La norma ripartisce i mezzi di tutela riservando all’azione di risarcimento del danno l’ordinario ristoro del pregiudizio patrimoniale (o patrimonialmente valutabile) che l’interessato subisce dal ritardato beneficio dipendente dall’azione della PA (con conseguente onere della prova a carico del danneggiato sia del pregiudizio che del suo ammontare, della sua riferibilità al ritardo, e della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione nel non aver provveduto nei termini dovuti) e demandando all’indennizzo, strumento più agevole e di pronta liquidazione, la tutela della sfera non patrimoniale dell’interesse del richiedente (così che il danneggiato dovrà solo allegare il ritardo e la sussistenza dell’interesse leso).  
Risarcimento danni
Covid-19 – Disciplina di contenimento - Ordinanza extra ordinem – Possibilità – Contrasto con la normativa statale – Esclusione.   Covid-19 – Disciplina di contenimento - Ordinanza extra ordinem – Criteri – Individuazione.           In caso di emergenza epidemiologica di rilievo internazionale, le misure di contenimento del contagio previste dalla normativa statale e, nel dettaglio, da quella regolamentare di carattere governativo, di cui al d.P.C.M. 22 marzo 2020 e al d.l. 25 marzo 2020, n. 19 impongono il rispetto del principio di non contraddizione dell'ordinamento giuridico; per questa ragione il Sindaco può esercitare il potere di ordinanza extra ordinem, di regola affidatogli in periodo non emergenziale, ma non può assumere decisioni in contrasto con la normativa statale (1).           Il Sindaco, chiamato ad adottare ordinanze contingibili e urgenti in periodo di Covid-19 deve esercitare il suo potere in base ai seguenti criteri: a) scelta della misura nell'ambito di un catalogo definito dalla normativa statale e governativa di tipo regolamentare; b) predeterminazione della durata degli effetti del provvedimento; c) adeguata motivazione della indispensabilità della decisione straordinaria, sulla base di dati epidemiologici attendibili circa il sopravvenuto aggravamento del rischio sanitario nel territorio di riferimento.       (1) Ha ricordato il Tar che all’interno delle misure di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, di cui al d.P.C.M. 22 marzo 2020, è stata rintracciata una area di esenzione che riguarda, tra l’altro, l’attività di produzione, trasporto, commercializzazione e consegna di farmaci, tecnologia sanitaria e dispositivi medico chirurgici, nonché di prodotti agricoli e alimentari, sempre consentita. La disposizione in esame è dettata dall’esigenza di non compromettere la fruizione di beni di primaria necessità nonostante il periodo emergenziale, sulla scorta di una scelta drammatica demandata all’Autorità di Governo e al Legislatore primario, in una fase notoriamente caratterizzata dalla sussistenza di una conclamata emergenza epidemiologica di rilevanza internazionale. Sotto tale profilo, una volta individuata l’area di inapplicabilità del divieto in sede di normativa statale, il Sindaco non può assumere provvedimenti attraverso i quali il divieto stesso si riespande e riprende vigore, perché ciò significherebbe porsi in irrimediabile contrasto con la normativa statale, effetto di certo non voluto dal legislatore statale. Ha aggiunto che anche il richiamo alla norma di cui art. 1, d.l. n. 19 del 25 marzo 2020, in base alla quale possono essere adottate misure limitative per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus Covid-19 su specifiche parti del territorio nazionale o, occorrendo, sulla totalità di esso e per periodi predeterminati, non costituisce valido riferimento per l’esercizio di un incondizionato potere di ordinanza. Va detto, in primo luogo, che le misure limitative contemplate dall’art. 1, d.l. 2020, n. 19, possono consistere, tra le altre opzioni, in limitazioni o nel divieto di allontanamento e di ingresso in territori comunali, provinciali o regionali, nonché rispetto al territorio nazionale, opzione prescelta dall’Amministrazione resistente. L’attuazione delle misure di contenimento è però affidata, in primis, al Presidente del Consiglio dei Ministri attraverso propri decreti; la Regione, nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 2, comma 1, del decreto legge sopra citato - e con efficacia limitata fino a tale momento - può varare misure ulteriormente restrittive in presenza di situazioni specifiche sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel territorio regionale o in una parte di esso, esclusivamente nell’ambito di sua competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica nazionale. Il Sindaco, dal canto suo, non può adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza, in contrasto con le misure statali, né eccedere i limiti di oggetto di cui al comma 1. Il Sindaco, in altri termini, in una cornice di riferimento normativo di questo tipo, non è privato del potere di ordinanza extra ordinem ma - diversamente da quanto avviene in periodi non qualificabili come emergenze nazionali, in cui l’ordinanza contingibile e urgente vale a fronteggiare un’emergenza locale e può avere finanche attitudine derogatoria dell’ordinamento giuridico - neppure può esercitare il potere di ordinanza travalicando i limiti dettati dalla normativa statale, non solo per quel che concerne i presupposti ma anche quanto all’oggetto della misura limitativa. Questo vuol dire che il Sindaco può, in linea con la prescrizione statale, introdurre un divieto di ingresso nel proprio Comune per un periodo di tempo limitato e solo in presenza di un sopravvenuto aggravamento del rischio sanitario che sia stato oggetto di valutazione adeguata e proporzionata ai dati epidemiologici del territorio in un dato momento.  
Covid-19
Inquinamento – Inquinamento acustico - Misure di contenimento - Non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore – Competenza - Individuazione.     Deve riconoscersi ai Comuni la competenza ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento acustico, anche introducendo fasce orarie, non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore (1).  (1) Ha ricordato la sezione che la giurisprudenza ha chiarito che la tutela del bene giuridico protetto dalla legge quadro n. 447 del 26 ottobre 1995, la quale mira alla salvaguardia di un complesso di valori (cfr. art. 2, comma 1, lett. a) rispetto al fenomeno dell’inquinamento acustico, coesiste con la tutela del diverso bene giuridico che è costituito dalla pubblica tranquillità, trattandosi di beni presidiati da norme con obiettivi e struttura diversi, e ha riconosciuto perciò, al di là di quanto specificamente previsto dall’art. 6, comma 3, l. n. 447 del 1995 per i comuni il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico, che la legislazione sull’inquinamento acustico «non impedisce … ai comuni di adottare una più specifica regolamentazione dell’emissione e dell’immissione dei rumori nel loro territorio, la quale, nel rispetto dei vincoli derivanti dalla l. n. 447 del 1995, prenda in considerazione, non già il dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità - considerato, per presunzione iuris et de iure, come generativo di un fenomeno di inquinamento acustico, a prescindere dall’accertamento dell’effettiva lesione del complesso di valori indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a), della Legge - ma i concreti effetti negativi provocati dall’impiego di determinate sorgenti sonore sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata (Cass., 9 ottobre 2003, n. 15081)» (Cass. civ., sez. I, 1° settembre 2006, n. 18953, chiarendo, pertanto, che nello specifico caso ivi affrontato «non si trattava di stabilire se fossero stati osservati i limiti massimi al riguardo introdotti da detto D.P.C.M., né di compiere le rilevazioni nelle località e con i criteri individuati dalle norme dianzi indicate, tali da richiedere l’utilizzazione di appositi apparecchi di precisione; bensì di accertare se il rumore generato dalla condotta ascrivibile al ricorrente fosse idoneo a determinare l’evento di disturbo della tranquillità pubblica avuto di mira dalla norma regolamentare»). Si tratta di un indirizzo che in passato è già stato fatto proprio dal Consiglio di Stato, il quale ha affermato un principio valevole, in coerenza con la giurisprudenza richiamata, per tutti i comuni e non soltanto per quelli di rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico. Si è detto infatti (Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1265) che «[p]ur non potendo … gli enti locali introdurre, nell’esercizio della propria potestà regolamentare, limiti alle immissioni sonore diversi e comunque inferiori a quelli previsti dalla l. n. 447 del 1995, i Comuni possono dettare disposizioni particolari, anche presidiate da sanzione amministrativa, che vietino non già le immissioni sonore che superino una soglia acustica prestabilita, ma tutte quelle che comunque nuocciano alla quiete e alla tranquillità pubblica o privata, quale che sia il loro livello acustico (Cass. civ., sez. I, 1 settembre 2006, n. 18953). Deve, quindi, riconoscersi ai Comuni la competenza ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento acustico, anche introducendo fasce orarie, non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore».
Inquinamento
Processo amministrativo – Competenza – Esclusione dalle agevolazioni Invitalia s.p.a. - Agevolazioni destinate ad attività da localizzarsi nelòla singola Regione – Competenza del Tar territoriale.            Rientra nella competenza del Tar territoriale la controversia avente ad oggetto il provvedimento di non ammissione alle agevolazioni, adottato da Invitalia s.p.a. nell’ambito del “regime di aiuto finalizzato a sostenere la nascita e lo sviluppo, su tutto il territorio nazionale, di start up innovative”, agevolazioni destinate ad attività da localizzarsi in Sicilia (1).  (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 13 c.p.a. prevede (comma 1), quale criterio principale determinativo della competenza, che “sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi, comportamenti di pubbliche amministrazioni è inderogabilmente competente il tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede”, salvo che i predetti atti abbiano “effetti diretti . . . limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede”.  Ciò che occorre considerare, ai fini del riconoscimento della competenza del Tar Lazio ovvero del TAR regionale, è se, pur in presenza di una amministrazione pubblica o soggetto ad essa equiparata (tale essendo da considerare Invitalia s.p.a.) con sede in Roma, gli atti da questa adottati producano (o meno) “effetti diretti . . . limitati all’ambito territoriale della regione in cui il Tribunale ha sede”.  Nel caso di specie – in ciò condividendo la prospettazione dell’ordinanza – per “effetti diretti” non si possono intendere la stipula del contratto di finanziamento ovvero l’insorgenza di una posizione di interesse legittimo pretensivo alla stipula del contratto; ma, diversamente opinando, per effetto diretto deve intendersi il conseguimento dell’agevolazione finanziaria pubblica teleologicamente collegata alla realizzazione agevolata di una certa iniziativa economica territorialmente localizzata.  Ciò che costituisce il bene che rappresenta il cd. “lato interno” dell’interesse legittimo pretensivo è il conseguimento dell’agevolazione, cui si perviene per il tramite del provvedimento di concessione, che la conforma in relazione alle modalità di spesa ed al territorio specifico nell’ambito del quale essa è spendibile, dove cioè è da localizzarsi o è già localizzato l’intervento.  In tale contesto, il contratto assume la ordinaria natura di contratto ausiliario di provvedimento concessorio, essendo la sua funzione tipica quella di regolare aspetti patrimoniali connessi all’esercizio del potere amministrativo (già esercitato e “consumato” con l’emanazione del provvedimento).   Esso, dunque, può essere condivisibilmente definito “fonte di regolazione del rapporto” ovvero “strumento mediante il quale il finanziamento è destinato a produrre i propri effetti” (così come sostenuto nell’ordinanza del Tar Lazio), nella misura in cui ci si riferisca (limitatamente) agli effetti patrimoniali “ulteriori”, derivanti da un rapporto giuridico con l’amministrazione pubblica geneticamente regolato dal provvedimento amministrativo.  In nessun caso, dunque, l’ “effetto” del provvedimento di concessione può essere considerato un (nuovo) interesse legittimo pretensivo alla stipula del contratto, così duplicando i rapporti giuridici intercorrenti con l’amministrazione pubblica, ma esso è sempre rappresentato dal conseguimento del bene della vita (nel caso di specie, l’agevolazione), che – in ampia applicazione dell’art. 810 c.c. – costituisce il “bene” (non presente, ma da conseguirsi) sul quale “insiste” l’interesse legittimo pretensivo.  D’altra parte, è appena il caso di osservare che se l’effetto diretto dell’atto consistesse nell’insorgenza di un ulteriore interesse legittimo pretensivo, occorrerebbe paradossalmente affermare che, essendosi l’effetto realizzato nel patrimonio giuridico dell’istante, ciò non radicherebbe necessariamente la competenza del Tar Lazio, ma occorrerebbe verificare di volta in volta, secondo il criterio civilistico della residenza, quale possa essere il Tar competente (essendo, a tutta evidenza, la sede di Roma solo il luogo di sottoscrizione del contratto e, dunque, di realizzazione del nuovo interesse legittimo pretensivo non oggetto del primo giudizio).  E’ appena il caso di aggiungere che è il bene della vita connesso all’interesse legittimo pretensivo in virtù del quale si è sollecitato l’esercizio del potere amministrativo a dover essere considerato, anche nel caso in cui l’agevolazione richiesta venga negata. Il provvedimento negativo, infatti, non fonda una nuova ed autonoma posizione di interesse legittimo oppositivo, ma sollecita esclusivamente la tutela giurisdizionale contro il provvedimento negatorio della soddisfazione dell’interesse legittimo pretensivo, che resta la posizione per la cui tutela si agisce in giudizio.
Processo amministrativo
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento regionale - Art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001 – Natura.   Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento regionale - Art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001 – Motivazione – Necessità.            Il potere di annullamento regionale del permesso di costruire, disposto ai sensi ex art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001, è una autotutela speciale, riconducibile al paradigma dell’art. 21-novies l. n. 241 del 1990, salva la specialità dei termini di esercizio, che sono di perdurante vigenza (1).            Al fine dell’annullamento, da parte della regione, del permesso di costruire, disposto ai sensi ex art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001, non è sufficiente la sussistenza di una illegittimità dell’atto e il mero interesse pubblico al ripristino della legalità violata, ma occorre invece che sia stata commessa una grave violazione urbanistico edilizia e che vi sia un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata, da compararsi con l’affidamento dl   (1) Il Collegio ritiene che il potere di annullamento regionale sia una autotutela speciale, riconducibile al paradigma dell’art. 21-novies l. n. 241 del 1990, salva la specialità dei termini di esercizio, che sono di perdurante vigenza. Ad avviso del C.g.a. che si tratti di un potere di autotutela è desumibile dai seguenti rilievi: - l’annullamento dell’atto non è “dovuto” in presenza della riscontrata illegittimità. L’art. 39 t.u. edilizia configura il potere di annullamento regionale come un potere discrezionale, utilizzando l’espressione “possono essere annullati”; - l’annullamento non è un atto “coercibile” da parte del privato o da altro organo dell’Amministrazione. Si tratta dunque di un potere di amministrazione attiva, di secondo grado, coerente con l’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990 secondo cui il potere di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo può essere esercitato, oltre che dall’Amministrazione che ha autorato il provvedimento, da altro organo previsto dalla legge. Ma anche a voler accedere alla tesi secondo cui il potere regionale è un potere di vigilanza e controllo, questo non giustifica senz’altro la sua sottrazione all’ambito di applicazione dell’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990; infatti tale norma non reca una delimitazione dell’annullamento di ufficio all’ambito della c.d. autotutela, e fa riferimento a tutti i casi in cui l’annullamento possa essere disposto dalla stessa Amministrazione autrice dell’atto o da “altro organo previsto dalla legge”. E’ da ritenere quindi che l’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990 si debba applicare a tutti i casi in cui la legge attribuisca ad un organo di amministrazione attiva il potere di annullamento di atti amministrativi, a prescindere dalla qualificazione della natura del potere esercitato (amministrazione attiva, vigilanza-controllo); la previsione non si applica invece nei casi di controllo affidato alla Corte dei conti o all’annullamento giurisdizionale. Quanto, tuttavia, ai termini per l’esercizio del potere, l’art. 39 t.u. n. 327 del 2001 si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990, ad esso sopravvenuto, e pertanto di prevalenza: non risulta espressamente abrogato; né sussistono i presupposti esegetici per ravvisare una abrogazione tacita, posto che la legge generale successiva non può abrogare tacitamente la legge speciale anteriore.   (2) Il C.g.a. ha avuto modo di precisare, con il parere numero 67 del 2017, che “Il tenore dell’art. 53 l.r. n. 71/1978, secondo cui gli atti comunali illegittimi “possono essere annullati” dalla Regione esclude qualsiasi obbligatorietà ed automaticità del provvedimento regionale di annullamento, che deve, invece, recare una congrua motivazione sull’interesse pubblico a procedere.” E sempre nel medesimo parere si è precisato che “Per giurisprudenza concorde, espressasi prevalentemente con riferimento all’art. 21-novies l. n. 241/1990, la motivazione di un atto di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio non può limitarsi al mero richiamo alla legalità. Sotto questo profilo l’annullamento regionale non si differenzia sensibilmente dall’annullamento operato in autotutela dal Comune (cfr. C.G.A., sez. riun., parere 383/03 del 12 marzo 2004, secondo cui “l'opera di comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti (la cui necessità non è, peraltro, esplicitamente esclusa nemmeno dall'orientamento giurisprudenziale più rigoroso, che pure intravvede un interesse pubblico in re ipsa) debba essere espletata con perspicuo rigore, dandone conto con adeguata motivazione, ed escludendo meccanismi presuntivi sia con riferimento alla sussistenza dell'interesse pubblico all'annullamento, che, non da ultimo, con riguardo all'eventuale affidamento del privati").” Anche il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza n. 4822 del 2018, ha statuito che “Seppure la norma del t.u. edilizia che attribuisce alla Regioni il potere di annullamento straordinario dei titoli edilizi illegittimi non presenta il grado di puntualità, con riferimento ai presupposti che debbono sussistere per l’esercizio corretto del relativo potere, che si riscontra nella lettura della disposizione dell’art. 21-novies l. 241/1990, che contiene i principi generali in materia di atti amministrativi di ritiro di precedenti provvedimenti, appare inevitabile affermare che, comunque, tali prescrizioni debbono essere osservate anche in caso di esercizio del potere di annullamento straordinario dei titoli edilizi, ex art. 39 d.P.R. n. 380/2001, per effetto di una doverosa lettura costituzionalmente orientata della relativa disposizione e quindi rispettosa del principio generale di cui all’art. 97 Cost..” Ed ancora nella stessa motivazione: “l'eccezionalità del potere in questione non può che essere inteso, in conformità ai canoni costituzionali di cui all'art. 97 Cost. e di ragionevolezza, sulla scorta dei medesimi presupposti che disciplinano l'autotutela della pubblica amministrazione titolare del potere ordinario: sia in termini di interesse pubblico specifico, sia di doverosa valutazione degli interessi e degli eventuali affidamenti, con conseguente necessaria valutazione della situazione di fatto che si viene ad incidere in via straordinaria”. E’ solo mediante un’articolata e completa motivazione che il provvedimento rispetta i requisiti della legittimità. La motivazione deve essere tanto più congrua quanto più giustificato è il legittimo affidamento dei privati nella stabilità di provvedimenti amministrativi anche in materia di titolo edilizi. La stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della Pubblica Amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale. Il principio costituzionale dell’art. 97 Cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro. Tale limite trova fondamento anche nell’art. 3 Cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico. Non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all’esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l’uso scorretto, irragionevole, sproporzionato, del potere pubblico. Tanto maggiore è l’affidamento dei privati tanto più esaustiva deve essere la motivazione da cui possa desumersi la sussistenza del pubblico interesse che non sia il mero richiamo alla violazione delle regole urbanistiche e l’avvenuta ponderazione e comparazione con i contrastanti interessi di cui sono portatori gli stessi. L’obbligo di motivazione è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato, apparentemente, dalla reciproca buona fede.
Edilizia
Covid-19 – Lazio – Ordinanza del Responsabile dell’Unità di Crisi Assessore alla Sanità della Regione Lazio - Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica – Non va sospesa.      Non deve essere sospesa in via monocratica l’ordinanza del Responsabile dell’Unità di Crisi Assessore alla Sanità della Regione Lazio che ha introdotto ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica Covid-19.
Covid-19
Giurisdizione – Pubblica istruzione - Graduatorie di istituto – Diritto all’inserimento - Giurisdizione del giudice ordinario         Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il collocamento nelle graduatorie del comparto scolastico sono attribuite al giudice ordinario se il ricorso è diretto all’accertamento del diritto del singolo docente all’inserimento nella graduatoria e non all’annullamento dell’atto amministrativo generale o normativo che disciplina la materia; la formazione e la gestione delle graduatorie non darebbe luogo infatti ad una procedura concorsuale, ma al mero accertamento della sussistenza dei requisiti richiesti e gli atti adottati sarebbero privi di contenuto discrezionale (1).      (1) Ricorda la Sezione che la Corte di Cassazione ha chiarito (cfr. sentenza delle Sezioni Unite n. 21198 del 2017) che ai fini della individuazione di quale sia il giudice munito di giurisdizione in relazione alle controversie concernenti il diritto dei docenti della scuola all’inserimento in una graduatoria ad esaurimento occorre avere riguardo al petitum sostanziale dedotto in giudizio. Di conseguenza, se oggetto della domanda è la richiesta di annullamento dell’atto amministrativo e solo quale effetto della rimozione di tale atto l’accertamento del diritto del ricorrente all’inserimento nella graduatoria, la giurisdizione non potrà che essere devoluta al giudice amministrativo; se viceversa la domanda è volta specificamente all’accertamento del diritto del singolo docente all’inserimento nella graduatoria, ritenendo che tale diritto scaturisca direttamente dalla normazione primaria, la giurisprudenza va attribuita al giudice ordinario. La Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che nelle ipotesi delle graduatorie di istituto laddove “il ricorrente abbia chiesto l’annullamento del decreto di pubblicazione delle graduatorie medesime di seconda e di terza fascia… la giurisdizione non può che essere del giudice amministrativo, in quanto la domanda giudiziale riguarda direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo e quindi presuppone una posizione di interesse legittimo”. Diversamente dalla situazione riscontrata per le graduatorie ad esaurimento - per le quali si esclude sia lo svolgimento di attività autoritativa della pubblica amministrazione sia di procedure concorsuali che, ai sensi dell’art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001, “restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo”- in questo caso ricorrerebbero tutti gli elementi caratteristici della procedura concorsuale pubblica vale a dire il bando iniziale, la fissazione dei criteri valutativi dei titoli, la presenza di una commissione incaricata della valutazione dei titoli dei candidati e la formazione di una graduatoria finale. ​​​​​​​In definitiva, la giurisdizione dipende quindi dal petitum sostanziale e dalle caratteristiche della procedura adottata (concorsuale o non). 
Giurisdizione
Beni culturali – Concessione - Certosa di Trisulti – requisiti - Mancanza . Ritiro dell’affidamento della concessione – legittimità.    Atto amministrativo – Autotutela – Termine – Provvedimento ampliativo - Autotutela a seguito di false dichiarazioni – Termine di 18 mesi ex art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 – Inapplicabilità.                E’ legittimo il decreto del Ministero dei beni culturali ed ambientali che ha ritirato l'affidamento in concessione del bene immobile culturale denominato della Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone, alla Dignitatis Humanae, a causa della mancanza dei requisiti richiesti dal bando che riguardavano non solo la personalità giuridica, ma anche lo Statuto dell'associazione, che al tempo della presentazione della domanda non riportava gli indirizzi di tutela e valorizzazione richiesti dal ministero (1).                Il limite temporale dei 18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela, introdotto dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole (2).    (1) Ha chiarito la Sezione che il d.m. 6 ottobre 2015, recante la disciplina del rilascio delle concessioni in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato, si esprimano in termini estremamente chiari nel prevedere che alla selezione possano partecipare solo associazioni e fondazioni riconosciute, perché solo a queste tipologie di enti è consentito di essere destinatari della concessione di beni immobili del demanio culturale dello Stato.  Il tenore dell’art. 2 del citato decreto ministeriale non lascia spazio a diverse interpretazioni laddove stabilisce testualmente che “Le concessioni disciplinate dal presente decreto sono riservate alle associazioni e fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell'avviso pubblico di cui all'art. 3, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione”.  I requisiti dovevano essere posseduti alla scadenza del termine fissato per presentazione delle domande. Ciò discende da un principio immanente nel nostro ordinamento in virtù del quale i requisiti richiesti per la partecipazione ad una selezione pubblica debbono essere posseduti al momento della scadenza del termine perentorio stabilito dal bando per la presentazione della domanda di partecipazione, al fine di non pregiudicare la par condicio tra i candidati ad una selezione pubblica, che sempre deve assistere lo svolgimento di una siffatta procedura amministrativa, anche solo quale precipitato del principio di cui all’art. 97 Cost., oltre ai principi, criteri e disposizioni recati dall’art. 1, l. n. 241 del 1990, che disciplina ogni tipologia di attività amministrativa, anche di tipo selettivo (Cons. Stato, sez. VI, 8 settembre 2020, n. 5412) e che, ovviamente (operando, in via principale, quale principio generale relativo alla legittimazione a partecipare alla selezione e non quale condizione per l’ottenimento del beneficio derivante dall’avere superato favorevolmente la selezione stessa), trova applicazione anche nell’ipotesi in cui si verifichi il caso della partecipazione di un solo candidato alla selezione.  Ha ancora affermato la Sezione che la selezione avviata dal Ministero dei beni culturali e conclusa con l’adozione di un decreto di approvazione della graduatoria e di individuazione dell’assegnatario della concessione di un bene immobile di rilievo culturale ha ad oggetto, senza alcun dubbio, l’assegnazione di un vantaggio economico [e proprio per questa ragione la scelta del concessionario di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico va effettuata mediante procedura competitiva di evidenza pubblica, in applicazione diretta dei principi di matrice eurounitaria del Trattato dell'Unione europea (Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2011, n. 3250 e 7 aprile 2011, n. 2151).       (2) La Sezione ha premesso che la concessione per la cura e lo sfruttamento (e quindi, in sintesi, della gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione. L’operazione, ad evidente carattere dicotomico, si completa con la stipula della convenzione, che caratterizza il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, per mezzo della quale le parti, concedente e concessionario, disciplinano gli aspetti concreti e “la vita” della gestione del bene demaniale, individuando le peculiarità che contraddistinguono il rapporto tra le parti, anche sotto il profilo economico.  Dunque il momento civilistico non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionato dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario.  Infatti la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.). Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio.  Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla concessione-contratto. L’atto accessivo ad una concessione (il “contratto”) che, giuridicamente, va qualificata quale tipico provvedimento amministrativo costitutivo, parteciperebbe della natura provvedimentale della concessione medesima, ben potendo, dunque, al pari di essa, essere oggetto dell'esercizio di poteri di autotutela da parte dell'amministrazione, stante l’intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra le due fasi e tra gli atti che le concludono. D’altronde, anche per quello che si dirà nel prosieguo, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si è proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità pervade il contratto e quindi provoca la decadenza dal beneficio ottenuto indebitamente.  Ne deriva che, non solo il rilascio di una concessione costituisce un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici “a persone ed enti pubblici e privati” (per come è specificato nell’art. 12, l. n. 241 del 1990), ampliativo della sfera giuridica (ed economica) del destinatario, che rappresenta il momento prodromico e pregiudiziale per la composizione civilistica degli interessi del concedente e del concessionario, ma nei confronti di detto provvedimento e del procedimento all’esito del quale esso viene adottato trovano sicuramente applicazione le disposizioni recate dalla l. n. 241 del 1990, ivi compreso l’istituto dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.  Ha ancora ricordato la Sezione che il potere di autotutela decisoria è, invero, un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione di volontà già responsabilmente espressa dall'amministrazione e in sé costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, per esigenze di sicurezza giuridica e certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro diciotto mesi “dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”  Nel caso di specie si è al cospetto di un soggetto (l’associazione DHI) che ha conseguito un vantaggio economico (l’assegnazione del bene di rilievo culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione) sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla relativa selezione, poi dimostratesi non veritiere.  Il giudice di primo grado ha ritenuto che, al ricorrere di una siffatta ipotesi, l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento, adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) avviato nei confronti del dichiarante (ovviamente, laddove detto procedimento venga realmente avviato), in ossequio alla norma contenuta nell’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990.  La Sezione ha ritenuto che tale lettura interpretativa della norma non è condivisibile.  Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2020 n. 16, ha affermato che: in via generale, “è risalente l'insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest'ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”; premesso quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva; va però precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva; a ciò va aggiunto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione.   Da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità.  Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che il termine massimo di 18 mesi assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost. nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990.  Sotto il versante del diritto eurounitario (nell'ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto specifico e concreto dell'autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario per l'interesse pubblico (e fermo in ogni caso l'indennizzo della posizione acquisita). Nello stesso tempo però (Cons. Stato, sez. III, 8 luglio 2020, n. 4392), affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all'uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l'aspettativa del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l'affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa).  Sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. n. 241 del 1990, affligge l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione.    Diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici.  Ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost., quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando (anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (nel caso di specie alla selezione potrebbero non avere partecipato associazioni che, non possedendo i requisiti richiesti dall’avviso pubblico, sapevano che sarebbero state escluse e che, peraltro, potrebbero avere conseguito i requisiti richiesti in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione delle domande esattamente come l’associazione DHI che ha, dunque, partecipato alla selezione senza essere in possesso dei requisiti richiesti, addirittura aggiudicandosela).  Pertanto, la surriproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241 del n. 1990, porta ad affermare che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario (Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2019, n. 3192; id. 24 aprile 2019, n. 2645).
Atto amministrativo
Cave – Attività di estrazione -  Autorizzazione – Revoca – Per fatti sopravvenuti – Possibilità – Condizione.             In tema di revoca di una autorizzazione alla coltivazione di una cava di ghiaia l’Amministrazione regionale ha il potere di rivalutare l’autorizzazione alla luce dei fatti sopravvenuti, ma deve esplicitare le ragioni di interesse pubblico in relazione ai principi di proporzionalità e affidamento del privato, tenuto conto delle concrete modalità con cui si dispone la revoca (1).   (1) Il potere di revoca può essere esercitato - in attuazione del principio di conservazione degli atti - anche con una revoca parziale (Cons. St., sez. VI, 9 aprile 2010, n. 2380; id. 28 febbraio 2006, n. 895). Nella specie la Regione poteva rivalutare la situazione posta alla base del provvedimento impugnato in primo grado, in relazione a fatti sopravvenuti, quali l’aumento dell’impatto ambientale dovuto al rilascio dell’autorizzazione provinciale all’impianto di frantumazione, ma tale potere avrebbe dovuto essere esercitato conformemente ai principi generali, successivamente codificati dall’art. 21 quinquies, l. 7 agosto 1990, n. 241, nel testo modificato dalla l. 11 febbraio 2015, n. 15, ma comunque applicabili anche agli atti precedentemente adottati, in base ai principi già elaborati dalla giurisprudenza, ovvero in relazione alla valutazione della sussistenza di un interesse pubblico attuale alla revoca anche in considerazione dell’ affidamento ingenerato nel privato.   L’atto di revoca, infatti, anche se per sua natura ampiamente discrezionale, deve dar conto del raffronto con l’interesse privato sotteso all’atto oggetto di revoca. Il giudice di appello ha, infatti, evidenziato che la revoca si configura come lo strumento dell’autotutela decisoria preordinato alla rimozione di un atto ad efficacia durevole, in esito ad una nuova e diversa valutazione dell'interesse pubblico. I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall'art. 21 quinquies, con formule lessicali volutamente generiche e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto, imprevedibile al momento dell’adozione del provvedimento e in una rinnovata e diversa valutazione dell'interesse pubblico originario. A differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca resta, comunque, rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell'Amministrazione procedente. Peraltro, la previsione normativa dell’art. 21 quinquies, l. n. 241 del 1990 deve essere interpretata alla luce anche dei principi generali dell'ordinamento della tutela della buona fede, della lealtà nei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione e del buon andamento dell’azione amministrativa, che implicano il rispetto della imparzialità e della proporzionalità, per cui la revisione dell’assetto di interessi recato dall’atto originario deve essere preceduta da un confronto procedimentale con il destinatario dell’atto che si intende revocare; non è sufficiente, per legittimare la revoca, un ripensamento tardivo e generico circa la convenienza dell’emanazione dell'atto originario; le ragioni addotte a sostegno della revoca devono rivelare la consistenza e l'intensità dell’interesse pubblico che si intende perseguire con il ritiro dell'atto originario; la motivazione della revoca deve esplicitare, non solo i contenuti della nuova valutazione dell'interesse pubblico, ma anche la prevalenza di tale interesse pubblico su quello del privato che aveva ricevuto vantaggi dal provvedimento originario a lui favorevole (Cons. St., sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026; id., sez. IV, 10 luglio 2018, n. 4206).
Cave
Pubblica istruzione – Studenti disabili - Diritto all’istruzione - Servizio di trasporto - Rientra nell’ambito del diritto all’istruzione – Conseguenza – Oneri economici – Incombono sul Comune.        Il servizio di trasporto dello studente rientra nell’ambito del diritto all’istruzione e non in quello dell’assistenza socio-sanitaria, con la conseguenza che sulla famiglia dello studente non incombe un onere di contribuzione mentre ricade sulla amministrazione comunale lo svolgimento del servizio di trasporto scolastico al fine di garantire l’immediato e tempestivo esercizio del diritto fondamentale all’istruzione dello studente con disabilità; tale servizio deve essere reso a titolo gratuito in conformità con l’art. 28, comma 1, l. n. 118/1971 ed il principio del divieto di discriminazione di cui agli artt. 21 Carta dei diritti fondamentali UE e dell’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che il diritto all’istruzione delle persone disabili ha rilevanza costituzionale (Cons. Stato, sez. I, n. 1331 del 2020). A fondamento delle disposizioni della l. n. 104 del 1992, di cui si lamenta la violazione e delle altre leggi sulla tutela degli alunni disabili, si pongono i principi costituzionali di cui all’art. 2 (sulla tutela dei “diritti inviolabili dell’uomo” e sui “doveri inderogabili di solidarietà … sociale”), all’art. 3 (secondo cui “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), all’art. 34, primo comma (sulla apertura della scuola “a tutti”) e all’art. 38, terzo comma (sul “diritto all’educazione” anche quando vi sia una disabilità) (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023 del 2017). In particolare, il diritto all’istruzione delle persone con disabilità, di cui il diritto all’integrazione scolastica costituisce parte integrante, ha il suo fondamento nell’art. 34 Cost., al pari di quello delle persone normo-dotate. Esso è intrinsecamente connesso allo sviluppo della personalità per il legame esistente tra il principio di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., ed il diritto all’istruzione, di cui all’art. 34 Cost. L’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituisce fattore fondamentale dello sviluppo della personalità e trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 38 Cost. (Corte cost. n. 215 del 1987, ribadito di recente nella sentenza n. 83 del 2019). Essa richiede adattamenti sia logistici che didattici alla singola persona con disabilità, attraverso la definizione di percorsi educativi individualizzati che riflettano le difficoltà specifiche di ciascuno studente con disabilità e le caratteristiche del gruppo in cui l’inserimento deve essere realizzato (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023 del 2017; id. n. 758 del 2018; Corte Europea dei diritti dell’uomo, Cam c. Turchia, 23 febbraio 2016, in particolare paragrafi 65 e 66). Tali diritti hanno avuto pieno riconoscimento anche sul piano europeo nell’articolo 26 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell’art. 2 del Primo Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, primo comma, nell’art. 15 della Carta Sociale Europea (G.I. c. Italia, Corte Europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 10 settembre 2020) . I principi relativi all’istruzione delle persone con disabilità hanno trovato altresì riconoscimento nel Piano strategico per le disabilità 2017/2023 del Consiglio d’Europa, che ha esplicitamente indicato la necessità di un approccio basato sulle capacità piuttosto che sulle disabilità. Sul piano internazionale il riferimento relativo ai principi esposti è alla Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone disabili, entrata in vigore il 3 maggio 2008 e resa esecutiva in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18. L’integrazione scolastica dei disabili persegue un obiettivo alto ma complesso: garantire non solo l’accesso a conoscenze ma anche alle competenze necessarie per l’acquisizione di capacità idonee all’inserimento sociale del disabile. L’apprendimento e l’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituiscono, infatti, una premessa fondamentale della integrazione lavorativa e di quella sociale, che sono alla base di società informate ai principii di solidarietà ed uguaglianza (principii enunciati già da Corte Costituzionale sentenza n. 215 del 1987 e ribaditi di recente nella sentenza n. 83 del 2019). La disciplina costituzionale dell’istruzione dei soggetti portatori di handicap ha avuto la sua concretizzazione nella legislazione ordinaria che definisce il diritto all’integrazione scolastica delle persone con disabilità. In base a quanto disposto dalla legge-quadro n. 104 del 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili e dal d.lgs. n. 297 del 1994, recante disposizioni legislative in materia di istruzione, che sanciscono il diritto del disabile all’integrazione scolastica ed allo sviluppo delle sue potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione e nelle relazioni, per consentirgli il raggiungimento della massima autonomia possibile, gli istituti scolastici sono tenuti ad assicurare l’integrazione configurando percorsi educativi individualizzati (art. 12, l. n. 105 del 1992). L’art. 24 della Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità, resa esecutiva in Italia con la l.3 marzo 2009, n. 18, regola il diritto all’istruzione affermando il principio secondo cui (comma 2) “2. Nel realizzare tale diritto, gli Stati Parti dovranno assicurare che: (a) le persone con disabilità non vengano escluse dal sistema di istruzione generale sulla base della disabilità e che i bambini con disabilità non siano esclusi da una libera ed obbligatoria istruzione primaria gratuita o dall’istruzione secondaria sulla base della disabilità; (b) le persone con disabilità possano accedere ad un’istruzione primaria e secondaria integrata, di qualità e libera, sulla base di eguaglianza con gli altri, all’interno delle comunità in cui vivono; (c) un accomodamento ragionevole venga fornito per andare incontro alle esigenze individuali; (d) le persone con disabilità ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fine di agevolare la loro effettiva istruzione; (e) efficaci misure di supporto individualizzato siano fornite in ambienti che ottimizzino il programma scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione.” . Tale disposizione va coordinata con l’art. 13, l. n. 104 in materia di diritto all’integrazione scolastica, dove vengono definire le modalità attraverso cui rendere effettiva tale integrazione. Con una recente pronuncia la Corte Europea dei diritti dell’uomo (G.I. c. Italia, Corte Europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 10 settembre 2020) proprio in un caso relativo all’ Italia sono stati ribaditi i principi fondamentali in materia di diritto all’istruzione delle persone disabili contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha valutato se lo Stato italiano abbia adottato tutte le misure ragionevoli per assicurare il diritto all’istruzione della minore disabile Nel caso di specie vi era stata l’interruzione del servizio di sostegno alla minore disabile. La Corte ha concluso affermando che lo Stato Italiano non ha motivato adeguatamente le ragioni dell’insufficienza di risorse necessarie ed in particolare non ha mostrato di avere ripartito le risorse tra studenti normo-dotati e studenti portatori di handicap in modo da evitare trattamenti discriminatori nei confronti di questi ultimi (par. 62 G.I. c. Italia). La Corte di Strasburgo ha pertanto ritenuto che non siano state adottate le misure necessarie condannando lo Stato Italiano sia per la violazione dell’art. 2 protocollo in combinato con l’art. 14 della Convenzione sia per la violazione dell’art 8 Sulla base del quadro normativo nazionale ed internazionale descritto deve concludersi che il diritto all’istruzione dei disabili, ascritto alla categoria dei diritti fondamentali, passa attraverso l’attivazione dell’Amministrazione scolastica per la sua garanzia, mediante l’adozione delle doverose misure di integrazione e sostegno, atte a rendere possibile ai disabili la frequenza delle scuole e l’insieme delle pratiche di cura e riabilitazione necessarie per il superamento ovvero il miglioramento della condizione di disabilità e per quel che qui rileva anche la coerente acquisizione di competenze - seppur ridotte - scolastiche (C.g.a. n. 482 del 2020).  Nel caso all’esame della Sezione il trasporto con le sue specifiche caratteristiche legate alla particolare disabilità motoria della minore è indispensabile a garantire la realizzazione del diritto all’istruzione. La circostanza che la minore disabile fruisca presso l’istituto anche di prestazioni sanitarie riabilitative non modifica la natura del trasporto che rimane scolastico. Così come le particolari condizioni fisiche che richiedono un trasporto assistito non modificano la finalità del trasporto che rimane scolastico. Come mostrato in atti, peraltro, l’attività riabilitativa viene svolta prevalentemente presso altra istituzione specializzata ovverosia la fondazione. Il diritto al trasporto scolastico dall’abitazione all’istituto scolastico più idoneo alle esigenze della persona con disabilità è un diritto soggettivo funzionale alla realizzazione di un diritto fondamentale del disabile all’istruzione (Cons. Stato, sez. V, n. 1675 del 2020). Il contenuto di tale diritto è quindi correlato ad obblighi positivi sussistenti in capo all’amministrazione. Di conseguenza non sussiste un obbligo di compartecipazione agli oneri. Giova tuttavia precisare, che anche nell’ipotesi in cui tale obbligo fosse esistito, mai potrebbe l’amministrazione procedere all’interruzione del servizio, potendo se mai impiegare gli ordinari strumenti per la riscossione del credito. Come affermato, non è questo il caso di specie, trattandosi di trasporto scolastico e dunque di servizio pubblico da erogarsi a titolo gratuito. ​​​​​​​Sostiene l’amministrazione resistente che il diritto al trasporto scolastico debba essere garantito nella misura delle risorse disponibili e comunque nell’ambito del vincolo della parità di bilancio. La tesi non è condivisibile ed è stata rigettata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha affermato che “ non costituisce ostacolo alla qualificazione di diritto soggettivo l’art. 26, l. n. 104 del 1992, laddove, al primo comma, demanda alle Regioni di disciplinare le modalità con le quali i Comuni dispongono interventi per consentire alle persone handicappate di muoversi liberamente sul territorio, usufruendo alle stesse condizioni degli altri cittadini, dei servizi di trasporto collettivo appositamente adattati o di servizi alternativi, prevedendo, al secondo comma, che i comuni assicurano modalità di trasporto individuali per le persone handicappate non in grado di servirsi dei mezzi pubblici “nell’ambito delle proprie ordinarie risorse di bilancio” (Cons. Stato, sez. V, n. 809 del 2018). La medesima pronuncia ha chiarito che “la pretesa di trasporto gratuito scolastico vantata da un determinato alunno portatore di handicap accertato ai sensi della l.n. 104 del 1992 assume la consistenza di diritto soggettivo, rientrando in quel “nucleo indefettibile di garanzia per gli interessati” (come su individuato dalla Consulta), che non è consentito nemmeno al legislatore, ed a maggior ragione alla pubblica amministrazione, escludere del tutto in forza di vincoli derivanti dalla carenza di risorse economiche, in quanto finirebbe per essere sacrificato il diritto fondamentale allo studio e all’istruzione […]” sicché “il servizio pubblico di trasporto acquisisce la detta (ulteriore) finalità assistenziale del diritto all’istruzione scolastica costituzionalmente garantito, e deve perciò prevalere sulle esigenze di natura finanziaria, di modo che disposizioni legislative contrarie darebbero luogo a serie questioni di legittimità costituzionale, così come d’altronde ripetutamente affermato in riferimento alla materia dell’organizzazione scolastica e degli insegnanti di sostegno” (Cons. Stato, sez. VI, n. 2320 del 2017; id., sez. V, n. 809 del 2018).
Pubblica istruzione
Piano nazionale di ripresa e resilienza – Fondi – Candidatura di un Comune – Delibera meramente programmatica – Sufficienza.    La delibera comunale che, in termini generici e meramente programmatici, indichi l’intento di promuovere la candidatura dell’ente per l’ottenimento di fondi legati al Pnrr ovvero di eventuali bandi di altri soggetti alle tematiche del Pnrr si presenta inidonea allo specifico fine (1).    (1) Il Tar – sul presupposto assiologico per cui la correttezza formale e completezza contenutistica della decisione della giunta comunale incide sul piano sostanziale sul controllo in ordine al principio (anche) di matrice euro-unitaria della cd. sana gestione finanziaria dell’aiuto, anche in termini di emersione di situazione di conflitto di interesse dei singoli amministratori e della loro responsabilità individuale - osserva con riferimento al caso di specie che la delibera dell’ente locale per un verso, con oggetto plurimo, mentre prevede, al punto 3, di “presentare” la candidatura del Comune a bando della Fondazione San Paolo e per la linea B del bando borghi, dispone, invece, in termini generici e meramente programmatici, al punto 4, l’intento “promuovere” la candidatura del Comune ricorrente “per l’ottenimento di fondi legati al PNRR e/o eventuali bandi di altre fondazioni/enti legati alle tematiche del PNRR che siano coerenti con l’obiettivo strategico dell’Amministrazione volto alla valorizzazione del borgo di Bard, avvalendosi anche delle competenze e delle professionalità messe a disposizione del Dipartimento di Management dell’Università degli studi di Torino, dando in tal senso ampio mandato alla segretaria comunale previa, condivisione, anche verbale, con il Sindaco, in quanto legale rappresentante dell’ente”; per altro verso, tale delibera risulta, quanto al segmento procedurale de quo, priva della necessaria specificità non solo riguardo alla linea di azione ma anche riguardo ai contenuti della proposta, sicché con evidenza è carente la specifica formazione di volontà da parte dell’Ente Comune, atteso che la proposta progettuale avente i contenuti di uno studio di fattibilità deriva soltanto dalla determinazione del Sindaco senza nessuna previa manifestazione di volontà da parte dei competenti organi collegiali del Comune. 
Piano nazionale di ripresa e resilienza
Processo amministrativo – Udienza – Udienza da remoto – Senza discussione orale – Deposito note scritte – Nuove eccezioni di parte – Esclusione – Eccezioni d’ufficio - Contraddittorio tra le parti - Necessità.                 Nello speciale rito di cui all’art. 4, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 giugno 2020, n. 70, qualora non sia chiesta la discussione orale in collegamento da remoto, e le parti si avvalgano della facoltà di depositare note scritte di udienza, in queste ultime non possono essere sollevate eccezioni nuove, neanche afferenti a questioni di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione; ove intenda comunque rilevare d’ufficio tali questioni, il giudice è tenuto a sollecitare su di esse il contraddittorio tra le parti, non potendo la speciale disciplina in questione prestarsi a interpretazioni o prassi applicative inidonee ad assicurare la piena ed effettiva applicazione dei principi costituzionali del cd. giusto processo (1). (1) Ha chiarito la Sezione che agli scritti depositati in prossimità dell’udienza non va attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi bensì, di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza o in camera di consiglio. ​​​​​​​Ove non sia chiesta la discussione orale del ricorso, alle quali le parti hanno rinunciato, il mezzo utilizzato per introdurre la divisata eccezione si tradurrebbe in un surrettizio strumento di elusione del contraddittorio sul punto controverso, atteso che sulla questione nuova non è stato possibile replicare nelle ordinarie forme. ​​​​​​​L’eccezione sollevata nelle note di udienza è inammissibile perché costituisce una novità introdotta per la prima volta alla vigilai dell’udienza di discussione, come tale inutilizzabile in quanto introdotta per la prima volta con mere note di udienza; per l’altro, ove ne avesse ravvisata la rilevanza ai fini della decisione (come poi accaduto in concreto), avrebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a, sostanziandosi essa in una questione rilevata ex officio.
Processo amministrativo
Sanità pubblica – sangue infetto – risarcimento danni – meccanismo transattivo – compatibilità con i principi – diniego di accesso – mero riferimento ai termini – ammissibilità – rimessione all’Adunanza plenaria   Vengono deferiti all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1 e 3, c.p.a., i seguenti quesiti: 1) se, fermo restando quanto affermato nella sentenza n. 16 del 2021 in ordine alla natura non prescrizionale ma decadenziale dei termini stabiliti dall’articolo 5, lettere a) e b), del d.m. 4 maggio 2012 per l’ammissibilità delle domande di adesione allo speciale modulo transattivo previsto dalle leggi nn. 222 e 244 del 2007 (e salva l’eventuale rimeditazione di tale orientamento), le precitate disposizioni ministeriali siano compatibili con i principi di proporzionalità e ragionevolezza, oltre che con la ratio della stessa istituzione normativa di uno speciale meccanismo transattivo per le controversie risarcitorie instaurate dai cc.dd. emotrasfusi, laddove fanno dipendere l’ammissibilità o meno della domanda di accesso a tale speciale modulo transattivo esclusivamente dalla tempestività di una condotta (la instaurazione del giudizio risarcitorio) rispetto a un adempimento (la presentazione della domanda di indennizzo ex legge n. 210/1992) entrambi posti in essere in epoca ampiamente anteriore all’entrata in vigore delle norme in questione, allorché nessuna decadenza era prevista né era prevedibile potesse essere introdotta; 2) se, in ogni caso, sia consentito all’Amministrazione, alla stregua del principio di buon andamento e dell’obbligo di buona fede cui deve informarsi l’azione amministrativa (oltre che dei medesimi canoni richiamati sub 1), motivare il diniego di accesso al modulo transattivo esclusivamente con il mancato rispetto dei termini in questione, anche laddove lo sviluppo della vicenda procedimentale e giudiziale (fino al sopravvenire di una sentenza di condanna dell’Amministrazione al risarcimento, ancorché non definitiva, come nel caso di specie) possa aver ingenerato in capo all’interessato un affidamento per una celere definizione della propria controversia.  
Sanità pubblica
Informativa antimafia – Presupposti – Amministratore vicino alla criminalità organizzata - Successive dimissioni – Irrilevanza ex se. Informativa antimafia – Disciplina - Artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 – Violazione artt. 117 e 3 Cost. – Manifesta infondatezza.   1) Cons. St., sez. III, 10 aprile 2019, n. 2347. La Sezione ha affermato che non rileva neanche la circostanza che l’ex amministratore dimissionario non rivesta all’interno della società più alcuna carica; il momento in cui l’interdittiva è adottata non fotografa l’inizio della vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata, che possono trovare la loro genesi anche in epoca di gran lunga antecedente. Giova a tale proposito ricordare che alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di ingerenza (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386). Le società vicine ai sodalizi criminali, infatti, precostituiscono una congerie di dati fattuali che potrebbero essere ex post utilizzati per dimostrare la cesura con il passato. Sempre più spesso le associazioni a delinquere di stampo mafioso fanno ricorso a tecniche volte a paralizzare il potere prefettizio di adottare misure cautelari (Cons St., sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854). Di fronte al “pericolo” dell’imminente informazione antimafia di cui abbiano avuto in quale modo notizia o sentore, reagiscono mutando sede legale, assetti societari, intestazioni di quote e di azioni, cariche sociali, soggetti prestanome, cercando comunque di controllare i soggetti economici che fungono da schermo, anche grazie alla distinta e rinnovata personalità giuridica, nei rapporti con le pubbliche amministrazioni (Cons. St., sez. III, 13 maggio 2020, n. 3030).   (2) La Sezione ha giudicato la questione manifestamente infondata, alla luce dei principi dettati dallo stesso Giudice delle leggi, più volte intervenuto sulla normativa antimafia confermando l’iter argomentativo del giudice amministrativo. Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione». Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza del maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa. In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483). I principi elaborati dalla Sezione – che hanno ricevuto un primo avallo dal giudice delle leggi (sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019) – sono stati da ultimo nuovamente confermati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 57 del 26 marzo 2020), che, sebbene abbia pronunciato con specifico riferimento alla comunicazione antimafia interdittiva che impinge sull’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, ha ribadito le linee fondanti di tale misura preventiva. In particolare, in detta occasione il giudice delle leggi è stato chiamato ad esaminare la conformità dell’art. 89-bis (e in via conseguenziale dell’art. 92, commi 3 e 4), d.lgs. n. 159 del 2011 per violazione degli artt. 3 e 41 Cost. perché priverebbe un soggetto del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica, ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo. Nel respingere la questione di legittimità costituzionale la Corte – prendendo le mosse da una analisi della giurisprudenza di questa Sezione – ha affermato che il fenomeno mafioso rappresenta un quadro preoccupante non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche del fenomeno, e in particolare – e in primo luogo − per la sua pericolosità (rilevata anche da questa Corte: sentenza n. 4 del 2018). Difatti la forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sono inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana. Le modalità, poi, di tale azione criminale non sono meno specifiche, perché esse manifestano una grande “adattabilità alle circostanze”: variano, cioè, in relazione alle situazioni e alle problematiche locali, nonché alle modalità di penetrazione, e mutano in funzione delle stesse. Ha aggiunto la Corte costituzionale che quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento. È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento di informativa antimafia al quale, infatti, è riconosciuta dalla giurisprudenza natura “cautelare e preventiva” (Cons. Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa. La Corte costituzionale ha quindi fatto riferimento alle situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale, individuate da questa Sezione. Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità. Sulla base di tali principi possono escludersi profili di incostituzionalità degli artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011.
Informativa antimafia
Contratti della pubblica amministrazione – Revisione prezzi – Oggetto – Presupposti – Finalità - Individuazione     La revisione prezzi (al tempo disciplinata per gli appalti di servizi o forniture dall'art. 115 d.lgs. n. 163 del 2006 che ha recepito la disposizione di cui all'art. 6 della legge 24 dicembre 1993, n. 537) si applica ai contratti di durata, ad esecuzione continuata o periodica, trascorso un determinato periodo di tempo dal momento in cui è iniziato il rapporto e fino a quando lo stesso, fondato su uno specifico contratto, non sia cessato ed eventualmente sostituito da un altro. Con la previsione dell'obbligo di revisione del prezzo i contratti di forniture e servizi sono stati muniti di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un «nuovo» corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti. L'istituto della revisione dei prezzi, in particolare, ha la finalità di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa e al contempo essa è posta a tutela dell'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l'arco del rapporto. L'istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un'attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale (1) La revisione prezzi, ai sensi dell’art. 106 del d.lgs. n. 50 del 2016, non è obbligatoria come nella previgente disciplina (artt. 114 e 133 del d.lgs. n. 163/2006), ma opera solo se prevista dai documenti di gara. (2) La mancata previsione della revisione prezzi, al pari della mancata previsione del compenso revisionale, è pienamente conforme al diritto europeo. (3) La disciplina delle riserve non è applicabile all’ipotesi della revisione dei prezzi, in ragione della diversa natura dei due istituti. (4)
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Garanzia – Escussione – Concorrente proposto per l’aggiudicazione – Esclusione.       Il comma 6 dell’art. 93, d.lg. n. 50 del 2016 – nel prevedere che la “garanzia provvisoria” a corredo dell’offerta “copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)” – delinea un sistema di garanzie che si riferisce al solo periodo compreso tra l’aggiudicazione ed il contratto e non anche al periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione (1).    (1) La questione è stata rimessa dalla sez. IV con sentenza parziale 4 gennaio 2022, n. 26.   Ha chiarito l’Alto consesso, in relazione alla natura e alla funzione della “garanzia provvisoria”, che nella vigenza del Codice del 2006, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa distingueva la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dei concorrenti di cui all’art. 48, comma 1, e la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dell’aggiudicatario di cui all’art. 75, comma 1 (Cons. Stato, Ad. plen., 4 ottobre 2005, n. 8; Cons. Stato, Ad. plen., 10 dicembre 2014, n. 34; Cons. Stato, sez. V, ord. 26 aprile 2021, n. 3299).  Alla prima tipologia di garanzia si assegnava natura sanzionatoria, con funzione punitiva, in quanto l’amministrazione poteva escutere la garanzia, incamerando la somma predeterminata, nei confronti di tutti gli offerenti sorteggiati che non fossero in possesso dei requisiti di partecipazione, con conseguenze economiche sovra-compensative. Ne conseguiva la necessità – in conformità con le regole convenzionali (art. 7 Cedu) – di assicurare il rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari della prevedibilità, accessibilità e limiti di applicabilità delle norme nel tempo.   Alla seconda tipologia di garanzia si assegnava natura non sanzionatoria, qualificando la “cauzione” quale garanzia avente una valenza analoga a quella della caparra confirmatoria e la “fideiussione” quale contratto di garanzia personale, con funzione di evidenziare «la serietà ed affidabilità dell’offerta» (Cons. Stato, Ad. plen., n. 34 del 2014, cit.), nonché con funzione compensativa dei danni subiti dalla stazione appaltante.  Nella vigenza del Codice del 2016, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa, essendo stata eliminata la prima forma di garanzia, ha attribuito alla “garanzia provvisoria” natura esclusivamente non sanzionatoria.    L’Adunanza Plenaria ritiene che entrambi gli istituti in esame hanno natura non sanzionatoria, con differente qualificazione giuridica a seconda che venga in rilievo la “cauzione” o la “fideiussione”.   La “cauzione” è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che deve essere eseguita dallo stesso debitore. Nella fase fisiologica, la “cauzione” assolve alla funzione di evidenziare la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di restituire la prestazione al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “cauzione” ha natura di rimedio di autotutela, con funzione compensativa, potendo l’amministrazione incamerare il bene consegnato a titolo di liquidazione forfettaria dei danni relativi alla fase procedimentale. In questa prospettiva, non è conferente il richiamo alla caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 cod. civ., in quanto la stessa, nella configurazione del codice civile, presuppone la stipulazione di un contratto – che, nella specie, manca – con l’inserimento della clausola che consente, in caso di inadempimento, di recedere dal contratto stesso trattenendo la caparra (cfr. Cass. civ., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553).   La “fideiussione”, che rileva in questa sede, è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che sorge a seguito della stipulazione di un contratto tra un terzo garante e il creditore che si può perfezionare anche mediante la sola proposta del primo non rifiutata secondo il meccanismo dell’art. 1333 cod. civ.  Tale forma di garanzia si caratterizza in modo peculiare rispetto al contratto di fideiussione disciplinato dal codice civile (artt. 1936-1957 cod. civ.).  L’art. 1936 cod. civ. prevede che «è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui». Le regole civilistiche rilevanti in questa sede sono le seguenti: i) il fideiussore è obbligato in solido con il debitore principale al pagamento del debito, con la possibilità che le parti convengano che il fideiussore non sia tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore (art. 1944, commi 1 e 2, cod. civ.); ii) il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante dall’incapacità (art. 1945 cod. civ.); iii) il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale, purché il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate (art. 1956, comma 1, cod. civ.).   L’art. 93, comma 4, del Codice dei contratti pubblici deroga alle disposizioni sopra riportate, disponendo che deve essere prevista la rinuncia: i) al beneficio della preventiva escussione del debitore principale; ii) al rapporto di accessorietà, dovendo operare questa forma di garanzia a semplice richiesta; iii) all’eccezione che consente di fare valere la garanzia anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale.   Tale peculiare disciplina e, in particolare, la deroga al rapporto di accessorietà comporta che il tipo contrattuale deve essere identificato nel contratto autonomo di garanzia (Cass. civ., sez. un., 18 febbraio 2010, n. 3947).  Nella fase fisiologica, la “fideiussione” assolve alla sola funzione di consentire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di svincolare tale garanzia al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “fideiussione” consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento dell’obbligo di pagamento della somma predeterminata dalla legge con funzione compensativa dei danni relativi alla fase procedimentale.  L’operatività di entrambe le forme di garanzia presuppone un “fatto” del debitore principale che viola le regole di gara che comporta – a seguito dell’eliminazione del riferimento al dolo e alla colpa grave da parte del citato decreto legislativo n. 56 del 2017 – la configurazione di un modello di responsabilità oggettiva, con conseguente esclusione di responsabilità nei soli casi di dimostrata assenza di un rapporto di causalità.   La questione specifica rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria riguarda l’individuazione dei “soggetti” nei cui confronti può essere escussa la “garanzia provvisoria”.   Diversamente da quanto suggerito dalla sezione remittente, il soggetto è solo l’aggiudicatario.  Ed invero, sul piano dell’interpretazione letterale, il comma 6 dell’art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 è chiaro nello stabilire che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)». Il riferimento sia all’aggiudicazione, quale provvedimento finale della procedura amministrativa, sia al «fatto riconducibile all’affidatario» e non anche al concorrente destinatario della “proposta di aggiudicazione” rende palese il significato delle parole utilizzate dal legislatore nel senso di delimitare l’operatività della garanzia al momento successivo all’aggiudicazione (in questo senso anche Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 2021, n. 8367, che ha esaminato una questione analoga a quella in esame, con decisione, però, assunta successivamente alla camera di consiglio con cui è stata disposta la remissione all’Adunanza Plenaria). Il comma 9 dello stesso art. 93 prevede, inoltre, che «la stazione appaltante, nell’atto con cui comunica l’aggiudicazione ai non aggiudicatari, provvede contestualmente, nei loro confronti, allo svincolo della garanzia» prestata a corredo dell’offerta.  Il significato letterale della norma è confermato anche dal contenuto degli atti della procedura di gara. Il disciplinare dispone, infatti, che «l’eventuale esclusione dalla gara prima dell’aggiudicazione, al di fuori dei casi di cui all’art. 89, comma 1, non comporterà l’escussione della garanzia provvisoria».  Sul piano dell’interpretazione teleologica, il legislatore ha inteso ridurre l’ambito di operatività del sistema delle garanzie nella fase procedimentale, come risulta dall’analisi della successione delle leggi nel tempo.   In particolare, il Codice del 2016 non ha confermato il sistema previgente disciplinato dall’art. 48 del Codice del 2006, che prevedeva la possibilità, ricorrendo i presupposti indicati, di escutere la garanzia, con funzione sanzionatoria, anche nei confronti dei partecipanti alla procedura. Ne consegue che l’estensione del perimetro della “garanzia provvisoria” si porrebbe in contrasto con la ratio legis.   L’esposta diversità di regime ha indotto il Consiglio di Stato, con la citata ordinanza n. 3299 del 2021, a rimettere alla Corte Costituzionale la questione relativa all’applicazione retroattiva della nuova disciplina della “garanzia provvisoria” (applicata al solo aggiudicatario con funzione compensativa) perché più favorevole rispetto alla precedente disciplina (applicata anche al concorrente con funzione punitiva).   Sul piano dell’interpretazione sistematica, in primo luogo, dall’analisi del contesto in cui la norma è inserita e, in particolare, dalla lettura coordinata di alcune disposizioni del Codice risulta chiara la distinzione tra la fase procedimentale relativa alla “proposta di aggiudicazione” e la fase provvedimentale relativa all’“aggiudicazione”.   Con riguardo alla “proposta di aggiudicazione” formulata dalla commissione di gara, il Codice – che, come già esposto, ha inteso attribuirle natura autonoma – disciplina il rapporto tra essa e l’aggiudicazione. Il destinatario della proposta è ancora un concorrente, ancorché individualizzato. In questa fase si inseriscono i seguenti adempimenti: i) la stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione dell’appalto, «richiede all’offerente cui ha deciso di aggiudicare l’appalto (…) di presentare documenti complementari aggiornati», nel rispetto di determinate modalità, per dimostrare la sussistenza dei requisiti generali e speciali di partecipazione alla gara (art. 85, comma 5); ii) la “proposta di aggiudicazione” «è soggetta ad approvazione dell’organo competente secondo l’ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell’organo competente» (art. 33, comma 1); iii) la stazione appaltante, dopo la suddetta approvazione, «provvede all’aggiudicazione» (art. 32, comma 5). Nella prospettiva della tutela, la “proposta di aggiudicazione”, essendo atto endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma impugnazione.   Con riguardo all’aggiudicazione, il Codice disciplina il rapporto tra essa e il contratto. L’art. 32, comma 6, stabilisce che «l’aggiudicazione non equivale ad accettazione dell'offerta», in quanto occorre la stipula del contratto e l'offerta dell'aggiudicatario è irrevocabile per sessanta giorni. Nella prospettiva della tutela, l’aggiudicazione è il provvedimento finale di conclusione del procedimento di scelta del contraente che, in quanto tale, ha rilevanza esterna e può essere oggetto sia di impugnazione in sede giurisdizionale sia di autotutela amministrativa.   In secondo luogo, la valutazione sistematica anche delle regole civilistiche impone di evitare che il terzo – che ha stipulato un contratto autonomo di garanzia collegato al rapporto principale tra amministrazione e partecipante alla procedura di gara – debba eseguire prestazioni per violazioni non chiaramente definite dalle regole di diritto pubblico.   Sul piano dell’interpretazione analogica, la diversità della disciplina e delle situazioni regolate relativa alle due fasi, risultante dall’applicazione degli esposti criteri interpretativi, impedisce di estendere alla fase procedimentale le “garanzie provvisorie” della fase provvedimentale per i motivi di seguito indicati.  Nel caso di mancata stipulazione del contratto a seguito di una “aggiudicazione”, le ragioni, come esposto, possono dipendere sia dalla successiva verifica della mancanza dei requisiti di partecipazione sia, soprattutto, dalla condotta dell’aggiudicatario che, per una sua scelta, decide di non stipulare il contratto. In queste ipotesi la stazione appaltante deve annullare d’ufficio il provvedimento di aggiudicazione e rinnovare il procedimento con regressione alla fase della “proposta di aggiudicazione”. In tale contesto i possibili pregiudizi economici determinati dalla condotta dell’aggiudicatario sono coperti dalla “garanzia provvisoria” che consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento della prestazione dovuta con la finalità di compensare in via fortettaria i danni subiti dall’amministrazione per violazione delle regole procedimentali nonché dell’obbligo di concludere il contratto. ​​​​​​​Nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere, oltre che da ragioni relative all’offerta, dalla verifica negativa preventiva del possesso dei requisiti di partecipazione del concorrente individuato. In queste ipotesi, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, l’amministrazione non è costretta a procedere all’aggiudicazione e poi ad esercitare il potere di annullamento in autotutela, potendosi limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad individuare il secondo classificato nei cui confronti indirizzare la nuova “proposta di aggiudicazione”. In tale contesto i pregiudizi economici, se esistenti, hanno portata differente rispetto a quelli che si possono verificare nella fase provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone i presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ. Rimane fermo, altresì, il potere dell’Autorità nazionale anticorruzione di applicare sanzioni amministrative pecuniarie qualora si accertino specifiche condotte contrarie alle regole della gara da parte degli operatori economici (art. 213, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016). 
Contratti della Pubblica amministrazione
Informativa antimafia - Controllo giudiziario  – Controllo con esito positivo - Effetti sui contributi concessi      Il fatto storico dell’emissione di una informazione interdittiva non comporta la definitiva revoca dei contributi e dei finanziamenti concessi precedentemente alla sua emanazione, indipendentemente dal positivo percorso di self-cleaning svolto in regime di controllo giudiziario immediatamente richiesto (1).    (1) Ha chiarito il Tar che l’istituto del controllo giudiziario è stato ideato allo scopo di consentire agli operatori economici oggetto di occasionale infiltrazione mafiosa di continuare, in regime di controllo straordinario, a svolgere la propria attività imprenditoriale, per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro (Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268).  Il fine ultimo della misura, però, è quello di incentivare l’interruzione, attraverso l’adozione di misure di self-cleaning, di ogni occasione di contatto con il mondo della criminalità organizzata, da cui può sorgere il pericolo di infiltrazione mafiosa, onde consentire la riammissione dell’operatore economico nel mercato, libero da condizionamenti criminali. Per tale ragione, allorché all’esito del controllo giudiziario venga richiesto l’aggiornamento della documentazione antimafia, alla Prefettura è demandato il compito di verificare se il periodo di applicazione dell’istituto abbia portato a recidere i contatti con le organizzazioni criminali (Tar Catanzaro, sez. I, 19 marzo 2021, n. 607). L’art. 34-bis non dispone in ordine al coordinamento tra gli effetti, da un lato, dell’istituto del controllo giudiziario e l’efficacia, dall’altra, dei provvedimenti di revoca di contributi e finanziamenti derivanti in maniera vincolata dall’informazione interdittiva. Nondimeno, la regola in questione va trovata e nelle finalità dell’istituto del controllo giudiziario, che, come visto, è quello di recuperare e riammettere nel mercato l’operatore economico soggetto a infiltrazione mafiosa; e nella ratio della norma contenuta nell'art. 67, comma 1, lett. g) d.lgs. n. 159 del 2011, che preclude al soggetto colpito dall'interdittiva antimafia ogni possibilità di ottenere contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali, “stante l'esigenza di evitare ogni esborso di matrice pubblicistica in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali" (Cons. Stato, Ad. Plen., 6 aprile 2018, n. 3; id., sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500). Ciò posto, ad avviso del Tar se si ritenesse che il fatto storico dell’emissione di una informazione interdittiva comporti la definitiva revoca dei contributi e dei finanziamenti concessi precedentemente alla sua emanazione, indipendentemente dal positivo percorso di self-cleaning svolto in regime di controllo giudiziario immediatamente richiesto, le finalità dell’istituto in questione sarebbero ampiamente vanificate. D’altra parte, un orientamento così restrittivo non appare imposto dall’art. 67, comma 1, lett. g) citato, considerato che, una volta che sia stata accertata la recisione di ogni possibile rapporto tra operatore economico e criminalità organizzata, risulta minimizzato il rischio che denaro pubblico possa giovare alla criminalità organizzata. Al contrario, si deve ritenere che il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., imponga che le amministrazioni, una volta che il controllo giudiziario si sia concluso con esito favorevole, e alla luce di questo, debbano riconsiderare, ed eventualmente ritirare in autotutela, i provvedimenti di revoca dei contributi e dei finanziamenti. Peraltro, risulta evidente che la prospettiva di poter mantenere i contributi e i finanziamenti, già conseguiti prima dell’informazione interdittiva, possa rappresentare un notevole incentivo all’interruzione di ogni contatto con la criminalità organizzata e alla liberazione di ogni sorta di giogo mafioso. ​​​​​​​Se così è, nel caso in esame viene meno l’interesse della società ricorrente alla decisione dell’odierno ricorso, stante l’obbligo gravante sull’amministrazione, anche quale effetto conformativo della presente pronuncia, di riconsiderare la vicenda amministrativa che coinvolge la ricorrente. ​​​​​​​
Informativa antimafia
Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Sanità - Operatore privato titolare di struttura sanitaria - Autorizzazione rilasciata a terzi – Impugnazione – E’ legittimato.               L’operatore privato titolare di struttura sanitaria è legittimato ad impugnare un’autorizzazione rilasciata a terzi, riferita allo stesso ambito territoriale, temporaneamente successiva alla propria (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che l'autorizzazione per lo svolgimento di attività sanitaria privata segue un regime differenziato rispetto all'attività in accreditamento, e, tuttavia, per ragioni attinenti non solo alla tutela della salute, quale irrinunciabile interesse della collettività (art. 32 Cost.), ma anche alla tutela della concorrenza, l'autorizzazione per la realizzazione delle strutture sanitarie e sociosanitarie, ai sensi dell'art. 8-ter, comma 3, d.lgs. n. 502 del 1992, deve necessariamente restare inserita nell'ambito della programmazione regionale, in quanto la verifica di compatibilità, effettuata dalla Regione, ha proprio il fine di accertare l'armonico inserimento della struttura in un contesto di offerta sanitaria rispondente al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di garantire meglio l'accessibilità ai servizî e di valorizzare le aree di insediamento prioritario delle nuove strutture (Cons. Stato, sez. III, 10 febbraio 2021, n. 1249).  La programmazione riguarda, quindi, gli standard di qualità delle strutture che intendono operare in ambito sanitario a garanzia della qualità del servizio salute fornito ai pazienti, la determinazione del fabbisogno complessivo delle strutture in ambito territoriale, tenendo conto del bacino di utenza, e la loro collocazione in ambito territoriale, in modo da garantire la capillarità e l’adeguatezza del servizio rispetto all’utenza, ma nel contempo anche la remuneratività per gli operatori che operano nel settore, che garantisce la qualità del servizio reso alla collettività.  Il potere di programmazione compete alla Regione, che è chiamata a valutare la compatibilità circa il fabbisogno e la localizzazione territoriale della struttura sanitaria, nell’ambito del procedimento diretto al rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione e della successiva autorizzazione all’esercizio della struttura sanitaria.  L’art. 27, comma 2, d.l. n. 90 del 24 giugno 2014, che aveva espressamente abrogato l’art. 8 ter, d.lgs. n. 502 del 1992, è stato soppresso con la legge di conversione n. 114 del 2014, con il conseguente ripristino del quadro normativo originario, a dimostrazione della persistente volontà del legislatore di sottoporre a regolamentazione l’attività sanitaria privata (Cons. Stato, sez. III, 11 ottobre 2016, n. 4190).  In materia sanitaria la pianificazione si rinviene anche in altri settori, come quello delle farmacie, in cui l’apertura delle sede farmaceutiche e la loro localizzazione è regolamentata in modo da garantire la capillare distribuzione sul territorio degli esercizi farmaceutici; il contingentamento delle farmacie, derivante dalla pianta organica, ed il criterio della distanza per l’apertura dei singoli esercizi farmaceutici nell’ambito delle zone di pertinenza, risponde all’esigenza che sia assicurato il servizio pubblico farmaceutico in modo da garantire, al contempo, la capillarità del servizio farmaceutico e la remuneratività dell’attività economica svolta dal farmacista, che è un soggetto privato che garantisce un servizio pubblico, ma che trae il proprio reddito dallo svolgimento di tale attività economica.  Un sistema della programmazione si rinviene, ad esempio, per il rilascio delle autorizzazioni per l’installazione di apparecchiature diagnostiche quali le RMN ad alta potenza: anche in quel caso il legislatore, con il d.P.R. 8 agosto 1994 n. 542 all’art. 5, comma 2, ha previsto che “L'autorizzazione è data previa verifica della compatibilità dell'installazione rispetto alla programmazione sanitaria regionale o delle province autonome”.  Il corretto rapporto tra gli impianti ed il fabbisogno per la popolazione garantisce la qualità delle prestazioni: l’eccessiva proliferazione degli impianti rispetto al fabbisogno non consente il loro uso a pieno regime e, quindi, l’acquisizione di una remunerazione adeguata per la struttura sanitaria derivante dal numero di esami eseguiti, si riverbera sulla stessa qualità del servizio, tenuto conto che le insufficienti entrate non consentono il necessario rinnovamento e sostituzione dei macchinari per garantire alti standard delle prestazioni diagnostiche.  Gli operatori privati che erogano prestazioni in materia sanitaria, forniscono servizi agli utenti dietro remunerazione; a tutela dell’interesse pubblico la loro attività deve essere conformata rispetto di parametri di professionalità e sicurezza previsti dell’Amministrazione, ma deve essere comunque assicurato a tali operatori un margine di profitto.  Come già evidenziato dalla Sezione, il legislatore ha ritenuto che “il vincolo della programmazione sia il mezzo più idoneo, da un lato, a garantire la equa distribuzione sul territorio di varie tipologie di centri di cura e, dall’altro, ad evitare il fenomeno deteriore di un’offerta di prestazioni sanitarie con alta remunerazione, che risulti sovradimensionata rispetto al fabbisogno effettivo della collettività e, quindi, dia luogo anche a processi di eccessiva concorrenza, che potrebbero portare ad una inaccettabile caduta del livello di prestazione sanitaria o, comunque, alla utilizzazione di tecniche non virtuose di orientamento della scelta dell’assistito, parimenti non compatibili con la tutela del diritto alla salute del cittadino” (Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2018, n. 5310; id. 7 marzo 2019, n. 1589; id. 4 settembre 2017, n. 4187; id 11 ottobre 2016, n. 4190). Se al sistema normativo previsto dal legislatore in materia di programmazione sanitaria dell’attività svolta da privati, non è estraneo l’aspetto economico, deve ritenersi che i soggetti già insediati siano legittimati a sindacare se un’autorizzazione rilasciata a terzi, riferita al loro stesso ambito territoriale, temporaneamente successiva alla propria, sia stata rilasciata nell’osservanza del diritto vigente e nel rispetto dei presupposti stabiliti dalla normativa nazionale e regionale con riferimento ai presupposti relativi alla programmazione regionale. 
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Principio di sinteticità – Violazione limiti dimensionali – Conseguenza.       ​​​​​​​       Nel caso di superamento dei limiti dimensionali non autorizzati, l’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a. (introdotto dalla legge di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168), sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda; peraltro, al fine di non “sorprendere” le parti in una fase caratterizzata dall’assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi, è opportuno, nel rispetto del principio di leale collaborazione ex art. 2, comma 2, c.p.a., invitare le parti a riformulare le difese nei limiti dimensionali previsti, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la brevità dell’atto processuale (in termini di caratteri, pagine e battute) è appunto lo strumento attraverso il quale il legislatore ha inteso vincolare le parti a quello sforzo di “sintesi” giuridica della materia controversa, sul presupposto che l’intellegibilità dell’atto (e quindi la giustizia della decisione) è grandemente ostacolata da esposizioni confuse e causidiche.  In assenza (e aspettando) l’introduzione di meccanismi deflattivi, al fine di amministrare nel migliore modo possibile una imponente mole di contenzioso, il servizio giustizia, in quanto “risorsa scarsa”, ha bisogno della collaborazione dell’intero ceto giuridico.  Mentre l’iniziale impostazione legislativa faceva leva unicamente sulla condanna alle spese di lite (art. 26.p.a.), l’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a., in modo estremamente innovativo sul piano sistematico, sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda; in questi termini va interpretata la disposizione che ha introdotto una deroga rispetto all’obbligo generalmente esistente in campo al giudice di pronunciare su tutta la domanda (il mancato esame delle difese sovrabbondanti non è infatti censurabile come vizio di infra-petizione); in definitiva, la sinteticità non è più un mero canone orientativo della condotta delle parti, bensì è oramai una regola del processo amministrativo (che coinvolge peraltro anche il giudice: art. 3 c.p.a.), strettamente funzionale alla realizzazione del giusto processo, sotto il profilo della sua ragionevole durata (art. 111 Cost.). 
Processo amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizi di riscossione e accertamento tributi degli enti locali – Iscrizione all’Albo – Necessità.   Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizi di riscossione e accertamento tributi degli enti locali – Natura.               Per l’affidamento dei servizi di riscossione e accertamento tributi degli enti locali, è necessaria l’iscrizione all’albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni”, di cui all’art. 53, comma 1, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 (1).               La circostanza che l’appaltatore del servizio di riscossione e accertamento tributi degli enti locali non riceva il materiale introito delle somme dovute all’ente, essendo i versamenti effettuati su conti dedicati del comune, non comporta la qualificazione della sua attività come servizio di gestione di mero supporto all’attività di accertamento e riscossione tributi, in presenza di altri elementi che depongono per la sussistenza dell’esercizio di funzioni pubbliche (1).   (1) La pronuncia in esame si discosta, alla luce delle recenti riforme in tema di riscossione delle entrate degli enti locali, dall’orientamento giurisprudenziale (Tar Lazio, sez. II, 10 maggio 2016, n. 5470; id. 4 giugno 2015, n. 7863; Cons. Stato, sez. V, 20 aprile 2015, n. 1999; id. 24 marzo 2014, n. 1421) secondo il quale elemento essenziale del rapporto concessorio di riscossione sarebbe il maneggio del pubblico denaro cosicché  l'iscrizione all'albo di cui all'articolo 53, comma 1, del decreto legislativo n. 446 del 1997 troverebbe “ la propria ratio nel maneggio del denaro di pertinenza dell'ente pubblico che contraddistingue la posizione dell'agente o concessionario della riscossione delle entrate". Rileva infatti la sentenza che l’evoluzione normativa ha portato sempre più a limitare il materiale introito del denaro da parte dei concessionari, favorendo invece i versamenti direttamente nelle casse del comune, dapprima unicamente per la riscossione spontanea (cfr. l'art. 2 bis, d.l. n. 193/2016 convertito con modificazioni dalla l. 1 dicembre 2016, n. 225) e poi anche per la riscossione coattiva (cfr. il comma 788 dell’art.1, della legge di Bilancio 2020, ha integrato l’art. 53, d.lgs. n. 446 del 1997, prevedendo espressamente che tutte le somme a qualsiasi titolo riscosse appartenenti agli enti locali affluiscano direttamente alla tesoreria dell’ente). In questo quadro, dunque, il Collegio ritiene che la nozione di “riscossione” non richieda più che vi sia il materiale introito delle somme dovute all’ente e che pertanto tale dato non possa più essere considerato come elemento discriminante per stabilire se vi sia un affidamento di servizi di supporto di gestione o un affidamento di concessione di accertamento e riscossione, dovendosi invece valorizzare altri elementi distintivi, quali, in particolare, il ricorso allo strumento della ingiunzione fiscale, comportante spendita dei poteri pubblici, da parte del concessionario privato, l’obbligo di rendiconto al comune dei versamenti effettuati e  la remunerazione di tale attività con un aggio sulle somme riscosse.
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Sicilia - Ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Siciliana n. 21 del 17 maggio 2020 – Non va sospesa monocraticamente.   Non deve essere sospesa monocraticamente l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Siciliana n. 21 del 17 maggio 2020 atteso che - stante la scadenza dell’efficacia del provvedimento impugnato il 7 giugno 2020 e la prima camera di consiglio utile per la delibazione collegiale successiva a tale data - la misura cautelare monocratica, ove concessa, finirebbe per rendere vano non tanto il futuro esame del merito del ricorso (nel quale è comunque presente istanza risarcitoria), quanto piuttosto la stessa delibazione della misura cautelare in sede collegiale, nella predetta camera di consiglio (1),   (1) Ha ancora chiarito il decreto che la durata del periodo di quarantena – contrariamente a quanto si assume in ricorso - è da intendersi pari a quattordici giorni, secondo quanto prefissato dall’ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020 recante “Ulteriori misure profilattiche contro la diffusione della malattia infettiva COVID-19” (pubblicata in G.U. n. 44 del 2020)
Covid-19
Covid-19 – Scuola – Prescrizioni – DD.MM. n. 39 del 2020, n. 80 del 2020 e n. 87 del 2020 – Non vanno sospese.              In considerazione della situazione epidemiologica, non deve essere sospesa la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le istituzioni del sistema nazionale di istruzione per l’anno scolastico 2020/2021, prevista dai decreti ministeriali 26 giugno 2020, n. 39, 3 agosto 2020, n. 80 e 6 agosto 2020, n. 87, quali: il possibile e consistente ricorso alla didattica a distanza; la disciplina delle modalità di accesso e uscita da scuola, uscite a orari scaglionati; l’obbligo di rimanere a casa in presenza di temperatura oltre i 37,5°; il divieto di accedere o permanere nei locali scolastici ove si manifestino, anche dopo l'ingresso, condizioni di pericolo (sintomi simil-influenzali, temperatura oltre 37.5°, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc.); l’obbligo di mascherina per gli studenti che si muovano all’interno dei locali scolastici (1).    (1) La Sezione ritiene non condivisibile l’assunto della mancanza di presupposti epidemiologici di una gravità e diffusività tale da poter creare allarme nella popolazione scolastica.  La fase di attuale recrudescenza della diffusione epidemiologica depone oggettivamente in senso opposto rispetto a quanto prospettato dagli appellanti e verosimilmente il contenimento del contagio entro una certa soglia è causalmente da ricollegare proprio alle misure di prevenzione adottate, comprese quelle applicate in ambito scolastico.  Né è ravvisabile, ad avviso della Sezione, la violazione dei precetti costituzionali in materia di libertà personale e di diritto all’istruzione, stante la doverosa applicazione del principio di precauzione, nonché di prevalenza del diritto alla salute, ove gli interventi di prevenzione siano scientificamente supportati e limitati allo stretto indispensabili per il raggiungimento dell’obiettivo (dec., 26 giugno 2020, n. 3769).
Covid-19
Contratti della pubblica amministrazione - Principio di invarianza - Art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ratio.   Il principio di invarianza della soglia di anomalia (art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016) ha la funzione di assicurare stabilità agli esiti finali della procedura di gara; con tale norma la legge intende evitare che, nel caso di esclusione dell’aggiudicatario o di un concorrente dalla procedura di gara per mancata dimostrazione dei requisiti dichiarati, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche (1).   (1) Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2019, n. 572.  Ha chiarito il Tar che l’invarianza della soglia, portata alle sue estreme conseguenze, impedirebbe di fatto, specie in una procedura quale quella in questione caratterizzata dall’inversione procedimentale e dal ricalcolo della soglia successivamente al soccorso istruttorio, la valutazione delle censure relative a “variazioni” intervenute nella fase che precede l’aggiudicazione aventi ad oggetto proprio le stesse, quasi che il legislatore abbia inteso cristallizzare (e quindi rendere insindacabile) ogni attività della stazione appaltante, comprese la contestata attivazione del soccorso istruttorio e la conseguente esclusione, che incidono, nella procedura in questione, sul “ricalcolo” della soglia. La ratio della disposizione legislativa è, però, come sopra chiarito, del tutto diversa, essendo essa rivolta esclusivamente ad evitare che i procedimenti per gli affidamenti si protraggano eccessivamente e che i provvedimenti di aggiudicazione possano venire ‘ribaltati’ più volte - finanche dopo l’esaurimento della fase preordinata al raggiungimento di un assetto definitivo - generando incertezza ed inefficienza, con conseguenti effetti pregiudizievoli per le ditte, per il mercato e per la stessa collettività. Il principio dell’invarianza in questione, insomma, non può essere invocato per cristallizzare soluzioni incoerenti (per non dire illegittime) laddove venga censurata la sussistenza dei presupposti per l’attivazione del soccorso, il cui mancato riscontro sia stato determinante ai fini della rideterminazione della soglia di anomalia, senza che ciò risulti di oggettivo presidio ad altri e di pari rango valori giuridici, rispetto al diritto di difesa e al “diritto alla giusta aggiudicazione”. Precludere il chiesto controllo sulla legittimità (o meno) dell’attivazione del soccorso istruttorio in nome dell’invarianza della soglia di anomalia significherebbe, specie nella ipotesi di inversione procedimentale in esame (caratterizzata dall’esame delle offerte economiche prima della verifica della documentazione amministrativa) sottrarre al sindacato del giudice l’azione dell’Amministrazione e la sua conformità (o meno) all’intero complesso delle norme concernenti i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare d’appalto; significherebbe precludere ogni forma di tutela ripristinatoria e/o reintegratoria a chi ritenga di essere stato leso da tale attività amministrativa, asseritamente illegittima, che ha portato al ricalcolo della soglia e, secondo un orientamento giurisdizionale, financo a precludere, in tali ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria: il che non appare conforme ai principi costituzionali ed eurounitari, oltre che alla stessa ratio del detto principio di invarianza, per come sopra esposto. Ne consegue che una lettura della norma in esame (art. 95, comma 15, cit., coordinata nel caso con l’art. 36, comma 5, cit) orientata ai suddetti principi non può condurre a ritenere inammissibile il ricorso laddove esso, come nel caso, non miri a “variare” la soglia di anomalia e a procedere ad una sua nuova “determinazione”, quanto piuttosto a dimostrare che, nella procedura in esame, non sussistevano i presupposti per il “ricalcolo” della soglia (previsto dall’art.36 quinto comma del d.lgs. n. 50 del 2016 illo tempore vigente e dalla lex specialis), che pertanto doveva rimanere quella iniziale, con conseguente aggiudicazione in favore della ricorrente. Ha aggiunto il Tar che in una procedura di gara soggetta alla disciplina dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 nella vigenza del d.l. n. 32 del 2019, la previsione dell’art. 95, comma 15 cit., laddove fa riferimento alla controversa “fase amministrativa di prima ammissione” (nella versione temporaneamente vigente al momento della gara, eliminata dal testo attuale con la conversione del d.l. n. 32 del 2019 in legge) va coordinata con la speciale disciplina dell’art. 36 citato e delle norme di gara, le quali prevedono espressamente il ricalcolo della media all’esito della verifica dei requisiti. Pertanto, nella fattispecie, il momento a cui ancorare l’invarianza della soglia è quello successivo alla verifica con la rideterminazione della soglia.  
Contratti della Pubblica amministrazione
 Autorizzazione amministrativa – Rilascio – Accertamento fatti penali – Rilevanza -  Limiti.      Allorchè si ricolleghino all’accertamento dei fatti in sede penale effetti sul piano della insussistenza dei requisiti per l’accesso a settori di attività soggetti a regime amministrativo, non si versa per ciò solo in campo di sanzioni (1).    (1) Sul piano concettuale questa opportuna distinzione è stata messa in evidenza dalle numerose pronunce della Corte costituzionale relative alle ipotesi di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive previste dal d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190» (sentenze nn. 236/2015, 276/2016, 35/2021, 230/2021, 214/2017, 36/2019, 230/2021; ordinanza n 46/2020). Nella sentenza n. 236/2015, in particolare, la Corte costituzionale ha chiarito che “tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento”. Tale orientamento è stato condiviso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 17 giugno 2021, Miniscalco contro Italia; e con la decisione 18 maggio 2021, Galan contro Italia. Un secondo, ancor più dirimente, motivo che impedisce di applicare alla fattispecie dedotta lo schema concettuale che è alla base dell’invocato divieto del ne bis in idem, è il rilievo che l’odierno appellante nei due procedimenti penali in questione non ha visto irrogata alcuna sanzione, essendo stati dichiarati prescritti i reati a lui ascritti. Quand’anche il provvedimento amministrativo impugnato con il ricorso di primo grado avesse - in via di mera ipotesi - natura sanzionatoria (il che si è escluso al punto precedente), esso non si cumulerebbe con altra sanzione. Come chiarito molto efficacemente dalla sentenza n. 43/2018 della Corte costituzionale, “Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, la grande camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute. (….) la Corte EDU ha enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto («sufficiently closely connected in substance and in time»), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza. In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato (paragrafo 132 della sentenza A e B contro Norvegia) che legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; che il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento; che il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito. (….) neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata”. Come ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza da ultimo richiamata, la sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016 ha spostato il baricentro della fattispecie considerata, superando sia la rigida inderogabilità del divieto di ne bis in idem, sia la sua natura esclusivamente processuale. ​​​​​​​In conseguenza, come osserva la Corte costituzionale nella sentenza n. 43/2018, l’attuale fisionomia dell’istituto implica un “controllo di proporzionalità sulla misura della sanzione complessivamente irrogata”: e poiché – come ricorda la stessa sentenza - “Le disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli addizionali vivono nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), che introduce un vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi del giudice nazionale quando può considerarsi consolidata (sentenza n. 49 del 2015)”, ne consegue che rispetto all’attuale configurazione dell’istituto, come ridefinito dalla sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016, rimane del tutto estranea la fattispecie dedotta nel presente giudizio, connotata dall’assenza dell’irrogazione di una sanzione penale. 
Autorizzazione amministrativa
Militari, forze armate e di polizia - Infermità – Da uranio impoverito - Riconoscimento causa di servizio – Nesso di causalità – Mancanza di legge scientifica certa – Conseguenza.              In sede di riconoscimento della infermità come dipendente da causa di servizio, la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l’insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici (1).   (1) Ha chiarito il parere che in presenza di elementi statistici rilevanti (come accade allorché il militare abbia prestato servizio in uno dei sopra indicati teatri operativi) la dipendenza da causa di servizio deve considerarsi accertata salvo che la P.A. non riesca a dimostrare la sussistenza di fattori esogeni, dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l'insorgere dell'infermità.  In sostanza, è proprio per l'impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto e per il riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente degradati ed inquinati dei teatri operativi che il legislatore non richiede la dimostrazione dell'esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione in termini probabilistico-statistici.   In tale prospettiva è stato ritenuto che il verificarsi dell'evento costituisca di per sé elemento sufficiente (criterio di probabilità) a determinare il diritto per le vittime delle patologie e per i loro familiari al ricorso agli strumenti indennitari previsti dalla legislazione vigente (compreso il riconoscimento della causa di servizio e della speciale elargizione) in tutti quei casi in cui l'Amministrazione militare non sia in grado di escludere un nesso di causalità.   Quindi la normativa in materia prevede un'inversione dell'onere della prova per cui una volta accertata l'esposizione del militare all'inquinante in parola è la PA che deve dimostrare che tale inquinante non abbia determinato l'insorgere della patologia e che essa dipenda invece da altri fattori (esogeni) dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l'insorgere dell'infermità.  Ha aggiunto il parere che nell’accertare i presupposti sostanziali della dipendenza della patologia da causa di servizio, la P.A. procedente ed i suoi organi tecnici sono gravati da un onere d’istruttoria e di motivazione assai stringente, circa la sussistenza, in concreto, delle circostanze straordinarie e dei fatti di servizio che hanno esposto il militare ad un maggior rischio rispetto alle condizioni ordinarie d’attività; nei casi delicati, qual è quello in esame, all’interessato basta dimostrare l’insorgenza della malattia in termini probabilistico–statistici, non essendo sempre possibile stabilire un nesso diretto di causalità tra l’insorgenza della infermità ed i contesti operativi complessi o degradati sotto il profilo bellico o ambientale in cui questi è chiamato ad operare. Viceversa, la P.A. procedente, che ha disposizione dati aggiornati e più precisi e le professionalità più acconce per effettuare la verifica della concreta posizione del militare, pure in ordine alla ricostruzione dell’attività da lui svolta con riguardo alla di lui qualifica e profilo d’impiego operativo, ben più facilmente può tratteggiare, partendo da questi ultimi dati, una seria probabilità d’insorgenza, o meno, della malattia denunciata; l’efficacia del parere del Comitato di verifica (obbligatorio e vincolante in ordine ai dati così accertati) non può esser confuso con i diversi profili, per un verso, della congruità fattuale e scientifica dell’accertamento svolto e, per altro verso, dell’esatta rappresentazione di esso in forma intelligibile a qualunque terzo (Cons. Stato, sez. IV, n. 837 del 2016). Tale orientamento è stato ribadito recentemente da questo Consiglio di Stato, che ha chiarito che deve escludersi la necessità della dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta essendo sufficiente tale dimostrazione, in termini probabilistico-statistici, con riferimento ai teatri operativi principali, tra cui quelli in cui ha operato il ricorrente (Cons. Stato, sez. IV, n. 1661 del 2021).
Militari, forze armate e di polizia
Contratti della Pubblica amministrazione – Cauzione – Cauzione provvisoria - Disciplina ex artt. 93, comma 6, e 216, d.lgs. n. 50 del 2016 – Escussione – Ambito temporale di applicazione – Violazione artt. 3 e 117, comma primo, Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.     ​​​​​       E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 93, comma 6, che disciplina la cauzione provvisoria prestata dagli operatori economici che partecipino ad una gara, nel combinato disposto con l’art. 216, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per contrasto con gli artt. 3 e 117, comma primo, (quest’ultimo in relazione all’art. 49, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) Cost., che precludono l’applicabilità della più favorevole disciplina sanzionatoria sopravvenuta - introdotta dal nuovo Codice dei contratti, rispetto alla disciplina previgente del Codice approvato con d.lgs. n. 163 del 2016 - che prevede l’escussione della cauzione provvisoria solo a valle dell’aggiudicazione (definitiva) e, dunque, solo nei confronti dell’aggiudicatario di una procedura ad evidenza pubblica – in quanto già in vigore al momento dell’adozione del provvedimento di escussione della garanzia provvisoria (1).      (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 circoscrive la possibilità, per la stazione appaltante, di escutere la garanzia nei soli confronti dell’aggiudicatario (recte, “affidatario”), nei casi specifici ivi contemplati. L’escussione della garanzia provvisoria ha carattere latamente sanzionatorio, che costituisce conseguenza ex lege dell’esclusione per riscontrato difetto dei requisiti da dichiarare.  Ai sensi dell’art. 216 del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016 le disposizioni contemplate nel Codice si applicano “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”. Manca, invece, una disposizione espressa che, in particolare, estenda l’applicazione della disciplina di cui al comma 6 dell’art. 93 cit. anche alle procedure di gara i cui bandi o avvisi siano stati sì pubblicati in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, ma relativamente alle quali l’amministrazione si sia determinata ad escutere la cauzione prestata da uno dei partecipanti alla gara non aggiudicatario in un momento successivo all’entrata in vigore dello stesso.  Ha ancora ricordato la Sezione che come ancora di recente evidenziato da Corte Cost. 21 marzo 2019, n. 63, il principio della retroattività della lex mitior in “materia penale” è fondato tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117, primo comma, Cost., eventuali deroghe a tale principio dovendo superare un vaglio positivo di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare controinteressi di rango costituzionale.  Il principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni di carattere amministrativo che abbiano natura “punitiva”.  Secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008 e n. 393 del 2006), la regola della retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., che sancisce piuttosto il principio – apparentemente antinomico – secondo cui “[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.  Tale principio deve, invero, essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato. Cionondimeno, la regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia penale – sancita, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, del Codice penale – non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza della Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., “che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice” (sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, “[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)” (sentenza n. 236 del 2011).  La riconduzione della retroattività della lex mitior in materia penale all’alveo dell’art. 3 Cost. anziché a quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., segna però anche il limite della garanzia costituzionale della quale la regola in parola costituisce espressione. Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius della delle disposizioni sanzionatorie “è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli” (sentenza n. 236 del 2011).  Il criterio di valutazione della legittimità di eventuali deroghe legislative alla retroattività della lex mitior in materia sanzionatoria, alla stregua dell’art. 3 Cost., è stato in particolare analizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006, ove si osserva, tra l’altro, che “la retroattività in mitius della legge penale è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea. La retroattività della lex mitior in materia penale è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, CDFUE”.  Ne consegue che il valore tutelato dal principio in parola “può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo”, con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole (sentenza n. 393 del 2006).    Ha ancora affermato la Sezione che l’escussione della garanzia in parola non può essere considerata una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né ha natura risarcitoria (o anche solo indennitaria), né mira semplicemente alla prevenzione di nuove irregolarità da parte dell’operatore economico. Si tratta, piuttosto, di una sanzione dall’elevata carica afflittiva che, in assenza di una specifica finalità indennitaria (propria della sola ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario) o risarcitoria, “si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto” (Corte cost., n. 63 del 2019).  In ragione dei rilievi che precedono dovrebbe quindi concludere per l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che precludono l’applicabilità della più favorevole disciplina sanzionatoria sopravvenuta – la quale prevede l’escussione della cauzione provvisoria solo a valle dell’aggiudicazione (definitiva) e, dunque, solo nei confronti dell’aggiudicatario di una procedura ad evidenza pubblica – se già in vigore al momento dell’adozione del provvedimento di escussione della garanzia provvisoria. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Sanità pubblica – Sangue infetto – Indennizzo – Transazioni – Art. 5, comma 1, lett. b), d.m. 4 maggio 2012 – Interpretazione.               In tema di moduli transattivi per indennizzo conseguente a trasfusione con sangue infetto la previsione di cui all’art. 5, comma 1, lettera b), d.m. 4 maggio 2012 comprende nel proprio ambito applicativo l’ipotesi della richiesta di adesione alla transazione formulata dall’erede del danneggiato da emotrasfusioni, il quale abbia fatto valere in giudizio la propria pretesa al risarcimento del danno iure hereditario;   il termine decennale contemplato dal citato art. 5, comma 1, lettera b), non è riferibile alla presunta prescrizione ma si limita a segnare l’ambito temporale entro il quale la pendenza del giudizio costituisce il necessario presupposto per l’ammissione alla transazione (1).    (1) Le questioni erano state rimesse dalla sez. III, con ord. 2 luglio 2021, n. 5052​​​​​​​   Ha chiarito l’Alto Consesso che la quaestio iuris sollevata dalla Sezione III si appunta sulle lettere a) e b) dell’art. 5 del decreto ministeriale del 4 maggio 2012 (cd. “Decreto moduli”), con il quale sono stati definiti i moduli transattivi, cioè gli importi da applicare a ciascuna delle categorie di soggetti individuati dalle leggi n. 222 e n. 244 del 2007, atteso che la domanda proposta dagli appellanti non rientra, secondo le valutazioni operate dall’amministrazione e confermate in prime cure, nell’ipotesi di cui alla lett. a (essendo pacificamente decorso più di un quinquennio tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla l. 25 febbraio 1992, n. 210 e la data di notifica dell'atto di citazione).   Tuttavia essa potrebbe rientrare non nella lett. a) [a) non siano decorsi più di cinque anni tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla legge 25.02.1992, n. 210 e la data di notifica dell'atto di citazione, da parte dei danneggiati viventi] ma nella lett. b) [b) non siano decorsi più di dieci anni tra la data del decesso e la data di notifica dell'atto di citazione da parte degli eredi dei danneggiati deceduti], e in tal caso il termine sarebbe da ritenersi ampiamente rispettato, se non fosse che il tenore letterale della lett. b) sembrerebbe porsi in frontale contrasto con il termine prescrizionale, individuato dal diritto vivente, in caso di danni iure hereditatis, in un quinquennio e non già in un decennio.  ​​​​​​​Ad avviso dell’Alto Consesso, la soluzione esegetica, che sgancia il disposto applicativo dalle disposizioni codicistiche in tema di prescrizione, deriva, oltre che dal tenore testuale delle disposizioni, anche dai criteri ermeneutici di carattere sistematico e teleologico. Il procedimento transattivo del quale si discorre è certamente procedimento di carattere speciale che non esclude la percorribilità della transazione ordinaria fra le parti ove ne ricorrano i presupposti generali di cui all’art. 1965 c.c..   ​​​​​​​Esso ha la duplice finalità di incidere sul vasto contenzioso che la vicenda ha generato nonché di offrire in tempi rapidi (purtroppo solo auspicati) ai danneggiati o ai loro eredi un ristoro, sì da evitare che, specialmente nelle fasce di popolazione a basso reddito, al danno si associno ulteriori disagi sociali ed economici.  La soluzione interpretativa è anche l’unica coerente con il topos ermeneutico dell’interpretazione “conforme”, atteso che è l’unica, alla luce della formulazione testuale della disposizione, ad assicurare la conformità dell’impianto attuativo con le superiori regole in materia di prescrizione, così come chiarite dalla Corte di Cassazione, a mente delle quali in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento iure hereditatis “trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, e dunque di un reato a prescrizione quinquennale” (da ultimo, Cass. civ., n. 5964 del 2016).  
Sanità pubblica
Autorità amministrative indipendenti – Consob - Rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in Telecom Italia s.p.a. – Qualificato come controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. – Mancanza di fase partecipativa – Illegittimità.         E’ illegittima la deliberazione con la quale Consob ha qualificato il rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in C in termini di controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ.. adottata, con riguardo alla partecipazione procedimentale di Telecom e Vivendi, senza dare formale avvio a un procedimento specificamente finalizzato all’esercizio della funzione di regolazione dichiarativa del rapporto controverso per assicurare l’esercizio dei diritti di partecipazione (1).    (1) La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 14 dicembre 2020, n. 7972 ha accolto l’appello proposto da Telecom s.p.a. e Vivendi nei confronti della sentenza del Tar Lazio 17 aprile 2019, n. 4990 ed ha annullato, in riforma della citata sentenza, la deliberazione 13 settembre 2917, n. 196341, con la quale Consob aveva qualificato il rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in Telecom Italia s.p.a. in termini di controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ., dell’art. 93 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nonché della disciplina in materia di operazioni con parti correlate di cui al Regolamento Consob adottato con delibera 12 marzo 2010, n. 17221 (“Regolamento o.p.c. ”). La questione nasce dal fatto che Vivendi, società francese quotata alla Borsa di Parigi, è entrata nel capitale sociale di Telecom nel giugno del 2015, con la titolarità di una partecipazione iniziale pari al 6,66 per cento, che poi si è progressivamente incrementata fino a raggiungere il 23,925 per cento del capitale sociale di Telecom. La Consob aveva qualificato tale rapporto partecipativo di Vivendi in Telecom in termini di controllo societario di fatto a seguito della constatazione che Vivendi, nella riunione del 13 settembre 2017, era riuscita a nominare la maggioranza dei consiglieri di amministrazione di Telecom. Il Consiglio di Stato, pur riconoscendo che la Consob ha poteri di regolazione dichiarativa finalizzati ad eliminare incertezze giuridiche in ordine alle situazioni di controllo societario nel settore delle comunicazioni, implicitamente previsti dall’impianto normativo, ha ritenuto che la Consob non avesse rispettato le regole del contraddittorio procedimentale, particolarmente importanti e rilevanti – a giudizio della Sezione – quando vengono esercitati poteri cd “impliciti”. In particolare, nella sentenza si è affermato che Consob avrebbe dovuto, con riguardo alla consultazione pubblica, “prevedere il coinvolgimento degli organismi rappresentativi soltanto relativamente agli aspetti di regolazione che attengono alla interpretazione della nozione di controllo societario in quanto essa è idonea a fornire indirizzi generali agli operatori economici del mercato finanziario”; con riguardo alla partecipazione procedimentale di Telecom e Vivendi “dare formale avvio a un procedimento specificamente finalizzato all’esercizio della funzione di regolazione dichiarativa del rapporto controverso per assicurare l’esercizio dei diritti di partecipazione”. Si tratta di un coinvolgimento delle parti necessario per garantire un contraddittorio procedimentale in funzione collaborativa e difensiva che, nella specie, dovendo colmare le lacune sostanziali della legge, assume valenza ancora più accentuata. La non necessità della partecipazione non potrebbe desumersi, come rilevato dal primo giudice, dall’applicazione dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, il quale dispone che «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto esercitato».  Si tratta di una norma che ha previsto in generale una “dequotazione della legalità procedimentale” ma, come esposto, in questo caso, si deve realizzare un rafforzamento di tale legalità per compensare la “dequotazione della legalità sostanziale”. L’attribuzione, nella fattispecie in esame, di un fondamento costituzionale al diritto di partecipazione impone di interpretare l’art. 21-octies nel senso che esso non possa trovare applicazione.  Anche a volere prescindere dall’effettivo perimetro applicativo di tale norma, in ogni caso, è la stessa natura del potere esercitato che impedisce di svolgere un giudizio prognostico favorevole alla pubblica amministrazione in ordine alla irrilevanza di una eventuale partecipazione. Vengono, infatti, in rilievo ampi profili decisori di contenuto giuridico che implicano valutazioni le quali rinvengono proprio nel procedimento la loro sede naturale. In particolare, l’oggetto del confronto dialettico nel procedimento avrebbe dovuto essere duplice. Sul piano formale, tale confronto avrebbe dovuto investire la stessa nozione di controllo di fatto civilistico in quanto dall’analisi degli atti del processo risultano versioni non coincidenti.  Nella prospettiva pubblica, come già sottolineato, l’influenza dominante consiste nella concreta capacità di determinare gli esiti assembleari mediante la concomitanza di una serie di elementi fattuali.  Nella prospettiva privata, l’influenza dominante presuppone una posizione di prevalenza in assemblea, esclusiva, unilaterale, stabile, in quanto la differenza tra controllo di diritto e di fatto sarebbe solo di natura qualitativa.  Tale confronto è rilevante anche al fine di analizzare in contraddittorio quali siano stati in precedenza gli orientamenti seguiti dalla Consob e consentire, in caso di mutamento di indirizzo interpretativo, una partecipazione difensiva effettiva. Sul piano sostanziale (collegato al primo), il contraddittorio procedimentale dovrebbe essere finalizzato ad acquisire tutti gli elementi e le circostanze di fatto che devono essere posti alla base della valutazione finale e che sono anche nella disponibilità degli operatori economici.  ​​​​​​​Non avendo la Consob assicurato le suddette garanzie partecipative, il provvedimento impugnato deve essere annullato. 
Autorità amministrative indipendenti
Procedimento amministrativo – Preavviso di rigetto – Omissione - Provvedimenti discrezionali – Art. 21 octies, l. n. 241 del 1990 – Criterio di applicazione.     L'art. 21 octies, l. n. 241 del 1990, a seguito della modifica operata con l'art. 12, comma 1, lett. i), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, comporta che  l'omissione del preavviso di rigetto, in caso di provvedimenti discrezionali, non è superabile con una valutazione ex post del possibile apporto del privato; la modifica legislativa, incidendo su una norma ritenuta di carattere processuale, si applica anche ai provvedimenti già emanati (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la norma del comma 2 dell’art. 21 octies prevede altresì che “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.  Tale disposizione, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, è stata ritenuta applicabile anche al difetto del preavviso di rigetto (Cons. Stato, sez. IV, 27 settembre 2016, n. 3948; id., sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667), condividendo con la comunicazione di avvio procedimentale del procedimento la stessa funzione di garantire il contraddittorio endoprocedimentale. Il c.d. preavviso di rigetto ha lo scopo di far conoscere all'amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; sicché tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l'annullamento del provvedimento nei casi in cui il contenuto di quest'ultimo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità. L'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, così come le altre norme in materia di partecipazione procedimentale, va infatti interpretato ed applicato non in senso formalistico, ma avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto, al pari della non esplicita confutazione delle argomentazioni addotte dal privato in risposta al ricevuto avviso, non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale, quando possa trova applicazione l'art. 21-octies della stessa L. n. 241 del 1990, secondo cui il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; poiché l’ art. 21 octies, secondo comma, attraverso la dequotazione dei vizi formali dell'atto, mira a garantire una maggiore efficienza all'azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all'attribuzione del bene della vita richiesto dall'interessato, l'atto amministrativo non può essere annullato (cfr. Cons. Stato, sez. II, 17 settembre 2019, n. 6209; id. 9 giugno 2020, n. 3675; id., sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1156; id., sez. V, 8 febbraio 2021, n. 1126). Il fondamento giustificativo del riportato orientamento viene ravvisato nella evidente ratio della disposizione del secondo comma seconda parte dell’art. 21 octies, volta a far prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali, nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 febbraio 2011, n. 1040; sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800). Si deve però considerare che tale orientamento si è formato prima della modifica della seconda parte dell’art. 21 octies intervenuta con l'art. 12, comma 1, lett. i), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, con l’aggiunta della previsione, per cui “La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10-bis”.  Con tale aggiunta è stata realizzata una distinzione tra il regime della comunicazione di avvio del procedimento e quello del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte, la cui omissione non è superabile nel caso di provvedimento discrezionali, tramite l’intervento dell’effetto “processuale” della seconda parte del secondo comma dell’art. 21 octies, con la conseguenza che per i provvedimenti discrezionali, come quello oggetto del presente giudizio, rimane rilevante anche la sola omissione formale della mancata comunicazione del preavviso di rigetto.  L'attuale formulazione della norma sottrae, infatti, il modello procedimentale correlato all'esercizio di un potere discrezionale, ai meccanismi di possibile “sanatoria processuale” previsti in via generale per la violazione di norme sul procedimento, in caso di omissione del preavviso di rigetto (Cons. Stato, sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378). Ritiene il Collegio che la nuova disposizione sia applicabile anche ai procedimenti in corso, in quanto la consolidata giurisprudenza ha attribuito all’ art. 21 octies comma 2 seconda parte la natura di norma di carattere processuale, come tale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (Cons. Stato, sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; id. 9 gennaio 2020, n. 165; id., sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; id., sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359), con la conseguenza che si deve ritenere immediatamente applicabile alle fattispecie oggetto di giudizi pendenti, per i quali in caso di omissione del preavviso di rigetto resta inibita all’Amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378). Pertanto, la norma si deve applicare nel testo vigente al momento del giudizio e non può dunque, allo stato, farsi alcun riferimento alla circostanza che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, circostanze, peraltro, neppure risultanti dagli atti di causa né dalla costituzione - meramente di stile - dell’Amministrazione. ​​​​​​​
Procedimento amministrativo
Lavoro - Cassa integrazione guadagni – Ordinaria – Nuova disciplina successiva al c.d. jobs act - Individuazione.               E’ illegittimo il diniego di proroga della concessione della Cassa integrazione salariale ordinaria, richiesto per “carenze di commesse”, trattandosi di evento transitorio, legato ad una situazione temporanea del mercato (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che il d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148, di attuazione della legge delega del 10 dicembre 2014 n. 183 (c.d. Jobs Act), recante “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro”, al capo II, ha disciplinato le nuove modalità di concessione della Cassa integrazione salariale ordinaria (Cigo). Il predetto decreto legislativo ha semplificato i procedimenti di concessione delle integrazioni salariali e meglio definito i requisiti di accesso e la documentazione da produrre, ai fini della valutazione che l’Istituto di previdenza è tenuto in merito ad esprimere. Il decreto n. 95442 del 15 aprile 2016 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha emanato ulteriori disposizioni attuative di dettaglio; mentre, la circolare I.N.P.S. n. 139 del 1° agosto 2016 (anticipata in parte dal messaggio n. 2908 del 1° luglio 2016) ha completato il quadro normativo, dettando la prassi da seguire nell’istruzione delle domande di concessione della nuova Cigo.. L’integrazione salariale è un ammortizzatore sociale che permette al prestatore di lavoro, parte contrattuale debole nel rapporto lavorativo, di fruire della continuità del salario, pur a fronte di eventi che ostacolino il normale dispiegarsi dell’obbligazione negoziale da lavoro, che permette al prestatore di lavoro di non perdere il proprio sostentamento, mentre il datore di lavoro è sollevato dal costo correlato al versamento (totale o parziale) della retribuzione. La Cigo è riconosciuta in presenza della ricorrenza di uno dei due presupposti: a) situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali; b) situazioni temporanee di mercato (art. 11 d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148; art. 1, comma 1, d.m. 15 aprile 2016). La “transitorietà” di crisi della situazione aziendale o della situazione di mercato sussistono quando è prevedibile, al momento della presentazione della domanda di Cigo, che l’impresa riprenda la normale attività lavorativa. Inoltre, la “non imputabilità” all’impresa o ai lavoratori della situazione di crisi consiste nella involontarietà e nella non riconducibilità a imperizia o negligenza delle parti della stessa (art. 1, commi 2 e 3, d.m. 15 aprile 2016). Alla domanda, è acclusa, ai fini della concessione della Cigo, una relazione tecnica dettagliata, elaborata dall’impresa (ai sensi dell’art. 47, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), con l’indicazione delle ragioni che hanno determinato la sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa, a dimostrazione, sulla base di elementi oggettivi, che l’impresa continua a operare sul mercato (art. 2, comma 1, prima parte, d.m. 15 aprile 2016). Integra la fattispecie «mancanza di lavoro o di commesse» la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa derivante dalla significativa riduzione di ordini e commesse. Integra la fattispecie «crisi di mercato» la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per mancanza di lavoro o di commesse derivante dall'andamento del mercato o del settore merceologico a cui appartiene l’impresa, di cui costituiscono indici il contesto economico produttivo del settore o la congiuntura negativa che interessa il mercato di riferimento (art. 3, commi 1 e 3, d.m. 15 aprile 2016). Quanto al profilo concernente le domande di mera proroga, l’I.N.P.S. ha chiarito, fin dal messaggio n. 2908 del 1° luglio 2016, recante prime indicazioni operative della nuova disciplina, che anche le richieste di proroga della domanda originaria devono essere accompagnata da apposita “relazione tecnica”, in quanto domande distinte, tal da manifestare “il perdurare delle ragioni di integrazione presentate nella prima istanza”, ammettendosi dunque la proroga – possibile in quanto vengono in evidenza nell’ambito della Cigo mere stime di ripresa dell’attività – purché suffragate da nuova relazione tecnica apposita (anche integrativa della precedente) e valide motivazioni, che non dissimulino invece immotivati intenti dilatori volti a procrastinare in modo indeterminato lo stato di crisi; talché appaiono incompatibili con detto istituto le sole proroghe immotivate e reiterate senza soluzione di continuità. ​​​​​​​
Lavoro
Sanità pubblica - Assistenza sanitaria - Persone con disabilità – Disciplina statale sull’ISEE _ Rilevanza – Limite.   ​​​​​​​          La disciplina statale sull’ISEE rileva sia per l’accesso che per la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che per giurisprudenza ormai consolidata del Consiglio di Stato, come da ultimo ribadito anche nella sent. n. 6926 del 2020, la disciplina statale sull’ISEE rileva sia per l’accesso che per la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali, come si può desumere dal dato testuale del dPCM 5 dicembre 2013 n. 159 che, all’art. 2, espressamente prevede che l’ISEE costituisce lo strumento “…di valutazione, attraverso criteri unificati, della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni sociali agevolate. La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., fatte salve le competenze regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e socio-sanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni”, e, come affermato dal Consiglio di Stato, alla luce del complesso quadro normativo e dei principi costituzionali e internazionali in materia, “l’ISEE resta, dunque, l’indefettibile strumento di calcolo della capacità contributiva dei privati e deve scandire le condizioni e la proporzione di accesso alle prestazioni agevolate, non essendo consentita la pretesa del Comune di creare criteri avulsi dall’ISEE con valenza derogatoria ovvero finanche sostitutiva”. Il Consiglio di Stato, infatti, ha ritenuto che non sia possibile “accreditare in subiecta materia spazi di autonomia regolamentare in capo ai Comuni in distonia con i vincoli rinvenienti dalla sopra richiamata cornice normativa di riferimento al punto da consentire…la introduzione di criteri ulteriori e derogatori rispetto a quelli che il legislatore riserva, dopo aver accordato preferenza all’indicatore ISEE, in prima battuta, allo Stato e, in via integrativa, alla Regione”, e ha ritenuto illegittimo il regolamento comunale che ha assegnato “un improprio e discriminante rilievo selettivo alla percezione di emolumenti (id est pensione di invalidità ovvero indennità di accompagnamento) che, tanto in ragione delle mentovate sentenze di questo Consiglio, che per le successive modifiche normative, avrebbero dovuto essere considerati normativamente “protetti” e, dunque, con valenza neutra tanto ai fini dell’ISEE che, in via consequenziale, nella definizione della capacità contributiva degli utenti” (Cons. Stato  n. 3671 del 2018). La giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha, inoltre, affermato – quanto all’aspetto relativo alle esigenze di assicurare gli equilibri di bilancio – che la sostenibilità finanziaria dei relativi costi andrebbe prudentemente evocata tenendo conto della strumentalità del servizio in questione rispetto alla salvaguardia di diritti a nucleo incomprimibile secondo i principi più volte affermati dalla Consulta (cfr. fra le altre, le sentenze Corte cost. nn. 80 del 2010 e n. 275 del 2016), sottolineando l’onere della parte di dimostrare l’impossibilità di far fronte all’impegno finanziario conseguente alla prestazione (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6926 del 2020 con i precedenti richiamati).  Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 6926 del 2020 citata, dopo aver ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale in materia ed essersi soffermata anche sulla questione relativa al rapporto tra ISEE e indennità di accompagnamento, ha affermato che “Va quindi ribadito il principio, desumibile dalla giurisprudenza della Sezione, secondo cui non può essere riconosciuta ai Comuni una potestà di deroga alla legislazione statale e regionale, nell’adozione del regolamento comunale, in violazione della disciplina statale dell’ISEE, così come prevista dal dPCM n. 159 del 2013” al fine di regolarne l’accesso a varie prestazioni pubbliche, tra le quali, in particolare, spiccano quelle sociali e sociosanitarie. E’, dunque, nel solco delle divisate, vincolanti coordinate normative che il Comune di Salò avrebbe dovuto stimare le condizioni di partecipazione dei privati utenti alle prestazioni in argomento (Cons. Stato,s. III, 27 novembre 2018, n. 6708 e 13 novembre 2018, n. 6371), Link mantenendosi, peraltro, aderente alle voci che compongono la situazione economica quale definita dalla richiamata disciplina di settore, applicabile ratione temporis, e che indica in dettaglio 1) il reddito, nelle articolazioni ivi previste, 2) il patrimonio, immobiliare e mobiliare, quest’ultimo corretto da una franchigia predeterminata”).  Mentre, per quanto riguarda i poteri delle Regioni, il Consiglio di Stato ha affermato che la Regione dispone “del potere normativo residuale in tema di servizi sociali nei sensi indicati dalla Corte Costituzionale, garantendo, quindi, livelli ulteriori di tutela” (Cons. Stato n. 6926 del 2020). Infine, nella medesima pronuncia n. 6926 del 2020, il Consiglio di Stato ha confermato il precedente della sezione, secondo cui (Cons. Stato n. 3640 del 2015) “non può trovare applicazione la L.R. Veneto n. 30 del 2009 che reca “disposizioni per la istituzione del Fondo regionale per la non autosufficienza” e per la sua disciplina e, in particolare, l’art. 6 in quanto tale articolo disciplina le prestazioni a carico del Fondo e, ai commi 4 e 5, prevede che la Regione con DGR adotti un atto di indirizzo per stabilire i criteri per la compartecipazione alla spesa al fine di assicurare omogeneità di trattamenti nel territorio regionale, ma tale atto di indirizzo a tutt’oggi non risulta ancora adottato”. 
Sanità pubblica
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione – Individuazione – Criterio.            Spetta alla stazione appaltante, nella predisposizione della legge di gara e in relazione all’oggetto della prestazione richiesta, conciliare, nell’individuare i requisiti di partecipazione, le contrapposte esigenze: da un lato evitare inutili aggravi di spesa a carico degli operatori economici concorrenti per procurarsi già al momento dell’offerta la disponibilità di beni e mezzi, senza avere la certezza dell’aggiudicazione e con effetti discriminatori ed anti-concorrenziali perché di favore per gli operatori già presenti sul mercato ed in possesso delle dotazioni strumentali, nonché con violazione del principio di proporzionalità; dall’altro garantire la serietà e l’effettività dell’impegno assunto dal concorrente di disporre dei mezzi necessari all’espletamento del servizio (1).    (1) La distinzione tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione è stata elaborata dalla giurisprudenza amministrativa collocando tra i secondi gli “elementi caratterizzanti la fase esecutiva del servizio” (cfr., Consiglio di Stato, Sezione V, 18 dicembre 2017, n. 5929; id. 17 luglio 2018, n. 4390), vale a dire i “mezzi (strumenti, beni ed attrezzature) necessari all’esecuzione della prestazione promessa alla stazione appaltante” (Consiglio di Stato, Sezione V, 18 dicembre 2020, n. 8159), così distinguendoli dai primi, che sono invece quelli necessari per accedere alla procedura di gara, in quanto requisiti generali di moralità (ex art. 80 d.lgs. n. 50 del 2016) e requisiti speciali attinenti ai criteri di selezione (ex art. 83 d.lgs. n. 50 del 2016).   In dottrina e in giurisprudenza non è dubbio che il possesso dei requisiti di partecipazione sia richiesto al concorrente sin dal momento della presentazione dell’offerta.   Riguardo ai requisiti di esecuzione, invece, l’approdo giurisprudenziale più recente, più volte condiviso da questa Sezione, è nel senso che essi sono, di regola, condizioni per l’esecuzione della prestazione contrattuale e che, pertanto, la dimostrazione del loro possesso attenga ad una fase procedimentale successiva a quella dell’ammissione alla gara, concentrandosi tale onere probatorio soltanto sull’aggiudicatario nella fase immediatamente antecedente alla stipula del contratto.   Premesso quanto sopra, non si può tuttavia escludere che – in particolari fattispecie concorsuali - la richiesta della predisposizione ed organizzazione di beni e mezzi per l’esecuzione del servizio sia prevista dalla lex specialis come elemento essenziale dell’offerta (in termini Consiglio di Stato, Sezione V, 2 febbraio 2022 n. 722).  Per particolari esigenze correlate all’interesse pubblico perseguito dalla stazione appaltante con l’indizione della procedura concorsuale, cioè, ben può accadere che la regolazione dei c.d. requisiti di esecuzione rinvenuta nella lex specialis si atteggi diversamente rispetto all’ordinaria scansione procedimentale sopra ricordata, con la conseguenza che, se espressamente richiesti come elementi essenziali dell’offerta, anche per i requisiti di esecuzione può accadere che la loro mancanza al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara comporti l’esclusione del concorrente.
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Sanità – Medici di base – Visite domiciliari ai malati Covid in quarantena domiciliare – Preclusioni - Esclusione.             Non sussistono preclusioni per i medici di medicina generale ad effettuare visite domiciliari ai pazienti Covid in quarantena domiciliare (1).    (1) La Sezione ha riformato la sentenza del Tra Lazio che aveva accolto il ricorso, proposto avverso provvedimenti della Regione Lazio sull’assunto che gli stessi avrebbero gravato i medici di medicina generale di una funzione di assistenza domiciliare ai pazienti Covid del tutto impropria, spettante, in base all’art. 8, d.l. n. 14 del 2020 prima e all’art. 4-bis, d.l. n. 18 del 2020 poi, unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (c.d. USCA) istituite dal Legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo. L’estensione della competenza ai malati Covid comporterebbe la distrazione di tali medici dal loro precipuo compito, che è quello di prestare l’assistenza ordinaria, a tutto detrimento della concreta possibilità di assistere i tanti pazienti non Covid, molti dei quali affetti da patologie anche gravi.   Ha chiarito il giudice di appello che la Regione Lazio ha ritenuto di poter adeguatamente rispondere all’emergenza epidemiologica anche attraverso l’utilizzo delle aggregazioni territoriali, individuando in ciascuna di esse un Referente Covid, dotato di tutti i presidi di prevenzione, cui affidare l’assistenza, anche a domicilio, dei pazienti affetti dal virus, così affiancando tale modulo di intervento all’Unità Speciale di Continuità Assistenziale Regionale (USCAR) per Covid-19.  La sentenza del Tar Lazio si fonda su due (inespressi) postulati: a) il primo è quello secondo il quale l’esplosione di un evento pandemico e le conseguenze dello stesso sulla salute degli individui, in quanto evento straordinario e non previsto, immuti implicitamente i concetti di malattia acuta e cronica sui quali si basano i Livelli essenziali di assistenza (LEA) e i connessi accessi domiciliari nell’ambito della medicina generale; b) il secondo è che l’evento pandemico produca una sorta di tabula rasa organizzativa in ambito sanitario, in guisa che le disposizioni legislative emergenziali adottate per affrontare efficacemente l’evento e diminuirne le letali conseguenze epidemiologiche, costituiscano, anche in assenza di esplicite indicazioni in tal senso, strumento esaustivo ed esclusivo, capace di sostituirsi integralmente all’assetto ordinario delle competenze, attraverso non il meccanismo della deroga puntuale ma quello, appunto, dell’azzeramento del pregresso.  La Sezione ha affermato che il primo postulato non trova alcun appiglio normativo nell’art. 4, comma 1, d.P.C.M. 12 gennaio 2017 (“Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”). La tesi secondo la quale l’influenza da Covid 19 non sarebbe una patologia acuta sussumibile nel disposto appena citato, si risolve in una mera illazione, posto che la patologia acuta è proprio il processo morboso funzionale o organico a rapida evoluzione, cui tipicamente è riconducibile quello conseguente a virus influenzale.  Dunque non c’è dubbio che se il legislatore non fosse affatto intervenuto, nessuno avrebbe dubitato che i medici di medicina generale, in forza del d.P.C.M. 12 gennaio 2017 e dell’accordo collettivo che ne dà attuazione sul versante della medicina generale, avrebbero avuto l’obbligo di effettuare accessi domiciliari ove richiesto e ritenuto necessario in scienza e coscienza, a prescindere dalla sussistenza in atto di una patologia infettiva, e nel rispetto ovviamente dei protocolli di prevenzione e tutela.   Il legislatore è tuttavia intervenuto, e com’è noto, ha approntato soluzioni organizzative emergenziali. Qui viene il rilievo la fallacia del secondo postulato.   Le norme emergenziali, anche di carattere organizzativo, sono sempre norme speciali e derogatorie che si innestano in un contesto noto e presupposto dal legislatore, in modo da modellare l’assetto organizzativo ordinario e renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare l’emergenza. L’art. 4-bis, d.l. n. 18 del 2020 è chiaro nel senso di voler alleggerire i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i medici di continuità assistenziale, dal “carico” derivante dall’esplosione pandemica, affiancando loro una struttura capace di intervenire a domicilio del paziente, a richiesta dei primi, ove questi, attanagliati da un fase di così diffusa morbilità e astretti dalle intuibili limitazioni temporali e fisiche, o anche legate all’indisponibilità temporanea di presidi efficaci, non possano recarsi al domicilio del paziente, o ritengano, in scienza e coscienza, nell’ambito della propria autonoma e libera valutazione medica, che sia necessaria o preferibile l’intervento della struttura di supporto. Nessuna deroga ai LEA, quindi, ma garanzia della loro effettività attraverso un supporto straordinario e temporaneo – gli USCAR - destinato ad operare in sinergia e nel rispetto delle competenze e prerogative dei medici di medicina generale e degli altri medici indicati.   Trarre dalle disposizioni in commento un vero e proprio divieto per i medici di medicina generale di recarsi a domicilio per assistere i propri pazienti alle prese con il virus costituirebbe, per converso, un grave errore esegetico, suscettibile di depotenziare la risposta del sistema sanitario alla pandemia e di provocare ulteriore e intollerabile disagio ai pazienti, che già affetti da patologie croniche, si vedrebbero (e si sono invero spesso visti), una volta colpiti dal virus, proiettati in una dimensione di incertezza e paura, e finanche abbandonati dal medico che li ha sempre seguiti.
Covid-19
Straniero – Accoglienza – Revoca – Per gravi violazioni delle regole - Art. 23, d.lgs. n. 142 del 2015 – Disapplicazione – Comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri – Art. 58, r.d. n. 444 del 1942 – Possibilità.             Ai sensi dell’art. 58, r.d. 21 aprile 1942, n. 444 (Regolamento per l'esecuzione della legge sul Consiglio di Stato), quando dall'esame degli affari discussi dal Consiglio di Stato risulti che la legislazione vigente è in qualche parte “oscura, imperfetta od incompleta” il Consiglio di Stato ne deve riferire al Presidente del Consiglio dei Ministri; tale è la situazione che si verifica a seguito della sentenza della Corte di Giustizia Ue 12 novembre 2019 in C 233/18, che ha determinato la disapplicazione dell’art. 23, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, il quale ha previsto che il prefetto dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure d'accoglienza in caso., tra l’altro, di violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto, da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti (1).   (1) Ad avviso della Corte di Giustizia Ue 12 novembre 2019 in C 233/18 uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza dato che avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari; gli Stati membri possono, nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, imporre, a seconda delle circostanze del caso e fatto salvo il rispetto dei requisiti di cui all’art. 20, paragrafo 5, della menzionata direttiva, sanzioni che non hanno l’effetto di privare il richiedente delle condizioni materiali di accoglienza, come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, unitamente ad un divieto di contatto con taluni residenti del centro o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 1, lettera c), di tale direttiva. Analogamente, l’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 non osta ad una misura di trattenimento del richiedente ai sensi dell’art. 8, paragrafo 3, lettera e), della direttiva in parola, purché siano soddisfatte le condizioni di cui agli articoli da 8 a 11 della stessa direttiva.
Straniero
Informativa antimafia – Competenza – Prefettura diversa da quella dove ha la sede legale la società destinataria della Prefettura – Illegittimità.      É illegittima l’interdittiva adottata da una Prefettura diversa da quella dove ha la sede legale la società destinataria della Prefettura (1). (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 90, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 prevede che “Nei casi di cui all'art. 92, commi 2 e 3, l'informazione antimafia è rilasciata dal Prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale” ovvero, per le società con sede all’estero ex art. 2508 cod. civ., dal Prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato. La norma, al fine di individuare il Prefetto competente ad adottare l’informativa, fa riferimento al luogo in cui era la sede legale della società al momento dell’adozione del provvedimento interdittivo e non alla data di avvio del relativo procedimento. Corollario obbligato di tale premessa è che il Prefetto che ha avviato il procedimento e raccolto elementi ritenuti sufficienti a supportare il provvedimento cautelare, avvedutosi del trasferimento della sede legale in altra Provincia, è tenuto a trasmettere nell’immediatezza gli atti istruttori al Prefetto di tale Provincia, avendo perso la competenza a decidere. Emerge poi evidente che la sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato è indicata dal legislatore solo con riferimento alla società che ha la sede all’estero ex art. 2508 cod. civ. Ha peraltro aggiunto la Sezione che il Prefetto, raccolti gli elementi indiziari di inquinamento mafioso, deve verificare dal Registro delle imprese la permanenza della sede legale della società nella città e, accertatone il trasferimento, avesse subito trasmesso alla Prefettura, divenuta ex lege competente, l’intera istruttoria. Tale modus operandi si rende necessario ove si consideri che sempre più spesso le associazioni a delinquere di stampo mafioso fanno ricorso a tecniche volte a paralizzare il potere prefettizio di adottare misure cautelari (Cons St., sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854). Di fronte al “pericolo” dell’imminente informazione antimafia di cui abbiano avuto in quale modo notizia o sentore, reagiscono mutando sede legale, assetti societari, intestazioni di quote e di azioni, cariche sociali, soggetti prestanome, cercando comunque di controllare i soggetti economici che fungono da schermo, anche grazie alla distinta e rinnovata personalità giuridica, nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Proprio la natura del provvedimento, finalizzato ad interdire in via preventiva, immediatamente, qualsiasi rapporto pubblicistico con il soggetto “inquinato” dai legami con la mafia, il contesto in cui nasce, costituito solitamente da complesse indagini di polizia giudiziaria contro le consorterie mafiose o da atti dei processi penali che ne seguono, rende indispensabile un continuo coordinamento tra le sedi della Prefettura perché non vadano disperse le lunghe indagini effettuate da una Prefettura, che la consorteria mafiosa cerca abilmente di paralizzare. Ciò soprattutto nel caso – come quello di specie – in cui evidenti sono gli indizi che supportavano la misura interdittiva, adottata a tutela di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie. Come più volte ribadito dalla Sezione (5 settembre 2019, n. 6105), la libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza però anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico – garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato – per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti
Informativa antimafia
Covid-19 – Trasporti – D.I. 2 giugno 2020 del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della salute - Trasporto marittimo di viaggiatori di linea da e verso la Sardegna – Limiti temporali – Non va sospeso monocraticamente.            Deve essere respinta l’istanza di sospensione monocratica del decreto 2 giugno 2020 del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della salute, nella parte in cui limita fino alla data del 12 giugno il trasporto marittimo di viaggiatori di linea da e verso la Sardegna ai servizi svolti in continuità territoriale, con la previsione di riattivare dal 13 giugno tutti i collegamenti da e per la Sardegna verso i porti nazionali e viceversa, non sussistendo i presupposti previsti dall’art. 56 c.p.a. per la sospensione cautelare monocratica.
Covid-19
Processo amministrativo – Covid-19 – Giudizio cautelare - Istanza di rinvio per consentire discussione orale - Proposta dall’appellata – Reiezione.             Deve essere respinta l'istanza della parte appellata di differire l'esame dell'appello cautelare proposto dall'Amministrazione alla fine della fase emergenziale, onde consentirne la discussione orale secondo i noti principi costituzionali e comunitari (1).   (1) La Sezione ha disatteso la richiesta di differimento ritenendo da un lato che esso potesse compromettere la ragionevole durata del giudizio cautelare; dall'altro che il decorso del tempo potesse vanificare e privare di utilità la richiesta cautelare dell'appellante Amministrazione, con lesione del principio di economia processuale (Cons. Stato, sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2539).  
Processo amministrativo
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Effetti positivi - Condizione.   ​​​​​​​             La disciplina normativa sul dissesto del Comune, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, può produrre effetti positivi soltanto se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente possono essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento giurisdizionale o amministrativo sia successivo, con l’unico limite rappresentato dall’approvazione del rendiconto della gestione che segna la chiusura della Gestione Liquidatoria; dopo tale data, infatti, è evidente che non sarà più possibile imputare alcunché a tale organo, in quanto, dal punto di vista giuridico, esso ha cessato la sua esistenza (1).   (1) La questione era stata rimessa dal Cons. St., sez. V, 21 aprile 2021, n. 3211   LINK     Ha chiarito la Sezione che se i debiti accertati in via giurisdizionale posteriormente, ma riferibili a fatti antecedenti, potessero essere portati ad esecuzione direttamente nei confronti dell’Ente comunale, non solo verrebbe frustrata la stessa ratio e lo scopo della gestione liquidatoria, ma sarebbe pregiudicata la gestione delle funzioni ordinarie del Comune, prima che esso torni ad uno stato di riequilibrio finanziario, mettendo a rischio l’esercizio delle stesse funzioni e dei servizi fondamentali svolti dal Comune, che non potrebbe sostenere sul piano finanziario i costi di tali funzioni e servizi, essendo di fatto in uno stato di insolvenza. Tali ultimi rilievi servono anche a confutare i dubbi circa la legittimità costituzionale delle norme sullo stato di dissesto, così come evocati dalle parti appellanti e riferite nell’ordinanza di remissione. Infatti, se lo scopo delle norme sullo stato di dissesto è quello di salvaguardare le funzioni fondamentali dell’ente in stato di insolvenza, permettendogli di recuperare una situazione finanziaria di riequilibrio e, quindi, di normalità gestionale e di capienza finanziaria, che altrimenti sarebbe compromessa dai debiti sorti nel periodo precedente, è evidente che tale interesse pubblico risulta prevalente, in base ad un giudizio di bilanciamento e di razionalità, rispetto agli interessi individuali e patrimoniali dei privati ancorché accertati con provvedimenti giurisdizionali. Peraltro, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 21 giugno 2013, n. 154, relativa a disposizioni per le obbligazioni rientranti nella gestione commissariale del Comune di Roma (art. 4, comma 8-bis, ultimo periodo, d.l. 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, in l. 26 marzo 2010, n. 42), ha sostenuto che in una procedura concorsuale – tipica di uno stato di dissesto – una norma che ancori ad una certa data il fatto o l’atto genetico dell’obbligazione è logica e coerente, proprio a tutela dell’eguaglianza tra i creditori, mentre la circostanza che l’accertamento del credito intervenga successivamente è irrilevante ai fini dell’imputazione; e sarebbe irragionevole il contrario, giacché farebbe difetto una regola precisa per individuare i crediti imputabili alla gestione commissariale o a quella ordinaria e tutto sarebbe affidato alla casualità del momento in cui si forma il titolo esecutivo, anche all’esito di una procedura giudiziaria di durata non prevedibile.   Ha quindi concluso l’Alto consesso che da un lato, va rilevato che, con la separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, il dissesto ha assunto una fisionomia analoga al fallimento privatistico, il quale, come è noto, non è sottoposto a termini finali certi senza che, per questo, si sia dubitato della sua legittimità costituzionale, trattandosi peraltro di un istituto diffuso a livello comunitario. Al riguardo, si osserva che il processo di omologazione tra dissesto degli enti locali e fallimento privatistico si è poi accentuato con i successivi interventi normativi, realizzati con il d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77 (Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali) e il relativo decreto correttivo (d.lgs. 11 giugno 1996, n. 336), con i quali si sono tra l’altro introdotte delle cause di prelazione dei crediti e si è previsto che l’organo straordinario di liquidazione predisponga un primo piano di rilevazione dei debiti recante l’elenco di quelli esclusi dalla massa passiva della procedura, strumentale all’erogazione del mutuo con la Cassa depositi e prestiti e il pagamento in acconto dei debiti inseriti nel piano di rilevazione. Dall’altro lato, va sottolineato che sussistono, anche in costanza di Gestione liquidatoria, contributi dello Stato per il pagamento dell’indebitamento pregresso in rapporto alla popolazione dell’ente dissestato (artt. 4 e 21 d.l. n. 8-1993), e quindi esistono correttivi normativi idonei a realizzare e plasmare l’interesse dei creditori dell’Ente i cui crediti siano confluiti nella Gestione liquidatoria. Al riguardo, deve peraltro aggiungersi che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione è stata assoggettata alla normativa sul contrasto ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali, di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), in particolare per effetto delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 - Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180). In tal modo, la remunerazione dei crediti attraverso gli interessi di mora ai sensi del citato d.lgs. n. 231-2002 offre una compensazione al creditore, che si contrappone al rischio che il credito venga attratto nella massa della Gestione liquidatoria. Il dissesto finanziario degli enti locali si colloca quindi, in altri termini, all’interno dell’antitesi Stato-mercato. Infatti, per la copertura del disavanzo dell’ente locale e per il suo risanamento è previsto un intervento, sia pure non illimitato, dello Stato, con funzione tipica di “pagatore di ultima istanza” all’interno del sistema di finanza pubblica che da esso promana; a ciò si contrappone un regime dei debiti commerciali dell’ente locale proprio delle transazioni tra imprese, in cui non sono ordinariamente previsti interventi di sostegno pubblico contro l’insolvenza. Si ricordano, peraltro, anche le misure straordinarie relative alla possibilità che l’ente locale acceda alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall’articolo 243-bis, contraddistinta dall’incapacità solo temporanea di fare fronte al servizio del debito e, al pari del dissesto finanziario, dall’intervento di risorse a carico del bilancio dello Stato, ovvero il Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali di cui all’art. 243-ter TUEL. Alla luce delle svolte considerazioni, si ritiene che le caratteristiche del procedimento di dissesto siano espressive di un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro lato, di tutelare i creditori. L’equilibrio così delineato sul piano della vigente normativa rende evidente e manifesto che la disciplina sullo stato di dissesto non può ritenersi contrario ad alcun parametro costituzionale, né in via diretta né attraverso il meccanismo della norma interposta ex art. 117, comma 1, Cost..  
Enti locali
Covid-19 – Calcio – Squadra del Bologna Calcio – Casi di positività  - Ordinanza Asl di divieto di giocare le partite per cinque giorni – Non va sospesa.                  Non va sospeso il provvedimento dell’Azienda Sanitaria di Bologna che, accertato che nella Squadra del Bologna Calcio si sono verificati casi di positività al Covid, ha disposto anche il divieto di esercitare sport di squadra di contatto per cinque giorni per tutti gli atleti, e cioè anche per quelli sottoposti al (mero) regime di autosorveglianza, e ciò perchè nell’attuale, straordinaria e grave emergenza sanitaria risulta necessariamente prevalente – nella fase cautelare monocratica - la tutela dell’interesse pubblico fondamentale alla salvaguardia della sicurezza sanitaria collettiva rispetto all’interesse privato, economico e sportivo fatto valere in giudizio dalla società ricorrente.   ​​​​​​​
Covid-19
Contratti della pubblica amministrazione - Cauzione  - Cauzione provvisoria – Escussione – Nei confronti di soggetti diversi dall’aggiudicatario – Esclusione.           Il nuovo codice dei contratti, a differenza di quello previgente, consente l’escussione della cauzione provvisoria nei soli confronti del concorrente dichiarato aggiudicatario (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 stabilisce che la garanzia provvisoria “copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli artt. 84 e 91, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159”. La garanzia opera anche nel caso di mancanza dei requisiti di ordine generale e speciale, dichiarati in sede di partecipazione alla gara, in quanto tale carenza integra, senza dubbio, la nozione di “fatto riconducibile all’affidatario” che preclude la sottoscrizione del contratto. Proprio la disposizione in esame, però, colloca l’escussione della garanzia provvisoria nella fase successiva all’aggiudicazione e prima della stipula del contratto. In quest’ottica l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 deve essere letto in combinato disposto con gli artt. 36, comma 6, e 85, comma 5, e, soprattutto, 32, d.lgs. n. 50 del 2016 che prevedono come obbligatoria la verifica dei requisiti del solo aggiudicatario. Pertanto, nella sequenza procedimentale prefigurata dall’art. 32, commi 5 e ss., d.lgs. n. 50 del 2016 l’aggiudicazione, dopo la sua adozione, richiede l’espletamento di un’ulteriore fase avente ad oggetto la verifica dei requisiti e condizionante l’efficacia dell’aggiudicazione stessa e la conseguente decorrenza del termine per la stipula del contratto. E’, pertanto, in questa fase che, secondo il disposto dell’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016, opera la garanzia provvisoria la quale, nella previsione legislativa, sanziona le ipotesi in cui, anche per la mancanza dei requisiti dichiarati in sede di partecipazione e negativamente verificati, non sia possibile, “dopo l’aggiudicazione” (inciso espressamente previsto dall’art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 e mancante nel previgente art. 75, d.lgs. n. 163 del 2006), pervenire alla sottoscrizione del contratto. Ne consegue che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 non si applica alle ipotesi in cui non è ancora intervenuta l’aggiudicazione ma solo la proposta di aggiudicazione che è un atto diverso avente natura meramente endoprocedimentale e, come tale, non impugnabile autonomamente (a differenza dell’aggiudicazione); alla medesima conclusione deve pervenirsi in riferimento ai casi in cui la stazione appaltante procede discrezionalmente, nel corso della gara, alla verifica dei requisiti di uno o più concorrenti. La disciplina in esame differisce da quella del codice abrogato ove il legislatore all’art. 48, d.lgs. n. 163 del 2006 prevedeva come obbligatoria la verifica a campione dei concorrenti, prima dell’apertura delle buste delle offerte, e, successivamente, dell’aggiudicatario e del secondo classificato. Nel sistema previgente alla pluralità di adempimenti, in tema di verifica dei requisiti, posti a carico della stazione appaltante, faceva riscontro la possibilità (che trovava un supporto normativo anche nell’art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006) della stessa di escutere la cauzione provvisoria anche prima dell’aggiudicazione. La disciplina del d.lgs. n. 50 del 2016, attualmente vigente, non prevede più l’obbligo del controllo a campione e del secondo classificato ed, in questa materia, ha ridotto gli adempimenti delle stazioni appaltanti che sono attualmente obbligate a verificare i requisiti del solo aggiudicatario; in quest’ottica di semplificazione di adempimenti, allora, l’escussione della garanzia provvisoria è circoscritta alla sola ipotesi di negativa verifica dei requisiti dichiarati dall’aggiudicatario mentre nei casi di c.d. “verifica facoltativa” sono applicabili, ricorrendone i presupposti, solo le altre sanzioni previste dall’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 (esclusione dalla gara, segnalazione all’Anac ai fini dell’inserimento nel casellario informatico, denuncia all’autorità giudiziaria nei casi di reato ecc.).
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Covid-19 – Discussione da remoto – Opposizione per asserita necessità discussione in presenza - esclusione.             Deve essere respinta l’opposizione alla discussione da remoto motivata con la necessità che la discussione si tenga in presenza, e ciò in quanto nell'attuale periodo di emergenza epidemiologica l’unica possibilità di discussione contemplata e ammessa dall’ordinamento è quella con collegamento da remoto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, d.l. n. 28 del 2020 e 25, comma 1, d.l. n. 137 del 2020 (1).  (1) È stato chiarito che a fronte di una disciplina positiva che contempla, in via straordinaria e temporanea, il collegamento da remoto come unica modalità di svolgimento della discussione orale, resta preclusa all’interprete ogni opzione interpretativa che, invece, ammetta la discussione in presenza, da intendersi quale possibilità esclusa, implicitamente, ma chiaramente, dalla citata normativa di riferimento (in ragione del suo carattere completo ed esauriente). Il decreto ha altresì escluso che tale disposizione possa essere derogata (disapplicando la norma) in ragione della delicatezza della questione da discutere, in esito a un incerto e inattendibile percorso ermeneutico, della disposizione che prevede la (sola) discussione da remoto, sulla base della sua dichiarata (e sperimentata) idoneità ad assicurare l’integrità del contraddittorio.   E’ stato, infine, escluso che non sia configurabile l’equivalenza della discussione orale da remoto, rispetto a quella in presenza, quanto alla sua capacità di salvaguardare in maniera adeguata l’esercizio dei diritti di difesa e la pienezza della dialettica processuale. 
Processo amministrativo
Contratti della pubblica amministrazione – Lotti - Numero massimo di lotti aggiudicabili e necessità che le offerte per più lotti messi a gara siano presentate nella medesima forma individuale o associata – Legittimità.      In sede di gara per l’affidamento della fornitura domiciliare di ossigenoterapia sono legittime le previsioni relative alla limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente e alla necessità che le offerte per più lotti messi a gara siano presentate nella medesima forma individuale o associata e, in caso di RTI, con la medesima composizione (1).   (1) Ha chiarito la sentenza che la prima previsione relativa alla limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente risponde, secondo le previsioni dell’art. 51 del codice dei contratti, alle medesime ragioni di tutela della libertà d’iniziativa economica e di concorrenza da indebite rendite oligopolistiche che postulano la suddivisione dei contratti in più lotti, e quindi risulta pienamente legittima. La seconda previsione relativa alla necessità che le offerte per più lotti messi a gara siano presentate nella medesima forma individuale o associata e, in caso di RTI, con la medesima composizione risponde alla ragionevole esigenza d’interesse pubblico generale di garantire, da un lato, la correttezza e genuinità, e quindi la piena concorrenzialità fra loro, delle offerte riferite ad un’unica gara e, dall’altro, la univocità e serietà dell’impegno contrattuale assunto dai partecipanti alla medesima gara in sede di esecuzione dei singoli adempimenti contrattuali riferiti ai diversi lotti senza poter in ipotesi “triangolare” le responsabilità fra compagini societarie ed associative diverse. L’unitarietà della gara emerge, così come dedotto dal giudice di prime cure, dalla unicità della Commissione esaminatrice, dall’identità, per tutti i lotti, dei requisiti richiesti dal bando e degli elementi di valutazione dell'offerta tecnica previsti dal disciplinare, dalla possibilità di produrre un’unica offerta telematica per più lotti, dall’identità, per tutte le Asl, delle modalità di prestazione del servizio e delle prestazioni richieste ed, inoltre, dall’integrazione telematica riferita alla esecuzione di tutti gli adempimenti negoziali conseguenti. La limitazione in esame quindi non è illegittima e non pregiudica l’autonomia privata dei concorrenti, trattandosi non di una gara ad oggetto plurimo suddiviso in lotti di diverso contenuto caratterizzati da una propria autonomia - e quindi gestibili in modo diverso dalle imprese aggiudicatarie - bensì di una gara unitaria rivolta alla fornitura di un medesimo servizio in aree territoriali diverse, con conseguente articolazione in lotti - corrispondenti ai diversi soggetti preposti alla tutela della relativa prestazione nei confronti degli utenti finali - che prelude a un sistema di gestione unitario della commessa. Alla stregua delle pregresse considerazioni risulta, dunque, legittima non solo la limitazione del numero massimo di lotti attribuibili allo stesso partecipante (prescrizione volta a favorire la concorrenza ex art. 51, commi 2 e 3, d.lgs. n. 50 del 2016), bensì anche il vincolo di partecipazione ai diversi lotti nella stessa forma e composizione, in quanto volto a garantire sia la corretta competizione fra le offerte riferite ai diversi lotti, sia la piena ed univoca responsabilità dei vincitori per l’adempimento delle specifiche obbligazioni nascenti dalla medesima gara in relazione ai diversi lotti. Tali finalità trovano, pertanto, un ulteriore specifico fondamento, nella fattispecie in esame, nell’esigenza di tutela del diritto alla salute dei pazienti del servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 32 Cost. oltrechè nei principi di imparzialità e buon andamento dell’attività ammnistrativa di cui all’art. 97 Cost. Risultano, inoltre, coerenti con l’invocato principio di libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., che postula un mercato regolato a garanzia del pieno dispiegarsi del principio di libera concorrenza, principio che peraltro trova, in questo caso, specifica tutela proprio nelle regole di gara ora esaminate, e in particolare nel limite di aggiudicazione di due lotti rispetto ai sei messi in gara, trattandosi di regole volte a consentire alle imprese new comers di concorrere ad armi pari con gli operatori economici dominanti di uno specifico segmento di mercato, con potenziali evidenti ricadute positive sulla qualità del servizio e sul suo costo posto a carico della comunità.
Contratti della Pubblica amministrazione
Imposte e tasse – Imposta sul reddito delle società (Ires) - Art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. n. 112 del 2008 – Addizionale – Applicata agli operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente – Violazione artt. 3 e 53 Cost. - Declaratoria di incostituzionalità con sentenza n. 10 del 2015 - Effetti  dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015.            Ha effetti dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015), e dunque a partire dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015, la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, l. 6 agosto 2008 n. 133 (che ha imposto un prelievo fiscale ulteriore, nell’ambito dell’imposta sul reddito delle società - IRES, qualificato come addizionale, cd. “Robin Hood Tax”, pari al 5,5% da applicarsi ad alcuni operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente) per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. per vizio di irragionevolezza, in relazione all’incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi; pertanto, diversamente da quello che accade ordinariamente a seguito di una pronuncia d’incostituzionalità, la cessazione di efficacia della disposizione fiscale ha operato ex nunc, continuando perciò il tributo ad applicarsi se “sorto in relazione a presupposti avvenuti durante il suo vigore” (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che con la sentenza n. 10 del 2015 la Corte costituzionale ‒ chiamata a pronunciarsi in ordine all’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, l. 6 agosto 2008 n. 133, in relazione a svariati parametri ‒ ha valutato come infondate le questioni sollevate in relazione agli artt. 77, secondo comma, e 23 Cost., incentrate, rispettivamente, sull’illegittimo utilizzo del decreto-legge in assenza dei motivi di necessità e urgenza e sulla riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, pervenendo invece al giudizio d’incostituzionalità della normativa impugnata per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.; le ragioni dell’incostituzionalità sono state individuate in un «vizio di irragionevolezza», in relazione all’«incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito».  Il fine era quello di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi per varie ragioni, sia per le caratteristiche strutturali del mercato (in ragione del suo carattere oligopolistico e della natura inelastica della domanda), sia perché tra il 2007 e il 2008 gli operatori della filiera avevano registrato profitti record, grazie al rapidissimo aumento del prezzo del greggio.  Sennonché, secondo la Corte, tale giustificazione del prelievo aggiuntivo– colpire i “sovra­profitti” conseguiti da una particolare categoria di soggetti in una particolare congiuntura economica – avrebbe dovuto tradursi nella previsione di un’imposta la cui struttura fosse coerente con quell’intento.  Sintomi della non congruenza del mezzo rispetto allo scopo sono stati invece individuati: nella base imponibile, costituita dall’intero reddito anziché dai soli “sovra­profitti”; nella durata permanente, anziché contingente, dell’addizionale, «che non appare in alcun modo circoscritta a uno o più periodi di imposta, né risulta ancorata al permanere della situazione congiunturale, che tuttavia è addotta come sua ragione»; nell’inidoneità a conseguire le dichiarate finalità solidaristiche e redistributive derivante dall’«obiettiva difficoltà di isolare […] la parte di prezzo praticato dovuta a traslazioni dell’imposta» (testimoniata dalle affermazioni della stessa Autorità garante in sede di Relazione al Parlamento) e quindi di sanzionare coloro che avessero scaricato l’onere impositivo sul prezzo al consumo.  In ragione delle conseguenze pratiche dell’accoglimento della questione, la Corte ha tuttavia deciso di limitare nel tempo gli effetti della sua pronuncia di accoglimento. Secondo il giudice delle leggi, il ruolo affidatogli «come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, “effetti ancor più incompatibili con la Costituzione” (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro».  Su queste basi, la Corte ha aggiunto che, nel caso di specie, “’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.” e che “l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime”. La rimozione retroattiva della normativa impugnata ingenererebbe inoltre una “irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole” con un conseguente “irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” e un “indebito vantaggio che alcuni operatori economici del settore”, pregiudizievole degli artt. 3 e 53 Cost..  Conclusivamente, dopo aver fatto cenno alla comparazione con alcune Corti costituzionali europee per le quali il contenimento degli effetti retroattivi delle sentenze di accoglimento costituisce «prassi diffusa», la Corte ha ritenuto «costituzionalmente necessaria» disporre la decorrenza degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015).  La pronuncia della Corte costituzionale in commento non si configura nei termini di un’incostituzionalità “sopravvenuta” (la quale, a rigore, si verifica quando una determinata disciplina, conforme al dettato costituzionale al momento della sua entrata in vigore, è divenuta incostituzionale solo successivamente, a seguito del sopraggiungere di avvenimenti posteriori), bensì limita l’efficacia retroattiva della incostituzionalità realizzatasi ab origine, attraverso un bilanciamento tra valori o principi costituzionali, nella considerazione che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge, nel tutelare e garantire certi valori, produrrebbe contemporaneamente effetti negativi rispetto ad altri valori, anch’essi meritevoli di tutela a livello costituzionale.  Si tratta, in definitiva, di una sentenza manipolativa in senso “diacronico” che differisce l’efficacia della propria pronuncia al fine di realizzare il minore sacrificio possibile per i differenti valori in giuoco.  Si prospetta davanti ai giudici comuni una divaricazione tra applicazione della norma ed applicazione della sentenza. Rispetto alle disposizioni che stabiliscono che la norma dichiarata incostituzionale non può trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale (in base all’art. 136 Cost., quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”; l’art. 30, comma 3, l. n. 87 del 1953 precisa che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), la Corte costituzionale ha introdotto una deroga che limita la normale “retroattività” della pronuncia di incostituzionalità sulla base di un’operazione di bilanciamento tra differenti valori, tendente ad evitare l’eccessivo sacrificio di uno tra questi e la creazione di una situazione di maggiore incostituzionalità.  Il risultato di richiedere che la norma dichiarata incostituzionale venga cionondimeno ancora applicata nei giudizi pendenti, non appare al Collegio foriera di una violazione dell’art. 101, secondo comma, della Costituzione per il quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, in quanto l’obbligo di soggezione alla legge cessa soltanto di fronte a una legge “dichiarata” (anche nel tempo) incostituzionale dal giudice delle leggi.  Né può dirsi che il rispetto della motivazione della sentenza n. 10 del 2015 si ponga in contrasto con il principio costituzionale enunciato dall’art. 24 Cost., che riconosce il diritto d’azione, frustrato dall’eventuale applicazione di una norma riconosciuta come incostituzionale, dal momento che tale esito è il frutto di un bilanciamento tra principi costituzionali e regole processuali, giustificato dall’impellente necessità di tutelare valori costituzionali i quali, altrimenti, sarebbero risultati compromessi da una decisione di mero accoglimento, e dalla circostanza che la compressione degli effetti retroattivi è stata limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco. ​​​​​​​
Imposte e tasse
Giustizia amministrativa – Sospensione impropria - Questione di legittimità costituzionale - Nel processo amministrativo trova ingresso la sospensione impropria del giudizio principale, stante la pendenza della questione di legittimità costituzionale di una norma sollevata in una diversa causa. Ai fini della prosecuzione del giudizio sospeso, deve essere presentata l’istanza di fissazione di udienza entro il termine decadenziale di 90 giorni, decorrenti dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del provvedimento della Corte costituzionale, pena l’estinzione del giudizio, ex art. 35, comma 2, lett. a), c.p.a.
Giustizia amministrativa
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze da remoto – Certificato di test antigenico di positività al Covid-19 – Insufficienza ex se.     Non è possibile accogliere l’istanza di discussione da remoto della causa motivata con l’esibizione di un certificato di test antigenico di positività al Covid-19, che non è da solo sufficiente a documentare l’impedimento oggettivo di partecipazione in presenza (1).     (1) Ha ricordato il C.g.a. che il certificato di test antigenico di positività al Covid di uno dei difensori non è da solo sufficiente a documentare l’impedimento oggettivo di partecipazione in, atteso che in base alla circolare del ministero della salute del 30 dicembre 2021 le regole sulla durata della quarantena differiscono in base alle diverse situazioni concrete (presenza o assenza di sintomi; avvenuta vaccinazione e numero di dosi vaccinali, tempo della vaccinazione). ​​​​​​​Ha aggiunto il decreto che nella specie i difensori della parte erano due con la conseguenza che l’impedimento di uno solo non impedisce la discussione dell’altro né sussiste un diritto della parte alla discussione di tutti i difensori, in quanto il diritto di difesa è sufficientemente garantito dalla possibilità che uno dei difensori possa discutere oralmente   
Processo amministrativo
Edilizia – Permesso di costruire – Destinatari – Individuazione.  Edilizia – Permesso di costruire – Legittimazione del richiedente – Verifica – Limiti.                        Ai sensi dell’art. 11, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo, e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario (1)            L’onere di verifica del Comune sulla legittimazione a richiedere il permesso di costruire, di cui all’art. 11, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, assume connotati differenti a seconda che la detta legittimazione si fondi sulla titolarità di un diritto reale, ovvero attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire.     (1) Ha chiarito la Sezione che ciò comporta, per un verso, che chi richiede il titolo autorizzatorio edilizio deve comprovare la propria legittimazione all’istanza, per altro verso, che è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fondi una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio. Tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza, con la conseguenza che l’Amministrazione, quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico sulla “pienezza” del titolo di legittimazione addotto dal richiedente.   
Edilizia
Giurisdizione – Risarcimento danni – Conseguente ad annullamento di una variante e dei conseguenti permessi di costruire – Rimessione All’Adunanza plenaria.                 Devono essere rimesse all’Adunanza plenaria le questioni se: a) sussista la giurisdizione amministrativa sulla domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno, formulata dall’avente causa del destinatario di una variante urbanistica, quando entrambi siano risultati soccombenti in un giudizio amministrativo, proposto dal vicino, all’esito del quale sia stata annullata per vizi propri la medesima variante e siano stati annullati per illegittimità derivata i conseguenti permessi di costruire – e, più in generale, se sussista sempre la giurisdizione amministrativa quando – su domanda del ricorrente vittorioso o su domanda del controinteressato soccombente (che proponga un ricorso incidentale condizionato o un ricorso autonomo) – si debba verificare se il vizio di un provvedimento autoritativo, oltre a comportare il suo annullamento, abbia conseguenze sul piano risarcitorio); b) qualora sussista la giurisdizione amministrativa sulla domanda sub a) del controinteressato soccombente, quando sia giuridicamente configurabile un affidamento ‘incolpevole’ che possa essere posto a base di una domanda risarcitoria, anche in relazione al fattore ‘tempo’; c) qualora sussista la giurisdizione amministrativa e quand’anche si sia in presenza di un affidamento ‘incolpevole’ del controinteressato soccombente, quando si possa escludere la rimproverabilità dell’Amministrazione (1).    (1) La Sezione ha dato atto che sulla questione è insorto un contrasto di giurisprudenza sia tra i giudici ordinari che tra quelli amministrativi.  Le tre ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato la giurisdizione del giudice civile nelle controversie avente per oggetto le domande risarcitorie formulate: - dal beneficiario di una concessione edilizia poi legittimamente annullata in sede di autotutela, il quale lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6594 del 2011); - da chi aveva ottenuto dapprima una attestazione sull’edificabilità di un’area (utile per valutare la convenienza di un acquisto, rivelatasi insussistente) e poi una concessione edilizia legittimamente annullata in sede giurisdizionale, il quale anche in tal caso lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6595 del 2011); - da chi aveva ottenuto una aggiudicazione di una gara d’appalto di un pubblico servizio, annullata in sede giurisdizionale, il quale anche in tal caso lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6596 del 2011).   Le Sezioni Unite hanno superato il proprio precedente orientamento (la sentenza n. 8511 del 2009), per il quale – per la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa – rileva la riconducibilità della controversia ad una delle materie indicate dalla legge, rientrandovi anche tutte le controversie di natura risarcitoria; hanno evidenziato che chi aveva proposto le domande risarcitorie non poneva in discussione la legittimità degli atti di annullamento (in via amministrativa o giurisdizionale) di quelli ampliativi della loro sfera giuridica (questione ovviamente esaminabile dal giudice avente giurisdizione sugli atti autoritativi, e cioè dal giudice amministrativo, che peraltro in almeno due dei casi sopra indicati aveva annullato gli atti impugnati), ma lamentava la ‘lesione dell’affidamento’ riposto nella legittimità degli atti annullati e chiedeva il risarcimento dei danni subiti per aver orientato sulla base di questi le proprie scelte negoziali o imprenditoriali; hanno ritenuto che sarebbe ravvisabile un ‘diritto all’integrità del patrimonio’, la cui lesione, cagionata con la ‘lesione dell’affidamento’, determinerebbe la sussistenza della giurisdizione del giudice civile.   Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno poi affermato principi anche divergenti da quelli posti a base delle citate ordinanze del 2011.   Alcune pronunce (nn. 17586/2015, 12799/2017, 15640/2017, 19171/2017, 1654/2018, 4996/2018, 22435/2018, 32365/2018, 4889/2019, 6885/2019 e 12635/2019) si sono poste in linea di continuità con le ordinanze del 2011 ed hanno affermato che: a) la controversia sulla domanda risarcitoria formulata da chi abbia fatto ‘incolpevole affidamento’ su di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, successivamente annullato, rientrerebbe nella giurisdizione del giudice civile, perché avrebbe ad oggetto la lesione non già di un interesse legittimo, bensì di un diritto soggettivo; b) tale diritto sarebbe quello alla ‘conservazione dell'integrità del patrimonio’, leso dalle scelte compiute confidando nella legittimità del provvedimento amministrativo poi annullato.   Altre pronunce delle Sezioni Unite, invece, hanno affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa: - per Sez. Un., n. 8057 del 2016, “l'azione amministrativa illegittima - composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi - non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare, essendo controverso l'agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l'affidamento costituisce un riflesso, privo di incidenza sulla giurisdizione”; - per Sez. Un., n. 13454 del 2017, “la giurisdizione esclusiva prevede la cognizione, da parte del giudice amministrativo, sia delle controversie relative ad interessi legittimi della fase pubblicistica, sia delle controversie di carattere risarcitorio originate dalla caducazione di provvedimenti della fase predetta, realizzandosi quella situazione d'interferenza tra diritti ed interessi, tra momenti di diritto comune e di esplicazione del potere che si pongono a fondamento costituzionale delle aree conferite alla cognizione del giudice amministrativo, riguardo ad atti e comportamenti assunti prima dell'aggiudicazione o nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e la mancata stipula del contratto”; - per Sez. Un., n. 13194 del 2018, i principi fissati nelle ordinanze del 2011 non sono applicabili quando non vi sia stato un provvedimento ampliativo della altrui sfera giuridica.  Anche la giurisprudenza del giudice amministrativo è divisa sul punto, atteso che in alcune pronunce (cfr. Cons. St., sez. V, 27 settembre 2016, n. 3997; id., sez. IV, 25 gennaio 2017, n. 293, e 20 dicembre 2017, n. 5980; id., sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5011) si è aderito alla traiettoria argomentativa sostenuta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con le ordinanze del 32 marzo 2011, numeri 6594, 6595 e 6596, e con altre ordinanze (4 settembre 2015, n. 17586, 22 maggio 2017, n. 12799; 22 giugno 2017, n. 15640, 2 agosto 2017, n. 19171, 23 gennaio 2018, n. 1654, 2 marzo 2018, n. 4996, 24 settembre 2018, n. 22435, 13 dicembre 2018, n. 32365, 19 febbraio 2019, n. 4889, 8 marzo 2019, n. 6885, 13 maggio 2019, n. 12635, e 28 aprile 2020, n. 8236) si è affermato che la domanda risarcitoria proposta nei confronti della pubblica amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria (anche nelle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione del diritto soggettivo alla sua integrità patrimoniale oppure (più recentemente) di una lesione all’affidamento incolpevole quale situazione giuridica soggettiva autonoma, dove l’esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento.   Per contro, in altre pronunce (Cons. St., sez. V, 23 febbraio 2015, n. 857; Tar Pescara 20 giugno 2012, n. 312) si è affermato che, nelle materie di giurisdizione amministrativa esclusiva, le domande relative al risarcimento del danno da lesione dell’affidamento riposto sulla legittimità dei provvedimenti successivamente annullati rientrerebbero nell’ambito della cognizione del giudice amministrativo; in tal senso si sono peraltro espresse le sezioni unite della Corte di cassazione con le ordinanze 21 aprile 2016, n. 8057 e 29 maggio 2017, n. 13454 (per l’ipotesi di annullamento in autotutela di provvedimento di affidamento di sevizio pubblico)”.  La Sezione – nel rimettere all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione di giurisdizione – ritiene che in linea di principio si dovrebbe affermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, ai sensi degli artt. 7 e 133 c.p.a., potendo non risultare convincenti le considerazioni sostanziali e quelle processuali poste a base del ‘primo orientamento’.  L’interesse legittimo pretensivo esprime, ad un tempo, sia l’interesse sostanziale rappresentato dalla pretesa ad ottenere un ‘bene della vita’, sia l’interesse procedimentale per cui il provvedimento finale sia emanato seguendo il procedimento previsto dalla legge. Non si tratta di un mero interesse ‘occasionalmente protetto’ (adoperando una espressione tipica degli albori della giustizia amministrativa), cioè protetto per il tramite della tutela primaria della legalità amministrativa, bensì di una situazione giuridica immediata, diretta, concreta e personale del privato (per i relativi approfondimenti, v. anche la sentenza n. 7 del 2021 dell’Adunanza Plenaria). Può risultare dunque artificioso il sovrapporre a una tale posizione giuridica soggettiva – riferibile ad un rapporto di diritto pubblico tra il richiedente e l’Amministrazione - una diversa situazione sostanziale (da richiamare per individuare una ‘diversa’ giurisdizione), basata sul principio del neminem laedere (il cui ambito di efficacia prescinde dalla esistenza di un preesistente rapporto tra danneggiante e danneggiato) o anche su un ‘contatto sociale’ (categoria che può giustificare nell’ambito della giurisdizione civile la soluzione secondo giustizia di determinate tipologie di controversie senza alterare i criteri di riparto della giurisdizione, ma che di per sé è incongruamente richiamata quando si tratti dell’esercizio o del mancato esercizio del pubblico potere, come ha chiaramente evidenziato anche la citata sentenza n. 7 del 2021 dell’Adunanza Plenaria). Ha aggiunto la Sezione che allorquando sia stato annullato l’atto abilitativo e dunque non sia più configurabile il diritto ad esso conseguente, l’originario richiedente torna ad essere titolare di un interesse legittimo. In fondo, si tratta del ripristino della dinamica delle posizioni giuridiche, già segnalata dalla sez. II, con l’ordinanza n. 2013 del 2021:  il ricorrente ed il controinteressato, beneficiario in quanto tale dell’atto abilitativo impugnato, sono titolari di contrapposti interessi legittimi nel corso del procedimento, sicché – una volta che la sentenza amministrativa abbia annullato il titolo abilitativo – il controinteressato non risulta più titolare del diritto che era sorto con l’atto ormai annullato. In altri termini, il controinteressato soccombente va qualificato come titolare di una posizione soggettiva contrapposta e speculare a quella del ricorrente vittorioso, in un quadro nel quale tra di loro e nei confronti dell’Amministrazione non vi sono diritti soggettivi da fare valere.   Qualora il controinteressato soccombente nel giudizio di legittimità intenda formulare una domanda risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione anch’essa soccombente, la relativa causa petendi riguarda proprio il come è stato in precedenza esercitato il potere amministrativo e si deve verificare se il vizio dell’atto – oltre ad aver comportato il suo annullamento – deve avere conseguenze sul piano risarcitorio.  Per un principio di simmetria, la lesione arrecata all’interesse legittimo è configurabile sia quando l’istanza non sia accolta e vi sia un diniego poi annullato su ricorso del richiedente, sia quando l’istanza sia accolta e il titolo abilitativo sia annullato su ricorso di chi vi abbia interesse. In entrambi i casi, non sono ravvisabili (ab origine o a seguito dell’atto o della sentenza di annullamento) diritti soggettivi e rileva l’art. 7, comma 1, c.p.a., per il quale ‘sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni’.  La pretesa risarcitoria – quando si basa su quanto è accaduto in sede di esercizio del potere amministrativo ‘autoritativo’ o nel corso del procedimento amministrativo – non è riconducibile ad un comportamento o a una condotta di rilievo privatistico o svolta ‘in via di mero fatto’ e che potrebbe essere serbata da un quisque de populo in spregio al principio del neminem laedere, ma si duole dell’esercizio (o del mancato esercizio) del potere amministrativo, disciplinato dal diritto pubblico: a) sotto l’aspetto soggettivo, si tratta di provvedimenti e di attività della pubblica Amministrazione; b) sotto l’aspetto oggettivo, si tratta di poteri disciplinati dalla l. n. 241 del 1990 e dalle altre leggi amministrative; c) sotto l’aspetto funzionale, si tratta di verificare le conseguenze dell’illegittimo esercizio del potere. Sotto l’aspetto normativo, la domanda risarcitoria - nel caso in esame – si basa non sulla illiceità di un ‘comportamento’ (comunque riconducibile all’esercizio del potere), bensì sull’emanazione sia pure illegittima del provvedimento autoritativo, con la conseguente applicazione degli artt. 7, comma 1, e 133, comma 1, lettera f), c.p.a., per il quale sussiste la giurisdizione esclusiva sulla medesima domanda risarcitoria: è ben difficile sostenere che la domanda risarcitoria non abbia per ‘oggetto’ il ‘come’ sia stato esercitato il potere amministrativo con il provvedimento annullato (e nella materia urbanistica, nel caso in esame), per i chiari enunciati degli artt. 7 e 133 c.p.a..  A questo proposito, la menzionata ordinanza n. 2013 del 2021 della Sezione Seconda del Consiglio di Stato ha già osservato che è prioritario qualificare l’illecito in senso logico ed eziologico, anziché in senso meramente cronologico (“atteso che l’ordinamento attribuisce, in ossequio al principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, alla cognizione del giudice amministrativo tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’amministrazione e che la circostanza che il danno non sia direttamente cagionato dal provvedimento, ma derivi dal suo annullamento, attiene soltanto al piano cronologico e non, per contro, a quello logico ed eziologico, stante la riconducibilità diretta del pregiudizio al provvedimento amministrativo”). Il criterio di riparto della giurisdizione, che trascina con sé la cognizione sull’azione risarcitoria intesa come tecnica di tutela e non come autonoma materia a sua volta da ripartire, non si basa sulla satisfattività o meno della situazione soggettiva, ma sulla sua natura giuridica (“In sostanza, l’orientamento favorevole alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria si basa sul presupposto per cui vi sarebbe l’interesse legittimo soltanto a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non dinanzi all’illegittimo ‒ e, pertanto, necessariamente instabile ‒ riconoscimento di siffatto bene. Quest’impostazione, tuttavia, non appare in sintonia con il generale criterio di riparto sancito dalla Costituzione che non condiziona la natura delle situazioni soggettive (diritto soggettivo/interesse legittimo), rilevante per la concreta applicazione del criterio, al carattere satisfattivo o non satisfattivo del provvedimento amministrativo”).  Ragioni di coerenza sistematica – di per sé rilevanti anche per ravvisare la ragionevolezza delle soluzioni legislative (o delle loro esegesi), ponendosi altrimenti serie questioni di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 97 e 103 Cost. – sembrano imporre di ritenere che – una volta annullato un atto abilitativo – il giudice amministrativo ha giurisdizione su ogni domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’Amministrazione: - quella formulata da quel vicino che impugni il permesso di costruire (con il medesimo ricorso introduttivo o con una domanda proposta dopo la sentenza di annullamento); - quella formulata dal titolare del permesso di costruire, che sia la parte controinteressata nel giudizio di cognizione proposto contro tale provvedimento (con un ricorso incidentale condizionato all’accoglimento eventuale dalla domanda di annullamento o – come nel caso di specie – con un ricorso autonomo dopo l’annullamento del permesso). Affermare la sussistenza della giurisdizione del giudice civile sembra dunque contrastare anche con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, per la quale il giudice amministrativo è il ‘giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica’: tale funzione si deve necessariamente sindacare quando si esamina la domanda risarcitoria, formulata dal controinteressato risultato soccombente nel giudizio amministrativo di legittimità.  D’altra parte, qualora fosse ravvisata la giurisdizione del giudice civile, risulterebbe sottratta al giudice amministrativo la cognizione di controversie di indubbia natura pubblicistica, anche con l’inconveniente per il quale un altro ordine giurisdizionale – in disarmonia con gli artt. 7 e 133 c.p.c. - dovrebbe per di più esaminare la portata ed il significato anche conformativo delle pronunce del giudice amministrativo, se non altro allo scopo di qualificare i fatti e di ravvisare la sussistenza o meno degli elementi costitutivi di un illecito, di cui un elemento decisivo da valutare è proprio il decisum della sentenza di annullamento emessa dal giudice amministrativo per verificare se in concreto vi sia una rimproverabilità eccedente la mera illegittimità dell’atto.    Ha ancora affermato la Sezione non qualsivoglia affidamento del privato può essere posto a base di una domanda risarcitoria, per il solo fatto dell’annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole. Infatti, occorrerebbe sempre tenere conto delle peculiarità della fattispecie concreta, da apprezzarsi caso per caso, alla luce degli accadimenti effettivamente svoltisi nel corso del procedimento amministrativo e tenendo conto delle modalità con cui è stata presentata l’istanza poi accolta dall’Amministrazione con l’atto poi annullato. 
Giurisdizione
Università degli studi - Professore ordinario e associato – Trattamento economico - Blocco degli scatti stipendiali quinquennio 2011-2015 – Compensazione con importo una tantum - Art. 1, comma 629, l. n. 205 del 2017 – Questione di legittimità costituzionale - Manifesta infondatezza       E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 629, l. 27 dicembre 2017, n. 205 che riconosce un importo una tantum a parziale compensazione del blocco degli scatti stipendiali subito dai professori e ricercatori universitari del quinquennio 2011-2015 per effetto del d.l. n. 78 del 2010 e successive proroghe, solo ai professori e ricercatori che erano ancora in servizio alla data di entrata in vigore della legge (1 gennaio 2018) poiché rappresenta il massimo sforzo che il legislatore abbia potuto compiere, la provvidenza sorgendo già con una genetica portata limitativa, che traspare dall’essere la stessa solo una “parziale” compensazione e non pare porsi in contrasto con il principio di uguaglianza evocato da parte ricorrente, neppure con riguardo alla restrittività che la caratterizza “e latere subiecti” (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che la situazione soggettiva dei docenti e ricercatori ancora in servizio alla data di entrata in vigore della legge (1.1.2018) non può, infatti, considerarsi sovrapponibile a quella dei colleghi che a quella data interviene successivamente, preso atto della fine della congiuntura che aveva determinato quella scelta e con un contrarius actus di pari livello legislativo (art. 1, co. 629, L. n. 205/2017) ritiene di poter fare uno sforzo per compensare, ma solo parzialmente, coloro che erano stati pregiudicati dalla precedente legge. Tale opzione legislativa limitativa non appare irragionevole al lume dell’art. 3 della Costituzione poiché intanto rappresenta il massimo sforzo che il legislatore abbia potuto compiere, la provvidenza sorgendo già con una genetica portata limitativa, che traspare dall’essere la stessa solo una “parziale” compensazione per i docenti che a quella data erano cessasti dal servizio attivo e collocati in quiescenza. Inoltre, tra le due figure di soggetti poste a confronto ai fini della formulazione di una diagnosi di violazione del principio di uguaglianza ex art.. 3 Cost. non si ravvisa una equivalenza, di talché possa dirsi che il legislatore ha discriminato due posizioni poste sullo stesso piano e versanti nella medesima condizione. I professori in quiescenza non prestano più servizio attivo per l’Amministrazione Universitaria là dove i docenti ancora in servizio forniscono una utilitas all’amministrazione e per essa alla collettività. Altro profilo differenziale tra i docenti in servizio e quelli in quiescenza risiede nella circostanza che i primi vantano un credito nei confronti dell’Istituzione universitaria per la quale prestano servizio, là dove i secondi hanno un diritto di credito verso l’istituto previdenziale. Ha ancora  chiarito la sezione che non è illegittimo l’art. 3, lett. b) del d.m. 2 marzo 2018, n.197/2018 che subordina il riconoscimento dell’una tantum all’ottenimento della positiva valutazione ai sensi dell’art. 6, co. 14 della Legge Gelmini.n. 240 del 2010, di riforma del sistema di reclutamento dei docenti universitari, poichè in primis che essa sostanzia una meritevolezza del docente nella comprensibile ottica meritocratica che permea il sistema ed inoltre tale positiva valutazione, nell’impianto della norma che la prescrive, ossia l’art. 6. co. 14 della l. n. 240/2010, è funzionale proprio all’attribuzione ai professori e ricercatori universitari degli scatti triennali, stabilendo che “I professori e i ricercatori sono tenuti a presentare una relazione triennale sul complesso delle attività didattiche, di ricerca e gestionali svolte, unitamente alla richiesta di attribuzione dello scatto stipendiale di cui agli articoli 36 e 38 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, fermo restando quanto previsto in materia dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.”. La norma prosegue poi chiarendo il nesso funzionale che lega la positiva valutazione dei docenti con il riconoscimento degli scatti stipendiali, stabilendo infatti in proposito che “La valutazione del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale ai fini dell'attribuzione degli scatti triennali di cui all'articolo 8 è di competenza delle singole università secondo quanto stabilito nei regolamenti di ateneo. In caso di valutazione negativa, la richiesta di attribuzione dello scatto può essere reiterata dopo che sia trascorso almeno un anno accademico.” Non è illegittima per violazione dell’art. 1, co. 929, L. 27 dicembre 2017, n. 205 la previsione di cui all’art. 2, co.3 del D.M. n. 1 marzo 2018 n.197 attuativo che dispone la riduzione dell’indennità compensativa una tantum de qua (in misura oscillante tra il 20 e il 30% e il 40 e il 50% a seconda che i benefici di cui alla Legge Gelmini siano stati percepiti in una ovvero due annualità) “per coloro che nel periodo 2011-2013 hanno beneficiato degli incentivi una tantum di cui all’articolo 29, comma 19, della legge 30 dicembre 2010, n. 240;” poiché la mancata previsione i tale decurtazione dell’importo una tantum nella L. n. 205/2017, non contravviene all’impianto e alla ratio dell’art. 1, co. 629 della L. n. 205/2017, che si presenta come improntato ad un carattere restrittivo e limitativo della provvidenza da esso stabilita, apprezzabile sotto il profilo soggettivo, prevedendo la norma che il beneficio va riconosciuto solo ai docenti universitari che alla data di entrata in vigore della legge (1.1.2018) fossero ancora in servizio e non in quiescenza e sotto il profilo oggettivo, emergente alla sua dichiarata natura di mera “parziale compensazione” e non di integrale ristoro del pregiudizio derivato ai docenti universitari dal blocco degli scatti stipendiali. ​​​​​​​E ciò non solo per l’armonia e la consonanza normativa appena illustrata, ma anche considerando che i docenti che avevano fruito di utilità economiche premiali in un lasso temporale solo parzialmente coincidente con il periodo del blocco degli scatti stipendiali, erano stato già beneficati dal legislatore e in parte ristorati. 
Università degli studi
Società – Antiriciclaggio – Decreto in materia di dati e informazioni relativi alla titolarità effettiva di imprese – Parere del Consiglio di Stato              Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di decreto in materia di dati e informazioni relativi alla titolarità effettiva di imprese dotate di personalità giuridica, di persone giuridiche private, di trust produttivi di effetti giuridici rilevanti ai fini fiscali e di istituti giuridici affini al trust (1).      (1) Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, recante norme di attuazione dell’art. 21, d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (“Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione”, d’ora in poi DA), come novellato dall’art. 2, comma 1, lett. f), g) ed h), d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 (“Modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi 25 maggio 2017, n. 90 e n. 92, recanti attuazione della direttiva (UE) 2015/849, nonché attuazione della direttiva (UE) 2018/843 che modifica la direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario ai fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e che modifica le direttive 2009/138/CE e 2013/36/UE”).  Ha ricordato la Sezione che l’intervento normativo in argomento, che detta disposizioni attuative, si inserisce nella materia di derivazione eurounitaria della prevenzione dei fenomeni di riciclaggio dei proventi di attività criminosa e di finanziamento del terrorismo nel sistema finanziario.   L’obiettivo di tale prevenzione, già perseguito con la direttiva 2005/60/CE, a partire dalla direttiva (UE) 2015/849, è stato rafforzato mediante la previsione del “disvelamento” della titolarità effettiva della clientela quando, ad entrare in contatto con gli operatori finanziari, che sono i soggetti obbligati destinatari delle  disposizioni antiriciclaggio, non sono persone fisiche, ma società ed altre entità giuridiche, oltre a trust e istituti affini. Il rafforzamento è stato perfezionato ed  implementato con la direttiva di modifica (UE) 2018/843.  Con la direttiva del 2015, e con le incisive integrazioni apportate dalla direttiva del 2018, il “disvelamento” è stato perseguito, non più solo attraverso gli obblighi  in capo alla clientela di acquisire e conservare informazioni inerenti la propria titolarità effettiva e attraverso le verifiche degli operatori finanziari rispetto alla loro clientela; bensì, con un nuovo strumento volto alla trasparenza e alla conoscibilità, entro determinate condizioni, dei dati e delle informazioni che concernono la titolarità effettiva della clientela. Lo strumento è costituito da un registro centrale nazionale dove confluiscono tali dati – interconnesso con quelli degli altri Paesi membri – che è il registro dei titolari effettivi dei soggetti clienti da “disvelare”, costituiti dalle “società ed altre entità giuridiche” (art. 30), nonché dai trust e istituti giuridici affini (art. 31).  La trasparenza e conoscibilità dei dati e delle informazioni concernenti la titolarità effettiva è stata oggetto di una marcata modifica con la direttiva del 2018.  Il tratto essenziale in tale direzione è individuabile nella disciplina dell’accesso.  L’accesso verso i dati delle società e delle altre entità giuridiche era previsto: senza restrizioni rispetto alle Autorità; nel quadro di un’adeguata verifica della  clientela, in favore degli operatori finanziari; subordinatamente alla dimostrazione di un legittimo interesse, rispetto a qualunque “persona o organizzazione”, con possibili deroghe all’accesso in casi eccezionali di grave rischio per il titolare effettivo. L’accesso verso i dati dei trust e degli istituti affini era previsto solo a favore delle Autorità e dei soggetti obbligati alle stesse condizioni.  Con le modifiche del 2018, ferma la regolamentazione a favore delle Autorità e dei soggetti obbligati: a) l’accesso ai dati delle società e delle altre entità giuridiche è stato previsto “in ogni caso” a favore del “pubblico”; b) l’accesso ai  dati dei trust e degli istituti affini è stato previsto a favore di qualunque persona fisica o giuridica richiedente, subordinatamente alla dimostrazione di un legittimo interesse; c) è stata confermata la possibile deroga eccezionale in ragione del grave rischio per il titolare effettivo, estendendola all’accesso ai dati dei trust e affini.  In definitiva - salva la permanenza della possibilità di deroghe eccezionali, a tutela del soggetto controinteressato da disvelare - per garantire la conoscibilità e la trasparenza dei dati sulla titolarità effettiva, è stata fatta cadere per il “pubblico” ogni restrizione di accesso ai dati delle società e delle altre entità giuridiche di cui si chieda il disvelamento; mentre, la necessità della dimostrazione dell’interesse alla conoscenza è stata limitata unicamente alla richiesta di accesso delle persone fisiche e giuridiche relativa ai dati di trust e affini.  L’Italia ha provveduto alla attuazione della direttiva del 2015 con il d.lgs. n. 90  del 25 maggio 2017, il cui art. 2, comma 1, ha, per quanto di interesse, sostituito  l’originario art. 21 del DA. Poi, in esito ad una procedura di infrazione del 2019, ha provveduto all’attuazione della direttiva del 2018 con il d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125, il cui art. 2, comma 1, ha, per quanto di interesse, novellato l’art. 21 del DA, la cui attuazione è ora all’esame della Sezione.  Si tratta, quindi, di norme di attuazione di disposizioni legislative di diretta derivazione eurounitaria in una materia connotata dal perseguimento di rilevanti interessi pubblici generali, quali la prevenzione e il contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, attraverso l’accesso alle informazioni sulla titolarità effettiva delle società e di altri soggetti ed istituti giuridici e, nel contempo, dalla necessaria ricerca del giusto equilibrio tra gli interessi pubblici perseguiti e i diritti fondamentali delle persone interessate dalla divulgazione dei dati.
Società
Giurisdizione – Concessione amministrativa - Concessione autostradale - Pretese patrimoniali attinenti all’esecuzione del rapporto contrattuale – Controversia – Giurisdizione giudice ordinario.      Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice dei diritti, la controversia avente ad oggetto la rivendicazione di pretese patrimoniali attinenti all’esecuzione del rapporto contrattuale sotteso ad una concessione autostradale, disciplinata dalla relativa convenzione (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che - secondo il noto criterio del petitum sostanziale ai fini dell’individuazione del giudice munito di giurisdizione (Cass. civ., S.U., 8 luglio 2020, n. 14231; id. 23 aprile 2020, n. 8098; Cons. St., sez. III, 24 marzo 2020, n. 2071) nella specie sussiste il difetto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo perché parte ricorrente, al di là della formale domanda di annullamento di atti amministrativi, deduce rivendicazioni di ordine economico lamentando soprattutto la violazione di norme convenzionali (artt. 4, 11, 21, 29, 33 e allegato B) del c.c. (1175, 1337, 1366, 1375) oltre che di diritto privato speciale (art. 132, 142-149, d.lgs. n. 163 del 2006). La controversia attiene pertanto a pretese di carattere patrimoniale aventi natura di diritti soggettivi nell’ambito del rapporto contrattuale tra il ministero concedente e la società titolare di concessioni autostradali, distinto da quello di appalto che lega quest’ultima ai vari operatori economici a cui vengono di volta in volta affidata la realizzazione degli interventi. Posto che le norme sulla giurisdizione non sono derogabili in via pattizia (Cons. St., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 6211), la Sezione si è interrogata sul se la controversia possa rientrare nella fattispecie di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a. secondo cui appartengono al giudice amministrativo “le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché' afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità'”. Ha ricordato che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici o di pubblici servizi, secondo la giurisprudenza, viene meno in quelle ipotesi in cui la materia del contendere si concentri su profili e pretese di natura patrimoniale, relative esclusivamente all'attuazione del rapporto contrattuale o concessorio, senza che venga in gioco l'esercizio di poteri riconducibili, anche indirettamente, alle funzioni pubblicistiche dell'amministrazione (Tar Sardegna sez. I, 25 maggio 2020, n. 292). Nella fase contrattuale, conseguente a quella pubblicistica di affidamento della concessione, concernente l'esecuzione del rapporto la giurisdizione spetta al giudice ordinario quale giudice dei diritti e resta disciplinata dal codice civile (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 20 marzo 2020, n. 203) oltre che oggi dalle norme (artt. 174-178) contenute nel vigente Codice contratti pubblici. ​​​​​​​La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene in rilievo ove il riconoscimento del diritto di credito passi attraverso l’adozione di un provvedimento amministrativo, sussistendo discrezionalità in ordine al riconoscimento del credito vantato dal concessionario (Cons. St., sez. V, 9 settembre 2013, n. 4469). ​​​​​​​
Giurisdizione
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Offerta al prezzo più basso – Taglio delle ali – Calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali – Criterio – Art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 - Individuazione.      In sede di gara pubblica le offerte con identico ribasso poste all’interno delle ali devono, ai fini dell’accantonamento prodromico al calcolo della media, essere considerare secondo la regola del blocco unitario di cui all’art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 (1).    (1) Ha ricordato il Cga che il tema se nell’effettuare l’accantonamento delle ali - propedeutico al calcolo delle medie e alla determinazione della soglia di anomalia - l’Amministrazione sia tenuta a considerare come unica offerta solo le offerte con uguale ribasso a cavallo delle ali ovvero anche le offerte con uguale ribasso all’interno delle ali si è posta, a livello nazionale, nella vigenza dell’art. 86, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 e dell’art. 121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010. Detta questione è stata risolta dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 5 del 19 settembre 2017), che ha aderito al prevalente orientamento secondo cui le offerte di identico ammontare debbono essere accantonate sia nel caso in cui si collochino al margine delle ali che all’interno delle ali (cd. blocco unitario). Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, benché l’iniziale formulazione letterale dell’art. 97 non fosse identica al previgente combinato disposto di cui all’art. 86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 e all’art. 121, d.P.R.  n. 207 del 2010, la giurisprudenza si è attestata nel ritenere che il principio del cd. blocco unitario continuasse a trovare applicazione anche nel vigore del codice del 2016, avendo la nuova norma contenuto e ratio del tutto analoghi a quella precedente, sì da non giustificare, in assenza di norma di inequivoco tenore diverso, il ricorso al diverso criterio c.d. assoluto (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2018, n. 4821). ​​​​​​​  Successivamente, in seguito alle modifiche intervenute a opera dell’art. 1, comma 20, lett. u), n. 3), d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55 (vigenti ratione temporis in base al successivo comma 21), è superata la constatazione dell’Adunanza plenaria (19 settembre 2017, n. 5) circa la diversità di disciplina fra “vecchio” e “nuovo” codice dei contratti pubblici. In base al vigente art. 97, comma 2, lett. a),  d.lgs. n. 50 del 2016 quando, nell’effettuare il calcolo delle offerte da includere nel taglio delle ali, “siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare”, con formulazione analoga a quella contenuta nell’art. 121, d.P.R. n. 207 del 2011, sul quale si è pronunciata l’Adunanza plenaria con la sentenza sopra richiamata del 2017.  La mancanza di una restrizione esplicita della fattispecie, riferita genericamente alle “una o più offerte di eguale valore”, e la locuzione “da accantonare” - diversamente da “accantonate”, che imporrebbe di considerare un elenco già dato di offerte ordinate per valore percentuale, rispetto al quale alla sola estremità potrebbe trovarsi un’offerta identica - manifestano l’intenzione del legislatore di adottare il cd. blocco unitario per le offerte con identico ribasso sia poste a cavallo delle ali, sia all’interno delle ali. Né depone in senso contrario la circostanza che l’art. 97, comma 2, lett. a, faccia riferimento a ”tutte le offerte ammesse” in quanto l’espressione è riferite alla successiva fase della verifica di anomalia del calcolo della media aritmetica dei ribassi non alla fase dell’accantonamento, oggetto della presente controversia. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Campania – Misure restrittive della libera circolazione - Ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania Impugnazione – Comparazione di interessi – Non va sospesa.             Deve essere respinta l’istanza di sospensione dell’Ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania (e dei relativi chiarimenti n. 6 del 14 marzo 2020), contenente misure restrittive della libera circolazione per fronteggiare l’emergenza sanitaria connessa all’epidemia Covid-19, dovendosi accordare prevalenza - nella valutazione dei contrapposti interessi, nell’attuale situazione emergenziale a fronte della limitata compressione della situazione azionata -  alle misure approntate per la tutela della salute pubblica (1).   (1) Il decreto ha evidenziato che l’ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania richiama plurime disposizioni legislative che fondano la base legale del potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate, il che esclude ogni possibile contrasto di dette misure con quelle predisposte per l’intero territorio nazionale. Sul versante del profilo istruttorio e giustificativo rileva il testuale riferimento (ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020) al «rischio di contagio, ormai gravissimo sull’intero territorio regionale» ed al fatto che i «dati che pervengono all’Unità di crisi istituita con Decreto del Presidente della Giunta regionale della Campania, n. 45 del 6 marzo 2020 … dimostrano che, nonostante le misure in precedenza adottate, i numeri di contagio sono in continua e forte crescita nella regione;» (Chiarimento n. 6 del 14 marzo 2020).
Covid-19
Informativa antimafia - White list - Termine – Natura ordinatoria – Conseguenza.  Informativa antimafia - White list - Disciplina - Artt. 89 bis, 91 e 94 d.lgs. n. 159 del 2011 – Violazione artt. 3, 24, 27, 41, 42 e 97 Cost. – Manifesta infondatezza.         Il privato, che ha chiesto alla Prefettura iscrizione in White list può attivarsi in caso di inerzia dell’amministrazione con l’azione ex art. 117 c.p.a. avverso il silenzio e serbato, non avendo il termine per concludere il procedimento natura perentoria  (1).        È manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 27, 41, 42 e 97 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 89 bis, 91 e 94 d.lgs. n. 159 del 2011, sollevata sul rilievo che l’interdittiva prefettizia sarebbe più afflittiva delle misure di prevenzione applicate dall’autorità giudiziaria ed avrebbe una maggiore pervasività, toccando anche quei valori della persona che riguardano onore, dignità e la stessa agibilità sociale, peraltro con forti limitazioni del sindacato giurisdizionale; la questione, infatti, si fonda su un non corretto parallelismo tra le misure di prevenzione patrimoniali, da un lato, e l’informativa antimafia e il diniego di iscrizione in White list, dall’altro (2).    (1) La Sezione ha ricordato che, ai sensi dell’art. 1, comma 52, l. n. 190 del 2012, per le attività imprenditoriali (di cui al comma 53) che il legislatore indica come “maggiormente a rischio di infiltrazione mafiosa”, la comunicazione e l'informazione antimafia liberatoria da acquisire indipendentemente dalle soglie stabilite dal codice di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è obbligatoriamente acquisita dalle stazioni appaltanti attraverso la consultazione, anche in via telematica, dell’apposito elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori istituito presso ogni Prefettura e che all’'iscrizione nell'elenco si applica l' art. 92, commi 2 e 3 , del codice antimafia, di cui al d.lgs. n. 159 del 2011. La Prefettura è tenuta ad effettuare verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell'impresa dall'elenco. L'iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. White list) è disciplinata dagli stessi principi che regolano l'interdittiva antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. La Sezione ha altresì ricordato che le disposizioni relative all'iscrizione nella cd. White list formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia. Anche in relazione al diniego di iscrizione nella White list - iscrizione che presuppone la stessa accertata impermeabilità alla criminalità organizzata - il Prefetto ha l'obbligo di pronunciarsi in via espressa sulla domanda di iscrizione presentatagli dall'impresa interessata, valutando discrezionalmente la sussistenza o meno del tentativo di infiltrazione mafiosa.    Quanto all’inutile decorso del termine previsto per evadere l’istanza del privato di iscrizione in White list, la Sezione ha chiarito che la violazione del termine, non qualificato da alcuna norma come perentorio, non comporta la consumazione del potere in capo all’Autorità procedente e la conseguente illegittimità del provvedimento adottato tardivamente. Né potrebbe assimilarsi il termine per la conclusione del procedimento in questione con il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, non avendo la misura interdittiva, né il diniego di iscrizione in White list, natura giuridica di “sanzione” in senso tecnico e neppure “di fatto”, trattandosi piuttosto dell’esito di un accertamento del possesso da parte dell’imprenditore che aspira a contrattare con la pubblica amministrazione del fondamentale requisito di impermeabilità al pericolo di ingerenze mafiose. Non è pertinente, pertanto, il richiamo alle garanzie previste nel procedimento amministrativo di natura sanzionatoria, in particolare circa la durata del procedimento. Vale la pena ricordare che in questa materia la Corte UE (9 novembre 2017, in C-298/16, § 35), riconoscendo la specialità del procedimento finalizzato all’adozione delle informative antimafia, del tutto diverso da quello sanzionatorio, ha ritenuto, perfino, che l’assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale non costituisce un vulnus al principio di buona amministrazione, perché il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa può soggiacere a restrizioni che "rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi".    (2) Ha affermato la Sezione che l’informativa, pur realizzando una misura di prevenzione in senso lato, in quanto soglia anticipata di tutela dell’ordinamento rispetto alle ingerenze della malavita organizzata nella gestione delle imprese che contrattano con lo Stato e gli enti pubblici, al fine evidente di non consentire alcuna forma di “sostegno” da parte dello Stato neppure indiretto agli affari illeciti dei clan mafiosi, tuttavia è misura finalizzata a produrre effetti nel limitato settore della capacità di agire dell’appaltatore quale soggetto contraente nei contratti pubblici (e/o nelle concessioni). Né è appropriato l’uso dell’espressione secondo cui l’informativa antimafia “comporta la morte dell’impresa”, essendo la limitazione circoscritta ai soli rapporti economici con la P.A., nulla impedendo all’imprenditore di continuare la propria attività nei rapporti con privati. Al contrario, la misura di prevenzione colpisce il soggetto destinatario (e tra questi anche gli “indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso”, a partire dalla l. n. 575 del 1965), raggiunto dal giudizio di pericolosità sociale, con l’imposizione di una serie di obblighi, di fare e di non fare, in varie forme restrittive della sua personalità, di carattere ben più esteso e penetrante, limitandone pesantemente la disponibilità di beni di proprietà o la libertà personale, di iniziativa economica, di circolazione e residenza, etc., e per tali ragioni sia la Corte EDU che la Corte Costituzionale hanno mostrato particolare attenzione ai requisiti di qualità della “base legale” della restrizione e alla tutela dei diritti fondamentali dei destinatari, che non possono essere esposti ad uno “spazio di incontrollabile discrezionalità” e che devono essere individuati come soggetti pericolosi sulla base di “elementi di fatto”, non in modo generico, giustificandosi, tra l’altro, proprio in ragione di tale pervasività, l’opera di progressiva giurisdizionalizzazione di tali misure. Scopo essenziale delle misure di prevenzione personali è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato (anche se non la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato - cfr. Corte EDU, sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, paragrafo 143); ratio delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale - confisca e sequestro – (che la Corte cost. definisce “strumento di contrasto alla criminalità lucrogenetica” ) è quello di “sottrarre alla criminalità organizzata beni e denaro di origine illecita (dimostrata attraverso un classico schema presuntivo), evitando al tempo stesso di subordinare l'ablazione patrimoniale alla necessità di dimostrare, nell'ambito di un processo penale, la precisa derivazione di ogni singolo bene o somma di denaro da un particolare delitto”, sulla base della ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita. ​​​​​​​Così chiarita la ratio delle misure oggetto della pronuncia di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2019 e ribadita la differenza rispetto alla ratio dell’informativa antimafia, che è quella di fornire al Prefetto la possibilità di sconsigliare alla P.A. l’instaurazione di un rapporto con la società sulla base di un prudente apprezzamento, con ogni intuibile conseguenza sul piano della diversa incisività degli effetti nella sfera dei diritti fondamentali, è palese la non sostenibilità della violazione di principi costituzionali.
Informativa antimafia
Processo amministrativo – Intervento – Ad opponendum – Presupposti – Individazione.    Informativa antimafia - Contributi e finanziamenti - Clausola di salvaguardia ex art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – Applicabilità – Esclusione.              Non è sufficiente a consentire l'istanza di intervento ad opponendum la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell'ambito del giudizio (1).              La salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli artt. 92, comma 3 (secondo cui i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all'art. 67 sono corrisposti sotto “condizione risolutiva” di una eventuale informazione antimafia positiva intervenuta successivamente al pagamento), e 94, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture (2).      La questione è stata rimessa dalla sez. III con sentenza non definitiva 23 dicembre 2019, n. 8672.   (1) Cons. Stato, A.P., 27 febbraio 2019, n. 4; id. 30 agosto 2018, n. 13; id. 4 novembre 2016, n. 23. Si è chiarito (Cons. Stato, A.P., n. 23 del 2016) che "laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l'intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall'oggetto specifico del giudizio cui l'intervento si riferisce".  Non a caso, del resto, in base ad un orientamento del tutto consolidato della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, sez. IV, 30 giugno 2020, n. 4134; id., sez. V, 1 aprile 2019, n. 2123; C.g.a. 1 aprile 2019, n. 301), nel processo amministrativo l'intervento, ad adiuvandum o ad opponendum, può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale. Tali considerazioni non mutano per il solo fatto che il Giudice innanzi al quale pende il giudizio, in cui è parte chi (successivamente) spiega intervento innanzi all’Adunanza Plenaria, abbia ritenuto di disporre la sospensione del medesimo, in attesa della enunciazione del principio di diritto, cui conformare la propria successiva pronuncia. Si tratta, in questo caso, di sospensione disposta dal Giudice, ai sensi degli artt. 79, comma 1, c.p.a. e 295 c.p.c.., che, per un verso, è sorretta da ponderate ragioni di opportunità e, per altro verso, non incide direttamente sul thema decidendum, ma consente al medesimo Giudice di vagliare gli approdi cui perviene l’Adunanza Plenaria in funzione nomofilattica. Ciò, per di più, senza che la pronuncia attesa possa inevitabilmente condizionare l’esito del giudizio in cui è parte chi ha spiegato intervento, ben potendo il Giudice di tale controversia non condividere il principio di diritto enunciato e disporre ai sensi dell’art. 97, comma 3, c.p.a..    (2) L’Adunanza Plenaria ha ritenuto che la salvezza del “pagamento delle opere già eseguite e il rimborso del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, di cui agli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, vada riferita solo al recesso dai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, con esclusione, dunque, delle ipotesi riconnesse alla concessione di finanziamenti pubblici o simili.  Ha preliminarmente precisato gli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 prevedono, in modo sostanzialmente simile, che i soggetti di cui all’art. 83, nel caso di informazione antimafia interdittiva, “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”.  Stabilire, dunque, se “il limite normativo” delle “utilità conseguite” si riferisca solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, oppure anche ai finanziamenti e contributi pubblici, così come richiede il Giudice del deferimento, presuppone innanzi tutto stabilire se la salvezza “del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente” si riferisca solo ai predetti contratti o anche ai finanziamenti.  Difatti, è la “salvezza” del pagamento il vero “limite” normativo (ovvero l’eccezione agli effetti della revoca e del recesso dai contratti), contribuendo invece il limite delle “utilità conseguite” solo alla definizione del “quantum” di una salvezza già verificata sussistente.  In sostanza, è solo nei casi in cui si riconosce la salvezza del pagamento (“an” dell’eccezione alla revoca e al recesso) che può poi verificarsi il limite (il “quantum”) del pagamento da disporre, di modo che, sul piano logico-giuridico – e proprio per dare compiuta risposta alla questione di diritto deferita – occorre: in primo luogo, stabilire se la “salvezza” del pagamento, nei termini normativamente previsti, si applichi solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture ovvero anche alle concessioni di finanziamenti e contributi (essendo più propriamente questa la questione da risolvere); in secondo luogo, e solo in caso di esito positivo della prima verifica, occorre stabilire - al fine di definire il quantum di un pagamento già riconosciuto (salvato) nell’”an” - cosa si intenda per utilità conseguita.   Che poi quest’ultimo aspetto possa costituire argomento a sostegno della soluzione ermeneutica è fuor di dubbio, ma si tratta di argomento “di rinforzo” per una o l’altra soluzione, laddove il problema dell’ambito di applicazione della norma di eccezione (e dunque la vera questione oggetto di esame da parte dell’Adunanza Plenaria) riguarda la salvezza del pagamento, e non già, almeno in prima battuta, il significato e la misura delle utilità conseguite dall’amministrazione con riguardo all’interesse pubblico.   Ha aggiunto l’Alto consesso che l’incapacità non può incontrare limiti di ordine pubblico economico (integrale realizzazione del programma beneficiato, lungo tempo trascorso, rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio), posto che – come condivisibilmente affermato dal Giudice remittente - “tali limiti di ordine pubblico non risultano adeguatamente tracciati e motivati nei loro presupposti, ma rimessi ad una valutazione “casistica” ed “equitativa”, formulabile dal giudice in relazione alle singole fattispecie esaminate”. Limiti, dunque, che – oltre a non trovare conforto nelle previsioni normative – contribuirebbero a rendere incerte le conseguenze dell’interdittiva antimafia e, in primis, l’ambito stesso dell’incapacità nei confronti della pubblica amministrazione.  Da quanto esposto consegue che – a fronte dell’estremo rigore risultante dal complessivo sistema normativo disciplinante l’informazione antimafia e le sue conseguenze (posto, lo si ribadisce, a tutela di essenziali valori costituzionali) – costituiscono norme di eccezione, e come tali di stretta interpretazione (ex art. 14 disp. prel. cod. civ.: Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2011, n. 5799), quelle che, pur in presenza di una riconosciuta situazione di incapacità, consentono la conservazione da parte di un soggetto destinatario di informazione interdittiva di attribuzioni patrimoniali medio tempore eventualmente acquisite ovvero la possibilità di procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni.  Pertanto, l’esame ermeneutico degli artt. 92, comma 3 e 94, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” – da accertare se con riferimento ai contratti da cui si recede ovvero anche ai finanziamenti o simili medio tempore erogati – deve rispondere alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione.  Ha aggiunto l’Adunanza plenaria che ciò che, in contemperamento della pluralità di esigenze connesse alla tutela di interessi pubblici e privati, viene effettuato dai soggetti di cui all’art. 83 (rilascio di autorizzazioni o concessioni, erogazione di contributi e simili, stipulazione di contratti) avviene sotto la rigida condizione dell’accertamento della stessa capacità del soggetto privato ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione, con la ovvia conseguenza che – laddove per il tramite dell’informazione antimafia interdittiva tale capacità venga accertata come insussistente – non possono che manifestarsi in termini di nullità sia i provvedimenti amministrativi rilasciati (per difetto di un elemento essenziale del medesimo, ex art. 21-septies, l. n. 241 del 1990), sia il contratto stipulato con soggetto incapace.  Giova precisare che ciò che consegue alla interdittiva antimafia non costituice un “fatto” sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto per factum principis, bensì il (pur tardivo) accertamento della insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con l’amministrazione pubblica: quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti.   In questo senso, può concordarsi con quanto affermato dalla sentenza parziale che ha disposto il deferimento, laddove la stessa ritiene che “poiché i contributi risultano concessi in via provvisoria, l’atto c.d. di revoca non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale, ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva afferente al contributo ancora precario”.   E ciò con la sola precisazione che le disposizioni degli articoli 92 e 94 intendono affermare per il tramite del non appropriato riferimento agli istituti della “revoca” (del provvedimento) e del “recesso” (dal contratto), che l’accertamento dell’intervenuta “condizione risolutiva” altro non è che l’accertamento successivo (consentito dalla legge) dell’incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ovvero ad essere parte del contratto ad evidenza pubblica.   A ciò consegue, quanto ai provvedimenti di concessione di benefici economici, comunque denominati, che l’intervenuto accertamento dell’incapacità del soggetto, cui si riconnette la “precarietà” degli effetti dei medesimi, espressamente enunciata dalle norme, esclude che possa esservi legittima ritenzione delle somme da parte del soggetto beneficiario (ma giuridicamente incapace).  Né è possibile ipotizzare, in presenza di un chiaro riferimento normativo alla “precarietà” dei provvedimenti adottati o del provvedimento stipulato, l’insorgere di un “affidamento” in capo al soggetto privato.  Allo stesso modo, nelle ipotesi di contratto stipulato con la pubblica amministrazione, l’accertamento dell’incapacità comporta l’insuscettività dello stesso ad essere fonte di obbligazioni in capo alla pubblica amministrazione nei confronti del soggetto incapace.  A tale assetto degli effetti, discendente dai principi generali e dalla specifica normativa antimafia, è la stessa disciplina antimafia a prevedere talune “eccezioni”: gli artt. 92, comma 4, e 94, comma 2 (oggetto del quesito deferito a questa Adunanza Plenaria), prevedono testualmente che i soggetti di cui all’art. 83 “revocano le autorizzazioni o le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”;  l’art. 94, comma 3, dispone che i soggetti di cui all’art. 83 “non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.  Si tratta, come è evidente, di norme “di eccezione” ai principi generali, rese necessarie dai “postumi” dell’applicazione di una disciplina essa stessa “derogatoria” (e dunque essa stessa “eccezionale”) rispetto all’ordinario modus procedendi imposto all’amministrazione (quella, cioè, che ha consentito di emanare i provvedimenti e/o di stipulare i contratti in assenza della tempestiva informativa antimafia).   Si tratta, dunque, di norme di strettissima interpretazione.  Ha quindi concluso l’Alto Consenso che nel caso considerato nella presente sede, l’operazione interpretativa che dovrebbe comportare l’estensione – per il tramite della presenza nel testo del riferimento alle “concessioni” - della salvezza del pagamento di quanto realizzato sulla base di finanziamenti, comporta sul piano ermeneutico un duplice passaggio estensivo dell’interpretazione: in primo luogo, quello di estendere la salvezza del pagamento dal caso di recesso dal contratto (in aderenza al quale è prevista nel testo la salvezza dei pagamenti) anche alle “concessioni” precedentemente citate e, come si è già detto, non collocate nel testo con immediata aderenza alla “salvezza”; in secondo luogo, quello di operare una interpretazione “selettiva” del termine “concessioni”, ritagliando nel più ampio ambito proprio di tale genus, quelle di esse (e solo quelle) che hanno per oggetto attribuzioni patrimoniali (contributi, finanziamenti e simili) dalle quali dipende la “esecuzione di opere”.  Si tratta, a tutta evidenza, di una operazione ermeneutica per così dire “di doppio grado”, molto lontana dai limiti propri della interpretazione delle norme eccezionali e, dunque, non consentita.  Le eccezioni di cui agli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, rappresentano una precisa scelta del legislatore, che si giustifica in ragione di un “bilanciamento” delle conseguenze derivanti da una esecuzione del contratto disposta in assenza di informativa antimafia. ​​​​​​​
Informativa antimafia
Processo amministrativo – Covid-19 – Discussione da remoto con la presenza degli avvocati – Opposizione – Rigetto – Fattispecie.            Deve essere rigettata l’opposizione alla istanza di discussione orale da remoto, presentata sul rilievo che le controparti hanno depositato memoria difensiva e che le dette controparti hanno tempo per replicare, venendo così meno, a suo dire, il presupposto in virtù del quale sarebbero state presentate le istanze avversarie; ed infatti, in base ad una piana e coordinata lettura delle disposizioni legislative disciplinanti la trattazione delle istanze cautelari nella sede collegiale della camera di consiglio (d.l. n. 28 del 2020; art. 55 c.p.a.) nonché della relativa normativa di applicazione deve escludersi che la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio (art. 55, comma 5, c.p.a.) alla memoria prodotta dalla parte avversaria comporti la preclusione della discussione orale da remoto della causa in sede cautelare, una volta che sia stata presentata domanda di discussione orale; in particolare l’interesse a sentire le parti ex art. 73, secondo comma, c.p.a appare in base al regime giuridico processuale descritto dalla normativa emergenziale di cui sopra una opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione della istanza di sospensiva allo stato degli atti (senza cioè discussione) e la discussione orale costituisce estrinsecazione del diritto di difesa assolutamente incomprimibile.
Processo amministrativo
Urbanistica – Convenzione urbanistica – Ratio – Autonomia dal Piano di lottizzazione.     La funzione della convenzione urbanistica non è di integrare la disciplina urbanistica, di per sé completa, ma di definire nel dettaglio gli impegni delle parti, e principalmente dei privati, in vista del conseguimento dell’equilibrio nello scambio di utilità; essa pertanto è autonoma e distinta dal Piano di lottizzazione cui accede, in quanto rappresenta solo una delle eventuali attività che possono concretizzarsi dopo l’approvazione di quest’ultimo (1) ​​​​​​​ ​​​​​ (1) In linea generale le convenzioni di lottizzazione sono riconducibili alla categoria degli accordi integrativi di provvedimento, disciplinati dall’art. 11, l. n. 241 del 1990. Come la Sezione ha già avuto modo di precisare, a fronte di un iniziale disinteresse per l’istituto, sono state successivamente ricondotte sotto l’egida dello stesso proprio le numerose fattispecie consensuali tipicamente in uso nella materia urbanistica, dove l’immanente esigenza di collocare l’esercizio dello ius aedificandi in una più vasta cornice di buon governo del territorio, rende talvolta conveniente per l’Amministrazione “scendere a patti”, richiedendo sforzi aggiuntivi al privato in termini di dare ovvero di facere, onde orientarne la maggiore libertà di movimento verso i propri obiettivi di programmazione, nel contempo ottimizzando le aspirazioni dello stesso a ricavare i maggiori vantaggi possibili dalla proprietà (v. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 579). ​​​​​​Le relative controversie vanno pertanto ricondotte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, giusta la previsione in tal senso dell’art. 133, comma 1, lettera a), n. 2), c.p.a. nel quale è confluito il comma 5 dell’art. 11, l.n. 241 del 1990, contestualmente abrogato ad opera dell’art. 4, comma 1, punto 14, dell’allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Essa si estende anche ai patti, comunque formalizzati, apparentemente di natura esclusivamente privatistica, siglati per dare esecuzione ad obblighi assunti nell’ambito della convenzione, stante che la norma fa riferimento non solo alle controversie in materia di formazione e conclusione degli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento, ma anche a quelle riferibili alla loro esecuzione. ​​​​​​​La funzione della convenzione urbanistica non è di integrare la disciplina urbanistica, di per sé completa, ma di definire nel dettaglio gli impegni delle parti, e principalmente dei privati, in vista del conseguimento dell’equilibrio nello scambio di utilità. Essa pertanto è autonoma e distinta dal Piano di lottizzazione cui accede, in quanto rappresenta solo una delle eventuali attività che possono concretizzarsi dopo l’approvazione di quest’ultimo, che costituisce il presupposto giuridico (e non necessariamente logico, salvo l’ipotesi in cui permangano volontà e presupposti della pianificazione approvata per la lottizzazione) della stipula. E’ comunque possibile, in ragione della sua riconducibilità al paradigma generale dell’accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, far confluire nella convenzione anche statuizioni pattizie eterogenee rispetto alla finalità di regolazione dell’assetto del territorio che connota la finalità dello strumento urbanistico attuativo ad essa sotteso. E’ pertanto rimessa al giudice, a fronte di una fattispecie consensuale pubblica, a maggior ragione se a contenuto composito, una precisa operazione ermeneutica che non può prescindere dalla disamina della fase formativa dell’accordo, della sua struttura e dei suoi effetti, senza partire da categorizzazioni preconcette: solo all’esito di tale specifica analisi, è infatti possibile non tanto e non solo l’inquadramento concettuale della singola fattispecie, ma anche e soprattutto l’individuazione degli strumenti rimediali alla stessa applicabili (Cons. Stato, sez. II, 6 febbraio 2020, n. 941). Il doppio limite all’applicabilità delle disposizioni civilistiche contenuto nell’art. 11, comma 2, l. n. 241 del 1990, ne implica l’operatività non solo ove non sia diversamente previsto, ma anche avuto riguardo a disposizioni comunque compatibili con la disciplina degli accordi. Ciò comporta che una volta ammesso il ricorso ai principi di diritto comune, essi vanno tuttavia “ricollocati” sotto la lente del superiore interesse pubblico alla stregua del quale è orientata la funzione amministrativa. La giurisprudenza si è nel tempo pronunciata sulla applicabilità, ad esempio, dell’art. 1453 c.c., in materia di risoluzione per inadempimento (Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2004, n. 7245), ovvero della clausola penale (Cons. Stato, sez. IV, 3 dicembre 2015, n. 5510). Si sono analogamente ritenuti compatibili con l’istituto i rimedi di cui all’art. 1463 c.c., sulla impossibilità sopravvenuta, ovvero 1467 c.c., sulla eccessiva onerosità sopravvenuta. Astrattamente, pertanto, non sussistono ostacoli concettuali alla configurabilità dell’azione di rescissione avverso una convenzione urbanistica. Gli elementi costitutivi dell’istituto, tuttavia, vanno filtrati avuto riguardo alla funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione. Non è pertanto affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative (Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2020, nn. 5877 e 5878; id, 3 agosto 2020, n. 4892)
Urbanistica
Edilizia – Edilizia scolastica – Art. 7 ter, d.l. n. 22 del 2020 – Ambito di applicazione              L’art. 7-ter, comma 3, d.l. 8 aprile 2020, n. 22 attribuisce al Sindaco, per le occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, la facoltà di adottare un decreto per la redazione dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei suoli, riconoscendosi a tale provvedimento anche il valore di atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’intervento; la natura di norma speciale della previsione in questione, derivante dalle particolari esigenze legate al periodo emergenziale, impone un’interpretazione rigida della stessa, che non consente di ampliare il relativo ambito di applicazione in virtù del dichiarato intento di accelerazione delle procedure e che, per converso, richiede di circoscrivere gli straordinari poteri riconosciuti ai Sindaci nei limiti di tempo e contenuto previsti dalla legge stessa, in osservanza del principio di legalità sostanziale; non può pertanto ritenersi che il decreto sindacale, oltre ad assumere la particolare efficacia riconosciuta espressamente dalla norma (valore di atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza), possa implicare in via automatica anche la variazione della strumentazione urbanistica, dovendosi ritenere conseguentemente che l’esercizio di tale potere straordinario sia circoscritto ai casi in cui l’adozione della variante non sia necessaria, ossia per le ipotesi di (riscontrata e dimostrata) conformità urbanistica dell’opera (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la conformità urbanistica rappresenta presupposto necessario per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, in relazione alle quali si procede alla espropriazione. Ne consegue che l’eventuale incompatibilità con le previsioni urbanistiche, possibilmente derivante da una localizzazione dell’opera in area con destinazione non conforme, richiede la preventiva adozione di specifica variante allo strumento urbanistico in vigore  In tal senso sono le seguenti previsioni del d.P.R. n. 327/2001: i) l'opera da realizzare deve essere prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare deve essere stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio (art. 8); ii) un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio nel momento in cui diviene efficace l’approvazione della variante (art. 9).  L’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, quale fase funzionale a dare attuazione alla localizzazione dell’opera, presuppone pertanto la sussistenza della conformità urbanistica, non potendo quindi prescindersi da tale preliminare attività, ipotizzando che l’apposizione del vincolo valga anche come variante allo strumento urbanistico.  Del resto, la conferma della priorità temporale dell’attività di zoning ad opera dello strumento urbanistico generale rispetto alla (necessariamente) successiva fase dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio deriva altresì dalle previsioni della previgente legge regionale Emilia-Romagna 24 marzo 2000, n. 20, secondo cui: “La localizzazione delle opere pubbliche è operata dagli strumenti di pianificazione urbanistica, ovvero da loro varianti, che ne prevedono la realizzazione. In particolare: a) il PSC provvede alla previsione dell’opera e alla indicazione di massima della sua localizzazione, attraverso la individuazione degli ambiti idonei e dei corridoi di fattibilità. Esso definisce inoltre i requisiti prestazionali dell’opera e le condizioni di sostenibilità della stessa, indicando le opere di mitigazione o compensazione ambientale ovvero le fasce di ambientazione o le altre dotazioni ecologiche e ambientali ritenute necessarie; b) il POC stabilisce la puntuale localizzazione dell’opera, con la conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, anche apportando rettifiche non sostanziali ai perimetri degli ambiti idonei ed ai corridoi individuati dal PSC. Esso disciplina altresì le modalità attuative dell’opera e le dotazioni o misure che ne assicurano la sostenibilità ambientale e territoriale, in conformità alle previsioni del PSC.” (art. 36 – bis).  In definitiva, il provvedimento di imposizione del vincolo è il primo atto della procedura espropriativa e, in quanto tale, non può avere valenza di variante urbanistica. Esso persegue anche finalità urbanistiche ma nel diverso significato di costituire elemento di raccordo tra il settore dell’urbanistica e quello dell’espropriazione, consentendo l’acquisizione al patrimonio pubblico soltanto di quelle aree che sono state previamente individuate negli strumenti di pianificazione territoriale.      Ha aggiunto la Sezione che una interpretazione dell’art. 7 ter d.l. 8 aprile 2020, n. 22 - nella parte in cui attribuisce ai sindaci e ai presidenti delle province e delle città metropolitane, fino al 31 dicembre 2026 (termine modificato con l’art. 55 della legge n. 181 del 29 luglio 2021), la facoltà di esercitare poteri commissariali al fine di garantire la rapida esecuzione di interventi di edilizia scolastica, anche in relazione all’emergenza da COVID-19 - diversa da quella ritenuta dal Collegio una diversa interpretazione consentirebbe, in assenza di una specifica previsione normativa derogatoria, di evitare l’intero iter di approvazione della variante urbanistica (cfr. artt. 9, 10 e 19 d.P.R. n. 327/2001) e, conseguentemente, di omettere il coinvolgimento dell’organo consiliare nella decisione.  Peraltro, in senso contrario non può ritenersi che il legislatore, mediante la locuzione “prescindendo da ogni altro adempimento” di cui all’art. 7-ter, abbia voluto omettere integralmente l’adozione della variante urbanistica, rimettendo ad una libera decisione del Sindaco l’espropriazione per la realizzazione di un’opera pubblica non conforme alla destinazione di zona. Del resto, considerando che l’intera materia espropriativa è governata dal principio di legalità, in assenza di diverse previsioni esplicite, non è sostenibile che tale inciso possa di per sé costituire una idonea base legale per poter prescindere dalla conformità urbanistica.  È dunque preferibile l’interpretazione secondo cui con tale locuzione si sia voluto fare riferimento alla diversa fase esecutiva dell’esproprio, in ragione della circostanza che essa risulta inserita nell’ambito della descrizione dei poteri del Sindaco nella redazione dello stato di consistenza  In definitiva, la norma in esame attribuisce al Sindaco poteri straordinari di incidenza negativa nella sfera giuridica dei destinatari dell’azione amministrativa per finalità connesse all’emergenza sanitaria. Tale norma, in ossequio al principio di legalità che assume connotati più pregnanti in presenza di tale tipologia di poteri, deve essere interpretata in modo letterale e rigoroso, con configurabilità dei soli poteri espressamente nominati e conseguente esclusione dal perimetro applicativo della disposizione in esame di poteri di natura urbanistica 
Edilizia
Pubblica amministrazione – Ministeri - Vice Ministri - Personale aggiuntivo di staff  - Nomina - Art. 1, comma 24-quinquies, d.l. n. 181 del 2006 – Applicabilità.                      L’art. 1, comma 24-quinquies, d.l. 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2006, n. 233, in tema di nomina del personale aggiuntivo di staff da parte dei vice Ministri, deve ritenersi tuttora vigente (1).      (1) Ha ricordato il parere che l’effetto di abrogazione tacita potrebbe ricostruirsi per effetto delle disposizioni introdotte dall'articolo 1, commi 376 e 377, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, che hanno ridefinito il numero dei Ministeri e hanno posto un limite esplicito anche al numero complessivo dei componenti del Governo “a qualsiasi titolo”, comprendendo nella nozione di componente del Governo i Ministri senza portafoglio, i vice Ministri e Sottosegretari.  Secondo un primo orientamento, sembrerebbe che l’art.  1, comma 24-quinquies, d.l. 18 maggio 2006, n. 181 possa ricadere nella sfera applicativa della clausola di incompatibilità disposta dall'art. 1, comma 377, d.l. n. 181 del 2006 (secondo cui “sono abrogate tutte le disposizioni non compatibili con la riduzione del numero dei ministeri”), sia perché – come detto - il comma 24-quinquies citato non è espressamente annoverato tra le disposizioni del d.l. n. 181 del 2006 testualmente sottratte all'effetto abrogativo prodotto dal medesimo articolo 1, comma 377, della legge n. 244 del 2007 (argomento testuale), sia perché la predetta norma, che attribuisce ai vice Ministri il potere di nominare personale aggiuntivo, apparirebbe non rispondente alla generale finalità, propria della riduzione dei ministeri, di ridurre la spesa pubblica, non essendo “scindibile” dalla questione relativa al numero dei ministeri, poiché “una disposizione che preveda la nomina di specifiche figure aggiuntive nell'organizzazione ministeriale potrebbe risultare non in linea con le esigenze di contenimento della spesa” (argomento sistematico).  In senso opposto, ha riferito il Ministero dell’economia e delle finanze, è emersa un'opzione interpretativa secondo cui il citato comma 24-quinquies riguarderebbe esclusivamente il profilo dell'organizzazione interna dei ministeri, come tale pienamente compatibile con la finalità della riduzione del numero complessivo degli stessi; tale comma risulterebbe, dunque, escluso dall'effetto abrogativo previsto, per le disposizioni incompatibili, dal sopra menzionato comma 377 dell'art. 1, l. n. 244 del 2007 (e considerata altresì la non configurabilità di una finalità comune di contenimento della spesa pubblica, poiché il ricorso da parte dei vice Ministri al contingente aggiuntivo sarebbe comunque consentito entro il “limite complessivo della spesa per il personale degli uffici di diretta collaborazione del Ministro”, secondo quanto previsto dal medesimo comma 24-quinquies, oggetto della presente questione). Infine, ad avviso dell'orientamento che si riporta, l'abrogazione espressa del citato art. 1, comma 376 - disposta dal recente d.l. n. 1 del 2020 - avrebbe comportato anche l'abrogazione tacita del successivo comma 377 (che richiama espressamente il comma 376), in quanto disposizione meramente attuativa e comunque riguardante anch'essa la medesima materia, con conseguente “reviviscenza” dell'art. 1, comma 24-quinquies, d.l. n. 181 del 2006.  Ad avviso della Sezione la soluzione interpretativa preferibile – tra le due opzioni che si contendono il campo, rispetto a un insieme normativo oggettivamente non lineare – è quella che sostiene la perdurante vigenza della norma recata dall’art. 1, comma 24-quinquies, d.l. 18 maggio 2006 n. 181, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2006, n. 233, in tema di nomina del personale aggiuntivo di staff da parte dei vice Ministri.  Depone a favore di questa opzione ermeneutica la sostanziale debolezza, sia sul piano testuale che sul piano logico-sistematico e finalistico, della opposta opzione, sostenuta invece dal Ministero richiedente, intesa a negare l’attuale vigenza della norma suddetta.  Sul piano del dato letterale del complesso normativo oggetto di esame, vi è, infatti, da considerare, come bene evidenziato dalla Presidenza del consiglio, che non si rinvengono elementi rivolti in modo diretto ed espresso nel senso dell’abrogazione della norma della cui interpretazione qui si tratta. L’argomento secondo il quale la disposizione abrogativa contenuta nel comma 377 dell’art. 1, l.  n. 244 del 2007, nella parte in cui ha fatto salve espressamente solo alcune delle disposizioni del d.l. n. 181 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 233 del 2006 (quelle di cui all'art. 1, commi 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater, 2-quinquies, 10-bis, 10-ter, 12, 13-bis, 19, lettera a), 19-bis, 19-quater, 22, lettera a), 22-bis, 22-ter e 25-bis), ma non anche quella, di cui qui si tratta, dell’art. 1, comma 24-quinquies, che dovrebbe pertanto ritenersi abrogata, appare obiettivamente non risolutivo, poiché snatura la il carattere di abrogazione solo implicita conferito espressamente dal legislatore alla norma abrogativa, trasformandola in una sorta di abrogazione espressa, mentre la locuzione principale adoperata nella legge - “sono abrogate le disposizioni non compatibili con la riduzione dei Ministeri di cui al citato comma 376” - configura la norma essenzialmente come norma dichiarativa di un effetto abrogativo tacito per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi (“Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore”). 
Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Covid-19 – Rimessione in termini ex art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020 – Istanza – Termine – Natura perentoria. Processo amministrativo – Depositi - Ore 12.00 – Ambito di applicazione – Udienze calendarizzate e da calendarizzare      Il termine di “due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”, previsto – a favore parte che non ha presentato brevi note e alla quale, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo - per il deposito dell’istanza di rimessione di cui al terzo periodo del comma 5 dell’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, è perentorio (art. 39 c.p.a. e art. 152 c.p.c.) ed è stabilito dal legislatore per ragioni di interesse generale volte a garantire il contraddittorio e consentire la corretta organizzazione dell’attività giudiziaria; allo spirare del termine si determina ex se la decadenza dal potere di compiere l'atto e la rilevabilità d’ufficio dal giudice della decadenza in cui è incorsa la parte (1).      L’art. 4, comma 4, dell’Allegato 2 al c.p.a., secondo cui “Agli effetti … della fissazione delle udienze camerali e pubbliche”, il deposito degli “atti” in scadenza nell’ultimo giorno consentito effettuato oltre le ore 12:00 “si considera effettuato il giorno successivo”, va riferito non solo alle udienze che devono ancora essere fissate (ossia calendarizzate) e quindi al computo dei termini che devono intercorrere tra il deposito dell’”atto” e la data dell’udienza in cui sarà trattata la causa, ma altresì alle udienze già calendarizzate (e quindi già note) in relazione alle quali devono essere depositati “atti”, in cui rientrano anche le istanze di parte (soprattutto laddove previste in sostituzione di “brevi note”, come stabilito dall’art. 84, comma 5, d.l. 17 marzo 2020, n. 18), che devono essere presentate entro un termine perentorio da computarsi a ritroso con decorrenza dalla data dell’udienza (2).   (1) L’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 dispone che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”. Ha chiarito la Sezione che la disposizione contenuta nel terzo periodo del comma 5 dell’art. 84 non incide sulla modalità di trasmissione degli atti giudiziari che deve comunque avvenire nelle forme e nei termini della disciplina sul processo amministrativo telematico (PAT) finalizzata, tra l’altro, ad agevolare la trasmissione da remoto degli atti di parte. (2) Nel senso prospettato in sentenza depongono altresì i principi espressi dal giudice amministrativo sulla tempestività del deposito delle memorie quali “atti” di parte (Cons. St., sez. III, 24 maggio 2018, n. 3136; Cons. giust. amm., 7 giugno 2018, n. 344). Data la premessa, la Sezione ha dichiarato tardiva l’istanza di differimento dell’udienza calendarizzata per la trattazione della causa in udienza pubblica in quanto tramessa, mediante il processo amministrativo telematico, oltre il termine delle ore 12:00 dell’ultimo giorno consentito.
Processo amministrativo
Giurisdizione – Accesso ai documenti – Diniego - Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia - Giurisdizione del giudice amministrativo.      Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nella controversia proposta avverso il diniego di accesso ai documenti opposto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia presso l’Assemblea Regionale Siciliana (1)    (1) Ha chiarito il C.g.a. che il giudice amministrativo, in giurisdizione generale di legittimità, è il giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica.   L’art. 7, comma 1, ultima parte, dispone che non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico.  Ora, non può sussistere dubbio sul fatto che il parziale diniego opposto dalla Commissione parlamentare all’istanza di accesso agli atti costituisce esercizio di attività amministrativa e non può configurare esercizio di potere politico, sicché non vi sono i presupposti, nemmeno ritraibili da diverse fonti normative che in qualche modo potrebbero determinarne la non assoggettabilità al vaglio giurisdizionale, per escludere la sua sindacabilità dinanzi al giudice amministrativo.  Ciò anche in considerazione del fatto che all'Assemblea Regionale Siciliana non spettano poteri di autodichia, le cui previsioni derogatorie rispetto alla giurisdizione comune, in quanto eccezionali, sono insuscettibili di estensione analogica (cfr, da ultimo, Cgars, sentenza n. 1032 del 7 dicembre 2021). ​​​​​​​Pertanto, diversamente opinando, la pozione giuridica soggettiva di cui è chiesta tutela rimarrebbe, senza alcuna plausibile ragione, priva di tutela giurisdizionale.  
Giurisdizione
Covid-19 – Green pass – Violazione del diritto alla riservatezza sanitaria – Esclusione.   La richiesta di green pass non viola il diritto alla riservatezza sanitaria (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che gli appellanti, dichiarandosi contrari alla somministrazione del vaccino, nel pieno esercizio dei loro diritti di libera autodeterminazione, non subiscono lesioni del diritto alla riservatezza sanitaria in ordine alla scelta compiuta, dal momento che l’attuale sistema di verifica del possesso della certificazione verde non sembra rendere conoscibili ai terzi il concreto presupposto dell’ottenuta certificazione (vaccinazione o attestazione della negatività al virus); ​​​​​​​Ha aggiunto che l’impugnato d.P.C.M. 17 giugno 2021, contenente le disposizioni attuative dell’art. 9, comma 10, d.l. 22 aprile 2021 n. 52 ha ad oggetto la definizione degli aspetti di regolamentazione tecnica dell’istituto del cd. Green pass, in attuazione della disposizione normativa delegante (art. 9, comma 10, d.l. n. 52 del 2021), essendo ad esso estranei, invece, i contenuti regolatori, inerenti alle attività sociali, economiche e lavorative realizzabili dai soggetti vaccinati, o in possesso di un’attestazione di “negatività” al virus, cui gli appellanti riconducono i lamentati effetti discriminatori: contenuti che sono propri di atti aventi forza di legge (in particolare, dd.ll. nn. 105 del 2021 e 111 del 2021), la cognizione della cui compatibilità, costituzionale ed unionale, non potrebbe essere devoluta, recta via ed in mancanza di eventuali specifici atti applicativi di cui siano destinatari gli odierni appellanti, al giudice amministrativo adito in sede cautelare, nemmeno al fine di investire delle relative questioni i Giudici (costituzionale ed europeo) competenti, fermi restando gli ulteriori approfondimenti che il giudice di primo grado svolgerà in fase di merito.
Covid-19
Ordinanza contingibile ed urgenti – Rifiuti - Regione Calabria - Mancanza di termine finale e del requisito di contingibilità – Illegittimità.           E’ illegittima l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Calabria in materia di rifiuti, con l’introduzione a regime di una gestione emergenziale dei rifiuti, in assenza, pertanto, dell’individuazione di un termine finale di efficacia, e in mancanza del requisito di contingibilità, cioè degli ordinari rimedi predisposti a livello normativo o impossibilità di farvi ricorso in termini generali (1).      (1) Ha chiarito il Tar che la ristretta area entro cui il potere di  ordinanza contingibile e urgente può essere esercitato ne consente la configurazione quale extrema ratio.  Il potere di ordinanza extra ordinem si articola pertanto su indefettibili e concomitanti presupposti, rappresentati: “a) dall’impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza); b) dall’impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità); c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle leggi” (ex multis, Cons.Stato, sez. V, 26 luglio 2016, n. 3369), cosicché “solo in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale” (Cons.Stato, sez. V, 22 marzo 2016, n. 1189). ​​​​​​​La Regione Calabria infatti a fronte delle prospettate e risalenti inerzie contestate all’A.T.O. di Catanzaro ha, per come dalla stessa confermato, totalmente omesso di attivare i poteri sostitutivi secondo lo sviluppo procedimentale previsto dall’art. 2-bis L. n. 14 del 2014, il quale prevede appunto -in caso di contegni omissivi degli enti locali o delle comunità- un intervento in via sostitutiva della Regione, previa diffida ad adempiere entro un termine non superiore a trenta giorni, con successiva ed eventuale nomina di un Commissario ad acta, onerato di concludere il proprio compito entro trenta giorni dalla nomina.  L’esercizio dei descritti poteri sostitutivi rappresenta pertanto uno strumento tipizzato ed ordinario, che si colloca in una fase antecedente rispetto all’utilizzo delle ordinanze extra ordinem.   Inoltre, la ratio dell’art. 2-bis L. n. 14 del 2014 è rinvenibile nell’esigenza che - in presenza di distinti livelli di competenza afferenti ad una specifica materia - l’intervento sostitutivo della Regione non si registri ex abrupto, con una radicale e repentina privazione delle cognizioni spettanti all’ A.T.O., ma intervenga in conformità al canone di leale collaborazione, che deve informare il rapporto tra distinti soggetti pubblici 
Ordinanza contingibile ed urgente
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizi di vigilanza armata - Autorizzazione ex art. 134 TULPS – Deve essere riferita alla provincia nella quale si svolge l’appalto. ​​​​​​​ In sede di appalto per l'affidamento dei servizi di vigilanza armata, portierato e altri servizi, l’operatore economico deve possedere l’autorizzazione riferita alla provincia nella quale si svolge l’appalto (1).   (1) La norma nazionale che riconosca al provvedimento autorizzatorio ex art. 134 TULPS una validità territoriale limitata, così obbligando il prestatore a richiedere analoghe autorizzazioni per ognuna delle province ove intende esercitare la propria attività, non si pone in contrasto con gli artt. 43 e 49 CE (oggi artt. 49 e 56 TFUE) cioè con i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. Ha chiarito il Tar che l’art. 257-ter del Regolamento è stato introdotto dal d.P.R. 4 agosto 2008, n. 153 proprio al fine di adattare la normativa interna alla citata pronuncia della CGUE. Nella loro precedente formulazione, infatti, gli artt. 252 e 257 del Regolamento di esecuzione del TULPS imponevano ai soggetti o alle imprese, che intendessero svolgere il servizio di vigilanza nel territorio di più Province, di ottenere distinti provvedimenti autorizzatori da parte di ciascun Prefetto competente per territorio (oltre che di avere una distinta sede operativa per ogni Provincia). L’attuale regime normativo prevede, invece, un meccanismo di “estensione della licenza” (art. 257-ter) mediante notifica di apposita comunicazione al Prefetto che ha rilasciato l’originaria licenza, con possibilità di intraprendere l’attività “trascorsi novanta giorni dalla notifica”. ​​​Il permanere di un meccanismo di “controllo” su ogni forma di estensione della portata autorizzativa della licenza prefettizia (l’art. 257-ter, comma 5 si riferisce, infatti, anche all’estensione “ad altri servizi”) può giustificarsi in ragione della particolare natura dell’attività, connessa alla sicurezza e all’ordine pubblico, che impone di valutare costantemente l’idoneità tecnico-organizzativa dell’operatore a svolgerla. Come evidenziato dal parere del Consiglio di Stato sullo schema del d.P.R. (Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, 21 aprile 2008, n. 1247)  trattasi, infatti, di servizi “che per l’incidenza e la qualità delle prestazioni nonché per l’alto grado di pericolo e di specializzazione operativa erano originariamente riservate alle forza pubblica”. Per questo, tanto in sede di rilascio della licenza che nel corso della sua intera durata, la normativa di settore “assegna un ruolo centrale al progetto organizzativo e tecnico-operativo, che correda la domanda diretta ad ottenere la licenza prescritta dall’articolo 134 T.U.L.P.S., giusta il disposto dei commi 2 e 3 dell’articolo 257”, in quanto “attribuisce all’Autorità di pubblica sicurezza un penetrante sindacato sulla effettiva idoneità tecnica del soggetto richiedente”. Sotto questo profilo, dunque, è evidente la ratio della comunicazione di cui all’art. 257-ter, tramite la quale il Prefetto viene portato a conoscenza della volontà dell’operatore di svolgere il servizio in un più ampio ambito territoriale. Egli può così valutare l’idoneità operativa dell’impresa, richiedendo se necessario “chiarimenti ed integrazioni al progetto tecnico-organizzativo e disporre il divieto dell’attività qualora la stessa non possa essere assentita”. Non appare quindi condivisibile l’affermazione del ricorrente, che individua nella notifica un mero adempimento formale, inidoneo a costituire uno strumento di controllo efficace dell’attività di vigilanza. In ogni caso, Cons. Stato, sez. V, 11 marzo 2021, n. 2087 ha ritenuto opportuno operare un ulteriore correttivo al descritto regime, considerato comunque confliggente con i principi del TFUE nella parte in cui configura l’estensione in termini di ulteriore provvedimento autorizzativo (pur sottoposto a silenzio assenso)
Contratti della Pubblica amministrazione
Animali - Brucellosi – Abbattimento – Va sospeso cautelarmente.     Deve essere sospeso in via cautelare il provvedimento con il quale è stato disposto l’abbattimento di 78 capi bufalini ai fini del contenimento del contagio e all’eradicazione della brucellosi, e ciò in quanto il benessere degli animali costituisce diritto fondamentale, protetto sia a livello nazionale sia eurounitario (1).  ​​​​​​​ (1) Ha ricordato l’ordinanza che a livello eurounitario il benessere degli animali è inteso come un obiettivo di interesse generale riconosciuto dall’Unione, venendo in rilievo, tra gli altri, i considerando n.n. 2 e 4 del regolamento n. 1099/2009, secondo i quali “(...) È opportuno che gli operatori o il personale addetto all’abbattimento adottino i provvedimenti necessari a evitare e a ridurre al minimo l’ansia e la sofferenza degli animali durante il processo di macellazione o abbattimento, tenendo conto delle migliori pratiche nel settore e dei metodi consentiti dal presente regolamento (…)” e “ Il benessere animale è un valore condiviso [nell’Unione europea] sancito dal protocollo n. 33 sulla protezione ed il benessere degli animali allegato al trattato [CE]. La protezione degli animali durante la macellazione o l’abbattimento è una questione di interesse pubblico” (cfr., da ultimo, Corte di Giustizia, sentenza 17 novembre 2020 resa nella causa C 336/19;  La Sezione ha ricordato altresì la costante giurisprudenza, resa a livello nazionale e sovranazionale, in materia di principio di precauzione volto a proteggere e garantire un elevato livello di tutela della salute pubblica. Il principio di precauzione esiga il compimento di un giudizio di proporzionalità tra il fine perseguito (la protezione della salute umana) e il mezzo impiegato (la soppressione della vita dell’animale) e che da tale valutazione debba necessariamente trascendere il profilo dell’interesse economico della parte ricorrente.  Nelle fattispecie di cui trattasi, il giudizio non può essere improntato a prospettive meramente patrimonialistiche che sacrifichino senza adeguata ponderazione - ispirata a rigorosa valutazione del principio di precauzione - il valore della vita degli animali.
Animali
Covid-19 – Obbligo di non uscire dall’abitazione – Quarantena obbligatoria – Quarantena ormai esaurita – Non va sospesa.     Non va sospesa l’ordinanza sindacale n. 18 del 21 aprile 2020 la quale il ricorrente è sottoposto, in via cautelativa, alla misura dell’isolamento obbligatorio presso il proprio domicilio con divieto assoluto di contatti con altre persone, dal giorno 21 aprile 2020 fino al 4 maggio 2020 compreso, con sorveglianza attiva da parte del personale dell’ufficio dei vigili comunali e forze dell’ordine, risultando la quarantena quasi interamente effettuata.
Covid-19
Informativa antimafia – Misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio – Art. 32, comma 8, d.l. n. 90 del 2014 – Durata – In pendenza della durata del rapporto contrattuale con l’Amministrazione       La misura del sostegno e monitoraggio, individuata al comma 8 dell’art. 32, d.l. n. 90 del 2014, è agganciata alla durata del contratto cui si correla, siccome funzionale alla sua corretta gestione ed esecuzione, essendo la ratio sottesa di stabilire, nella pendenza del legame contrattuale con l’Amministrazione, le condizioni di piena legalità entro cui può e deve svilupparsi tale rapporto (1).      (1) L’art. 32, d.l. n. 90 del 2014 rispetto alle misure ispirate da finalità di anticorruzione, prevede tre tipologie di misure applicabili: la prima, di cui al comma 1, lett. a), consistente nella rinnovazione degli organi sociali, mira alla immediata sostituzione del soggetto coinvolto dalle indagini, la seconda di cui al comma 1, lett. b), consistente nella gestione straordinaria e temporanea dell'impresa, implica una gestione sostitutiva ed è finalizzata alla completa esecuzione della prestazione oggetto del rapporto contratto in relazione al quale sono emerse le fattispecie di reato o gli altri comportamenti illeciti; la terza, definita sostegno e monitoraggio, individuata al comma 8, di minore impatto persegue una finalità indubbiamente meno invasiva atteso che si risolve nella nomina di uno o più esperti i quali “… forniscono all’impresa prescrizioni operative, elaborate secondo riconosciuti indicatori e modelli di trasparenza, riferite agli ambiti organizzativi, al sistema di controllo interno e agli organi amministrativi di controllo”.  La misura del tutoraggio presuppone che le indagini penali pendenti coinvolgano “componenti di organi societari diversi”, intesi come componenti di organi societari non necessari (Cons. St., sez. III, 10 luglio 2020, n. 4406) ai quali, dunque, non è demandata la responsabilità dell’amministrazione dell’azienda e che, dunque, riflettono un minore livello di infiltrazione criminale nei meccanismi vitali dell’impresa.  ​​​​​L’efficacia delle suddette misure è agganciata alla durata del contratto cui si correla la singola misura siccome funzionali alla sua corretta gestione ed esecuzione. A tale approdo si giunge non solo in base al tenore letterale dell’art. 32 ma anche valorizzando, sulla scorta della giurisprudenza di questa Sezione formatasi in relazione alla misura del commissariamento (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2017, n. 5568; id. 28 aprile 2016, n. 1630; id. 24 luglio 2015, n. 3653), la ratio sottesa al reticolo delle disposizioni argomento e che, a fronte di un'ipotesi di illecito penale che coinvolga un contratto pubblico, mira a coniugare le esigenze, da un lato, di evitare che si determinino soluzioni di continuità o difficoltà nella gestione del contratto che possano condurre a fattispecie di inadempimento contrattuale a danno dell'interesse pubblico e, dall'altro lato, di garantire che il contratto stesso sia gestito ed eseguito in modo conforme ai principi di legalità, trasparenza ed efficienza. D’altro canto, le stesse linee guida Anac, fin dalla loro prima versione del 15 luglio 2014, aggiornata in data 8 luglio 2020), indicano la ratio dell’intervento legislativo giustappunto nell’esigenza di fare in modo che, in presenza delle situazioni patologiche descritte dalla norma, “l’esecuzione del contratto pubblico non venga oltremodo a soffrire di tale situazione”, dal momento che “la prioritaria istanza a cui ha corrisposto il legislatore sembra essere quella di porre rimedio all’affievolimento dell’efficacia dei presidi legalitari da cui appaiono afflitte le procedure contrattuali, senza che ne risentano i tempi di esecuzione della commessa pubblica, finendo col coniugare, dunque, entrambe le descritte esigenze”. Nella detta prospettiva, il legislatore ha, dunque, introdotto misure di chiaro stampo cautelare che spaziano da interventi che incidono, più o meno direttamente, sulla governance (sostegno e monitoraggio ovvero rinnovo degli organi sociali) a misure ad contractum (commissariamento) che si risolvono nella gestione controllata del contratto. Nel caso del tutoraggio è pur vero che il beneficio della misura non ha un’immediata ricaduta sul contratto siccome volto a promuovere un percorso di revisione virtuosa dell’impresa attraverso l’introduzione di un presidio di esperti che, senza incidere sulla composizione ed i poteri degli organi di amministrazione, sono chiamati a riorientarne in senso lato la governance onde ricondurre la gestione complessiva dell’Azienda su binari di legalità e trasparenza con trasversale ricaduta sull’intero assetto organizzativo e gestionale dell’impresa. ​​​​​​​Pur tuttavia, tanto i presupposti giustificativi della misura, che le modalità di attuazione non possono che essere permeati dalla finalità di fondo, che è quella di assicurare, nella cornice temporale in cui è attivo un legame contrattuale con l’Amministrazione, le condizioni di piena legalità entro cui può e deve svilupparsi tale rapporto. È, dunque, proprio il perdurante legame che lega l’impresa all’Amministrazione che fonda e giustifica un intervento autoritativo finalizzato a ripristinare una cornice di necessaria legalità entro cui ineludibilmente dovrà svilupparsi tale rapporto. 
Informativa antimafia
Annullamento d’ufficio e revoca - Annullamento d’ufficio – Su istanza del privato - Riesame - Obbligo – Quando sussiste.         In via generale non sussiste un obbligo di riesame su istanza del privato volta a sollecitare l’autotutela, salvo eccezionali casi di autotutela doverosa per espressa disposizione di legge o per conclamate e rilevanti esigenze di equità e giustizia (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che tale conclusione discende dalla inconfigurabilità di un obbligo della p.a. di provvedere a fronte di istanze di riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati, conseguente alla natura officiosa e ampiamente discrezionale - soprattutto nell’an - del potere di autotutela ed al fatto che, rispetto all’esercizio di tale potere, il privato può avanzare solo mere sollecitazioni o segnalazioni prive di valore giuridicamente cogente (Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 2020, n. 4405). La proposizione dell’esercizio dei poteri di autotutela non è, di per sé, in grado di generare, un obbligo giuridico di provvedere, il cui inadempimento possa legittimare l’attivazione delle tutele avverso i rifiuti, le inerzie o i silenzi antigiuridici; questo principio trova non solo conferma testuale nella lettera dell’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 che prefigura l'iniziativa di annullamento dell’atto in termini di mera “possibilità”, ma si giustifica, alla luce delle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche e della correlata regola di inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, non tempestivamente contestati (Cons. Stato, sez. V, 24 settembre 2019, n. 6420).  Ha aggiunto la Sezione che un richiamo generalizzato alle esigenze di giustizia ed equità per ritenere doverosa l’autotutela, come quello ora proposto da parte ricorrente, comporterebbe l’introduzione di un ulteriore rimedio - giustificabile in casi particolari ove sussistano conclamate esigenze di giustizia di regola normativamente determinati - rispetto al sistema di impugnativa degli atti ledendo il principio di inoppugnabilità degli stessi e quindi la definizione delle controversie.    A riprova dell’eccezionalità del richiamo alle esigenze di giustizia che giustificano l'esistenza di un obbligo di esame dell’istanza di autotutela va rilevato come nella fattispecie esaminata dalla più recente giurisprudenza (Cons.Stato, sez. VI,.n. 183 del 2020) si ha riguardo ad ipotesi con “tratti di peculiarità che giustificano la non operatività del principio generale della insussistenza di un obbligo di provvedere sulla domanda di ritiro in autotutela di un precedente provvedimento adottato dall'amministrazione”; nello specifico si trattava di un ordine di demolizione, adottato dal Comune sul presupposto di una sentenza di condanna penale risultando al contempo pendente, in detta sede, incidente di esecuzione diretto alla revoca del medesimo   
Annullamento d’ufficio e revoca
Energia elettrica - Impianti di produzione di elettricità – Assegnazione di quote di anidride carbonica - Rimessione alla Corte di Giustizia Ue.       Sono rimesse alla Corte di Giustizia Ue le questioni se la deliberazione assunta dal Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto, in considerazione della procedura di adozione e, in particolare, del meccanismo di interlocuzione con la Commissione europea previsto dal Regolamento delegato (Ue) 2019/331 in merito all’inclusione degli impianti all’interno dell’elenco per l’assegnazione di quote CO2 possa formare oggetto di autonoma impugnazione innanzi al Tribunale dell’Unione europea ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE laddove l’atto impugnato sia produttivo di effetti giuridici vincolanti e riguardi direttamente l’operatore economico ricorrente; se, in caso contrario, possa il privato operatore economico direttamente leso dall’esclusione dalle assegnazioni di quote CO2 sulla scorta dell’istruttoria condotta di concerto dalla Commissione europea e dal Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto impugnare la decisione assunta dalla Commissione europea di rifiutare l’inclusione dell’impianto nell’elenco ai sensi dell’art. 14 comma 4 del dal Regolamento delegato (Ue) 2019/331 innanzi al Tribunale dell’Unione europea ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE; se la nozione di «impianto di produzione di elettricità» ai sensi dell’Articolo 3(u) della Direttiva 2003/87/CE, come risultante dalla sentenza della Corte (Quinta Sezione) 20 giugno 2019, nella causa C-682/17, ExxonMobil Production Deutschland GmbH contro Bundesrepublik Deutschland, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Verwaltungsgericht Berlin (Tribunale amministrativo di Berlino, Germania), con decisione del 28 novembre 2017, ricomprenda anche situazioni in cui l’impianto produca in minima parte energia elettrica cogenerativa, non ad alto rendimento, caratterizzandosi per una pluralità di fonti di energia termica diverse dalla cogenerazione aventi le caratteristiche per il riconoscimento delle quote gratuite di emissione; se una tale interpretazione della definizione di «impianto di produzione di elettricità» sia compatibile con i principi generali di diritto dell’Unione del rispetto delle condizioni concorrenziali tra operatori in caso di concessione di incentivi e di proporzionalità della misura laddove esclude totalmente un impianto connotato da una pluralità di fonti di energia, senza scorporazione dei valori di emissione riferiti alle fonti di calore diverse dalla cogenerazione aventi pieno titolo a ricevere i benefici previsti.    (1) V. anche ordd. 25 gennaio 2022, nn. 828, 829 e 836.  Ha ricordato la Sezione che il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE (European Union Emissions Trading Scheme - UE ETS) è una delle pietre angolari su cui si fonda la politica dell'UE per contrastare i cambiamenti climatici e uno strumento essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra. È il primo mercato mondiale della anidride carbonica (CO2) e continua a essere il più esteso.  Tale sistema, attivo in 31 Paesi (i 28 dell'UE, più l'Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia) coinvolge le emissioni prodotte da oltre 11.000 impianti ad alto consumo di energia (centrali energetiche e impianti industriali) e dalle compagnie aeree che collegano tali Paesi e circa il 45% delle emissioni di gas a effetto serra dell'UE ed opera secondo il principio della limitazione e dello scambio delle emissioni.  Viene fissato un tetto alla quantità totale di alcuni gas serra che possono essere emessi dagli impianti che rientrano nel sistema e questo tetto si riduce nel tempo di modo che le emissioni totali diminuiscano.  Entro questo limite, le imprese ricevono o acquistano quote di emissione che, se necessario, possono scambiare. Le imprese possono anche acquistare quantità limitate di crediti internazionali da progetti di riduzione delle emissioni di tutto il mondo. La limitazione del numero totale garantisce che le quote disponibili abbiano un valore.  Alla fine di ogni anno le società devono restituire un numero di quote sufficiente a coprire le loro emissioni se non vogliono subire pesanti multe. Se un’impresa riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote inutilizzate per coprire il fabbisogno futuro, oppure venderle a un’altra impresa che ne sia a corto.  Lo scambio crea flessibilità e garantisce che le riduzioni delle emissioni avvengano quando sono più convenienti. Un solido prezzo della CO2 favorisce inoltre gli investimenti in tecnologie pulite e a basso rilascio di CO2.  La Direttiva 2003/87/CE (Direttiva ETS – successivamente modificata dalla direttiva 2009/29/CE e, da ultimo, dalla direttiva 2018/410/UE), che è la base del sistema ETS prevede, quindi, che dal 1° gennaio 2005 gli impianti grandi emettitori dell’Unione Europa non possano funzionare senza un’autorizzazione alle emissioni di gas serra. Ogni impianto autorizzato deve compensare annualmente le proprie emissioni con quote (European Union Allowances – EUA, equivalenti a 1 tonnellata di CO2eq) che possono, come detto, essere comprate e vendute dai singoli operatori interessati. Gli impianti possono acquistare le quote nell’ambito di aste pubbliche europee o riceverne a titolo gratuito. In alternativa, possono approvvigionarsene sul mercato.  La Direttiva ETS stabilisce che dal 2013 gli impianti di produzione di energia elettrica e gli impianti che svolgono attività di cattura, trasporto e stoccaggio del carbonio (CCS) devono approvvigionarsi all’asta di quote per l’intero del proprio fabbisogno (assegnazione a titolo oneroso). Al contrario, gli impianti afferenti i settori manifatturieri hanno diritto all'assegnazione a titolo gratuito, sulla base del loro livello di attività e di standard di riferimento (benchmark) elaborati dalla Commissione europea e validi a livello europeo.  I settori ad elevato rischio di carbon leakage, ossia esposti al rischio delocalizzazione a causa dei costi del carbonio verso paesi con politiche ambientali meno rigorose, beneficiano di un’assegnazione di quote a titolo gratuito pari al 100% del proprio benchmark di riferimento.  L’articolo 10 bis, paragrafo 6, della direttiva ETS prevede che gli Stati membri possano adottare “misure finanziarie a favore di settori o sottosettori considerati esposti a un rischio elevato di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio a causa dei costi connessi alle emissioni di gas a effetto serra trasferiti sui prezzi dell’energia elettrica, al fine di compensare tali costi e ove tali misure finanziarie siano conformi alle norme sugli aiuti di Stato applicabili e da adottare in tale ambito”. Tali norme sono pubblicate sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea n. 158 del 5 giugno 2012.  In Italia, col decreto legislativo n. 216/2006 e successivamente col decreto legislativo n. 30/2013 il Comitato Nazionale per la gestione della direttiva 2003/87/CE e per la gestione delle attività di progetto del Protocollo di Kyoto (Comitato ETS) è stato individuato come l’Autorità nazionale competente per l’attuazione dell’ETS.  Il Comitato ETS è un organo interministeriale presieduto dal Ministero dell’Ambiente e partecipato dai Ministeri dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. Tra le altre funzioni, il Comitato ETS determina il quantitativo annuo di quote da assegnare a titolo gratuito ai gestori eleggibili conformemente alle norme unionali, con particolare riferimento alle regole per l’assegnazione gratuita delle quote (art. 24 D.lgs. 47/2020). 
Energia elettrica
Covid-19 – Lazio – Assistenza domiciliare ai malati Covid - Ordinanza del Presidente della Regione Lazio - Affidamento ai medici di base – Illegittimità.               E’ illegittima l’ordinanza del Presidente della Regione Lazio che affida ai medici di medicina generale il compito di assistenza domiciliare ai malati Covid, atteso che tali funzioni di assistenza sono affidati dagli artt. 8, d.l. n. 14 del 2020 e 4 bis, d.l. m. 18 del 2020 unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale, istituite dal legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che nel Lazio le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCAR) si occupano prevalentemente dell’assistenza in situazioni di comunità ed in maniera assolutamente residuale dei soggetti a domicilio che non siano presi in carico da altra forma organizzativa, che peraltro non esiste.  L’art 8, comma 1, d.l. n. 14 del 2020 ha inteso prevedere che i medici di medicina generale potessero proseguire nell’attività assistenziale ordinaria, senza doversi occupare dell’assistenza domiciliare dei pazienti Covid.  E tale previsione è stata replicata in modo identico nell’art. 4-bis, d.l. n. 18 del 2020.  Oltretutto, a ulteriore chiarimento della descritta impostazione, al comma 2 del citato art. 4 bis è specificato pure che “il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta o il medico di continuità assistenziale comunicano all'unità speciale di cui al comma 1, a seguito del triage telefonico, il nominativo e l'indirizzo dei pazienti di cui al comma 1”. ​​​​​​​
Covid-19
Processo amministrativo – Covid-19 – Giudizio cautelare – Decisione ex artt. 56 c.p.a. e 84, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 – Decreto monocratico – Richiesta con memoria non notificata - Sufficienza.         La domanda cautelare ex art. 55 c.p.a. fonda la procedibilità dell’istanza cautelare con decreto monocratico ex art. 84, d.l. n. 18 del 2020, riferita a ricorso presentato il 12 marzo 2020 e pendente nel periodo fra l’8 marzo ed il 15 marzo 2020, anche se contenuta in memoria non notificata, essendo volta solo a sollecitare la decisione monocratica già prevista direttamente dal citato art. 84 (1). (1) Ha chiarito il decreto che alla decisione monocratica cautelare di cui all’art. 84, d.l. n. 18 del 2020 non si applica l’art. 56, comma 1, c.p.a., e quindi il presupposto dell’estrema gravita ed urgenza, essendo la stessa da emanare in presenza dei presupposti di cui all’art. 55 c.p.a., anche se con forma e rito monocratico e da confermarsi in sede collegiale in apposita camera di consiglio da tenersi successivamente al 15 aprile 2020
Processo amministrativo
         L’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tribunale amministrativo regionale deve ritenersi, di norma, inammissibile sia per ragioni testuali legate alla lettera della legge che per ragioni sistematiche, in quanto né previsto, né configurabile, in via distinta ed autonoma, ai sensi dell’art. 56 c.p.a., e altresì prevedendo il Codice di rito l’appellabilità delle sentenze e delle ordinanze (art. 62 e 100, c.p.a.) e non anche dei decreti; conseguentemente, la questione di revisione e/o riforma del decreto va trattata - salvo casi del tutto eccezionali di provvedimento che abbia solo veste formale di decreto ma contenuto sostanziale decisorio - nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione della conseguente camera di consiglio, la cui ordinanza cautelare potrà semmai a letterale tenore dell’art. 62 c.p.a. formare oggetto di appello cautelare (1).    (1) Ha chiarito il C.g.a. che le ipotesi di provvedimenti monocratici impugnabili aventi solo veste formale di decreto o “decreti meramente apparenti” si configurano esclusivamente nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere, come negli eccezionali casi di un decreto cui non segua affatto una camera di consiglio o in cui la fissazione della camera di consiglio avvenga con una tempistica talmente irragionevole da togliere ogni utilità alla pronuncia collegiale con incidenza sul merito del giudizio con un pregiudizio irreversibile (di talché residuino al limite questioni risarcitorie) dovendo in tali casi intervenire il giudice di appello per restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado.  Ha aggiunto il C.g.a. che siffatta definizione irreversibile della res controversa con decreto monocratico deve comportare un danno irreparabile a diritti fondamentali della persona umana, danno che non discende ex se dalla sola circostanza che il provvedimento impugnato esaurisca i propri effetti prima della camera di consiglio collegiale in primo grado, e che pertanto in sede collegiale non sia più conseguibile una tutela in forma specifica mediante la rimozione del provvedimento contestato   che ha respinto la domanda di sospensione. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Edilizia – Agibilità - Conformità urbanistica – Nnecessità.         La conformità urbanistica dell’opera sia requisito imprescindibile anche ai fini dell’agibilità di un immobile (1).    (1) Occorre innanzi tutto chiarire come il termine “agibilità” sia stato in passato utilizzato dal legislatore in un’accezione del tutto diversa da quella attualmente riconducibile alla richiamata disciplina urbanistica, con ciò generando una certa confusione interpretativa ed atecnicità di linguaggio, in particolare in relazione a specifiche tipologie di immobili. Ad essa, ad esempio, si fa ancora oggi riferimento in relazione alla certificazione dei requisiti di solidità e sicurezza che devono possedere i teatri e luoghi di pubblico spettacolo ai sensi dell’art. 80 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, T.U.L.P.S, denominata, appunto, “licenza di agibilità”, nell’art. 1, comma 1, n. 9, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che ha trasferito la competenza al relativo rilascio ai Comuni. L’art. 220 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, invece, disciplinava la c.d. “abitabilità”, ovvero la fruibilità degli immobili a fini abitativi. La norma disponeva che «I progetti per le costruzioni di nuove case, urbane o rurali, quelli per la ricostruzione o la sopraelevazione o per modificazioni, che comunque possono influire sulle condizioni di salubrità delle case esistenti debbono essere sottoposti al visto del podestà, che provvede previo parere dell’ufficiale sanitario e sentita la commissione edilizia». Agli stessi tipi di immobili (“abitazioni”) aveva riguardo anche il d.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, contenente il Regolamento recante disciplina dei procedimenti di autorizzazione all’abitabilità. L’art. 4, comma 1, dello stesso prevedeva che ai fini del rilascio del documento di cui all’art. 220 del T.U.L.S. il direttore dei lavori attestasse sotto la propria responsabilità, anche «la conformità rispetto al progetto approvato». Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 380 del 2001, la “abitabilità” cede il passo (a seguito dell’abrogazione sia dell’art. 220 del T.U.L.S. che del d.P.R. n. 425/1994) alla omnicomprensiva “agibilità”, siccome riferita a qualsivoglia tipologia di edificio, non solo di natura abitativa. Il relativo termine sopravvive pertanto esclusivamente nel gergo degli operatori del settore, che continuano ad utilizzarlo in relazione agli immobili a destinazione residenziale per distinguerli da quelli con diversa destinazione d’uso, per i quali quello nuovo di “agibilità” si palesa anche etimologicamente più confacente. L’art. 24, dunque, nella sua stesura originaria, vigente al momento dell’odierna controversia, stabiliva che: «Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente». La presunta tassatività dell’elencazione non tiene tuttavia conto del fatto che il successivo art. 25, che declina il procedimento di rilascio, nell’elencare le declaratorie a corredo della richiesta, menziona espressamente la «conformità dell’opera rispetto al progetto approvato», ovvero, in buona sostanza, la sua regolarità edilizia e, conseguentemente, urbanistica. ​​​​​​​Come emerge dal delineato quadro normativo, quindi, il rilascio del certificato di agibilità, ovvero, oggi, la sua dichiarazione, presuppone una molteplicità di valutazioni ulteriori rispetto a quelle che erano sottese al vecchio certificato di abitabilità, cui il primo pertanto non può essere del tutto assimilato, siccome affermato dal primo giudice. Di ciò è prova proprio nell’art. 26 del d.P.R. n. 380 del 2001. Nel consentire, infatti, al Sindaco di intervenire comunque dichiarando la inabitabilità di un immobile, già certificato come agibile, ai sensi dell’art. 222 del T.U.L.S., il legislatore ha inteso ribadire le differenze tra i due istituti: altro è, infatti, la strutturale conformità del fabbricato a tutti i requisiti richiesti e, in parte, assorbiti nella conformità al titolo edilizio in forza del quale è stato realizzato, altro la sua (sopravvenuta) carenza di requisiti igienici tale da non consentirne l’occupazione a fini abitativi. Anche prima della riforma che ne ha ricondotto il conseguimento ad una mera segnalazione certificata, il procedimento di acquisizione della agibilità si connotava per la sostanziale attribuzione al privato richiedente dell’onere di dimostrare la regolarità di quanto realizzato, salvo poter richiedere comunque al Comune di “certificarne” i contenuti. Solo a seguito della acquisizione della stessa, peraltro, può considerarsi legittimo l’utilizzo in concreto dell’immobile in conformità con la propria destinazione d’uso, seppure il relativo illecito sia punito con una sanzione pecuniaria di non particolare entità. Al fine, dunque, di non procrastinare indebitamente proprio la fruizione del bene, ovvero la sua commerciabilità, il comma 4 dell’art. 25, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che decorsi trenta giorni dalla ricezione della domanda, ovvero, in caso di presenza del richiesto parere della A.S.L., sessanta giorni, l’inerzia dell’Amministrazione abbia validità di assenso….Diversamente opinando, ovvero ritenendo certificabile come agibile anche un immobile abusivo, purché conforme ai requisiti igienico-sanitari e di risparmio energetico previsti, si finirebbe per trasformare la relativa qualificazione in una sorta di ulteriore sanatoria cartolare, ovvero, al contrario, per svuotarne completamente la portata, stante che la natura permanente dell’illecito edilizio ad essa sottesa non ne impedirebbe comunque l’assoggettamento al previsto regime sanzionatorio…In sintesi, la violazione di una convenzione accessiva ad un Piano attuativo urbanistico impatta sulla regolarità dei lavori eseguiti, condizionando la validità del titolo. Essendo la agibilità la summa del possesso dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, essa non può essere conseguita nel caso in cui il titolo edilizio sottostante, seppure esistente, non possa considerarsi efficace, sicché non ne è necessario il preventivo annullamento. 
Edilizia
L’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012, convertito in l. n. 27 del 2012, ha inteso riaffermare la regola dell’alternatività nella scelta tra l’una e l’altra sede da parte dei farmacisti persone fisiche che partecipano al concorso straordinario, in coerenza con la regola generale dell’art. 112, commi 1 e 3, r.d. n. 1265 del 1934, sicché il farmacista assegnatario di due sedi deve necessariamente optare per l’una o per l’altra sede; tale regola dell’alternatività o non cumulabilità delle sedi vale per tutti i farmacisti candidati, che concorrano sia singolarmente che “per” la gestione associata, prevista dall’art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012, la quale non costituisce un ente giuridico diverso dai singoli farmacisti, ma è espressione di un accordo partecipativo, comportante il cumulo dei titoli a fini concorsuali e inteso ad assicurare la gestione associata della farmacia in forma paritetica, solo una volta ottenuta la sede, nelle forme consentite dall’art. 7, comma 1, l. n. 362 del 1991 (1).   La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ord. n. 759 del 19 agosto 2019.   (1) L’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012 prevede, ai fini che qui rilevano e come si è già sopra ricordato, che «ciascun candidato può partecipare al concorso per l’assegnazione della farmacia in non più di due regioni o province autonome» e consente espressamente, quindi, che i farmacisti, persone fisiche, possano prendere parte a non più di due concorsi straordinari banditi dalle varie Regioni o Province autonome. Il concorso straordinario previsto dall’art. 11, d.l. n. 1 del 2012 per l’assegnazione delle sedi istituite in base ai nuovi criterî da esso introdotti ha avuto il fine, dichiarato nel comma 1, di «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge, nonché di favorire le procedure per l’apertura di nuove sedi farmaceutiche garantendo al contempo una più capillare presenza sul territorio del servizio farmaceutico» (Cons. St., sez. III, 4 ottobre 2016, n. 4085). A tale essenziale fine e, cioè, per favorire anzitutto l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, l’art. 11, comma 3, d.l. n. 1 del 2012 ha previsto espressamente che non possano partecipare al concorso straordinario i farmacisti titolari, compresi i soci di società titolari, di farmacia diversa da quelle di cui alle lettere b) e c) e, cioè, di farmacia rurale sussidiata e di farmacia soprannumeraria.   In questa prospettiva si colloca la previsione dell’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012, che consente ai farmacisti, che non siano già titolari di altra sede, di partecipare al concorso straordinario per l’assegnazione di farmacia in non più di due Regioni o Province autonome. È quindi chiaro, secondo le regole generali, di cui l’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012 costituisce specifica applicazione per il concorso straordinario, che i farmacisti candidati, ammessi al concorso straordinario in quanto non siano già titolari di altra sede, ben possano concorrere, singolarmente o in forma associata, a due distinte sedi, su base regionale o provinciale, ma devono poi scegliere una tra le due sedi, non potendo ottenerle cumulativamente (c.d. principio dell’alternatività), poiché devono dedicare la loro attività personale necessariamente all’una o all’altra, a presidio del servizio farmaceutico erogato sul territorio nazionale e in funzione della salute quale interesse dell’intera collettività (art. 32 Cost.) e non quale bene meramente utilitaristico-individuale, oggetto solo di valutazioni economico-imprenditoriali.   Una diversa soluzione, la quale conducesse a ritenere che dall’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012 e, nel caso di specie, dalla pedissequa previsione dell’art. 4 del bando si desuma la possibilità di assegnare due sedi allo stesso o agli stessi candidati, non solo si porrebbe in contrasto con l’interpretazione letterale – secondo l’antico canone ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit – della disposizione in esame, che ha consentito testualmente, ed espressamente, solo la partecipazione al concorso straordinario in non più di due Regioni o Province autonome e non già l’assegnazione di due distinte sedi in deroga alle regole generali in favore dello stesso o degli stessi farmacisti, ma anche sul piano teleologico con la ratio della previsione stessa, che è quella già ricordata di favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge. Ciò che, evidentemente, sarebbe reso quantomeno più difficoltoso dal fatto lo stesso o gli stessi farmacisti ottengano la titolarità di due sedi in due diverse Regioni ne sottraggano una ad altri, pure aventi titolo, seppure successivi ad esso o ad essi nella graduatoria. L’ottenimento di ben due sedi concretizzerebbe un vantaggio anticompetitivo del tutto ingiustificato, a fronte dello sbarramento previsto dall’art. 11, comma 3, d.l. n. 1 del 2012 per i farmacisti già titolari di sede, nei confronti dei quali soltanto, e per la mera casualità di essere già titolari di una sede farmaceutica, opererebbe invece il divieto di cumulo dell’art. 112, r.d. n. 1265 del 1934 e dell’art. 7, comma 1, l. n. 326 del 1991, certamente e incontestabilmente – nemmeno gli appellanti lo contestano – tuttora vigente quantomeno per il farmacista individuale già titolare di sede. Nel senso dell’applicabilità del divieto del cumulo anche ai farmacisti concorrenti per la gestione associata, peraltro, va ricordato che questo Consiglio di Stato si è già pronunciato, seppure in sede di appello cautelare, con due ordinanze (Cons. St., sez. III, ord., 11 maggio 2018, n. 2127).   Ha aggiunto l’Alto consesso che i farmacisti concorrono alla sede messa a concorso straordinario «per la gestione associata», come espressamente prevede l’art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012, gestione che, al momento del concorso e fino all’assegnazione della sede, non può essere realizzabile e ciò significa che detta gestione in forma associativa della sede, non conseguibile se non all’esito del concorso, indica solo la finalità della partecipazione in forma associata o, se si preferisce, cumulativa, non già una realtà esistente (del resto impossibile prima che la sede sia ottenuta), sicché è vano sul piano cronologico, prima che ancora errato sul piano giuridico, discettare se la gestione associata sia un quid diverso e ulteriore rispetto ai singoli farmacisti associati o un tertium genus rispetto alla gestione individuale o collettiva. Ha aggiunto che i singoli farmacisti possono aspirare alla gestione associata della sede, come prevede l’art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012, «sommando i titoli posseduti», e la loro partecipazione “associata” al concorso straordinario, sulla base di un accordo inteso alla futura gestione - assimilabile, forse e a tutto concedere, ad un contratto plurilaterale con comunione di scopo o ad un pactum de ineunda societate - comporta un mero cumulo di titoli in vista -appunto: «per la» – futura gestione associata della sede agognata. Solo ove detto cumulo – previsto dal legislatore, anche in questo caso, per «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge», con una ulteriore vistosa deroga al principio meritocratico tipico del concorso, e non già, ancora una volta, per consentire agli stessi farmacisti associati di ottenere addirittura la titolarità di ben due farmacie – risulterà fruttuoso sul piano della graduatoria e condurrà all’assegnazione della sede a quegli stessi farmacisti, persone fisiche, si porrà, poi, l’effettivo problema della gestione della farmacia in forma “collettiva”. La titolarità della farmacia attribuita alla società da essi costituita per garantire la gestione associata, nelle forme ora consentite dall’art. 7, comma 1, l. n. 362 del 1991, sarà peraltro «condizionata al mantenimento della gestione associata da parte degli stessi vincitori, su base paritaria, per un periodo di tre anni dalla data di autorizzazione all’esercizio della farmacia, fatta salva la premorienza o sopravvenuta incapacità» (art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012).
Farmacia
Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana - Funzioni consultive – Adunanze - Collegamento da remoto – Possibilità. Processo amministrativo – Termini – Sospensione emergenza Covid-19  - Art. 3, comma 1, d.l. n. 11 del 2020 – Ambito di applicazione.             Il collegamento da remoto per lo svolgimento dell’adunanza è conseguentemente modalità alternativa allo svolgimento in aula dei lavori purché sia garantita la riservatezza del collegamento e la segretezza (1).           Il periodo di sospensione dei termini dall’8 al 22 marzo 2020, previsto dall’art. 3, comma 1, d.l. n. 11 del 2020, riguarda esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.) e non anche i citati termini endoprocessuali (2).   (1) Ha chiarito il parere che tale modalità consente di tutelare la salute dei magistrati componenti la Sezione, o la Commissione speciale, senza pregiudicare il funzionamento dell’Ufficio (che continuerà ad operare a pieno regime), rispondendo altresì alle direttive impartite dal Governo, proprio in questa fase di emergenza, in materia di home working o smart working, senza oneri per le finanze pubbliche. Tale conclusione risulta peraltro in linea con quanto stabilito dall’articolo 1, comma 1, lett. q), d.P.C.M. 8 marzo 2020 (pubblicato sulla g.u. 8 marzo 2020 n. 60, nella parte in cui stabilisce che «sono adottate, in tutti i casi possibili, nello svolgimento di riunioni, modalità di collegamento da remoto»), ora esteso all’intero territorio nazionale dall’art. 1, d.P.C.M 9 marzo 2020. Altre disposizioni di legge, pur non riferite espressamente all’attività consultiva del Consiglio di Stato ma a quella amministrativa, sono la chiara dimostrazione di un indirizzo legislativo volto a potenziare il ricorso agli strumenti telematici. Ed invero nelle norme sotto elencate può trovarsi una conferma: a. art. 3 bis, l. n. 241 del 1990 (“Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l'uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati”); b. art. 14, comma 1, l. n. 241 del 1990 (“La prima riunione della conferenza di servizi in forma simultanea e in modalità sincrona si svolge nella data previamente comunicata ai sensi dell'art. 14-bis, comma 2, lett. d), ovvero nella data fissata ai sensi dell'art. 14-bis, comma 7, con la partecipazione contestuale, ove possibile anche in via telematica, dei rappresentanti delle amministrazioni competenti”); c. art. 12, d.lgs. n. 82 del 2005 e in particolare comma 1 (“Le pubbliche amministrazioni nell'organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell'informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per l'effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese di cui al presente Codice in conformità agli obiettivi indicati nel Piano triennale per l'informatica nella pubblica amministrazione di cui all'art. 14-bis, comma 2, lett. b)”) e comma 3 bis (“I soggetti di cui all'art. 2, comma 2, favoriscono l'uso da parte dei lavoratori di dispositivi elettronici personali o, se di proprietà dei predetti soggetti, personalizzabili, al fine di ottimizzare la prestazione lavorativa, nel rispetto delle condizioni di sicurezza nell'utilizzo”); d. art. 45, comma 1, d.lgs. n. 82 del 2005 (“I documenti trasmessi da soggetti giuridici ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, idoneo ad accertarne la provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale”).   (2) Ha chiarito il parere che la rapida diffusione dell’epidemia giustifica pienamente il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali, disposto dal decreto nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, lo spostamento delle persone per la celebrazione delle predette udienze, nonché la trattazione monocratica delle domande cautelari (salva successiva trattazione collegiale), sempre allo scopo di evitare lo spostamento delle persone e la riunione delle stesse all’interno degli uffici giudiziari, non sembra reperirsi adeguata giustificazione, invece, per la dilatazione dei termini endoprocessuali. Appare, pertanto, sicuramente più in linea con la ratio del decreto legge l’interpretazione della norma nel senso che il periodo di sospensione riguardi esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.) e non anche i citati termini endoprocessuali. Per tale diversa opzione esegetica è vivo l’auspicio della Commissione che si intervenga prontamente ed urgentemente, alla prima occasione utile, a livello normativo, con provvedimento chiarificatore di carattere interpretativo e quindi di portata retroattiva, in modo da assicurare la certezza nella materia dei termini processuali a beneficio di tutte le parti dei giudizi. La Commissione, ben consapevole in ogni caso delle difficoltà connesse ad un’interpretazione meramente letterale della disposizione, ritiene, per tale ragione, che spetti al Collegio incaricato della trattazione della causa valutare attentamente, di volta in volta, la possibilità di accordare la rimessione in termini, per errore scusabile, alla parte che non ha potuto provvedere agli adempimenti e ai depositi nei termini di legge, possibilità questa prevista in via generale dall’art. 37 c.p.a. e, con specifico riferimento all’emergenza nazionale, anche dall’art. 3, comma 7, del decreto (tale ultima norma, pur richiamando solo i commi 2 e 3 del già citato art. 3, non fa venir meno, ad avviso della Commissione, la portata generale dell’istituto di cui all’art. 37 c.p.a. e, dunque, la possibilità di applicarla in via generale). Come è noto, infatti, il giudice, in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto (circostanze entrambe che potrebbero ben ricorrere in casi del genere), può disporre, anche d'ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile.
Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana
Società in house - Personale – Sicilia – Blocco assunzioni – Categorie protette – Deroga al blocco assunzionale.      Le assunzioni obbligatorie delle categorie protette di cui alla l. n. 68 del 1999 sono escluse dal blocco assunzionale previsto per le società partecipate della Regione Siciliana (1).    (1) Ha affermato la Sezione che la soluzione della questione, nei termini appena citati, trovi pieno riscontro nei principi di rango costituzionale e di livello comunitario in cui la stessa si inserisce. Il riferimento è in primo luogo all’art. 38, comma 3, Cost. in cui si legge che «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale».  Il costituente, nell’inserire tale principio nell’ambito del Titolo dedicato ai rapporti economici, ha evidentemente inteso porre alla base dell’ordinamento l’esigenza di tutelare e supportare le categorie deboli non solo in via assistenziale, ma anche promuovendo l’inserimento di tali soggetti nel mondo del lavoro, pur nell’ambito dell’economia di mercato. Proprio a tale logica risponde, con ogni evidenza, la l. n. 68 del 12 marzo 1999, recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», la quale, quindi, gode di un fondamento costituzionale. Ma vi è di più. Invero, se la Costituzione sancisce il diritto dei disabili all’avviamento professionale e offre copertura alla normativa di settore (l. n. 68 del 1999), tale principio trova riconoscimento anche a livello eurocomunitario. Più nello specifico, all’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rubricato «Inserimento delle persone con disabilità» e inserito significativamente nel Titolo dedicato all’Uguaglianza, in cui si legge che «L’ Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità».  Peraltro, è giusto il caso di ricordare che, con l’entrata in vigore dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, è stato espressamente attribuito alla Carta dei Diritti Fondamentali lo stesso valore giuridico dei Trattati.  Sicché se è vero che a norma dell’art. 51 di tale Carta le disposizioni in essa contenute vincolano gli Stati Membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», è nondimeno evidente che la salvaguardia dei diritti di tali categorie deboli, anche sotto il profilo di promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, rappresenta uno dei valori posti a fondamento del progetto euro-unitario. Vincoli più stringenti quanto a politiche attive di integrazione e tutela dei disabili si riscontrano, poi, sul piano del diritto internazionale pattizio. Il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e al relativo protocollo opzionale, sottoscritta dall’Italia già a marzo 2007 e la cui ratifica è stata autorizzata dal Parlamento con legge del 3 marzo 2009 n. 18. In particolare, a norma dell’art. 27 della citata Convenzione «Gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri; segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro […] prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – in particolare al fine di:  […] (g) assumere persone con disabilità nel settore pubblico; (h) favorire l’impiego di persone con disabilità nel settore privato attraverso politiche e misure adeguate che possono includere programmi di azione antidiscriminatoria, incentivi e altre misure […]».  La centralità che in tale ottica ricopre la l. n. 68 del 1999 è poi espressamente riconosciuta nel primo Rapporto alle Nazioni Unite trasmesso dall’Italia, in conformità a quanto previsto dall’art. 35 della convenzione, a fine novembre 2012.  Invero, in tale rapporto, in relazione all’attuazione del citato art. 27 si legge che «la principale misura legislativa», sotto tale profilo, è rappresentata proprio dalla legge n. 68 del 1999 in quanto volta all’inserimento e all’integrazione lavorativa delle persone con disabilità. In tale documento si evidenzia, tra l’altro, proprio la circostanza che la normativa in parola impone ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, che presentino determinati requisiti dimensionali, di avere alle loro dipendenze lavoratori con disabilità individuando a tal fine una “quota di riserva”.  Ciò posto, non è poi superfluo evidenziare che, stipulando tale Convenzione, lo Stato Italiano si è obbligato non solo ad adottare le misure adeguate a dare attuazione ai diritti da essa riconosciuti ma anche «ad astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione ed a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione».  Né è possibile dubitare dell’effettiva cogenza degli impegni assunti per il legislatore non solo nazionale ma anche regionale.  Invero, gli obblighi internazionali assunti costituiscono, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., parametri interposti di costituzionalità. È noto, sul punto, il principio espresso dalla Corte costituzionale secondo il quale le norme convenzionali internazionali «integrano il parametro costituzionale», pur rimanendo ad un livello sub-costituzionale ed essendo pertanto necessario verificare la loro conformità non solo rispetto ai principi supremi del nostro ordinamento (come avviene nel caso del diritto dell’Unione Europea), ma rispetto a tutte le norme costituzionali (Corte cost., sent. nn. 348-349/2007, c.d. “sentenze gemelle”). Nel caso de quo, alla luce delle considerazioni svolte, in particolare con riferimento all’art. 38 Cost., è di ogni evidenza l’esito positivo di tale verifica.  Dal nuovo sistema delle fonti tracciato dalla Corte costituzionale deriva, in primo luogo e per quanto di rilievo nel caso oggetto del presente procedimento, che il giudice nazionale nell’interpretare le norme interne è tenuto a privilegiare quell’interpretazione che non si ponga in contrasto con il diritto pattizio laddove in caso di irriducibili antinomie lo stesso dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale per la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.  Pertanto, è innanzitutto in tale ottica che è necessario affrontare la questione relativa all’operatività del c.d. blocco delle assunzioni per il settore pubblico previsto ai sensi dell’art. 1, comma 10, l.reg. Sicilia n. 25 del 2008, anche con riferimento ai soggetti tutelati ex l. n. 68 del 1999.  La questione, in particolare, è venuta in rilievo in quanto la successiva l. reg. società partecipate n. 11 del 2010, all’art. 20, comma 6, ha previsto, con specifico riferimento alle società a totale o maggioritaria partecipazione della Regione Siciliana, il divieto di procedere a nuove assunzioni di personale «ivi comprese quelle già autorizzate e quelle previste da disposizioni di carattere speciale». Tale divieto sarebbe parso poi ulteriormente rafforzato da due recenti delibere della Giunta Regionale, rispettivamente la n. 492 del 30 dicembre 2019 e la n. 619 del 31 dicembre 2020.  Assume, quindi, fondamentale importanza stabilire se tra le disposizioni a carattere speciale richiamate dalla legge regionale debba o meno considerarsi compresa altresì la l. n. 68 del 1999. Tuttavia, avuto riguardo ai valori sanciti a livello costituzionale ed europeo, nonché alla luce degli obblighi internazionali assunti dallo Stato Italiano come ricostruiti supra, risulta evidente che la soluzione debba essere, e non possa non essere, quella che esclude che il blocco delle assunzioni sancito dal legislatore regionale ricomprenda altresì i lavoratori disabili sia pure limitatamente alle quote di riserva stabilite dalla legge n. 68 del 1999. In altre parole, l’obiettivo di tutela dei soggetti con disabilità, anche sotto il profilo della promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, ha un rilievo a livello non solo costituzionale, ma anche internazionale, tale da impedire che lo stesso venga sacrificato per ragioni di mera opportunità finanziaria.  ​​​​​​​In quest’ottica si pone, d’altra parte, anche la pronuncia della Corte dei conti, Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, opportunamente richiamata dall’Ufficio legislativo e legale, in base alla quale «i rapporti tra la normativa che prevede le c.d. assunzioni obbligatorie per le categorie protette, da un lato, e le norme finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed al risanamento dei bilanci delle amministrazioni pubbliche promulgate negli ultimi anni – tra cui chiaramente rientrano anche le disposizioni in materia di blocco delle assunzioni -, dall’altro, ancorché non debbano ritenersi incompatibili o inconciliabili, devono, comunque, risolversi nel senso della prevalenza delle disposizioni che impongono obblighi assunzionali di soggetti appartenenti alle categorie protette, nei limiti della copertura della c.d. quota d’obbligo, sulle previsioni che pongono vincoli e divieti di assunzione». (Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, n. 36/2008/SSRR/PAR del 10 dicembre 2008, n. 49/2011/SSRR/PAR dell’1 luglio 2011, n. 29/SSRR/PAR del 29 agosto 2013, n. 76/SSRR/PAR del 31 ottobre 2012). 
Società in house
  Criminalità organizzata – Beni confiscati – Confisca – Definitività – Con la definitività delle relative pronunce penali – Sgombero - Pendenza del giudizio dinanzi alla Cedu – Possibilità.         Ai sensi dell'art. 27, d.lgs. n. 159 del 2011, i provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati alla criminalità organizzata, quale misura di prevenzione antimafia, diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce penali; le pronunce del giudice penale acquisiscono carattere definitivo, vale a dire passano in giudicato (art. 648 c.p.p.), quando non sono proponibili impugnazioni diverse dalla revisione, ovvero sia decorso inutilmente il termine per proporre impugnazioni, ovvero sia stato dichiarato inammissibile o rigettato il ricorso per cassazione; la pendenza del giudizio dinanzi alla Corte Europea dei Diritti Umani, proposto avverso la confisca dei beni sequestrati alla criminalità organizzata, non incide sulla possibilità di procedere alla sgombero del bene ed alla sua destinazione ad altro; gli artt. 45 e 45 bis, d.lgs. n. 159 del 2011, laddove fanno riferimento al “provvedimento definitivo di confisca”, alludono al provvedimento di confisca che sia da ritenersi “definitivo” in base alle norme dell’Ordinamento italiano, e quindi al provvedimento di confisca in relazione al quale non possa essere esperito un rimedio impugnatorio interno; qualora la Cedu dovesse riconoscere fondatezza al ricorso presentato, non per tale ragione verrebbe meno, automaticamente, la validità del decreto di confisca, dovendo in tale circostanza lo Stato italiano adottare misure idonee a porre i ricorrenti in una situazione simile a quella in cui si sarebbero trovati ove non vi fosse stata inosservanza alcuna della Convenzione, e tali misure non necessariamente dovrebbero comportare la restituzione della proprietà dell’immobile (1).
Criminalità organizzata
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Fatturato specifico - Affitto di ramo d’azienda - Durata inferiore rispetto alla durata dell’appalto aggiudicato – Irrilevanza – Ratio.    Il requisito del fatturato specifico ottenuto nel triennio precedente alla pubblicazione del bando rileva ai fini dell’ammissione dei concorrenti alla procedura; sicché, dopo l’aggiudicazione, esso può anche venir meno (perché, per esempio, nell’anno successivo il fatturato è calato), senza che l’impresa patisca alcuna conseguenza rispetto all’esecuzione del contratto; ne consegue che non rileva, ai fini dell’aggiudicazione, che l’affitto di ramo d’azienda sia di durata inferiore rispetto alla durata dell’appalto aggiudicato  (1).   (1) Ha affermato la Sezione che qualsiasi ulteriore valutazione in merito al contratto di affitto di ramo di azienda - attinente alla sua eventuale e futura fase esecutiva - non assume valenza ai fini della legittima partecipazione alla procedura di gara (Cons. St., sez. III, 6 novembre 2019, n. 7581). Invero l'unica disposizione dedicata a disciplinare gli effetti del contratto d'affitto d'azienda sulla qualificazione dell'impresa affittuaria stabilisce, chiaramente ed espressamente, che quest'ultima "può avvalersi dei requisiti posseduti dall'impresa locatrice se il contratto di affitto abbia durata non inferiore a tre anni" (art. 76, comma 9, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207): “la formulazione testuale di tale disposizione impone una sua esegesi coerente con il dato testuale” (Cons. St., sez. III, 30 giugno 2016, n. 2952). Essa fissa il punto di equilibrio individuato dal legislatore, nell’intento di coniugare il favor partecipationis, cui le direttive sono ispirate, e la tendenziale stabilità del requisito, così consentendo all’offerente di avvalersi dei requisiti posseduti dall'impresa locatrice solo se il contratto di affitto ha durata non inferiore a tre anni. Una volta soddisfatto tale requisito, non è consentito indagare oltre circa l’esatta corrispondenza tra durata dei due rapporti contratti (contratto di affitto e contratto di appalto). Del resto, diversamente ragionando, se si desse un rilievo ultratriennale al requisito sol perché trattasi di un requisito mutuato dall’affittuario, allora dovrebbe darsi rilievo anche all’astratta possibilità della risoluzione del contratto d’affitto o altre eventuali e imprevedibili cause di estinzione, ossia a circostanze che, in realtà, il legislatore ha assorbito nella valutazione di sintesi cristallizzata nell’art. 76 cit.
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi – Servizio elisoccorso Ares 118 – Aree degli aeroporti militari - Concessione Enac ex artt. 15, l. n. 241 del 1990 e 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 – Legittimità.       Gli affidamenti ad Ares 118 si caratterizzano come accordi tra soggetti pubblici essenziali e funzionali all’interesse pubblico al migliore espletamento del servizio di pubblica necessità HEMS, nel preminente interesse alla salute e, nel contempo, compatibilmente con l’interesse pubblico all’utilizzo di aree del demanio militare per funzioni esclusivamente pubbliche, nell’interesse all’ordinato svolgimento del trasporto aereo, con la conseguenza che è legittima la delibera Enac di concessione delle aree degli aeroporti militari aperti al traffico civile di Latina e Viterbo all’Ares 118 ex artt. 15, l. n. 241 del 1990 e 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 per il successivo affidamento da parte di quest’ultima, mediante gara pubblica, del servizio di elisoccorso nella Regione Lazio (1).    (1) Ha preliminarmente ricordato la Sezione che l’Ares 118, soggetto giuridico responsabile nel Lazio per il servizio di elisoccorso ex art. 4, l. reg. Lazio n. 9 del 2004, ha assunto l’impegno ad espletare la gara per l’affidamento del servizio di elisoccorso (come, di fatto, è avvenuto tramite il bando della Regione Lazio impugnato), servizio che ha sicuramente quella valenza economica che comporta l’applicazione del diritto della concorrenza. I principi e le regole dell’evidenza pubblica per la successiva valorizzazione economica delle aree, come prevede la normativa di settore, non sono stati, dunque, obliterati. Gli affidamenti di aree di sedime presso gli aeroporti militari di Latina e Viterbo ad Ares 118 ben possono inquadrarsi nella categoria giuridica dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, ai sensi degli artt. 15, l. n. 241 del 1990 e 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016. L’art. 15, l. n. 241 del 1990 consente alle amministrazioni pubbliche di concludere tra loro accordi per disciplinare “lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune". Si ravvisa l’interesse comune a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico tutte le volte in cui la funzione o il servizio è comune agli Enti, ma anche allorché, più in generale, si realizzi una collaborazione istituzionale per lo svolgimento di attività di interesse pubblico comuni e sempre che le attività non abbiano natura patrimoniale ed astrattamente reperibile presso privati. Il contenuto e la funzione elettiva degli accordi tra pubbliche amministrazioni è, pertanto, quella di regolare le rispettive attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli enti stipulanti. In particolare, quanto alla sussistenza di “obiettivi in comune” (essendo palesemente configurabili le condizioni di cui alle lett. b) e c) richiamate) il giudice di primo grado ha escluso che nella fattispecie sia possibile ritenere che l’Enac partecipi all’interesse pubblico tutelato dall’affidataria delle aree. Il Collegio, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie, richiama gli enunciati della Corte di Giustizia UE che ha precisato in quali casi i contratti conclusi nell'ambito del settore pubblico non sono soggetti all'applicazione delle norme in materia di appalti pubblici (Corte Giustizia ue, sez. IV, 28 maggio 2020, n.796). La Sezione - alla luce delle coordinate ricavabili dalla interpretazione delle norme anche a livello comunitario, analizzato il contesto e i contenuti delle concessioni in esame - ha quindi ritenuto  che gli affidamenti ad Ares 118 si caratterizzano come accordi tra soggetti pubblici essenziali e funzionali all’interesse pubblico al migliore espletamento del servizio di pubblica necessità HEMS, nel preminente interesse alla salute e, nel contempo, compatibilmente con l’interesse pubblico all’utilizzo di aree del demanio militare per funzioni esclusivamente pubbliche, nell’interesse all’ordinato svolgimento del trasporto aereo. ​​​​​​​Tenuto conto delle funzioni istituzionali di Enac (organo istituzionalmente preposto proprio alla tutela della sicurezza negli aeroporti e di controllo nel settore dell’aviazione civile), nonché considerata la specifica destinazione conferita da Enac e dall’Autorità militare alle aree del demanio aeroportuale, unicamente per finalità pubbliche compatibili con le esigenze delle attività delle Forze Armate, la Sezione ha ritenuto che le concessioni configurano una collaborazione tra i due soggetti pubblici ai sensi dell’art. 15, l. n. 241 del 1990 e dell’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Informativa antimafia – Presupposti – Informativa antimafia atipica - Informazioni ricevute dalla Prefettura – Valutazione discrezionali dell’Amministrazione – Rescissione del contratto a distanza di tempo dall’informativa - Possibilità.   Nel caso di informativa antimafia atipica spetta all’Amministrazione valutare autonomamente - nell’esercizio del suo potere discrezionale - il ‘peso’ delle informazioni ricevute dalla Prefettura, informazioni di per sé non automaticamente “interdittive”, valutazione che ben può essere compiuta anche in un momento successivo alla comunicazione e portare a rescindere un contratto a distanza di tempo dalla stessa informativa (1).     (1) Ha chiarito il Cga che il fatto che in un primo momento l’Amministrazione abbia ritenuto che le informazioni ricevute non fossero sufficienti per procedere alla revoca in autotutela del contratto, non è contestato in atti da alcuno, e non è dunque oggetto di disamina. Mentre il fatto che ad un certo punto, a seguito di “sopravvenienze”, l’Amministrazione abbia mutato indirizzo, non può affatto sorprendere. Il mutamento di indirizzo a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico costituisce, infatti, una prassi ammessa dall’Ordinamento, ed a maggior ragione allorquando sopraggiungano fatti o norme che suggeriscano, o che impongano, di riesaminare la questione già affrontata. Ha chiaro il Cga che nella specie, essendo stata informata della circostanza che oltre ad intrattenere una relazione di convivenza con l’amministratrice in carica della società, il sig. X ne era anche il concreto “amministratore di fatto” e che lo stesso era indagato per una serie di reati (quali il reato di truffa aggravata e continuata, il reato continuato di “frode nelle pubbliche forniture” ed il reato di “attività finanziaria abusiva”) commessi ai danni della Pubblica amministrazione, l’Amministrazione comunale ha ritenuto - com’è logico e corretto - di dover riconsiderare la sua precedente valutazione. Ed all’esito di tale attività valutativa integrativa è giunta alla conclusione - non irrazionale, né contraddittoria, né tampoco immotivata - che la soluzione preferibile, a fronte delle evidenze sopravvenute, era quella di pervenire all’adozione dell’atto rescissorio. Non può assumere una sostanziale rilevanza il fatto che l’Amministrazione abbia errato nella qualificazione giuridica dell’atto in questione, indicato come “rescissione” anziché come “revoca”. Che a fronte del quadro informativo descritto, l’Amministrazione avesse il potere di pervenire alla “revoca” del contratto in ragione dell’acclarato pericolo che si determinassero infiltrazioni mafiose - e che tale potere abbia legittimamente esercitato - non appare revocabile in dubbio. La legislazione antimafia applicabile alla fattispecie ratione temporis - e cioè il d,lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (poi modificato ed integrato dal d.lgs. 15 novembre 2012, n. 2189) applicabile al momento della adozione del provvedimento rescissorio (11 settembre 2012) - è sufficientemente chiara nel disporre che “la revoca e il recesso (… omissis …) si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto (…)” (art. 92, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011). L’argomentazione difensiva della società A, secondo cui tra “i fatti di reato” e “l’informativa antimafia atipica” sarebbe trascorso troppo tempo (rectius: secondo cui l’informativa atipica per cui è causa sarebbe illegittima in quanto si riferisce a fatti non più attuali e comunque troppo risalenti nel tempo), non può essere condivisa. Ed invero dal tenore delle frasi riportate in atti emerge che i fatti ai quali si riferisce la Prefettura nell’informativa atipica del novembre del 2008, erano contemporanei (quantomeno nel loro sviluppo) alla emissione dell’informativa in questione; o comunque, se perfezionatisi in precedenza, ancora produttivi di effetti attuali. Così è per la “convivenza” fra il pregiudicato per fatti di mafia e l’amministratrice della società A; o per la vicenda delle cointeressenze societarie, frutto di vendite di quote che seppur effettuate in tempi più risalenti avevano determinato assetti societari ancora stabili. Né rileva il tempo trascorso tra la comunicazione dell’informativa atipica e la rescissione; un tempo talmente prolungato dall’aver determinato l’inattualità e dunque l’inefficacia dell’informativa. Ed invero, lo scopo dell’informativa atipica non è quello di produrre effetti interdittivi (dunque “costitutivi”) automatici ed immediati, ma - più limitatamente - quello di porre all’attenzione dell’Amministrazione destinataria, situazioni abnormi o comunque anomale (o preoccupanti in quanto indicative di rischio di condizionamento mafioso) affinchè la stessa possa vigilare ed eventualmente procedere all’adozione del provvedimento interdittivo o rescissorio anche in un momento successivo, allorquando ne ravvisi la necessità in relazione ad ulteriori e sopravvenienti elementi. In altri termini, con l’informativa atipica la Prefettura si limita a fornire all’Amministrazione (che ne è destinataria) un’informazione su un determinato fatto che può assumere rilevanza al fine di una più generale valutazione; valutazione che ben può essere compiuta anche in un momento successivo. Aggiungasi che l’informazione antimafia atipica non è suscettibile di scadenza in quanto non produce nessun effetto se non quello di comunicare - con un’azione che è fisiologicamente diretta a durare per sempre - l’accadimento di un fatto. E, nel descriverlo, di “storicizzarne” - per ogni eventuale effetto ammesso dalla legge - l’avvenimento. Sicchè è fisiologico che a fronte di un’informativa atipica il provvedimento rescissorio possa essere adottato anche a distanza di molto tempo, rispetto al momento in cui si realizza il fatto del quale viene dato avviso all’Amministrazione che riceve la notizia. Ciò può dipendere - infatti - dal tempo che il soggetto controllato impiega per determinare le condizioni per l’infiltrazione mafiosa. Non ha pregio, infine, neanche l’argomentazione difensiva che mira a svalorizzare il “fattore-convivenza”. Ed invero non appare revocabile in dubbio - non ostante la originaria titubanza mostrata al riguardo dall’Amministrazione comunale - che il fatto che il sig. X, pregiudicato per associazione mafiosa, convivesse con l’amministratrice della società A costituiva un elemento sufficiente per presumere che la società in questione fosse soggetta al rischio di condizionamenti. Contrariamente a quanto avviene per la parentela (che non la si può scegliere), la “convivenza” fra maggiorenni si risolve in un fatto comportamentale che esprime una libera opzione. E poiché la convivenza implica - di regola (id est: fino a che non avvenga una dissociazione, che non può che essere foriera della imminente separazione) - la continua, permanente e duratura condivisione delle abitudini e delle prassi di vita, il reciproco coinvolgimento nelle attività quotidiane e la prestazione di atti di reciproca solidarietà, non v’è dubbio che le disposizioni che stigmatizzano negativamente la convivenza con un soggetto pregiudicato mafioso (cfr., al riguardo: art.67, comma 4, l’art.68, l’art. 84 comma 4, lett. “f” e l’art. 85, comma 3, del codice antimafia) non meritino censura sul piano logico-giuridico e non possano destare dubbi di legittimità costituzionale.
Informativa antimafia