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Covid-19 – Obbligo di non uscire dalla abitazione – Violazione – Da parte di un avvocato per recarsi in Tribunale - Diffida e messa in quarantena – Va sospesa.             Deve essere sospeso il provvedimento adottato dalla Legione dei Carabinieri di “diffida e messa in quarantena” disposta per 14 giorni nei confronti di un avvocato che era uscito dalla propria abitazione per  impegni professionali relativi ai giudizi pendenti presso un Tribunale  (1).   (1) Il decreto ha evidenziato l’esistenza di adeguata prova con riferimento agli impegni professionali del ricorrente, relativi ai giudizi pendenti presso il Tribunale di Cassino ed il Tribunale di Napoli Nord - Sezione G.I.P. Ha aggiunto che l’estrema gravità e urgenza vada apprezzata anche nella adeguata considerazione del fine giustificante le misure adottate con l’ordinanza n. 13 del Presidente della Giunta regionale della Campania e n. 15 del 13 marzo 2020, anche questa adottata dal Presidente della Giunta regionale della Campania 15 del 2020 e relativi chiarimenti n. 6 del 14 marzo 2020. Per l’effetto il Tar ha accolto l’istanza di misure cautelari monocratiche di sospensione dell’“atto di diffida e messa in quarantena” in relazione ai detti impegni professionali, nei limiti di quanto ad essi necessariamente connesso e nel rispetto di tutte le altre misure, condizioni e precauzioni comunque note al ricorrente.
Covid-19
Beni culturali – Vincolo - Filari di vite maritata – Presupposti.   ​​​​​​​        La qualitas culturale di filari di vite maritata, ai fini dell’imposizione del relativo vincolo, deve avere ad oggetto l’immobile o il sito  nel suo aspetto “corporale”, ma non può essere  imposta  dall’amministrazione preposta  alla tutela del vincolo in relazione all’attività o meglio alla tecnica di lavorazione  utilizzata, quando il terreno vede coltivazioni  del tutto eterogene e in particolare contrassegnate da vegetazione spontanea (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che sensi dell’art. 10, d.lgs. n. 42 del 2004, se è vero che la nozione di bene culturale è di tipo aperto e non strettamente tipizzata (Tar Sardegna, sez. II, 2 maggio 2012, n. 421), è altrettanto vero che è necessaria la c.d. corporalità del bene culturale nel senso che l’attività espletata attraverso il bene può rilevare unicamente ove il valore culturale per così dire pervada il bene immobile o mobile, non essendo altrimenti possibile desumerlo dalle sole attività svolte (Tar Lazio, sez. II-quater, 19 maggio 2021, n. 5864; Cons.St., sez. VI, 10 ottobre 1993, n. 741). L’ampia discrezionalità tecnica alla base del giudizio che presiede all'imposizione di una dichiarazione di interesse culturale ovvero della qualitas culturale (Cons.St., sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357) è dunque delimitata da ciò che può essere per scelta legislativa vincolato, non avendo l’ordinamento (per scelta legislativa) esteso il vincolo alle mere attività espletate attraverso il bene ove non ve ne sia significativa traccia. Non può pertanto vincolarsi un’attività economica o ricreativa ove l’attività non si sia compenetrata negli arredi o nelle strutture del locale (Cons.St., sez. VI, 10 ottobre 1993, n. 741). Nel caso di specie, ad avviso del Tar, l’evidente abbandono delle coltivazioni e la diffusione della vegetazione spontanea rende quantomai ardua la sostenuta presenza di una traccia identitaria che consenta di associare le condizioni del sito ad un impianto di vite maritata a piantata romagnola ovvero ad una particolare tecnica di coltivazione oramai scomparsa.
Beni culturali
  Contratti della Pubblica amministrazione – Cessione di azienda – Effetti sul piano processuale – Individuazione.   Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Ambiguità del disciplinare di gara – Ricorso al soccorso istruttorio – Obbligo della stazione appaltante.     La cessione di azienda non ha effetti sul piano processuale nel senso che il processo prosegue tra le parti originarie, ma la sentenza pronunciata contro il dante causa spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare  (1).     Di fronte ad una vistosa ambiguità o indeterminatezza nel disciplinare di gara è non solo legittimo, ma anzi doveroso il soccorso istruttorio per consentire alle concorrenti di dimostrare l’esistenza dei requisiti, esistenti al momento dell’offerta, e non emergenti dalla documentazione depositata solo per una imprecisione o incertezza nella formulazione del disciplinare (2).   (1) La Sezione ha affermato alcuni importanti principî relativi al rito e al diritto degli appalti pubblici. Sul piano del diritto processuale, la Sezione ha anzitutto precisato che anche al processo amministrativo, per il rinvio esterno operato dall’art. 39 c.p.a., si applica la regola dell’art. 111 c.p.c., e che di conseguenza, se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie, ma la sentenza pronunciata contro il dante causa spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare. Se così non fosse, il termine decadenziale per l’impugnativa degli atti di gara – nel caso di specie quello al tempo previsto dal c.d. rito superaccelerato, oggi abrogato – sarebbe facilmente eludibile mediante la cessione dell’azienda, nel corso del giudizio, consentendo al successore a titolo particolare di proporre a sua volta ex novo un secondo ricorso anche a distanza di molto tempo dall’adozione dell’atto di gara. L’avente causa potrebbe in questo modo aggirare limiti e termini imposti dalla legge processuale per impugnare gli atti mediante una successiva e strumentale cessione dell’impresa e, quindi, rimettere in discussione un assetto cristallizzato dalla maturazione delle preclusioni processuali.   (2) Sul piano del diritto sostanziale, poi, la Sezione ha ricordato che, per il tenore letterale dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, il soccorso istruttorio ha la finalità di consentire l’integrazione della documentazione già prodotta in gara, ma ritenuta dalla stazione appaltante incompleta o irregolare sotto un profilo formale, non anche di consentire all’offerente di formare atti in data successiva a quella di scadenza del termine di presentazione delle offerte, in violazione del principio di immodificabilità e segretezza dell’offerta, imparzialità e par condicio delle imprese concorrenti (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 4 aprile 2019, n. 2219, nonché la delibera n. 54 del 1° febbraio 2017 dell’ANAC), sicché è pacificamente ammissibile, in tali termini, il soccorso istruttorio in relazione ai requisiti di ordine speciale (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 16 aprile 2019, n. 2493; id., sez. V, 10 aprile 2019, n. 2351).  Di fronte ad una vistosa ambiguità o indeterminatezza nel disciplinare di gara è non solo legittimo, ma anzi doveroso il soccorso istruttorio per consentire alle concorrenti di dimostrare l’esistenza dei requisiti, esistenti al momento dell’offerta, e non emergenti dalla documentazione depositata solo per una imprecisione o incertezza nella formulazione del disciplinare, e il grave vulnus della par condicio, oltre che dello stesso corretto e imparziale agire della pubblica amministrazione, si sarebbe realizzato, al contrario, se questa non avesse irragionevolmente e formalisticamente esercitato il suo potere-dovere di soccorso istruttorio.  
Contratti della Pubblica amministrazione
Mare - Sicurezza marittima - Controllo dello stato di approdo - Ambito.  Mare - Sicurezza marittima - Statuto proprio delle navi di soccorso – Esistenza.            Il controllo dello Stato di approdo non può essere meramente cartolare, riducendosi al raffronto tra la situazione della nave e la relativa certificazione rilasciata dallo Stato di bandiera, senza cioè tener conto dell’attività effettivamente stabilmente esercitata e quindi senza poter verificare l’esistenza di equipaggiamento e dotazioni di sicurezza idonei al reale impiego della nave, diversamente, infatti, si eluderebbero gli scopi della normativa internazionale, volta ad evitare la circolazione di navi che rappresentino un pericolo per le persone a bordo o una irragionevole minaccia di danno all'ambiente marino (1).            In ambito internazionale e/o interno esiste uno statuto proprio delle navi di soccorso (1).    (1) La questione oggetto del giudizio attiene ad un provvedimento di fermo adottato - in seguito a controllo esercitato in occasione di approdo sulle coste italiane - dalla competente Autorità italiana a carico di una nave cargo battente bandiera tedesca ed impiegata per attività di ricerca e soccorso in mare.  Il controllo dello stato di approdo (Port State Control, in sigla PSC) consiste nell'attività di ispezione delle imbarcazioni straniere svolta dalle autorità portuali per verificare la conformità delle condizioni della nave e del suo equipaggiamento ai requisiti (standard minimi) previsti dalle normative internazionali, garantendo la sicurezza marittima e la prevenzione dell’inquinamento.  L’ordinanza cautelare ha riformato la decisione in primo grado che aveva esaminato ed accolto la domanda di sospensione del provvedimento di fermo nelle more della decisione da parte della Corte di Giustizia U.E. adita in sede di rinvio pregiudiziale dal medesimo giudice di primo grado.  Il giudice di appello si è occupato delle seguenti tematiche:  1. se il potere/dovere di controllo dello Stato di approdo possa essere escluso grazie al fatto che il concreto esercizio dell’attività dell’imbarcazione sia di fatto difforme da quello per il quale la nave risulta formalmente certificata, che legittimerebbe il controllo;  2. se il controllo dello Stato di approdo debba essere meramente cartolare, riducendosi al raffronto tra la situazione della nave e la relativa certificazione rilasciata dallo Stato di bandiera, senza cioè tener conto dell’attività effettivamente stabilmente esercitata e quindi senza poter verificare l’esistenza di equipaggiamento e dotazioni di sicurezza idonei al reale impiego della nave;  3. se, in ambito internazionale e/o interno, esista o meno uno statuto proprio delle navi di soccorso;  4. se una nave che esercita stabilmente l’attività di pattugliamento, ricerca e soccorso debba ritenersi godere delle esenzioni di cui alla Convenzione Solas ed alle altre convenzioni internazionali.  Al primo quesito il giudice d’appello ha ritenuto di dare risposta negativa, diversamente il sistema si presterebbe ad abusi, introducendo un elemento di grave frizione nell’ambito del sistema normativo internazionale ed interno volto a combattere l'impiego di navi sub standard.  Anche al secondo quesito il giudice d’appello ha ritenuto di dare risposta negativa, a pena di eludere gli scopi della normativa internazionale, volta ad evitare la circolazione di navi che rappresentino un pericolo per le persone a bordo o una irragionevole minaccia di danno all'ambiente marino;  Al terzo quesito si è ritenuto di dare risposta affermativa: nell’ambito dell’ordinamento internazionale la Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 contempla il “Servizio di ricerca e di salvataggio”, anche da parte di mezzi privati, individuando l’autonoma figura del "Mezzo di ricerca e di salvataggio", che deve essere dotato di personale addestrato e delle attrezzature necessarie per l'adempimento del servizio in questione; quanto all’ordinamento interno, deve farsi riferimento all’art. 1, d.P.R. 8 novembre 1991, n. 435, il quale definisce “27) Nave da salvataggio: una nave munita di attrezzature particolari per il servizio di soccorso a navi” , riguardo al quale non può ritenersi che il riferimento al salvataggio della nave si intenda limitato al mezzo, escludendo il soccorso ai naufraghi, logicamente ricompreso nella più ampia definizione legislativa.  All’ultimo quesito si è ritenuto doversi darsi risposta negativa: le esenzioni in questione riguardano l’assistenza in mare di una nave in pericolo, con conseguente salvataggio degli eventuali naufraghi, da parte di chi sia presente o prossimo alla scena dell’evento in situazione accidentale, vale a dire, riguardano la prestazione di assistenza, non sistematica, ma meramente eventuale, che incombe a tutte le navi in navigazione in qualsiasi spazio marittimo; per incoraggiare l’adempimento degli obblighi, di natura consuetudinaria, di assistere in qualsiasi area marittima le persone in difficoltà e di soccorso e salvataggio, che incombe su tutti i comandanti di nave, sono stati previsti regimi di favore in ipotesi di (successivo) controllo portuale, nell’ottica di non penalizzare la nave ed anzi liberarla dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso.  Ma tali esenzioni non possono ritenersi estensibili alla diversa ipotesi dei servizi di ricerca e soccorso che presentino un profilo sistematico e permanente, cui trovano applicazione le disposizioni della Convenzione di Amburgo riferite al "Servizio di ricerca e di salvataggio", da espletarsi mediante "Mezzi di ricerca e di salvataggio" ed "Unità di ricerca e di salvataggio", che, a mente della richiamata Convenzione di Amburgo, deve avvenire in condizioni di sicurezza per le persone trasportate, l’equipaggio e l’ambiente, e dunque mediante imbarcazioni appositamente allestite e strutturate per l’esecuzione, in sicurezza, delle operazioni di soccorso istituzionalmente svolte.  La decisione afferma anche che:  anche in assenza di specifiche prescrizioni sulle caratteristiche tecniche delle unità di salvataggio, deve affermarsi che il servizio di pattugliamento, ricerca e soccorso in mare debba avvenire in condizioni di sicurezza per le stesse persone soccorse, per l’equipaggio (riguardo, tra l’altro, alla sufficienza dei servizi igienici e ad adeguate turnazioni del personale), per la navigazione, per l’ambiente;  l’art. 22, d.lgs. 24 marzo 2011, n. 53, ai commi 2 bis e 2 ter, configura un procedimento, in contraddittorio, nel cui ambito possono trovare composizione gli interessi potenzialmente lesi, mediante la compulsione all’adozione di misure di adeguamento alla sicurezza del trasporto delle persone e agli interessi ambientali, tenendo presente che la conformazione del mezzo navale è volta alla ripresa di un servizio finalizzato a salvaguardare vite umane in pericolo e che, in carenza di disposizioni di dettaglio che attengano alle unità di soccorso, risultano esigibili unicamente adeguamenti indispensabili alla sicurezza della navigazione ed alla salute e sicurezza dell’equipaggio e delle persone da mettere in salvo. 
Mare
Processo amministrativo – Sospensione del giudizio – Per pendenza del giudizio dinanzi alla Corte di Giustizia ue – Pubblicazione della sentenza - Mancata riassunzione con deposito istanza di fissazione di udienza – Estinzione del giudizio.      La mancata riassunzione del giudizio nei termini previsti dall’art. 80 c.p.a. a seguito del deposito di una sentenza della Corte di Giustizia comporta la perenzione del ricorso e l’estinzione del giudizio nel caso in cui l’udienza non sia stata già fissata d’ufficio (1).  (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 80, comma 1, c.p.a., indica le parti come soggetti tenuti alla prosecuzione del giudizio.  Ad avviso del giudice di appello (Cons. St., Sez. IV, n. 1681 del 2021) di fronte alla oggettiva ripresa del giudizio a seguito dell’esercizio di poteri officiosi di fissazione, nessuna funzione utile avrebbe potuto sortire un’eventuale attività compiuta dalla parte, essendosi già interamente realizzato in rerum natura l’evento (ossia, la prosecuzione del giudizio) in funzione del quale l’art. 80, comma 1, c.p.a. pone anche a carico delle parti processuali la responsabilità dell’ordinata e sollecita gestione del processo.  Secondo l’esegesi sposata nella sentenza in questione la parte è onerata della presentazione dell’istanza di fissazione udienza, e nel caso in cui si ritenga che la stessa sia condizione di procedibilità dell’appello, qualora vi sia fissazione d’ufficio, sarà sempre possibile chiedere l’errore scusabile ( in fondo concedibile perché il principio di strumentalità delle forme scusa la parte a fronte di un’attività intrapresa dal giudice ex officio che la induce a ritenersi esonerata dall’onere).   Una simile conclusione non viene raggiunta e non si potrebbe raggiungere nel caso in cui l’udienza non fosse fissata d’ufficio e ciò in quanto diversamente opinando, in caso di mancata fissazione d’ufficio dell’udienza il Giudice non potrebbe giammai decretarne l’estinzione per inattività delle parti, in base al combinato disposto di cui agli artt. 35 e 85 c.p.a. ​
Processo amministrativo
Enti locali – Comuni – Consiglio comunale - Scioglimento per infiltrazione mafiosa – Valutazione non atomistica dei fatti.             Ai fini dello scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa gli elementi soggettivi – e cioè i collegamenti diretti o indiretti degli amministratori locali con le associazioni mafiose - e quelli oggettivi – sul piano del corretto svolgimento delle funzioni amministrative, sin qui esaminate – vanno valutati complessivamente e non atomisticamente, secondo una logica probabilistica, tipica del diritto della prevenzione (1).   (1) Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758, Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105. Ha chiarito la Sezione che la stessa giurisprudenza amministrativa, nell'affermare la necessità che entrambi gli elementi – soggettivo e oggettivo – coesistano, ben avverte che lo sforzo ricostruttivo della loro intima connessione sistematica è ancor più necessario nel caso di piccole comunità, come quella in esame, che per dimensione, coesione interna e eventuale chiusura o limitata apertura verso l’esterno, offrono «elementi di difficile reperimento e, ove raccolti, di incerta o difficile decifrazione», con «un costante e concreto aggancio ad elementi rilevanti ed univoci che, pur non assurgendo al rango di prova, contribuiscono ad indicare un percorso di ragionevolezza valutativa e di proporzionalità ed adeguatezza della misura adottata» (Cons. St., sez. IV, 3 marzo 2016, n. 876). 
Enti locali
Pubblica istruzione – abilitazione all’insegnamento – riconoscimento delle qualifiche professionali – verifica – quesiti – rimessione all’Adunanza plenaria.   Si chiede all’Adunanza plenaria di risolvere la seguente questione: “se sia consentito alle Autorità italiane nel riconoscimento dei titoli conseguiti nei Paesi dell’Unione europea (anche da cittadini italiani) prescindere dalle valutazioni effettuate dalle Autorità degli Stati membri nei quali i predetti titoli sono stati rilasciati, procedendo autonomamente alla valutazione del percorso di formazione seguito da un cittadino dell’UE (nel caso in esame, italiano) presso altro Paese membro dell’UE (nel caso in esame, in Bulgaria), soltanto previa verifica della durata complessiva, del livello e della qualità della formazione ivi ricevuta (e fatta salva la possibilità per le Autorità italiane di disporre a tal fine specifiche misure compensative)”; - “in particolare, se tale riconoscimento sia doveroso (o anche solo possibile) laddove nel Paese membro dell’Unione Europea le Autorità del Paese nel quale il titolo è stato conseguito (nel caso in esame, la Bulgaria) non abbiano rilasciato, all’esito di tale percorso di formazione, un attestato di competenza o un titolo di formazione, ai sensi dell’articolo 13, par. 1, della Direttiva 2005/36/CE (nel testo sostituito dalla Direttiva 2013/55/UE)”; N. 02060/2020 REG.RIC. - “Se, infine, ai fini del riconoscimento delle professioni non regolamentate, si possa prescindere dal requisito di cui all’art. 13, comma 2, della Direttiva 2005/36/CE (nel testo sostituito dalla Direttiva 2013/55/UE) sul riconoscimento delle qualifiche professionali, in nome della invocata applicazione dei principi di libertà di circolazione e libertà di stabilimento”.
Pubblica istruzione
Circolazione stradale - Patente di guida - Requisiti morali – Verifica - Individuazione       In materia di apprezzamento dei c.d. requisiti morali necessari per il conseguimento della patente di guida occorre distinguere tra colui che domandi il rilascio della patente di guida della categoria richiesta, una volta raggiunti i requisiti previsti (artt. 115, 116, 119, 120, comma 1, 121, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285) e colui che, successivamente, perda il solo requisito morale (art. 120, comma 2, d.lgs. n. 285 del 1992) (1).    (1) Ha ricordato il Tar che solo per il primo rilascio del titolo abilitativo, il legislatore del codice della strada ha inteso richiedere il possesso della pienezza dei requisiti morali, talché il soggetto deve possederli ab origine, oppure deve conseguirli accedendo al beneficio della riabilitazione (penale e/o di prevenzione). Successivamente, ossia durante la validità dell’abilitazione alla guida, laddove subentrino condanne penali per specifici reati, la dichiarazione di delinquenza (abituale, professionale o per tendenza), l’applicazione di misure di sicurezza, o la sottoposizione a misure di prevenzione, la patente “può” essere revocata dall’autorità prefettizia, nell’esercizio di peculiari poteri discrezionali riconosciuti nella sostanza quale autorità di P.S. (art. 120, comma 2, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e Corte cost. 9 febbraio 2018, n. 22; id. 20 febbraio 2020, n. 24; id. 27 maggio 2020, n. 99), correlati all’interesse pubblico alla prevenzione dei fatti di reato o c.d. antisociali. Con peculiare riferimento all’applicazione delle misure di prevenzione, la Corte costituzionale, nella sentenza del 27 maggio 2020, n. 99, ha sottolineato l’importanza di una verifica puntuale della necessità o dell’opportunità della revoca della patente di guida in via amministrativa, a fronte della specifica misura di prevenzione, cui nel caso concreto sia stato sottoposto il suo titolare, anche al fine di non contraddire l’eventuale finalità, di inserimento del soggetto nel circuito lavorativo, che la misura stessa si proponga. Decorso del tempo ex lege previsto e non necessità della riabilitazione. Ha aggiunto la Sezione che il codice della strada prevede che, decorso un certo lasso di tempo dall’intervenuta revoca della patente di guida, il soggetto interessato possa chiedere il rilascio di un nuovo titolo (art. 120, comma 3, del codice della strada). Il testo di legge non richiede espressamente il rilascio della riabilitazione, bensì indica direttamente, quale elemento-chiave, il lasso di tempo ostativo al rilascio, ossia l’impossibilità di rinnovare il documento prima che intercorra un dato periodo; ma, allo stesso tempo, detto indicato elemento assume una valenza permissiva, concedendo cioè la possibilità di richiedere il nuovo rilascio della patente di guida, sulla base della semplice constatazione del tempo trascorso. Null’altro aggiunge o specifica (lex ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit). Peraltro, il dato lasso di tempo costituisce anche limite all’esercizio del potere di revoca, in quanto la disposizione consente al prefetto di revocare la patente di guida, purché comunque non siano trascorsi più di tre anni dalla data di applicazione delle misure di prevenzione (art. 120, comma 2, del codice della strada). Dunque, l’adozione del provvedimento restrittivo non è vincolato, bensì discrezionale, non sempre è adottato, ma solo al riscontro motivato di elementi che lo giustifichino. Quando poi siano decorsi, in ogni caso, tre anni non è più consentito revocare la patente; allo stesso tempo, però, il decorso del triennio legittima la richiesta di un nuovo titolo di guida. ​​​​​​​Ne esce pertanto confermata la tesi preferibile e prevalente, secondo la quale non risulta necessario il rilascio di alcun provvedimento di riabilitazione, nei consimili casi di revoca della patente, assumendo il limite temporale prescritto fondamento e termine di misura del potere discrezionale in questione. 
Circolazione stradale
Processo amministrativo – Rito appalti – Bando di gara - Impugnazione – Termine – Omessa pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale – Conseguenza.      In mancanza di pubblicazione del bando di gara sulla Gazzetta ufficiale, obbligatoria in ragione della tipologia di procedura (aperta) seguita, il ricorso introduttivo del giudizio è tempestivo anche se proposto oltre il termine di legge, non risultando idonea la sola pubblicazione nel sito istituzionale della stazione appaltante a far decorrere il termine di impugnazione (1).    (1) Il C.g.a. si è pronunciato sulla tempestività del ricorso contenente la domanda di annullamento del bando di gara non pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, interpretando, sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, sez. V, 12 marzo 2015, C-538/13), l’art. 120 comma 2 c.p.a., in base al quale l’impugnazione della lex specialis decorre dalla pubblicazione della stessa o, in mancanza di pubblicità della medesima, dalla pubblicazione dell’avviso di aggiudicazione. Nel caso di applicazione del disposto dell’art. 36, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, solo rispetto agli avvisi e ai bandi relativi a lavori di importo inferiore a cinquecentomila euro gli effetti giuridici connessi alla pubblicazione (in ambito nazionale, così come previsti dall’art. 73, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016) decorrono dalla pubblicazione nell'albo pretorio del Comune ove si eseguono i lavori, mentre, negli altri casi, e in particolare per i contratti relativi ai servizi, gli effetti decorrono dalla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana. Nello stesso senso depongono le ulteriori norme che disciplinano la pubblicazione dei bandi di gara e, in particolare, l’art. 73, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 e l’art. 2 comma 1 d.m. 2 dicembre 2016, adottato ai sensi dell’art. 73, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016. Ciò in quanto, non essendo ancora funzionante la piattaforma ANAC, è vigente la prescrizione di cui al comma 6 dell’art. 2, d.m. 2 dicembre 2016, in forza della quale solo con riferimento alle gare relative a lavori di importo inferiore a cinquecentomila euro gli effetti giuridici della pubblicazione sono fatti decorrere dalla pubblicazione nell'albo pretorio del comune, decorrendo negli altri casi dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale. ​​​​​​​Né si attaglia al caso di specie il richiamo alla statuizione dell’Adunanza plenaria, che, decidendo in merito alla diversa fattispecie dell’impugnazione dell’aggiudicazione, ha menzionato in termini generali l’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016, che prevede la pubblicazione degli atti di gara sul profilo del committente, ritenendo che detta pubblicazione sia idonea a far decorrere il termine di impugnazione (2 luglio 2020, n. 12), in quanto l’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 fa espressamente salvi gli atti a cui si applica l'art. 73, comma 5, che sono rappresentati appunto dai bandi di gara.
Processo amministrativo
  Contratti della pubblica amministrazione – Offerta - Offerta tecnica – Omessa sottoscrizione dell’offerta anche da un professionista abilitato - Conseguenza.     E’ illegittima la prevista esclusione da una selezione pubblica per l’appalto di opere pubbliche per mancata sottoscrizione dell’offerta anche da un professionista abilitato (nel caso di specie, geologo), poiché l’esigenza - ben può essere soddisfatta comminando l’esclusione dell’operatore economico non per il mero estrinseco - e per molti versi accidentale - difetto di sottoscrizione del documento medesimo ma all’esito dell’accertamento che il documento in questione non sia effettivamente stato elaborato da un tecnico abilitato (1).   (1) Ha chiarito il Tar che tale meccanismo trova fondamento nella previsione racchiusa nell’art. 30, comma 1, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 secondo cui l’affidamento e l’esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni ai sensi del presente codice garantisce la qualità delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza.  In base al principio di proporzionalità, gli atti amministrativi non debbono andare oltre quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato e, qualora si presenta una scelta tra più opzioni, l’Amministrazione deve ricorrere a quella meno restrittiva, non potendosi imporre obblighi e restrizioni in misura superiore a quella strettamente necessaria a raggiungere gli scopi da realizzare, sicché la proporzionalità comporta un giudizio di adeguatezza del mezzo adoperato rispetto all'obiettivo da perseguire e una valutazione della portata restrittiva e della necessità delle misure che si possono prendere. Il principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, compreso tra i principi dell'ordinamento comunitario, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del principio di buona amministrazione, ex art. 97 Cost., ed espressamente richiamato, in particolare, dagli artt. 4 e 30, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 – impone di verificare: a) l'idoneità della misura, cioè il rapporto tra il mezzo adoperato e l'obiettivo avuto di mira, sicché l'esercizio del potere è legittimo se la soluzione adottata consente di raggiungere l'obiettivo; b) la sua necessarietà, ossia l'assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo, tale da incidere in misura minore sulla sfera del singolo, sicché la scelta tra tutti i mezzi in astratto idonei deve cadere su quello che comporti il minor sacrificio del soggetto; c) l'adeguatezza della misura, ossia la tollerabilità della restrizione che comporta per il privato, sicché l'esercizio del potere, pur se idoneo e necessario, è legittimo soltanto se riflette una ragionevole ponderazione degli interessi in gioco
Contratti della Pubblica amministrazione
Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione sine titulo - Liquidazione secondo equità – Possibilità.                  Qualora sia chiesto il risarcimento del danno conseguente alla occupazione senza titolo di un terreno, poi restituito dall’Amministrazione, non si applica l’art. 42 bis, comma 3, del testo unico sugli espropri (la cui regola del computo del 5% annuo sul valore dell’area si applica solo qualora l’Autorità che utilizza l’area ne disponga l’acquisizione) e il giudice amministrativo – in mancanza della specifica prova del danno conseguente al suo mancato godimento – può disporne la liquidazione secondo equità, tenendo conto della estensione del terreno, della durata della occupazione e della sua precedente utilizzazione, e può quantificare l’importo nel suo preciso ammontare (evitando la fissazione di parametri che implicano la previa determinazione del valore dell’area) (1).      (1) Ha chiarito la Sezione che il comma 3 dell’art. 42 bis del t.u. sugli espropri dispone che: “Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”.  Tale disposizione ha un campo di applicazione imprescindibilmente legato all’applicazione del comma 1 dell’art. 42 bis, il quale, come ribadito da questo Consiglio, in Adunanza Plenaria, ha disciplinato un procedimento semplificato da seguire quando l’amministrazione disponga l’acquisizione al proprio patrimonio di un bene che possieda, senza titolo, per un interesse pubblico, e che sia stato modificato nella sua originaria consistenza.  Si tratta di una normativa dal preciso ambito di applicazione, che delinea una “fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 20 gennaio 2020, n. 4, v., in particolare, punto 16.2.3.; Corte Cost., 30 aprile 2015, n. 71).  Relativamente alla questione se il parametro del 5 per cento annuo (previsto dal comma 3) sia applicabile anche quando l’area sia restituita al proprietario, il Collegio è consapevole che alcuni precedenti della Sezione – richiamati dall’appellante - hanno liquidato proprio in base a tale parametro, in via equitativa, il danno patito dal privato per l’occupazione senza titolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 maggio 2019, n. 3428; sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2765; sez. IV, 23 settembre 2016, n. 3929; sez. IV, 28 gennaio 2016 n. 329; sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844). La Sezione, tuttavia, dopo maturo esame e re melius perpensa, ritiene che questa impostazione vada tuttavia rimeditata.  Logicamente, prima ancora di esaminare l’applicabilità del comma 3 sopra riportato per quantificare il danno fatto valere nel presente giudizio, il Collegio ritiene che vada comunque approfondito se sia configurabile una responsabilità risarcitoria e, in particolare, un danno derivante dall’occupazione senza titolo di un fondo, allorché, nel giudizio, il ricorrente si sia limitato ad allegare la mera lesione della facoltà di godimento del bene, senza ulteriormente specificare e descrivere i pregiudizi patrimoniali che da essa sono scaturiti.  Nel caso in esame, per l’appunto, in prime cure, l’interessato ha descritto la lesione arrecata al suo diritto di proprietà, lamentando che l’occupazione del bene da parte del Comune avrebbe cagionato il suo mancato godimento per tutto il periodo in cui l’occupazione si è protratta.  È necessario domandarsi, dunque, preliminarmente, se, in ragione della allegazione ‘estremamente sintetica’ del pregiudizio sofferto (ampliata in questo secondo grado di processo), possa comunque riconoscersi l’esistenza di un danno risarcibile, inteso come conseguenza pregiudizievole, economicamente valutabile, verificatasi nel patrimonio di chi asserisce di avere subito la lesione di una sua situazione giuridica soggettiva.  In base alle allegazioni dell’interessato, questo pregiudizio viene infatti a coincidere con la lesione di una delle due facoltà del diritto di proprietà – quella di godimento - in cui, tradizionalmente e usualmente, si articola il contenuto di questa situazione giuridica soggettiva.  Da tale compromissione, nondimeno, non si fa scaturire una conseguenza pregiudizievole specifica, quale sarebbe il non aver potuto trarre profitto da un uso – e, dunque, da un godimento - diretto o indiretto del bene (ad es., adibendolo ad una proficua coltivazione oppure concedendolo in locazione [per chi ritiene che quest’ultima ipotesi costituisca esplicazione della facoltà di godimento e non di quella di disposizione]).  L’orientamento di questo Consiglio incline all’applicazione del criterio dettato dall’art. 42 bis, comma 3, d.P.R. n. 327 del 2001, per l’aspetto relativo alla quantificazione del danno (per fattispecie diverse da quelle disciplinate dal medesimo art. 42 bis, e in particolare per i casi di rilevata spettanza di un risarcimento, nelle ipotesi di restituzione dell’area o di constatato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione in assenza dell’atto formale di acquisizione), ha riguardato i profili relativi all’ “an”: si è affermato che, in presenza della lesione o della compressione della facoltà di godimento derivanti dall’occupazione senza titolo, non fosse necessario assolvere ad un onere di descrizione - del pregiudizio patrimoniale sofferto - particolarmente particolareggiato e dettagliato, per ammetterne la sussistenza.  A tale semplificazione degli oneri di allegazione e di prova della sussistenza del danno patrimoniale, seguiva quella relativa alla quantificazione attuata con l’applicazione dell’art. 42 bis, comma 3, d.P.R. n. 327 del 2001.  Si accoglieva, dunque, un’impostazione particolarmente favorevole al proprietario sia sul versante dell’allegazione e della prova dell’an del danno, che sul versante relativo al quantum.  La Sezione ritiene che si possa dare continuità a questo orientamento solo per quanto riguarda l’an del danno: si può ritenere sufficientemente provata la sussistenza di un danno patrimoniale per il solo fatto che il proprietario di un bene ne abbia sofferto lo spossessamento e ne abbia dunque perduto, temporaneamente, il godimento.  Non rileva in questa sede approfondire la questione se la lesione così arrecata al diritto di proprietà costituisca un c.d. “danno-evento”, circa il profilo dell’an, oppure un danno conseguenza “in re ipsa”, circa il profilo del quantum.  A fronte di un sistema normativo articolato e composito, sovranazionale e nazionale, scandito da norme di rango diverso, che attribuisce una consistente e multiforme tutela al diritto di proprietà, mediante la previsioni di differenti rimedi, il quadro degli oneri probatori gravanti su chi si assume danneggiato va “semplificato”, nel rispetto delle regole che presidiano il processo, al fine di dare piena attuazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a.).  L’allegazione della perdita temporanea della facoltà di godimento costituisce non soltanto un profilo rilevante ai fini della descrizione della lesione occorsa alla situazione giuridica soggettiva, che si assume violata, ma anche un aspetto dirimente per gli aspetti correlati ai pregiudizi economici che da quella lesione sono scaturiti.  13. Secondo una valutazione basata sull’id quod plerumque accidit e, dunque, facendosi applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), può evidenziarsi come la perdita del godimento del bene si traduca, di regola, nella perdita del valore d’uso di quel bene o, anche, della sua mera “disponibilità statica”; di quella che, con locuzione descrittiva, può essere definita come una “posta attiva potenziale” della sfera giuridica dell’interessato, cioé dei molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago, che si traggono dall’essere nella disponibilità del bene.  Pur se con riguardo alla diversa fattispecie del ritardo del pagamento di un’obbligazione pecuniaria, la Corte di Cassazione (Sez. Unite, 16 luglio 2008, n. 19499) ha fornito importanti principi in materia di prova:  - ha ammesso che si possa fornire la prova della sussistenza del maggior danno attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici, con tecniche di semplificazione dell'istruzione probatoria variate nel corso del tempo e adattate al mutare del contesto economico-sociale;  - ha affermato che “è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva”;  - ha dunque ritenuto che, poiché di regola del bene-denaro si fa un uso remunerativo o proficuo, si può presumere l’esistenza del (maggior) danno occorso e di quantificarlo attraverso un criterio equitativamente determinato.  Il principio di diritto suesposto risulta applicabile – ai sensi degli articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile e con le precisazioni di seguito esposte - anche quando l’Amministrazione abbia temporaneamente occupato senza titolo un bene altrui (e non lo abbia formalmente acquisito in applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), nel corso di un procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto d’esproprio o con un accordo di cessione.  Anche in tal caso, per un certo lasso di tempo, è configurabile il ‘mancato godimento’ di un bene (il fondo illegittimamente occupato) del quale, usualmente, il titolare può fare un uso remunerativo o proficuo: anzi, mentre la mera disponibilità del denaro di per sé non soddisfa esigenze ed aspirazioni personali, la mera disponibilità di un proprio fondo ne consente molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago  ​​​​​​​
Risarcimento danni
Contributi e finanziamenti - Incentivi alle imprese - Progetti di investimento in materia di salute e sicurezza sul lavoro – Inail – Diniego – Sindacabilità – Limiti.               Il sindacato sulle controversie, relative alla mancata ammissione al finanziamento INAIL, si risolve in un giudizio sulla correttezza dell’apprezzamento e, quindi, sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica riservata all’Istituto in sede di valutazione del progetto, condotto in base a criteri congrui rispetto alla finalità e all’efficacia dell’intervento proposto (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che l’INAIL è l’ente pubblico parastatale (l. 20 marzo 1975, n. 70, tabella I), predisposto e integrato dallo Stato (art. 38, comma 4, Cost.), erogatore di servizi (art. 55, comma 1, l. 9 marzo 1989, n. 88), che esercita l’assicurazione sociale (art. 1886 cod. civ.) in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali (art. 126, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs 30 giugno 1994, n. 479). Ha anche competenze in materia di salute e di sicurezza sul lavoro (art. 9, comma 1, d.lgs 9 aprile 2008 n. 81), con peculiare riferimento allo svolgimento delle “attività promozionali”, tra le quali rientra il finanziamento di progetti di investimento per il miglioramento delle condizioni dei luoghi di lavoro, erogabili in favore delle piccole, medie e micro-imprese (art. 11, comma 1, lettera a), e comma 5, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81). L’avviso pubblico quadro del 2013 indetto dall’INAIL e concernente “Incentivi alle imprese per la realizzazione di interventi in materia di salute e sicurezza sul lavoro” indica l’obiettivo di incentivare le imprese a realizzare progetti per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro, rispetto alle condizioni preesistenti, riscontrabili in base a quanto riportato nella valutazione dei rischi aziendali. Nel dettaglio, è stata prevista la concessione degli ausili finanziari in questione, previa domanda telematica, con procedura valutativa c.d. a sportello, ai sensi del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 123, alle imprese classificatesi in ordine cronologico di arrivo, sulla base dell’orario registrato dai sistemi informatici INAIL, nei limiti della capienza massima del finanziamento prestabilito regione per regione, senza stilare alcuna graduatoria stricto sensu, ma con pubblicazione sul portale di un mero elenco delle ditte “prenotate” al finanziamento (artt. 2 e 13 dell’avviso pubblico). Nel caso di specie, oggetto del finanziamento richiesto dalla società ricorrente è un progetto di investimento, tra quelli contemplati nell’articolo 5 dell’avviso pubblico, concernente le ristrutturazione e/o la modificazione dell’impiantistica (progetto tipo a) dell’allegato 1 dell’avviso), che comporta il miglioramento delle condizioni di lavoro di n. 9 addetti interessati, su un totale di occupati pari a n. 49 unità, talché l’intervento riguarda parte della produzione e parte dei lavoratori e il termine di raffronto per apprezzare il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei luoghi di lavoro è evidente. Non viene dunque in evidenza un progetto d’investimento, che determina l’installazione e/o la sostituzione di macchine e/o attrezzature, con nuove messe in servizio dopo la data del 21 settembre 1996 (progetto tipo b) dell’allegato 1 dell’avviso). Solo per questi ultimi progetti è stata richiesta la dimostrazione della rottamazione o vendita/permuta delle macchine, attrezzature o dispositivi da sostituire, epperò nella sola successiva “fase di rendicontazione” (e non già nella “fase di amissione”). Segnatamente, l’innovazione impiantistica, per cui è stato chiesto il finanziamento dell’INAIL dalla impresa ricorrente, consistente nell’introduzione nel ciclo di produzione di una “macchina semovente” e di due stampi, che coinvolgerà n. 9 unità lavorative e va ad affiancarsi alla tradizionale produzione mediante “banchi vibranti fissi”. Tale intervento comunque comporta un miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro, rispetto alle condizioni preesistenti, ben riscontrabile con quanto riportato nella valutazione dei rischi aziendali (articolo 1 dell’avviso pubblico). In giurisprudenza (Cons. St., sez. III, 11 giugno 2018, n. 3503), si è affermato che il sindacato sulle controversie, relative alla mancata ammissione al finanziamento INAIL, si risolva in un giudizio sulla correttezza dell’apprezzamento e, quindi, sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica riservata all’Istituto in sede di valutazione del progetto, condotto in base a criteri congrui rispetto alla finalità e all’efficacia dell’intervento proposto. Nel caso di specie, sussiste il denunciato scorretto apprezzamento tecnico-discrezionale, in quanto il progetto d’investimento presentato dalla società ricorrente è in linea con le previsioni stabilite dall’avviso pubblico, che hanno come precipua finalità la riduzione dell’esposizione a rischio dei lavoratori (art. 1-Finalità; art. 5-Progetti ammessi a contributo). V’è peraltro il censurato vizio di motivazione del provvedimento di diniego (art. 17, ultimo comma, dell’avviso pubblico). Da un lato, non appare molto chiaro (anche per ragioni lessicali) il percorso argomentativo seguito dall’Istituto nel provvedimento finale, con riferimento alle puntuali osservazioni argomentate (e documentate) dell’impresa istante. Dall’altro lato, il provvedimento finale è motivato in senso divergente rispetto al proprio precedente atto interlocutorio di diniego, dal ché emerge la censurata illogicità degli atti e il travisamento di quanto stabilito nell’allegato n. 1, a proposito della dimostrazione e della documentazione circa la sostituzione del macchinario, poiché ne è stata richiesta la comprova, in una fattispecie non prevista.
Contributi e finanziamenti
Procedimento amministrativo – Archiviazione – Natura – Individuazione.           Il provvedimento di archiviazione non si risolve in un “giudicato procedimentale” idoneo ad attribuire al destinatario una posizione di vantaggio e quindi l’interessato non può riporre un affidamento legittimo verso un’ulteriore archiviazione poiché non si trova di per sé, all’esito della conclusione del procedimento, in una posizione giuridica meritevole di protezione (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’archiviazione costituisce un provvedimento di accertamento (negativo o positivo) sui presupposti legittimanti l’adozione del provvedimento finale con cui l’amministrazione si limita a verificare, in relazione al caso concreto, che non sussistano le ragioni per adottare l’atto conclusivo oppure che tali ragioni, pur presenti, siano comunque venute meno, lasciando l’interessato nella posizione in cui si trovava prima dell’avvio del procedimento. Ha aggiunto che il procedimento amministrativo, compreso quello che conduce alla revoca di un precedente atto, è in genere autonomo ed indipendente rispetto ad altri procedimenti in quanto si fonda su specifici presupposti di legge che devono ricorrere all’inizio del procedimento e al momento di adozione dell’atto conclusivo. L’avvenuta archiviazione di un procedimento disposta in passato, sulla base di specifici presupposti oggetto di valutazione, non assume rilievo in relazione ad altri, eventuali, procedimenti in cui possono venire in considerazione, in ipotesi, anche presupposti simili a quelli presi in considerazione in precedenza. Ciò in quanto l’amministrazione, nell’esercizio delle proprie funzioni, compie una valutazione in concreto di tutte le circostanze utili e pertinenti, sia in modo atomistico che nell’insieme delle stesse. Può quindi accadere che circostanze simili a quelle che in passato avevano dato luogo ad un’archiviazione non siano idonee o non lo siano più, ove presenti, a giustificare una nuova archiviazione poiché la decisione dell’amministrazione dipende dalla peculiarità del caso concreto che viene di volta in volta in emersione.
Procedimento amministrativo
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione - Termine per l’impugnazione – Dies a quo - Individuazione. Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – Motivi aggiunti – Possibilità.             Il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016; la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione; sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati (1).               Le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76, d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale; la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta (1).   (1) Ha chiarito l’Alto Consesso che in considerazione dell’immutato testo dell’art. 120, comma 5, del c.p.a., degli artt. 29, comma 1, e 76 del ‘secondo codice’, nonché dell’art. 5, d.P.R. n. 184 del 2006, per determinare il dies a quo per l’impugnazione va riaffermata la perdurante rilevanza della ‘data oggettivamente riscontrabile’, cui ancora si riferisce il citato comma 5. La sua individuazione, dunque, continua a dipendere dal rispetto delle disposizioni sulle formalità inerenti alla ‘informazione’ e alla ‘pubblicazione’ degli atti, nonché dalle iniziative dell’impresa che effettui l’accesso informale con una ‘richiesta scritta’, per la quale sussiste il termine di quindici giorni previsto dall’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’, applicabile per identità di ratio anche all’accesso informale. Le considerazioni che precedono sono corroborate dall’esame dell’art. 2 quater della direttiva n. 665 del 1989 e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. L’art. 2 quater della direttiva n. 665 del 1989 ha disposto che il termine ‘per la proposizione del ricorso’ – fissato dal legislatore nazionale – comincia ‘a decorrere dal giorno successivo alla data in cui la decisione dell’Amministrazione aggiudicatrice è stata inviata’ al partecipante alla gara, ‘accompagnata da una relazione sintetica dei motivi pertinenti’. Da tale disposizione, si desume che la direttiva ha fissato proprio il principio posto a base dapprima dell’art. 245 del ‘primo codice’ e poi dell’art. 120, comma 5, c.p.a., e cioè che la decorrenza del termine di impugnazione dipenda dall’accertamento di una ‘data oggettivamente riscontrabile’, riconducibile al rispetto delle disposizioni sulle informazioni dettagliate, spettanti ai partecipanti alla gara. Inoltre, come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione, in sede di interpretazione dell’art. 1, § 1, della direttiva n. 665 del 1989, la Corte di Giustizia ha evidenziato che: - i termini imposti per proporre i ricorsi avverso gli atti delle procedure di affidamento cominciano a decorrere solo quando ‘il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione” (Corte di Giustizia, sez. IV, 14 febbraio 2019, in C-54/18, punto 21 e anche punti 32 e 45, che ha deciso una questione pregiudiziale riguardante il comma 2 bis dell’art. 120 del c.p.a., poi abrogato dalla legge n. 55 del 2019; Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, punto 37, che ha deciso una questione pregiudiziale riguardante proprio l’art. 79 del ‘primo codice’ e l’art. 120, comma 5, c.p.a.); - “una possibilità, come quella prevista dall’art. 43 c.p.a. di sollevare «motivi aggiunti» nell’ambito di un ricorso iniziale proposto nei termini contro la decisione di aggiudicazione dell’appalto non costituisce sempre un’alternativa valida di tutela giurisdizionale effettiva. Infatti, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, gli offerenti sarebbero costretti a impugnare in abstracto la decisione di aggiudicazione dell’appalto, senza conoscere, in quel momento, i motivi che giustificano tale ricorso” (Corte di Giustizia, sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, cit., punto 40). Anche l’art. 2 quater della direttiva n 665 del 1989 e tale giurisprudenza inducono a ritenere che la sopra riportata normativa nazionale vada interpretata nel senso che il termine di impugnazione degli atti di una procedura di una gara d’appalto non può che decorrere da una data ancorata all’effettuazione delle specifiche formalità informative di competenza della Amministrazione aggiudicatrice, dovendosi comunque tenere conto anche di quando l’impresa avrebbe potuto avere conoscenza degli atti, con una condotta ispirata alla ordinaria diligenza. In altri termini e in sintesi, l’Adunanza Plenaria ritiene che – ai fini della decorrenza del termine di impugnazione - malgrado l’improprio richiamo all’art. 79 del ‘primo codice’, ancora contenuto nell’art. 120, comma 5, c.p.a. – rilevano: a) le regole che le Amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare in tema di ‘Informazione dei candidati e degli offerenti’ (ora contenute nell’art. 76 del ‘secondo codice’); b) le regole sull’accesso informale (contenute in termini generali nell’art. 5, d.P.R. n. 184 del 2006), esercitabile – anche quando si tratti di documenti per i quali la legge non prevede espressamente la pubblicazione - non oltre il termine previsto dall’art. 76, prima parte del comma 2, del ‘secondo codice’; c) le regole (contenute nell’art. 29, comma 1, ultima parte, del ‘secondo codice’) sulla pubblicazione degli atti, completi dei relativi allegati, ‘sul profilo del committente’, il cui rispetto comporta la conoscenza legale di tali atti, poiché l’impresa deve avere un comportamento diligente nel proprio interesse. I principi che precedono risultano conformi alle ‘esigenze di celerità dei procedimenti di aggiudicazione di affidamenti di appalti pubblici’, sottolineate dall’ordinanza di rimessione. Tali esigenze: - sono state specificamente valutate dal legislatore in sede di redazione dapprima dell’art. 245 del ‘primo codice’ (come modificato dal d.lgs. n. 53 del 2010) e poi dell’art. 120, commi 1 e 5, c.p.a. (con le connesse regole sopra richiamate della esclusione della proponibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e della fissazione del termine di trenta giorni, ancorata per quanto possibile ad una ‘data oggettivamente riscontrabile’); - sono concretamente soddisfatte – anche nell’ottica della applicazione dell’art. 32, comma 9, del ‘secondo codice’ sullo stand still - in un sistema nel quale le Amministrazioni aggiudicatrici rispettino i loro doveri sulla trasparenza e sulla pubblicità, previsti dagli articoli 29 e 76 del ‘secondo codice’, fermi restando gli obblighi di diligenza ricadenti sulle imprese, di consultare il ‘profilo del committente’ ai sensi dell’art. 29, comma 1, ultima parte, dello stesso codice e di attivarsi per l’accesso informale, ai sensi dell’art. 5, d.P.R. n. 184 del 2006, da considerare quale ‘normativa di chiusura’ anche quando si tratti di documenti per i quali l’art. 29 citato non prevede la pubblicazione (offerte dei concorrenti, giustificazioni delle offerte). L’ordinanza di rimessione ha posto anche una ulteriore specifica questione (concretamente rilevante per la definizione del caso di specie), sul se il ‘principio della piena conoscenza o conoscibilità’ (per il quale in materia il ricorso è proponibile da quando si sia avuta conoscenza del contenuto concreto degli atti lesivi o da quando questi siano stati pubblicati sul ‘profilo del committente’) si applichi anche quando l’esigenza di proporre il ricorso emerga dopo aver conosciuto i contenuti dell’offerta dell’aggiudicatario o le sue giustificazioni rese in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta. Ritiene l’Adunanza Plenaria che il ‘principio della piena conoscenza o conoscibilità’ si applichi anche in tale caso, rilevando il tempo necessario per accedere alla documentazione presentata dall’aggiudicataria, ai sensi dell’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’ (come sopra rilevato ai punti 19 e 27). Poiché il termine di impugnazione comincia a decorrere dalla conoscenza del contenuto degli atti, anche in tal caso non è necessaria la previa proposizione di un ricorso ‘al buio’ [‘in abstracto’, nella terminologia della Corte di Giustizia, e di per sé destinato ad essere dichiarato inammissibile, per violazione della regola sulla specificazione dei motivi di ricorso, contenuta nell’art. 40, comma 1, lettera d), c.p.a.], cui dovrebbe seguire la proposizione di motivi aggiunti.
Processo amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazioni – Garanzia - Deposito “in numerario” – Condizione.   Contratti della Pubblica amministrazioni – Soccorso istruttorio – Condizioni.  Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione - Impugnazione - Concorrente legittimamente escluso dalla gara – Inammissibilità.                     Nelle gare di appalto per l’affidamento di lavori, servizi e forniture pubbliche il deposito “in numerario” dell’importo oggetto di una garanzia fideiussoria, bancaria o assicurativa ovvero rilasciata da uno degli intermediari abilitati iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 106 del T.U.L.B. (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), possiede idoneità surrogatoria della formale garanzia fideiussoria, solo qualora il deposito in numerario venga effettuato entro il termine ultimo fissato dalla lex specialis per la presentazione dell’offerta di gara, in omaggio al principio generale, positivizzato in norma, vigente nel diritto degli appalti pubblici, secondo cui la cauzione provvisoria (a garanzia dell’offerta) nonché quella a presidio della corretta esecuzione dell’opera o del servizio o della fornitura pubblica, deve essere prodotta alla stazione appaltante entro il termine di presentazione dell’offerta stessa.             Il soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 deve essere azionato anche nei casi di invalidità o irregolarità della cauzione provvisoria trattandosi di ipotesi da ricondurre all'ambito delle “carenze di elementi formali della domanda” ovvero della “mancanza, incompletezza” o “irregolarità essenziale” della documentazione allegata alla domanda di partecipazione, e va a buon fine – e l’operatore può restare in gara – solo se la cauzione provvisoria presentata in sanatoria è stata emessa in data anteriore al termine per la presentazione delle domande di partecipazione.            Il concorrente legittimamente escluso da una gara pubblica non ha interesse processuale a ricorrere contro i provvedimenti adottati nelle ulteriori fasi della procedura e, in particolare, contro quello di aggiudicazione ad altra impresa partecipante, posto che l’eventuale accoglimento del gravame nessun vantaggio recherebbe alla sua sfera giuridica, restando invulnerata la sua esclusione dalla gara; è ravvisabile anche inammissibilità per difetto di legittimazione a ricorrere poiché “la definitiva esclusione o l'accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della procedura selettiva, e tale esito rimane fermo in ogni caso in cui l'illegittimità della partecipazione alla gara è stata definitivamente accertata per inoppugnabilità dell'atto di esclusione ovvero per annullamento dell'atto di ammissione”    
Contratti della Pubblica amministrazione
  Giurisdizione – Silenzio della P.A. – Soggetto titolare di diritti edificatori compensativi – Individuazione area di atterraggio - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.    Urbanistica - Diritti edificatori compensativi  – Area di atterraggio -  Individuazione – Titolare di diritto edificatorio compensativo – E’ legittimato ​​​​​​​      Rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la domanda ex art. 117 c.p.a. di accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere sulla istanza di un privato titolare di diritti edificatori compensativi di individuare l’area di atterraggio sulla quale esercitare questi ultimi (1).               La titolarità di un diritto edificatorio compensativo legittima il proprietario ad esigere dall’Amministrazione l’individuazione di un’area di atterraggio nei termini convenzionali o, in mancanza, entro termini ragionevoli, da valutarsi caso per caso tenuto conto delle circostanze del caso concreto (1).    (1) Ha aggiunto la Sezione che la titolarità di un diritto edificatorio compensativo scaturisce da un accordo solutorio (di diritto pubblico) mediante il quale l’Amministrazione adempie all’obbligazione di corrispondere l’indennità (o il risarcimento) per l’esproprio mediante una “datio in solutum”; in mancanza di diversa previsione del titolo, l’effetto estintivo dell’obbligazione originaria si verificherà solo quando la diversa prestazione dedotta sarà eseguita ed il diritto costituito in capo al proprietario sarà esercitabile da parte di quest’ultimo.   Se la localizzazione del diritto edificatorio diviene oggettivamente impossibile, il titolare può esigere l’adempimento dell’obbligazione originaria, ovvero il pagamento della indennità di esproprio a sostituzione della quale era stato costituito il diritto edificatorio stesso.    Il TAR Lazio ha esaminato una fattispecie nella quale veniva in rilievo una pretesa a che l’Amministrazione provvedesse circa l’allocazione di diritti edificatori compensativi “in volo”, per i quali non risultavano individuate le “aree di atterraggio”.   La Sezione ha ritenuto di ricondurre la fonte genetica della costituzione di diritti edificatori in capo al proprietario di un’area da acquisire al patrimonio dell’Ente, in luogo dell’indennità espropriativa (diritti edificatori compensativi) alla disciplina degli accordi procedimentali ex art. 11 della l. 241 del 1990, con conseguente sussistenza della giurisdizione esclusiva del GA.   Ha quindi ritenuto che l’utilità che forma oggetto dei diritti edificatori non può essere realizzata dal titolare della relativa situazione giuridica senza o a prescindere dalla collaborazione dell’Amministrazione comunale, titolare del potere di governo del territorio, spettando a quest’ultima la individuazione delle aree nelle quali poter collocare i diritti edificatori e quindi dipendendo da essa consentire l’esercizio dello jus aedificandi che è stato costituito quale compensazione delle facoltà originarie sul suolo espropriato.   Sulla base di tali premesse, quando la facoltà di individuazione delle aree “di atterraggio” non è esercitata a monte e quindi lo strumento urbanistico non regola già direttamente la loro individuazione, né risultano criteri di utilizzabilità delle volumetrie in maniera automatica (come, ad esempio, negli istituti di perequazione urbanistica con adozione di indici medi di edificazione), la titolarità del diritto edificatorio conferisce al suo titolare nei rapporti con l’Amministrazione una posizione di interesse legittimo, che lo abilita ad esercitare facoltà di tipo sollecitatorio e propositivo verso l’Ente, inclusa la legittimazione a proporre azione contro l’inerzia che quest’ultimo eventualmente serbi nell’individuazione delle “aree di atterraggio” entro termini che (ove non diversamente fissati nella legge regionale o nello strumento urbanistico) devono essere ragionevoli (in quanto estrinsecazione di una obbligazione derivante in capo all’Ente dall’accordo urbanistico).   In caso di esaurimento delle aree o di altre ragioni di impossibilità sopravvenuta che ne impediscano l’individuazione (come nel caso di sopravvenuto mutamento di strumento urbanistico), la Sezione ha ritenuto che l’Amministrazione sarà tenuta o ad approntare una apposita variante urbanistica (laddove persista l’interesse pubblico a consentire l’edificazione) oppure dovrà procedere alla monetizzazione del diritto e corrisponderne un valore commisurato alla originaria indennità di espropriazione.   La monetizzazione del diritto edificatorio “in volo” non più esercitabile è spiegata dalla sentenza in commento perché quest’ultima qualifica la costituzione del diritto edificatorio compensativo come una “datio in solutum” dell’originaria obbligazione di pagamento dell’indennizzo espropriativo.   Richiamando la pacifica elaborazione dottrinale e di giurisprudenza sul tema, la sentenza si colloca nel senso di ritenere che la “datio in solutum” possiede un’efficacia solutoria condizionata alla concreta realizzazione del diritto costituito in luogo della prestazione originaria.   Pertanto, una volta che il diritto edificatorio “in volo” dovesse risultare non suscettibile (più) di “atterraggio” ovvero di localizzazione, la prestazione sostitutiva diventerà, a sua volta, impossibile e con essa l’effetto solutorio, con la conseguenza che tornerà ad essere esigibile l'obbligazione originaria di indennizzo espropriativo ​​​​​​​
Aeroporti
Processo amministrativo – Appello - Termine lungo - Prescinde dalle scelte processuali degli attori.            Il termine “lungo” per appellare la sentenza del Tar è un termine residuale, che non è determinato dalla volontà delle parti, ed è finalizzato a fare in modo che la pendenza del rapporto processuale abbia termine definitivamente a prescindere dalle scelte processuali degli attori per eliminare ogni incertezza sulla formazione del giudicato; il termine lungo rimane perentorio, insuperabile e sottratto alla volontà ed alle scelte processuali delle parti (1).   (1) Ha chiarito il C.g.a. che utilizzo del termine “in difetto” da parte dell’art. 92, comma 3, c.p.a. in luogo del termine “indipendentemente” (usato dall’art. 327, comma 1, c.p.c.) non comporta una totale ed ontologica revisione della disciplina dei termini, che è inspirata a dare certezza al giudicato ed ai suoi effetti. Se si accedesse alla diversa interpretazione i termini per proporre appello andrebbero così individuati: - un termine “breve” decorrente dalla notifica della sentenza; - un termine “lungo”; - un termine calcolato sommando un ulteriore termine breve al termine lungo, per il solo fatto, del tutto eventuale, che la sentenza sia stata notificata a ridosso dello scadere del termine lungo. Tale ultimo termine sarebbe dotato di una certa aleatorietà perché è determinato dalla data in cui, avvicinandosi la scadenza del termine lungo, la sentenza viene notificata a cura della parte. In definitiva la data del termine “ultimo” cui ancorare la definitiva certezza della immodificabilità del giudicato sarebbe lasciata ad una delle parti processuali. Tale conclusione non è ritenuta condivisibile dal C.g.a. I termini per proporre impugnazione, per conforme giurisprudenza civile ed amministrativa, sono tutti perentori e previsti, come rileva la migliore dottrina, a pena di estinzione del potere concesso alla parte. In modo particolare il termine “lungo” è da sempre ritenuto un termine residuale, che non è determinato dalla volontà delle parti, ed è finalizzato a fare in modo che la pendenza del rapporto processuale abbia termine definitivamente a prescindere dalle scelte processuali degli attori per eliminare ogni incertezza sulla formazione del giudicato (Cons. St., sez. VI, 23 giugno 2006, n. 4017). L’esigenza di certezza di stabilità del giudicato è ancora più rilevante nel processo amministrativo dove, di norma, oggetto dello scrutinio sono gli atti ed i provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione. Sul piano squisitamente lessicale tra il termine “indipendentemente” (art. 327, comma 1, c.p.c.) ed il termine “in difetto” (art. 92, comma 3, c.p.a.) intercorre il tipico rapporto tra genus e species. Utilizzando il termine “indipendentemente” (genus) si ipotizza che la notifica della sentenza potrebbe esserci come non esserci. Con il termine “in difetto” (species) si considera solo l’ipotesi in cui la notifica non vi sia. Anche sul piano strettamente linguistico alla species non viene riconosciuta la capacità di modificare l’ontologica essenza del genus.
Processo amministrativo
Informativa antimafia – Contratto di appalto – Recesso – Per intervenuta interdittiva antimafia – Pagamento opere eseguite - Artt. 92 e 94, d.lgs. n. 159 del 2011 – Spetta – Revisione prezzi – Spettanza – Rimessione all’Adunanza plenaria.           Va rimessa all’Adunanza plenaria la questione se gli artt. 92 e 94, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nel fare salvo, per il caso di recesso dal contratto d’appalto indotto dal sopravvenire di un’informazione antimafia interdittiva a carico del privato contraente, il pagamento del valore delle opere già eseguite, implichino il riconoscimento all’appaltatore medesimo della possibilità di percepire, proprio per le opere già eseguite, anche il compenso revisionale contrattualmente previsto (1).    (1) Ha chiarito il C.g.a. che la controversia richiede di stabilire se la revisione prezzi costituisca a tutti gli effetti parte integrante del corrispettivo contrattuale, nel qual caso la salvezza legislativa sopra ricordata imporrebbe di confermare il decisum di prime cure; o se, invece, debba prevalere una percezione diversa dell’istituto revisionale, eventualmente correlata anche a una lettura radicalmente restrittiva della norma legislativa improntata alla salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite”.  Ha ricordato che l’Adunanza Plenaria, alla quale si devono i principi giurisprudenziali di fondo della delicata materia, nel mentre è stata già tratta a occuparsi dapprima dell’effetto prodotto dall’interdittiva antimafia sul soggetto destinatario, e del perimetro da assegnare alla norma preclusiva dell’art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 159 del 2011 (sentenza n. 3 del 2018), e poi, più di recente, della riconduzione ai soli contratti d’appalto (con esclusione quindi dei finanziamenti e contributi pubblici erogati per finalità d’interesse collettivo) delle previsioni di salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente (sentenza n. 23 del 2020), non ha avuto ancora occasione di pronunciare tema degli effetti dell’interdittiva sugli equilibri dei contratti d’appalto in itinere.  Il C.g.a. ha quindi le mosse dalle norme positive che concernono l’istituto revisionale.  L’art. 44, l. 23 dicembre 1994 n. 724, nel riformulare l'art. 6 , l. 24 dicembre 1993, n. 537, ne ha ribadito la regola per cui “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo”, precisando che la revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui al comma 6 (prezzi del mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle pubbliche amministrazioni, comparati, su base statistica, con i prezzi di mercato).  La regola è transitata (senza mutamenti sostanziali ai fini di causa) nell’art. 115, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, secondo cui: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all'art. 7, comma 4, lettera c) e comma 5.”  La giurisprudenza della Corte di Cassazione afferma che le posizioni soggettive del privato riflettenti l’applicazione della clausola di revisione dei prezzi si collocano in un'area di rapporti nella quale l’Amministrazione agisce esercitando poteri pubblicistici, giacché la normativa prevede che “la revisione venga operata sulla base di una istruttoria condotta unilateralmente da soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione in base a criteri dettati dalla legge e, quindi, a seguito di un procedimento amministrativo, che necessariamente deve essere seguito da un provvedimento amministrativo di riconoscimento o di diniego del diritto ad un maggior compenso a titolo di revisione prezzi” (Cass. civ., SS.UU., 17 aprile 2009, n. 9152; id., 31 ottobre 2008, n. 26298, che ha affermato che con la pretesa alla revisione dei prezzi il privato aveva fatto valere un interesse legittimo, “posto che la stessa l. n. 537 del 1993, art. 6, pur ammettendo la revisione, affida al potere discrezionale della pubblica amministrazione l'accertamento dei presupposti per il suo riconoscimento”).  Anche la giurisprudenza amministrativa inquadra peraltro l’operatività dell’istituto nell’area del potere e del diritto pubblico (Cons. St., sez. II, 6 maggio 2020, n. 2860). Ha aggiunto il C.g.a. che la revisione prezzi serve difatti a ragguagliare con pienezza la remunerazione contrattuale dell’appaltatore al valore della prestazione resa dal medesimo all’Amministrazione. E la tesi di parte privata che ne riconduce la funzione proprio a una ridefinizione del corrispettivo pattuito, tesa a mantenere l’equilibrio delle prestazioni e ristabilire il sinallagma, trova anch’essa pieno riscontro nella giurisprudenza, oltre che già nella stessa denominazione tradizionale dell’istituto (Cons. St., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 5128, secondo cui: “ diritto alla revisione non è altro che il diritto ad un diverso e più vantaggioso calcolo del quantum spettante al prestatore del servizio”; id., sez. III, 9 aprile 2014, n. 1697, che richiama e conferma la posizione giurisprudenziale secondo la quale con la revisione “la legge ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un "nuovo" corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto riferito alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale di riferimento”; id., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 5997; Cass. civ., II, 8 aprile 1999, n. 3393, che ha puntualizzato che “L'obbligo del committente di pagare all'appaltatore il prezzo dell'appalto, ossia la somma di danaro che costituisce il corrispettivo della prestazione di quest'ultimo, ha la sua matrice nel contratto, ed integra dunque un debito di valuta. Tale prezzo non muta natura giuridica se viene revisionato, vuoi per fatti non imputabili al committente (art. 1664 cod. civ.), vuoi per le variazioni del progetto che egli ha facoltà di disporre in corso d'opera”).  Poiché, inoltre, lo scopo della norma di salvezza più volte citata risiede nella preservazione dell'equilibrio contrattuale e nello sfavore per gli ingiustificati arricchimenti, essa risulta porre con ciò in primo piano un raffronto tra valori economici: e in coerenza con una simile prospettiva potrebbe ben risultare recessivo il punto che la pretesa revisionale non possieda già ab origine natura di diritto di credito, ma sia inizialmente qualificabile come interesse legittimo.  A conferma della funzione tecnica dell’istituto della revisione del prezzo dell’appalto, e della sua complementarità alla causa dello schema contrattuale in discorso, non guasta infine rammentare che l’istituto è contemplato anche dal codice civile (art. 1664). 
Informativa antimafia
Covid-19 – Accesso ai documenti – Dati forniti dalla Protezione civile – Dati incompleti – Inammissibilità della richiesta di tutela cautelare.          È inammissibile la richiesta di tutela monocratica avanzata dal Codacons e volta - attraverso l’impugnazione di bollettini quotidiani pubblicati dalla Protezione Civile, contenenti la raccolta di elementi acquisiti presso le Regioni su una pluralità di dati relativi alla situazione Covid-19 – a tutelare il diritto a conoscere, per le finalità proprie di cui è portatore, informazioni e dati che mancano in detti bollettini, e ciò in quanto la raccolta di dati regionali per l’informazione ai cittadini non esprime, né potrebbe farlo, alcun potere autoritativo pubblico (1). (1) Il decreto – nel confermare il decreto cautelare del Tar Lazio, sez. I quater, 1 aprile 2020, n. 2346 –  ha affermato che non vi è, nella specie, né un formale diniego di pubblicazione di tali ulteriori dati pretesi, né un atto provvedimentale, comunque individuato, giacché la raccolta di dati regionali per la informazione ai cittadini non esprime, né potrebbe farlo, alcun potere autoritativo pubblico. Ha aggiunto che i dati aggiuntivi richiesti sarebbero sicuramente utili ai fini di un quadro conoscitivo per i cittadini ancora più dettagliato, ma la possibilità o meno che essi siano raccolti e poi pubblicati costituisce l’oggetto di una tipica azione di accertamento basata sul principio di trasparenza, e non può formare oggetto di una pretesa annullatoria, non essendovi alcun atto da annullare. Ha infine affermato che i dati di cui si chiede la pubblicazione non sono di certo irreversibilmente persi ai fini dell’azione di accertamento che con lo strumento appropriato l’appellante potrà formulare; non potrebbe - del resto - piegarsi uno strumento del processo amministrativo - cioè l’azione annullatoria - ad una finalità certamente meritevole ma estranea a detto strumento, cioè quella di disporre in tempo reale di un quadro informativo più completo rispetto a quello quotidianamente offerto dai comunicati stampa della Protezione Civile.
Covid-19
Processo amministrativo - Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue – Nuovo rinvio – Obbligo – Limiti      Il giudice nazionale può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità stabiliti dal diritto processuale nazionale purché siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività (1).    (1) Il processo amministrativo è la sede per la soluzione di questioni di diritto non meramente astratte, ma che debbano avere rilevanza nel caso concreto. Questa è anche la precondizione per poter sollevare una questione pregiudiziale davanti alla C. giust. UE, la quale dichiara irricevibili, senza scendere al merito, le questioni di astratto diritto la cui soluzione non è rilevante per i fatti di causa. Quanto al nuovo rinvio, C. giust. UE, 6.10.2021 C-561/19 ha statuito che “il giudice nazionale non può essere esonerato dall’obbligo di rinvio pregiudiziale per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità stabiliti dal di-ritto processuale nazionale purché siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività. Il principio di equivalenza richiede che la complessiva disciplina dei ricorsi si applichi indistintamente ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto dell’Unione e a quel-li simili fondati sulla violazione del diritto interno. Quanto al principio di effettività, le norme processuali nazionali non devono essere tali da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”. E nel caso specifico, ad esonerare il giudice nazionale da un nuovo rinvio pregiudiziale, ricorre proprio una ragione di irricevibilità stabilita dal diritto nazionale e rispettosa dei principi di equivalenza e di effettività: in quanto il processo si è svolto per due gradi di giudizio sulla base di dedotte e non contestate circostanze fattuali, e segnatamente l’esservi un accreditamento da parte di un organismo avente sede fuori dall’Unione europea, mentre solo in vista della discussione finale della causa la parte ha irricevibilmente sottoposto una questione di astratto diritto del tutto diversa e svincolata dai fatti di causa, e cioè la possibilità per un operatore economico stabilito in un dato Stato membro, di conseguire l’accreditamento da parte di un Organismo avente sede in uno Stato UE diverso da quello di stabilimento. ​​​​​​​In termini più generali, la consolidata giurisprudenza della C. giust. UE richiede, ai fini dell’affermazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte del giudice nazionale di ultima istanza, che la questione comunitaria debba essere rilevante per la decisione della causa. 
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere - Scioglimento Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa – Impossibilità di ripristino – Permane l’interesse.  Enti locali – Comuni – Scioglimento Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa - Sindacabilità – Limiti.  Procedimento amministrativo - Comunicazione di avvio – Scioglimento Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa – Non occorre.                Permane l’interesse al ricorso proposto avverso lo scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa anche se l’eventuale annullamento non potrebbe sortire l’effetto del ripristino della consiliatura, essendo questa destinata a cessare poco dopo l’adozione della misura dissolutoria, residuando un interesse morale all’acceleramento dell’inesistenza di forme di pressione e di vicinanza della compagine governativa alla malavita organizzata (1).                In sede di impugnazione del provvedimento di scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa il sindacato del giudice amministrativo sulla ricostruzione dei fatti e sulle implicazioni desunte dagli stessi non può spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento dei fatti, svolgendosi quindi come scrutinio finalizzato a verificare eventuali vizi di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito  (2).              Lo scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (3).      (1) La Sezione ha dato atto di una giurisprudenza non univoca in relazione alla permanenza dell’interesse all’annullamento giurisdizionale del provvedimento di scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa ove comuynque non sarebbe più possibile il ripristino della consiliatura  Ad avviso della Sezione l’ammissibilità del ricorso va riconosciuta alla stregua del più recente e favorevole indirizzo propenso a conferire rilevanza all’interesse, quanto meno morale, a che gli amministratori del disciolto Consiglio, a tutela della loro stessa immagine e reputazione, facciano dichiarare l’erroneità delle affermazioni contenute nel provvedimento impugnato e, quindi, l’inesistenza di forme di pressione e di vicinanza della compagine governativa alla malavita organizzata (Cons. St., sez. III, n. 4074 del 2020; id. n. 5548 del 2020). Né varrebbe obiettare che la lesione dell’immagine del singolo ex amministratore discende semmai (e a tutto voler concedere) essenzialmente dai “fatti” posti a fondamento della misura dissolutoria, l’accertamento della cui veridicità è oggetto di verifica solo incidentale da parte del giudice amministrativo. Non si può negare, infatti, che quei fatti assurgono a significanza proprio per il tramite del giudizio valutativo altamente discrezionale che ne rende l’amministrazione, sicché, se la portata del loro disvalore è compendiata ed enucleata essenzialmente nell’atto ex art. 143, è certamente apprezzabile l’interesse demolitorio volto a contrastare l’interpretazione che in detto atto risulta trasposta e cristallizzata.        (2) Ha preliminarmente ricordato la Sezione le indicazioni di principio dettate dalla Corte costituzionale 19 marzo 1993, n. 103, secondo le quali il potere di scioglimento in questione deve essere esercitato in presenza di situazioni di fatto che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi, suffragate da risultanze obiettive e con il supporto di adeguata motivazione; tuttavia, la presenza di risultanze obiettive esplicitate nella motivazione, anche ob relationem, non deve coincidere con la rilevanza penale dei fatti, né deve essere influenzata dall'esito di eventuali procedimenti giudiziari che abbiano lambito o investito la medesima vicenda storica.   Recisa la connessione con la materia processual-penalistica, va al contempo rimarcata la natura di provvedimento non sanzionatorio ma preventivo della misura ex art. 143, t.u. 18 agosto 2000, n. 267, in quanto posto a salvaguardia dell’amministrazione pubblica di fronte alla pressione e all’influenza della criminalità organizzata. Alla stregua di tale ratio trovano giustificazione sia il margine, particolarmente ampio, della potestà di apprezzamento di cui fruisce l'Amministrazione; sia la possibilità di dare peso anche a situazioni non traducibili in addebiti personali, ma tali da rendere plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell'esperienza, l'ipotesi di una possibile soggezione degli amministratori alla criminalità organizzata.  Rilevano, perciò, anche “situazioni che non rivelino né lascino presumere l’intenzione degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata”, anche perché, diversamente, ove questa intenzione emergesse, sussisterebbero i presupposti per l'avvio dell'azione penale o, almeno, per l'applicazione delle misure di prevenzione a carico degli amministratori, mentre la scelta del legislatore è stata quella di non subordinare lo scioglimento del consiglio comunale né a tali circostanze, né al compimento di specifiche illegittimità (Cons. Stato, sez. V, n. 3784 del 2005; id., sez. IV, n. 1156 del 2004). Tutto quanto sopra chiarito spiega anche perché, nell’ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose – finalizzato, dunque, a contrastare una patologia del sistema democratico – l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità, non richiedendosi né che la commissione di reati da parte degli amministratori, né che i collegamenti tra l’amministrazione e le organizzazioni criminali risultino da prove inconfutabili, ma solo che sussistano sufficienti elementi univoci e coerenti volti a far ritenere un relazione dinamica tra l’Amministrazione e i gruppi criminali.   Sulla base della stessa ratio si comprende perché il sindacato del giudice amministrativo sulla ricostruzione dei fatti e sulle implicazioni desunte dagli stessi non possa spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento dei fatti (Cons. Stato, sez. III, n. 4845 del 2014), svolgendosi quindi come scrutinio finalizzato a verificare eventuali vizi di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito (Cons. Stato, sez. III, n. 96 del 2018); del pari si comprende come in sede giurisdizionale non sia affatto necessario un puntiglioso e cavilloso accertamento di ogni singolo episodio, più o meno in sé rivelatore della volontà degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata, né, come detto, delle responsabilità personali, anche penali, di questi ultimi (Cons. Stato, sez. III, n. 1266 del 2012). A quanto sin qui posto, deve infine aggiungersi che le evidenziate puntualizzazioni concordano con l’assenza di sovrapposizioni fra la vertenza avente ad oggetto la legittimità del provvedimento ex art. 143, comma 1, d.lgs. n. 267 del 2000 e quella avente ad oggetto la declaratoria d’incandidabilità degli ex amministratori considerati responsabili degli accadimenti posti a fondamento della misura dissolutoria.  Quest’ultima investe un frammento della prima, riguardando solo ed esclusivamente ciò che costituisce oggetto di addebito all’ex amministratore che, con la propria condotta, ha provocato ovvero contribuito a provocare il verificarsi delle situazioni di cui al citato comma 1 dell’art. 143. Per tale motivo, essa riguarda in via diretta e immediata solo parte del sostrato fattuale della misura dissolutoria, del quale il giudice civile può (e deve) accertare la veridicità e, circostanza ancor più importante, può autonomamente apprezzare la rilevanza e significatività soprattutto al fine di stabilire la sussistenza o meno di responsabilità dovute anche a mera “culpa in vigilando”.  Neppure può esigersi che il giudizio di permeabilità dell’ente al condizionamento esterno passi attraverso il bilanciamento dei “meriti” e dei “demeriti” ascrivibile alla gestione pubblica, in quanto l’eventuale allegazione di “.. provvedimenti utilmente adottati dall’amministrazione comunale […] non dimostra che l’inerzia di questa in altri ambiti o settori della vita pubblica non abbia potuto favorire, consapevolmente, il perdurare o l’insorgere di un condizionamento o di un collegamento mafioso”. D’altra parte, “.. il condizionamento o il collegamento mafioso dell’ente non necessariamente implicano una paralisi o una regressione dell’intera attività di questo, in ogni suo settore, ma ben possono convivere e anzi convivono con l’adozione di provvedimenti non di rado, e almeno in apparenza, anche utili per l’intera collettività, secondo una logica compromissoria, “distributiva”, “popolare”, frutto di una collusione tra politica e mafia” (Cons. Stato, sez. III, n. 4727 del 2018). Ha ricordato la Sezione che lo scioglimento del consiglio comunale pe infiltrazione mafiosa si può fondare su un complesso di elementi indiziari da valutare in un’ottica inferenziale complessiva.  Questa valenza sintomatica si apprezza, viepiù, in virtù della più generale considerazione che, oltre all'ipotesi del "collegamento" di politici e dipendenti locali con la criminalità organizzata, l'art. 143, d.lgs n. 267 del 2000 prevede anche il parametro normativo del "condizionamento", potendo entrambe le situazioni - collegamento e/o condizionamento - realizzarsi nella vita amministrativa degli enti locali influenzati dalle cosche.  La ratio della legge è quella di intervenire per interrompere il rapporto di connivenza o di convenienza degli amministratori locali con sodalizi criminali di stampo mafioso che può rintracciarsi sia nella cosiddetta contiguità compiacente in presenza di clientelismo e di corruzione, come nel caso di specie; sia nella cosiddetta contiguità soggiacente esercitata con pressioni, minacce e atti intimidatori che influenzano in maniera determinante e diretta la vita dell'ente.  Secondo pacifica giurisprudenza, inoltre, lo scioglimento si giustifica tanto nelle ipotesi in cui emergano sintomi di condizionamento riguardanti le scelte strettamente di governo, quanto nei casi in cui i sintomi di condizionamento riguardino le attività di gestione, le quali sostanzialmente finiscono per essere quelle di maggior interesse per le consorterie criminali, visto che attraverso di esse si possono più facilmente e rapidamente ottenere benefici e vantaggi. Al contempo, l’adozione della misura dissolutoria di cui all’art.143, comma 1, d.lgs. n. 267 del 2000 è legittima come nel caso di diretto coinvolgimento dell’apparato politico-amministrativo, così anche nel caso di “inadeguatezza” dello stesso nel regolare compimento dei poteri di vigilanza e nella regolare gestione burocratica dell’amministrazione pubblica.       (3) Ha affermato la Sezione che l’esclusione della garanzia partecipativa nelle forme dettate dall’art. 7, l. 7 agosto 1990, n. 241 è legata alla stessa natura dell'atto di scioglimento che dà ragione dell'esistenza, oltre che della gravità, dell'urgenza del provvedere, cui non può non correlarsi l'affievolimento dell'esigenza di salvaguardare in capo ai destinatari, nell'avvio dell'iter del procedimento di scioglimento, le garanzie partecipative e del contraddittorio assicurate dalla comunicazione di avvio del procedimento.   Questa impostazione trova autorevole avallo, sotto il profilo della sua compatibilità con l’art. 97 Cost., nella pronuncia della Corte costituzionale n. 103 del 1993, stando alla quale la mancanza della previsione della preventiva contestazione degli addebiti (e della possibilità, di conseguenza, di dedurre in ordine ad essi) nel corso del procedimento amministrativo relativo alle ipotesi di scioglimento appare giustificata dalla loro peculiarità, essendo quelle misure caratterizzate dal fatto di costituire la reazione dell'ordinamento alle ipotesi di attentato all'ordine ed alla sicurezza pubblica. Una evenienza dunque che esige interventi rapidi e decisi, il che esclude che possa ravvisarsi l'asserito contrasto con l'art. 97 Cost., dato che la disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, fra i quali, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 23 del 1978; ord. n. 503 del 1987), non è compreso quello del ‘giusto procedimento’ amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost.. ​​​​​​​
Enti locali
Risarcimento danni – Danno da ritardo – Presupposti – Individuazione.       L’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo dell’azione amministrativa è configurabile solo ove il provvedimento favorevole sia stato adottato, sia pure in ritardo, dall’autorità competente ovvero sarebbe dovuto essere adottato, sulla base di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata, in esito al procedimento (1). ​​​​​​(1) Ha ricordato la Sezione che il tempo dell’azione amministrativa non è un bene in sé, ma la misura di un bene consistente nella soddisfazione dell’interesse ottenibile soltanto mediante il legittimo, tempestivo, esercizio della stessa azione amministrativa. La Sezione ha quindi aderito all’indirizzo secondo cui l’espresso riferimento al danno ingiusto – contenuto nell’art. 2-bis, l. n. 241 del 1990, così come nel comma 2 dell’art. 30 c.p.a., secondo cui può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal «mancato esercizio di quella obbligatoria» – induce a ritenere che per poter riconoscere la tutela risarcitoria in tali fattispecie, come in quelle in cui la lesione nasce da un provvedimento espresso, non possa in alcun caso prescindersi dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione quanto dalla sua colpevole inerzia e lo rende risarcibile (Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2020, n. 4669; id. 27 febbraio 2020, n. 1437; id. 2 dicembre 2019, n. 8235; id. 15 luglio 2019, n. 4951). ​​​​​​​Il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita si presenta come un’applicazione particolare dei principi generali in tema di nesso di causalità materiale e mira a stabilire quale sarebbe stato il corso delle cose se il fatto antigiuridico non si fosse prodotto e, cioè, se l’amministrazione avesse agito correttamente (Cons. St., sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751 sui criterî per l’accertamento della causalità materiale, sulla base dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p. declinati secondo la regola della c.d. “causalità adeguata” e temperati in base al canone del “più probabile che non”; id., sez. V, 2 aprile 2020, n. 2210; id. 9 luglio 2019, n. 4790; id., sez. VI, 22 giugno 2018, n. 3838).
Risarcimento danni
Processo amministrativo – Appello – Notifica – A parte non costituita irreperibile al suo indirizzo – Istanza al Presidente di indicare le modalità – Inammissibilità.              È inammissibile l’istanza, rivolta al Presidente, di indicare le modalità con le quali rinnovare la notifica, non andata a buon fine, dell’appello ad una parte non costituita irreperibile al suo indirizzo (1).      (1) Ha chiarito il decreto che il potere presidenziale monocratico di intervento quando una notifica abbia avuto esito negativo è tassativamente circoscritto nei presupposti e nei contenuti, dall’art. 93, ultimo comma, c.p.a., perchè una rimessione in termini per la notificazione, concessa monocraticamente fuori udienza e senza contraddittorio tra le parti, se non ancorata a rigorosi presupposti oggettivi, si tradurrebbe in una alterazione della parità delle armi nel processo.   Il presupposto è che la notificazione dell’atto di appello “abbia avuto esito negativo perché il domiciliatario si è trasferito senza notificare una formale comunicazione alle altre parti”. Il caso contemplato è dunque quello di una parte costituita in primo grado, con un originario domicilio che risulta dalla sentenza o dalla sua notificazione, che tuttavia risulta venuto meno “a sorpresa” al momento della notificazione dell’impugnazione.  La previsione non si applica, pertanto, per rimediare ad altri difetti della notificazione, per i quali la eventuale istanza di rimessione in termini per errore scusabile va rivolta al Collegio.  Non è perciò contemplata l’ipotesi, che ricorre nel caso sottoposto al Presidente del C.g.a., in cui una parte non costituita sia irreperibile al suo indirizzo.   Il potere presidenziale, inoltre, è solo quello di “fissare un termine per il completamento della notificazione o per la rinnovazione della impugnazione”. Non è anche quello, qui richiesto, di suggerire modalità di notificazione.
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Impugnazione atti in materia edilizia - Promissario acquirente – Condizione.              Non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell'area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso, che si potrebbe configurare in caso di preliminare cd. ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l'effetto della consegna dell'immobile (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che il Consiglio di Stato ha chiarito in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente in un passaggio della motivazione della sentenza n. 6961 del 14 ottobre 2019 secondo cui “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe infatti in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere. Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, l’odierno appellante [in quel giudizio: n.d.r.] è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicarne la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (nella specie del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) non l’esercizio di un potere”. 
Processo amministrativo
Professioni e mestieri - Revisori dei conti – Sanzioni – Schema di decreto ex art. 25, comma 3 bis, d.lgs. n. 39 del 2019 – Parere del Consiglio di Stato         Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di decreto del Ministro dell'economia e delle finanze recante regolamento, ai sensi dell'art. 25, comma 3-bis, d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, concernente le fasi e le modalità di svolgimento della procedura sanzionatoria, di competenza del Ministero dell'economia e delle finanze, nei confronti dei revisori legali (1).      (1) Ha chiarito il parere che, in effetti, la Sezione si era già espressa, con il parere 31 ottobre 2019, n. 2716, su uno schema di regolamento inviato nel 2019, osservando criticamente che la norma primaria ha demandato al Ministero il compito di disciplinare con regolamento unicamente “le fasi e le modalità di svolgimento della procedura sanzionatoria, nel rispetto, tra l'altro, delle garanzie per gli iscritti al Registro” delle revisioni legali e che pertanto “il capo IV dello schema di regolamento, nella parte in cui individua i comportamenti costituenti illecito e stabilisce le sanzioni (seppur all’interno del quadro previsto dal legislatore), non trova copertura nella norma di legge”, mentre la pur condivisibile esigenza di tipizzare gli illeciti e di predeterminare l’azione amministrativa avrebbe dovuto essere perseguita “attraverso un regolamento governativo, sempre nel rispetto del principio di legalità”. La Sezione aveva altresì appuntato l’attenzione sull’esigenza di garantire l’audizione dell’incolpato, almeno per i casi di comminatoria di sanzioni di maggiore gravità. Nel febbraio 2021 il Ministero ha trasmesso un nuovo testo in accoglimento delle osservazioni che erano state formulate. ​​​​​​​Le differenze maggiori e più evidenti tra il testo del 2019 e quello del 2021 consistono – oltre che nell’aggiunta di un nuovo articolo sulle Definizioni (articolo 1), non presente nel testo iniziale - nella soppressione della disciplina, allora contenuta nel Capo III, della Procedura di segnalazione di cui all'articolo 26-ter del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39 (già artt. da 11 a 13, concernenti le segnalazioni relative a violazioni riguardanti la disciplina della revisione legale dei conti, la presentazione delle segnalazioni e la tutela del segnalante), nonché nella soppressione, nell’ambito del Capo IV (ora Capo III), relativo al Procedimento e sanzioni per violazioni specifiche, della specificazione, innovativa rispetto alla norma primaria, di una pluralità di illeciti amministrativi sanzionabili (artt. da 14 a 18 del testo del 2019, concernenti, rispettivamente, il procedimento e le sanzioni per violazione dell'obbligo formativo, per assenza o ridotto numero di crediti formativi, l’inosservanza degli obblighi di comunicazione da parte dei revisori legali persone fisiche, l’inosservanza degli obblighi di comunicazione della casella di posta elettronica certificata, l’inosservanza degli obblighi di comunicazione da parte delle società di revisione legale, la violazione degli obblighi inerenti il tirocinio professionale e la violazione degli obblighi inerenti lo svolgimento della revisione legale). Nel nuovo testo l’indicazione delle condotte e delle fattispecie di illecito oggetto di sanzione è più correttamente (e sinteticamente) contenuta nell’articolo 2, comma 3, sotto la rubrica “ambito di applicazione”, dove si opera in sostanza un richiamo alle previsioni di legge, mentre la materia del Procedimento e sanzioni per violazioni specifiche risulta molto “asciugata” ed è ora limitata (nel Capo III, artt. da 11 a 14) alle violazioni dell'obbligo formativo e all’inosservanza degli obblighi di comunicazione da parte dei revisori legali persone fisiche e delle società di revisione, ora più genericamente indicate, con esclusione di quella loro declinazione specificativa che aveva suscitato le osservazioni critiche della Sezione, in punto di violazione del principio di legalità in materia sanzionatoria, espresse nel parere n. 2716 del 2019. Sotto questo profilo ritiene la Sezione che il nuovo testo sia idoneo a superare il testé riferito rilievo critico formulato nel precedente parere del 2019 e che, quindi, in disparte le osservazioni specifiche che si svolgeranno qui di seguito, possa superare il presente vaglio di legittimità. ​​​​​​​Analoghe conclusioni devono trarsi in ordine al secondo profilo osservato nel 2019, quello relativo al regime dell’audizione dell’incolpato, che qui risulta essere trattato in modo adeguato, sottraendosi, pertanto, a possibili censure in punto di legittimità. 
Professioni e mestieri
Processo amministrativo – Appello – Termine lungo – Computo - Criterio di scomputo del periodo feriale – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione alla Adunanza plenaria           E’ rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la questione di come vada (s)computato, dal termine lungo di impugnazione che si calcola a mesi, il periodo feriale dal 1° al 31 agosto che cada nel mezzo del termine lungo, ossia dopo che quest’ultimo è iniziato a decorrere, e in particolare se sia corretto continuare a seguire il criterio, elaborato dalla Corte di cassazione quando il periodo feriale durava 46 giorni, secondo cui il termine lungo va calcolato includendo fittiziamente e provvisoriamente il periodo feriale, e poi sommando al termine così calcolato ulteriori 31 giorni (criterio che somma il termine a mesi computato “ex nominatione dierum” e il periodo feriale computato “ex numeratione dierum”), o se debba seguirsi il diverso criterio, adottato dalla Corte di cassazione e dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, per il computo del termine lungo di impugnazione che inizia a decorrere durante il periodo feriale, che consiste nel “saltare” il periodo feriale, sicché il termine lungo viene calcolato applicando solo il criterio “ex nominatione dierum” senza commistione con il criterio “ex numeratione dierum” (1).    (1) Analoga rimessione è stata disposta con ord. 8 aprile 2022, n. 429  Ha affermato il C.g.a. di non ignorare che il criterio di calcolo del termine lungo di impugnazione computando prima i sei mesi senza scomputare il periodo dal 1° al 31 agosto 2021, arrivando così al 30 gennaio 2022, e poi sommando i 31 giorni del periodo feriale si basa su risalenti decisioni della Corte di cassazione, ribadite tralaticiamente anche di recente, secondo cui nel calcolo del termine lungo a mesi o anni, il termine lungo si calcola “ex nominatione dierum” ma a tale termine va sommato il periodo feriale calcolato “ex numeratione dierum” (v. funditus Cass. civ., I, 7.7.2000 n. 9068, in termini Id., I, 15.5.1997 n. 4249; Id., I, 24.3.1998 n. 3112; Id., I, 3.6.2003 n. 8850; Id., V, 14.2.2007 n. 3223; Id., 1.2.2021 n. 2186; Id., 16.11.2021 n. 34659).  Tali decisioni non sembrano condivisibili perché creano una commistione tra criterio di calcolo a mesi e criterio di calcolo a giorni. Le stesse potevano avere una loro ragione pratica all’epoca in cui il periodo feriale durava 46 giorni, dal 1° agosto al 15 settembre di ciascun anno: diventa effettivamente complicato calcolare un termine a mesi interi o anni interi, se bisogna poi scomputare un termine che per legge si basa sui giorni. Ma tale ragione pratica, non ha più ragione di esistere da quando il periodo feriale è stato ridotto al solo mese di agosto, sicché per calcolare un termine a mesi o anni al netto del periodo feriale, non si rende più necessario dal punto di vista pratico, creare una commistione tra termine a mesi o anni e termine a giorni.  Continuare a seguire siffatto criterio, porta a incongruenze logiche e soprattutto irragionevoli disparità di trattamento: in base a tale sistema, un termine che inizia a decorrere il 30 luglio 2021 scadrebbe il 21 marzo mentre un termine che inizia a decorrere dopo, e segnatamente tra il 1 e il 31 agosto, scade il 28 febbraio 2022.  Che un termine che inizia a decorrere tra il 1 e il 31 agosto scada il 28 febbraio dell’anno successivo, deriva dall’applicazione della giurisprudenza della stessa Corte di cassazione a Sez. un., seguita anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: Cass. sez. un., n. 3688/1995 “La funzione del principio "dies a quo non computatur in termini", attiene all'esigenza di dare rilievo (quando il termine è a giorni), a giorni interi, trascurando le frazioni di giorno relative al momento in cui si sia verificato l'atto che costituisce il punto di riferimento del termine, nonché l'effetto giuridico di quell'atto. Sarebbe, pertanto, contrario alla ratio dell'art. 155 c.p.c. lasciare fuori dal computo un giorno intero (il 16 settembre) in cui l'atto di riferimento (deposito della sentenza (…)) non si è verificato, giorno che si aggiungerebbe illogicamente a quelli interi del termine, allungandolo senza alcuna logica giustificazione. Inoltre, il giorno che non viene computato nel termine, secondo il principio dell'art. 155 c.p.c., è il giorno (con riferimento specifico alle impugnazioni) in cui si è verificato un atto avente un determinato effetto giuridico. Nel caso in cui quell'atto si realizzi nel periodo feriale, esso rimane pienamente valido ed efficace nella sua interezza, volta che il differimento coinvolge soltanto il decorso del termine che in quell'atto abbia il punto temporale di riferimento. Non vi è preclusione, in definitiva, a che il dies a quo, da non computare nel termine, sia individuabile nello stesso giorno in cui l'atto abbia manifestato i suoi effetti, e rimanga detta individuazione ancorché l'atto stesso sia caduto in periodo feriale”; cui adde Cass civ., III, 6.4.2006 n. 8102; Id., II, 12.1.2011 n. 631; Cons. St., ad. plen., 27.7.2016 n. 18: “In base al differimento del decorso del termine processuale a giorni che abbia inizio durante il periodo di sospensione feriale, previsto dall’art. 1, comma 1, secondo periodo, della legge n. 742 del 1969, il primo giorno successivo alla scadenza del periodo feriale va computato nel termine in questione”.  Appare dunque evidente che per calcolare un termine a mesi che inizia a decorrere nel periodo feriale, si utilizza, correttamente, solo il criterio della “nominatione dierum” senza commistione con quello della “numeratione dierum”.  E tuttavia, per ragioni di parità di trattamento i termini per identici atti (qui l’appello) e calcolati con il medesimo criterio (a mesi) devono seguire identici criteri di calcolo ed essere di identica durata, e un termine che inizia a decorrere prima, non può che scadere prima di un termine che inizia a decorrere dopo, e non viceversa.  Pertanto, l’applicazione del criterio di computo proposto dall’appellante, ancorché sulla scia della Corte di cassazione, porta ad una incongruenza logica e a una disparità di trattamento. I due orientamenti della Cassazione sopra esposti, l’uno relativo al criterio di calcolo di un termine che inizi a decorrere prima del periodo feriale, e l’altro relativo al criterio di calcolo di un termine che inizi a decorrere durante il periodo feriale, sembrano in contrasto tra loro e portano all’incongruo risultato che un termine che inizia a decorrere prima (a luglio) scada dopo di un termine che inizia a decorrere dopo (ad agosto). Nel caso di specie l’incongruenza è particolarmente evidente: in caso di dies a quo coincidente con il 30 luglio, la parte avrebbe ben quattro giorni in più per appellare che in caso di dies a quo che cada tra il 1° e il 31 agosto, considerati i giorni 30 e 31 luglio e 1 e 2 marzo.  Piuttosto, andrebbe valorizzato quanto le stesse Sez. unite della Cassazione hanno affermato e cioè che “la finalità della l. n.742 del 1969 consiste nell'assicurare ai professionisti un congruo periodo di riposo annuale, svincolando l'attività professionale dalla scadenza di termini durante il periodo riservato a detto riposo. Su tale base non potrebbe trovare adeguata spiegazione il diverso trattamento dei termini il cui decorso abbia inizio prima del 1 agosto, rispetto a quelli il cui inizio si veri fichi nel periodo feriale” (Cass. civ., sez. un., n. 3668/1995).  In tale prospettiva, è possibile eliminare la incongruenza logica e fattuale sopra evidenziata ribadendo che se la legge prevede il calcolo di un termine a mesi, non sono ammesse commistioni con l’aggiunta di un calcolo a giorni. E che se tale commistione, per ragioni pratiche, poteva ammettersi quando il periodo feriale si calcolava in giorni (46 giorni dal 1° agosto al 15 settembre), non è più ammissibile dopo che il periodo feriale è stato ridotto al mese di agosto, ed è dunque calcolabile “a mesi”.  In conclusione, dato che il termine lungo di impugnazione, nel processo amministrativo, si calcola “a mesi”, non è possibile inserire effettuare il calcolo sommando ai “mesi” del termine lungo i “giorni” del periodo feriale.  Più semplicemente il periodo feriale dal 1 al 31 agosto, che cade nel mezzo di un termine da calcolarsi a mesi, va “saltato”, sicché nel conteggio dei sei mesi si passa direttamente dal 30 luglio al 30 settembre, ignorando il periodo feriale.  Se si volesse mantenere il criterio di calcolo seguito dalla Cassazione e in questa causa da parte appellante, per le illustrate ragioni di parità di trattamento, andrebbe coerentemente modificato l’orientamento sul calcolo del termine lungo che inizi a decorrere durante il periodo feriale, e ribadito dalla citata Plenaria n. 18/2016. Anche in tal caso, infatti, anziché “saltare”, come si fa, il periodo feriale, e far decorrere il termine dal 1° settembre, bisognerebbe far decorrere il termine dal giorno proprio e sommare alla fine il residuo periodo feriale. Solo in tal modo si arriverebbe ad un risultato coerente, perché, ad esempio, se un termine che inizia a decorrere il 16 agosto, venisse fatto partire dal 16 agosto, anziché dal 1° settembre, sommando alla fine i residui 15 giorni del periodo feriale, il termine non scadrebbe il 28 febbraio, ma il 3 marzo, così eliminandosi l’attuale incoerenza di far scadere il 28 febbraio un termine che inizia a decorrere ad agosto, laddove un termine che inizia a decorrere il 30 luglio lo si fa scadere il 2 marzo.  Ovviamente, tale ragionamento non trova applicazione nel caso di computo dei termini “a giorni”, nel qual caso è sul piano pratico indifferente l’utilizzo dell’uno o dell’altro criterio di calcolo.  Esemplificando, se, in ipotesi, il termine di impugnazione di una sentenza fosse quello breve decorrente dalla sua notificazione, quindi sessanta giorni, e iniziasse a decorrere il 30 luglio 2021, sarebbe indifferente “saltare” i 31 giorni del periodo feriale, o sommarli alla fine del calcolo dei sessanta giorni:  - primo criterio: 1 giorno di luglio; si saltano i 31 giorni di agosto, si aggiungono 59 giorni computati dal 1° settembre, arrivando così al 30 ottobre, quale dies ad quem;  - secondo criterio: si calcolano sessanta giorni decorrenti dal 30 luglio e si arriva così al 29 settembre, si aggiungono 31 giorni e si arriva parimenti al 30 ottobre, quale dies ad quem. 
Processo amministrativo
Militari, forze armate e di polizia - Ruolo straordinario ad esaurimento – Disciplina diversa tra Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato - Art. 2212-quinquiesdecies, d.lgs. n. 66 del 2010 – Violazione artt. 3 e 97 Cost. – Manifesta infondatezza.         E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2212-quinquiesdecies, d.lgs. n. 66 del 2010 sollevata sul rilievo che, asseritamente in violazione dei principi di uguaglianza e di parità di trattamento dei pubblici dipendenti, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., determinerebbe un’ingiusta disparità di trattamento degli ufficiali del ruolo straordinario ad esaurimento dell’Arma dei Carabinieri rispetto ai parigrado della Polizia di Stato; la disciplina di detti ruoli straordinari a esaurimento di Polizia di Stato ed Arma dei Carabinieri non è, infatti, perfettamente speculare, essendo i ruoli medesimi regolamentati in modo non del tutto sovrapponibile sia in ordine alla tipologia del corso di formazione da frequentare, sia in relazione alle procedure di promozione ai gradi successivi a quello di sottotenente o vice commissario delle due Forze di polizia (1). 
Militari, forze armate e di polizia
Rifiuti – Smaltimento – Ordine – Al proprietario del suolo - Previo accertamento a suo carico dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa – Necessità.              Ai fini della legittimità dell’ordine di rimozione di rifiuti abbandonati emesso dal Comune, ai sensi dell’art. 14, comma 3, d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (e, oggi, dell’art. 192, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), nei confronti del proprietario del suolo è necessario il previo accertamento a suo carico dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa nello sversamento dei rifiuti medesimi; in particolare, ove dello sversamento siano responsabili soggetti diversi dal proprietario, l’omessa recinzione del suolo non costituisce ex se un indice di negligenza nella vigilanza sul fondo da parte di quest’ultimo, in quanto nel nostro sistema la recinzione è una facoltà (ossia un agere licere) del dominus, di modo che la scelta di non fruirne non può tradursi in un fatto colposo (art. 1127, comma 1, c.c.) ovvero in un onere di ordinaria diligenza (art. 1227, comma 2, c.c.), che circoscrive (recte, elide) il diritto al risarcimento del danno (1).      (1) Cons. St., sez. IV, 15 dicembre 2017, n. 5911; id. 4 maggio 2017, n. 2027; id., sez. V, 22 febbraio 2016, n. 705; id., sez. I, 15 giugno 2020, n. 1192; id., 27 febbraio 2020, n. 496.  Ha chiarito la Sezione che a fortiori, la mancata implementazione di un sistema di video-sorveglianza, connotato da alti costi di acquisto e manutenzione, non rientra nell’onere di tutela della res esigibile dal proprietario. In caso poi di illecita occupazione del suolo da parte di terzi, poi, la negligenza del proprietario (impossibilitato dall’ordinamento a rientrare in possesso del bene invito detentore – artt. 392 e 393 c.p.) non può desumersi dal fatto che lo stesso non abbia proposto azione di spoglio nei confronti degli abusivi.
Rifiuti
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di impresa – Raggruppamenti orizzontali – Parti del servizio svolte da ciascun componente – Indicazione – Necessità.     Ai sensi dell’art. 48, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, nei raggruppamenti d’imprese di tipo orizzontale vanno indicate - in termini descrittivi o percentuali - le parti del servizio svolte da ciascun componente, risultando peraltro tale onere teso “ad assolvere alle finalità di riscontro della serietà e affidabilità dell’offerta ed a consentire l’individuazione dell’oggetto e dell’entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese raggruppate” (1).   (1) Una concessione per servizi per musei viene affidata ad un raggruppamento temporaneo di imprese. L’aggiudicazione viene impugnata da un Consorzio concorrente il quale deduce la violazione delle norme sui raggruppamenti temporanei, sostenendo in particolare che il raggruppamento avrebbe partecipato con un ATI verticale in violazione sia dell’art. 48, commi 2 e 5, sia della lex specialis di gara che non prevedeva alcuna suddivisione tra prestazioni principali e secondarie ed evidenziando che l’organizzazione indicata in offerta non avrebbe garantito, in violazione dell’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, l’esecuzione maggioritaria delle prestazioni da parte della mandataria. La Sezione ha ritenuto che l’aggiudicatario non avesse partecipato con un’ A.T.I. verticale, ma che il raggruppamento fosse rispettoso dell’art. 48, comma 4, del Codice dei contratti. Con l’occasione ha ricordato che l’art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016 descrive il raggruppamento temporaneo di tipo verticale e il raggruppamento temporaneo di tipo orizzontale, precisando al comma 2, per quanto riguarda le forniture ed i servizi, che “per raggruppamento di tipo verticale si intende un raggruppamento di operatori economici in cui il mandatario esegue le prestazioni di servizi o di forniture indicati come principali anche in termini economici, i mandanti quelle indicate come secondarie; per raggruppamento orizzontale quello in cui gli operatori economici eseguono il medesimo tipo di prestazione; le stazioni appaltanti indicano nel bando di gara la prestazione principale e quelle secondarie” e, al comma 5, in tema di responsabilità, precisa “L’offerta degli operatori economici raggruppati o dei consorziati determina la loro responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante, nonché nei confronti del subappaltatore e dei fornitori. Per gli assuntori di lavori scorporabili e, nel caso di servizi e forniture, per gli assuntori di prestazioni secondarie, la responsabilità è limitata all'esecuzione delle prestazioni di rispettiva competenza, ferma restando la responsabilità solidale del mandatario”. L’art. 48, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 recita “Nel caso di lavori, forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate le categorie di lavori o le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati”.   Sulla finalità di tale onere Cons. Stato, sez. V, 20 novembre 2019, n. 7922 ha chiarito che nei raggruppamenti d’imprese di tipo orizzontale vadano indicate - in termini descrittivi o percentuali - le parti del servizio svolte da ciascun componente, risultando peraltro tale onere teso “ad assolvere alle finalità di riscontro della serietà e affidabilità dell’offerta ed a consentire l’individuazione dell’oggetto e dell’entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese raggruppate”.
Contratti della Pubblica amministrazione
Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari – Sanzione - Utilizzo della messaggistica wattsapp con uniforme militare -  Per fatti privati – Legittimità.      E’ legittima la sanzione disciplinare comminata al militare che ha utilizzato la messaggistica WhatsApp, con propria fotografia in divisa, per fatti privati (1)  ​​​​​​​ (1) Ha chiarito il Tar che l’art. 720, comma 2, lett. b, d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90  vieta al militare l’uso dell’uniforme nello svolgimento delle attività private. Benchè l’applicativo whatsapp sia strumento telematico di comunicazione a distanza di natura privata (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965; Trib. Parma 7 gennaio 2019) e non già un vero e proprio social network destinato ad una pluralità di persone, la condotta serbata dal militare appare comunque illecita e incompatibile con lo status di militare, non risultando verosimile l’invocata esimente della finalità di garantire la propria affidabilità personale.  Il Tar ha però ritenuto non ragionevole e proporzionata rispetto alla condotta l’inflitta sanzione della sospensione dal servizio per due mesi. E’ noto che in tema di sanzioni disciplinari per impiegati delle forze armate, l'amministrazione dispone di un'ampia sfera di discrezionalità nell'apprezzamento della gravità dei fatti e nella graduazione della sanzione disciplinare (Cons. Stato, sez. III, 13 ottobre 2020, n. 6150) fermo però restando che l'applicazione della misura afflittiva deve conformarsi a parametri di ragionevolezza e proporzionalità rispetto alla rilevanza dell'illecito ascritto; di conseguenza, se normalmente il giudice amministrativo non può sostituire la propria valutazione a quella della competente autorità amministrativa, sono però fatti salvi i limiti della manifesta irragionevolezza e/o arbitrarietà della valutazione dell'autorità procedente (Tar Palermo, sez. I, 3 maggio 2019, n. 1234; Tar Piemonte, sez. I, 3 aprile 2018, n.399; Tar Liguria, sez. II, 16 febbraio 2018, n. 158). Nella specie, la sanzione della sospensione dal servizio irrogata al militare, tenuto conto dei fatti concretamente oggetto dell’addebito, appare manifestamente illogica, tenuto conto della dinamica dei fatti e della natura pur sempre privata del contesto in cui è stata realizzata la condotta, fermo restando - come detto - la sua rilevanza disciplinare. A diverse conclusioni si giungerebbe in ipotesi di avvenuta diffusione pubblica delle immagini del militare in uniforme al fine di promuovere l’attività di vendita di cani, in ipotesi certamente gravemente lesiva dell’immagine e del decoro delle Forze armate (Cons. Stato, sez. III, 21 febbraio 2014, n. 848) diffusione si ribadisce tuttavia non contestata in sede di addebito disciplinare né tantomeno dimostrata dall’Amministrazione. 
Militari, forze armate e di polizia
Contratti della Pubblica amministrazione  – Esclusione dalla gara – Condanna rilevanti ai fini della configurazione dei “gravi illeciti professionali” – Limite triennale di rilevanza – Sussistenza.        Il nuovo testo dei commi 10 e 10 bis dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, introdotto dal d.l. n. 32 del 2019 e come interpretato alla luce dell’art. 57 paragrafo 7 della Direttiva n. 2014/24/UE, depone per la sussistenza di un limite temporale triennale di rilevanza delle condanne potenzialmente idonee ad integrare il “grave illecito professionale” previsto dal comma 5 lett. c) del medesimo art. 80; ne consegue che l’omessa dichiarazione di una condanna risalente ad un periodo antecedente al triennio non costituisce legittima causa di esclusione dalla gara (1).   (1) Nella fattispecie esaminata dal Tribunale la società ricorrente era stata esclusa dalla gara per non avere dichiarato una condanna riportata dal legale rappresentante della stessa nel 2007. Il Tribunale, pur dando atto dell’esistenza di un contrasto nella stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha ritenuto di privilegiare la tesi, coerente con i principi di proporzionalità dell’azione amministrativa e massima partecipazione, per cui le condanne non automaticamente escludenti, ai sensi dell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, e, cioè, quelle potenzialmente suscettibili di integrare il “grave illecito professionale” previsto dal comma 5 lettera c) del medesimo art. 80, hanno un limite di rilevanza triennale. Tale opzione ermeneutica è stata dal Tribunale desunta dal nuovo testo dell’art. 80, commi 10 e 10 bis, d.lgs. n. 50 del 2016, come introdotto dal d.l. n. 32 del 2019, e da un’interpretazione conforme alla normativa comunitaria di riferimento, costituita dall’art. 57 paragrafo 7 della Direttiva n. 2014/24/UE senza necessità di affermare l’efficacia diretta della Direttiva stessa, come pure, talvolta, ritenuto dal Consiglio di Stato nella tesi anch’essa favorevole alla configurabilità di tale limite triennale. Nello stesso senso il Tribunale ha evidenziato che il contrario orientamento, che propugna l’inesistenza di un limite temporale di rilevanza di tali sentenze, si è espresso con riferimento alla previgente disciplina dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 che non distingueva tra incapacità a contrattare e durata temporale dell’esclusione dalla gara e non conteneva una disposizione specifica, quale l’attuale comma 10 bis dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, concernente i limiti temporali di rilevanza delle varie cause concretizzanti il grave illecito professionale. L’irrilevanza, in senso ostativo alla partecipazione alla gara, delle condanne per reati diversi da quelli indicati dall’art. 80 comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, riportate oltre i tre anni antecedenti all’indizione della gara, comporta che non sussiste, per il concorrente, l’obbligo di dichiarare tali sentenze. Tale omissione dichiarativa, pertanto, non giustifica l’esclusione del concorrente dalla gara.
Contratti della Pubblica amministrazione
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Conseguenze ex artt. 242 e 245, d.lgs. n. 152 del 2006 – Differenze - Ratio.   Inquinamento – Inquinamento ambientale – Responsabile dell’inquinamento – Individuazione.   Inquinamento – Inquinamento ambientale – Inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati – Art. 243, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 – Ambito di applicazione.                         La differenza tra la disciplina posta dall’art. 242, d.lgs. n. 152 del 2006, che prevede in capo al responsabile dell’inquinamento l’obbligo di porre in essere le procedure operative e amministrative finalizzate a prevenire i rischi di inquinamento (comma 1) e ad attuare gli interventi di bonifica e di messa in sicurezza (comma 7), e quella posta dal successivo art. 245, che prevede una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, fermo restando l’obbligo di costoro di “attuare le misure di prevenzione” di cui all’art. 240, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, si spiega in quanto l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento in base al principio “chi inquina paga” e non sul proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, in capo ai quali non è configurabile una sorta di responsabilità oggettiva (1).              L’art. 244, d.lgs. n. 152 del 2006 fa espresso riferimento soltanto al responsabile dell’inquinamento quale destinatario dell’ordinanza motivata di diffida, senza menzionare il proprietario o il gestore dell’area non responsabili dell’inquinamento, coerentemente, l’art. 245, che disciplina la posizione dei “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”, non richiama il potere di ordinanza di cui all’art. 244; resta ferma peraltro la competenza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare ad imporre coattivamente ai “soggetti non responsabili della potenziale contaminazione” l’attuazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), del medesimo decreto legislativo, seppure attraverso l’esercizio del diverso potere previsto dall’art. 304, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006.             L’art. 243, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 - nel prevedere che per impedire e arrestare l’inquinamento delle acque sotterranee nei siti contaminati “devono essere individuate e adottate le migliori tecniche disponibili per eliminare, anche mediante trattamento secondo quanto previsto dall'articolo 242, o isolare le fonti di contaminazione dirette e indirette” - si riferisce al sito ove si trova la fonte della contaminazione  e non al sito che risulta inquinato per effetto dello scorrimento delle acque di falda   (1) Ha chiarito il Tar che la differente disciplina - ossia la previsione dell’obbligo di porre in essere le suddette procedure operative e amministrative in capo responsabile dell’inquinamento, da un lato, e la previsione di una mera facoltà di porre in essere tali procedure in capo agli altri soggetti interessati, ivi compreso il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, cui è imposto solo l’obbligo di “attuare le misure di prevenzione”, dall’altro - è stata in più occasioni posta in rilievo dalla giurisprudenza (Cons. St, sez. VI, 5 ottobre 2016, n. 4099) nel senso che l’obbligo di bonifica dei siti contaminati grava sul responsabile dell’inquinamento (in base al principio “chi inquina paga”), e non sul proprietario dell’area, con la conseguenza che, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione, gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica, di ripristino e di ripristino ambientale possono essere imposti solo ai soggetti responsabili dell’inquinamento, ossia a coloro che abbiano causato, in tutto o in parte, la contaminazione con un comportamento, commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità. In sostanza, secondo tale condivisibile giurisprudenza, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al gestore del sito in ragione di tale sola qualità, dal suesposto quadro normativo emergono le seguenti regole: a) il proprietario o il gestore dell’area, non responsabili dell’inquinamento, sono tenuti soltanto ad adottare le misure di prevenzione (art. 245, comma 2); b) gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2); c) se il responsabile non è individuabile o non provvede, gli interventi necessari sono adottati dall’amministrazione competente (art. 244, comma 4); d) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4); e) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
Inquinamento
Edilizia – Distanze - Distanza dei fabbricati dalle strade – Presupposti - Individuazione.    L’applicabilità della disciplina sulla distanza dei fabbricati dalle strade di cui al combinato disposto degli artt. 16 del Codice della Strada e 26 del relativo regolamento di attuazione, è condizionata al verificarsi del seguente duplice presupposto: a) la delimitazione dei centri abitati prevista dall'art. 4; b) la classificazione delle strade, demandata ad appositi provvedimenti attuativi dall'art. 2, comma 2, che tuttavia ne individua le tipologie sulla base delle caratteristiche costruttive, tecniche e funzionali, distinguendole in categorie da “A” (corrispondente alle autostrade) a “F bis” (itinerari ciclopedonali) (1).   (1) La Sezione ha affronta il problema della disciplina delle fasce di rispetto stradale applicabile nelle costruzioni fuori dal centro abitato, chiarendo la portata della norma transitoria di cui all’art. 234, comma 5, del Codice della Strada. Da tale disposizione, infatti, emerge che l’applicabilità della disciplina recata, per quanto qui di interesse, dal combinato disposto di cui agli artt. 16 del Codice e 26 del relativo regolamento di attuazione, è condizionata al verificarsi del seguente duplice presupposto: a) la delimitazione dei centri abitati prevista dall'art. 4; b) la classificazione delle strade, demandata ad appositi provvedimenti attuativi dall'art. 2, comma 2. Nelle more di tali adempimenti, le norme previgenti, che devono continuare a trovare applicazione, sono appunto quelle contenute nel decreto interministeriale 1° aprile 1968, n. 1404, che detta le distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19 della legge n. 765 del 1967. La distinzione delle strade ivi declinata all’art. 3, comma 1, «in rapporto alla loro natura ed alle loro caratteristiche», non appare affatto sovrapponibile alla assai più articolata prospettazione codicistica, pur potendo casualmente coincidere la riconducibilità di alcune fattispecie concrete alla medesima tipologia nominalistica, con particolare riferimento alla “C”, corrispondente a quelle “di media importanza”, di sicuro connotata da maggior genericità di inquadramento (tanto da ricomprendere strade statali, provinciali e finanche comunali, purché di dimensioni consistenti). Egualmente la delimitazione del “centro abitato” necessaria quale condizione di applicabilità della nuova normativa è soltanto quella di cui all’art. 4 del Codice della Strada. Entrambe le discipline (la attuale e la previgente) si preoccupano di salvaguardare l’autonomia programmatoria in materia urbanistica degli enti territoriali, condizionando il rigoroso o più rigoroso regime delle distanze alla esistenza o meno di una disciplina edificatoria. In tale ottica, mentre il comma 3 dell’art. 26 del d.P.R. n. 495/1992 (Regolamento di esecuzione del Codice), prevede, per quanto di interesse in relazione alle strade di tipologia “C”, la minore distanza di m. 10 ove si versi al di fuori dei centri abitati, «ma all'interno delle zone previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico generale, nel caso che detto strumento sia suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone siano già esecutivi gli strumenti urbanistici attuativi»; l’art. 1 del decreto 1° aprile 1968, n. 1404, esclude genericamente dal proprio ambito di applicabilità sia i centri abitati sia gli « insediamenti previsti dai piani regolatori generali e dai programmi di fabbricazione». Ha ancora chiarito la Sezione che il “centro abitato” come «insieme di edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine», identificabile in un «raggruppamento continuo, ancorché intervallato da strade, piazze, giardini o simili, costituito da non meno di venticinque fabbricati e da aree di uso pubblico con accessi veicolari o pedonali sulla strada», è cosa diversa da quello individuato a fini urbanistici, siccome tipico della normativa previgente, a prescindere peraltro dalle esigenze e dalle modalità di coordinamento poste in essere dalle amministrazioni territoriali per cercare di armonizzare in ambito pianificatorio concreto le relative indicazioni. Essere fuori dal centro abitato, quale che sia l’accezione attribuita al relativo termine, è uno dei presupposti di applicabilità del regime delle distanze di cui all’art. 26 del Regolamento di esecuzione del Codice; laddove l’altro è l’estraneità dall’ambito operativo degli strumenti urbanistici, che al contrario possono riferirsi anche ad altre zone, oltre al centro abitato medesimo.
Edilizia
Urbanistica - Piano regolatore - Osservazioni dei privati interessati – Accoglimento – Osservazioni motivate da interessi privati                            Qualora, nel corso dell’iter di formazione di un piano urbanistico, il Comune ritenga di accogliere le osservazioni formulate dai proprietari dei suoli interessati, il fatto che queste ultime siano motivate da interessi privati non comporta automaticamente l’illegittimità delle scelte pianificatorie comunali siccome condizionate da tali motivazioni; infatti, le osservazioni dei privati allo strumento urbanistico adottato, pur costituendo pacificamente dei meri apporti collaborativi rispetto alle scelte discrezionali rimesse all’amministrazione comunale, hanno pur sempre la finalità di consentire a quest’ultima il perseguimento dell’interesse pubblico alla miglior pianificazione del territorio con il minor sacrificio possibile delle posizioni dei proprietari interessati (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che le osservazioni di cui si discute possono definirsi lo strumento per perseguire – compatibilmente con il complesso delle scelte urbanistiche da effettuare - l’interesse pubblico con un minor sacrificio dell’interesse privato; e l’accoglimento delle osservazioni dei privati da parte del Consiglio comunale non richiede alcuna specifica motivazione mirata, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e comparate con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2013, n. 5292), la qual cosa si è visto non risultare esclusa nella fattispecie; ed esser stata oggetto di scelta priva di vizi logico-valutativi.  Il fatto che le scelte urbanistiche avvantaggino alcuni proprietari rispetto ad altri non può costituire di per sé un profilo di illegittimità delle scelte effettuate, giacché è inevitabile che in relazione alle diverse parti del territorio sussistano diverse possibilità edificatorie, dosate peraltro non solo in relazione a situazioni di carattere obiettivo, ma anche in base a scelte latamente discrezionali (Cons. Stato, sez. II, 22 luglio 2019, n. 5157). E dalla incontestata natura collaborativa e non remediale delle osservazioni deriva l’assenza di una necessità di argomentare espressamente su ciascuna di esse da parte dell’Amministrazione comunale procedente, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità (Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2020, n. 4040).​​​​​​​
Urbanistica
Edilizia – Abusi - In zona paesaggistica – Sanatoria – Omesso coinvolgimento Soprintendenza – Conseguenza – Fattispecie.        Non occorre il previo annullamento della sanatoria di opera edilizia abusiva, al fine di negare il completamento di un edificio abusivo in zona paesaggistica,  sanato illo tempore senza notiziare la Soprintendenza (1).      (1) Ha ricordato la Sezione che l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio.   I due atti di assenso, quello paesaggistico e quello edilizio, operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi, seppur parzialmente coincidenti. Ne deriva che il parametro di riferimento per la valutazione dell’aspetto paesaggistico non coincide con la disciplina urbanistico edilizia, ma nella specifica disciplina dettata per lo specifico vincolo (Cons. St. n. 5327/2015; id. n. 5273/2013,  secondo cui “la valutazione di compatibilità paesaggistica è connaturata all’esistenza del vincolo paesaggistico ed è autonoma dalla pianificazione edilizia”). Ne deriva che il fatto che siano stati rilasciati i titoli edilizi, pur in assenza dell’autorizzazione paesaggistica, non può in alcun modo legittimare anche sotto il profilo paesaggistico il fabbricato. Tale esito si porrebbe in contrasto con il principio espresso dalla Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. 196/2004), secondo la quale l’interesse paesaggistico deve sempre essere valutato espressamente anche nell’ambito del bilanciamento con altri interessi pubblici, nonché con la giurisprudenza di questo Consiglio che, nelle materie che coinvolgono interessi sensibili, quale quello paesaggistico, limita l’istituto del silenzio assenso solo al ricorrere di previsioni normative specifiche e nel rispetto di tutti i vincoli ordinamentali (Cons. St. n. 6591/2008).  Risulta in sintonia con quanto appena ricordato il dato per cui esiste un principio di autonomia anche tra l’illecito urbanistico-edilizio e l’illecito paesaggistico, come anche un’autonomia tra i correlati procedimenti e regimi sanzionatori (Cons. St. 2150/2013).  Nel caso sottoposto all’esame del Collegio, il fabbricato originario al quale accedono le opere di completamento non è mai stato sottoposto ad alcuna valutazione da parte della Soprintendenza. Pertanto, non risulta censurabile quanto espresso nel parere impugnato, con il quale la Soprintendenza ha sostanzialmente rilevato l’impossibilità di esprimere una valutazione paesaggistica limitata ai lavori di completamento, in assenza di una valutazione di compatibilità con il vincolo dell’originario fabbricato.
Edilizia
Processo amministrativo – Adunanza plenaria – Decisione n. 3 del 2022 – Chiarimento sulla portata della sentenza e dell’art. 99, comma 4, c.p.a..      E’ rimesso all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato di chiarire la portata della decisione n. 3 del 2022 e, in particolare: a) se dalla stessa debba trarsi un vincolo di giudicato, residuando a questo Giudice unicamente l’obbligo di statuire sulle spese, ovvero se sia stato unicamente affermato il principio di diritto, chiarendo, in questo secondo caso, se questo Giudice debba valutare i profili di pregiudizialità sottoposti dalle parti in relazione al principio affermato nella richiamata decisione; b) come vada interpretato nell’art. 99, comma 4, c.p.a. il rapporto tra decisione dell’intera controversia da parte della Plenaria, o enunciazione del solo principio di diritto con restituzione per il resto al giudice a quo, e, in particolare, se si tratti di alternative paritetiche rimesse a una scelta discrezionale, ovvero di un rapporto tra regola ed eccezione, in cui l’eccezione sia ancorata ad esigenze oggettive che non consentono la concentrazione processuale (1).     (1) Il C.g.a. ha preliminarmente ricordato che, con la decisione n. 2 del 23 febbraio 2018, l’Adunanza plenaria ha posto alcuni principi relativamente al rapporto tra decisione della plenaria e giudizio a quo.  E’ stato chiarito che l’Adunanza plenaria può (secondo uno schema concettuale simile a quello delineato dai primi due commi dell’articolo 384 c.p.c.) decidere l’intera controversia – in particolare laddove non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto – ovvero enunciare il principio di diritto e rimettere per il resto il giudizio alla Sezione remittente, alla quale spetterà il compito di contestualizzare il principio espresso in relazione alle peculiarità del caso sottoposto al suo giudizio.  Sulla questione relativa alla possibilità di riconoscere l’autorità della cosa giudicata in senso endoprocessuale all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a. è stata data risposta negativa, precisandosi che “l’enunciazione da parte dell’Adunanza plenaria di un principio di diritto ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a. non determina nei confronti della Sezione remittente un vincolo di giudicato ………Ed infatti, l’enunciazione da parte dell’Adunanza plenaria di un principio di diritto nell’esercizio della propria funzione nomofilattica non integra l’applicazione alla vicenda per cui è causa della regula iuris enunciata e non assume quindi i connotati tipicamente decisori che caratterizzano le decisioni idonee a far stato fra le parti con l’autorità della cosa giudicata con gli effetti di cui all’art. 2909 cod. civ. e di cui all’art. 395, n. 5) c.p.c.”; “Il vincolo del giudicato può pertanto formarsi unicamente sui capi delle sentenze dell’Adunanza plenaria che definiscono – sia pure parzialmente – una controversia, mentre tale vincolo non può dirsi sussistente a fronte della sola enunciazione di princìpi di diritto la quale richiede – al contrario – un’ulteriore attività di contestualizzazione in relazione alle peculiarità della vicenda di causa che non può non essere demandata alla Sezione remittente”.  “Deve naturalmente pervenirsi a conclusioni diverse nelle ipotesi in cui l’Adunanza plenaria (avvalendosi di un potere decisorio certamente ammesso dall’art. 99, comma 4, c.p.a.) si sia avvalsa della facoltà di definire con sentenza non definitiva la controversia, restituendo per il resto il giudizio alla Sezione remittente (se del caso, previa enunciazione di un principio di diritto).   In tali ipotesi il Giudice a quo potrà definire con la massima latitudine di poteri decisionali i capi residui della controversia che gli sono stati demandati, restando tuttavia astretto al vincolo del giudicato formatosi sui capi definiti dall’Adunanza plenaria”.  Nel caso in questione, questo Consiglio dubita circa l’effettiva portata della decisione n. 3 del 2022, che, nel dispositivo, enuncia il principio di diritto e dispone la restituzione degli atti a questo Consiglio, ma nell’ambito della motivazione, da un punto di vista testuale, non pare essersi limitata ad enunciare il principio di diritto.  Dall’esame della motivazione della decisione n.3/2022, non rimane spazio per una ulteriore attività di contestualizzazione in relazione alle peculiarità della vicenda di causa, posto che tale indagine appare essere stata esaustivamente compiuta nella decisione della plenaria, che si è espressa con specifico “riferimento alla posizione degli appellanti nella presente sede”.  Sembrerebbe, quindi, doversi fare ricorso al principio secondo il quale il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della estensione del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione, le cui enunciazioni, se dirette univocamente all'esame di una questione dedotta in causa, incidono sul momento precettivo e vanno considerate come integrative del contenuto formale del dispositivo, con la conseguenza che il giudicato risulta simmetricamente esteso (Cons. Stato, sez. III, 16 novembre 2018, n. 6471). ​​​​​​​Ulteriore questione attiene alla portata dell’art. 99 c. 4 c.p.a. Invero, l’art. 99 c. 4 prevede che la plenaria decide l’intera controversia, salvo che ritenda di enunciare il principio di diritto e di restituire “per il resto” il giudizio alla sezione rimettente: sicché è da stabilire se la norma stabilisca un rapporto tra “regola” (decisione dell’intera controversia) ed “eccezione” (enunciazione del solo principio di diritto”), ovvero metta le due alternative sullo stesso piano, con una valutazione rimessa alla scelta caso per caso della plenaria. In una prospettiva di economia e concentrazione processuale, sembrerebbe preferibile la prima opzione, sicché la enunciazione del solo principio di diritto e la restituzione per il resto al giudice a quo, non dovrebbe essere una alternativa consentita in ogni caso, ma una ipotesi subordinata al presupposto che la causa non sia matura per la decisione, richiedendo ulteriori accertamenti in rito o in merito. Se si interpretasse invece l’art. 99, comma 4, nel senso che la Plenaria può sempre restituire la causa al giudice a quo per l’ulteriore corso, si trasformerebbe la Plenaria in una giurisdizione di astratto diritto avulsa dal caso concreto, con un frazionamento della decisione, anche quando la causa sia matura per la definizione, tra enunciazione del principio di diritto (plenaria) e applicazione al caso concreto (sezione rimettente). Il che oltre a rendere astratta la giurisdizione della Plenaria, sembra in contrasto con il principio di concentrazione processuale. Un ruolo di giurisdizione di astratto diritto della Plenaria sembra invece previsto solo nella diversa ipotesi dell’art. 99, comma 5, c.p.a. (il principio di diritto enunciato nell’interesse della legge). 
Processo amministrativo
Ente locale – Bilancio – Dissesto - Debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già erogate – Interessi e rivalutazione - Art. 248, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000 – Violazione artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza.                E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in relazione agli artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 Cost. nella parte in cui prevede che dalla data in cui è deliberato il dissesto e sino all’approvazione del rendiconto di cui all’art. 256 dello stesso testo unico i debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già erogate non producono più interessi né sono soggetti a rivalutazione monetaria (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, da ultimo livello di governo e del decentramento amministrativo, i Comuni hanno visto riconosciuta in modo pieno la loro posizione di ente pubblico territoriale di base, esponenziale delle comunità locali, in attuazione del principio fondamentale del pluralismo autonomistico espresso dall’art. 5 Cost. («La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali»), a sua volta basato sul substrato storico-sociale del Comune quale ente radicato per plurisecolare tradizione nell’organizzazione pubblica territoriale. Con la riforma del 2001 è stato quindi attribuito ai Comuni il compito di soddisfare in via primaria gli interessi dei cittadini, secondo il principio di sussidiarietà verticale, in un rinnovato contesto ordinamentale che pur nel permanere di un modello di finanza pubblica locale “derivata” dallo Stato è contraddistinto da una maggiore autonomia finanziaria dell’ente locale sul versante tanto delle entrate quanto delle spese, ancorché vincolato a tutti i livelli di spesa dal rispetto dell’equilibrio dei bilanci pubblici per il raggiungimento degli obiettivi derivanti dalla partecipazione della Repubblica all’Unione europea (artt. 114, 118 e 119 Cost.). ​​​​​​​Con specifico riguardo al dissesto finanziario degli enti locali, sin dalla sua introduzione nell’ordinamento giuridico (art. 25, d.l. 2 marzo 1989, n. 66, Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale; convertito, con modificazioni, dalla l. 24 aprile 1989, n. 144), l’evoluzione normativa dell’istituto si è connotata per la primaria esigenza di risanamento gli enti locali non in grado di onorare il servizio del debito attraverso la propria capacità di autofinanziamento e quindi di svolgere le funzioni ed i servizi pubblici di loro competenza. ​​​​​​​Nell’ambito del carattere derivato della finanza degli enti locali l’obiettivo del risanamento si è manifestato con la previsione di un intervento finanziario dello Stato (mutuo presso la Cassa depositi e prestiti con onere a totale carico dello Stato stesso, erogabile attraverso anticipazioni di liquidità secondo interventi normativi successivi), in concorrenza con misure sul piano delle entrate e delle spese di competenza dello stesso ente locale, intese all’aumento delle prime e alla riduzione delle seconde, oltre che sulla consistenza organica dell’ente. ​​​​​​​In questa prospettiva, con un primo significativo intervento normativo riformatore dell’istituto, con l’art. 21, d.l. 18 gennaio 1993, n. 8 (recante: Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 marzo 1993, n. 68), si è introdotta una separazione tra la nuova gestione, di competenza dell’ente destinato ad essere risanato una volta rimossi in modo permanente gli squilibri di bilancio che hanno condotto al dissesto, e quella passata, affidata ad un organo straordinario di liquidazione di nomina governativa con il compito di accertare e liquidare l’indebitamento. ​​​​​​​A base della descritta separazione si era posta l’esigenza di assicurare massima certezza ed una maggiore rapidità nella soddisfazione del ceto creditorio dell’ente locale, nei confronti dei quali era posta la regola dalla sospensione delle azioni esecutive a tutela dei loro diritti, in conformità ad un principio ordinatore di carattere concorsuale. Con la medesima separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva il dissesto ha assunto una fisionomia analoga al fallimento privatistico. ​​​​​​​Essa si è ulteriormente accentuata con l’introduzione di limiti al contributo dello Stato per il pagamento dell’indebitamento pregresso in rapporto alla popolazione dell’ente dissestato (artt. 4 e 21, d.l. n. 8 del 1993), da cui è derivata la possibilità che in caso di incapienza della massa attiva - destinata ad essere formata anche attraverso l’alienazione dei beni patrimoniali disponibili dell’ente - i crediti facenti parte della massa passiva subissero una falcidia percentuale; ​​​​​​​Di qui corollario per cui la parte del credito insoluta era destinata a gravare nuovamente sull’ente locale tornato in bonis, e dunque dell’effetto solo temporaneo, di carattere sospensivo, del blocco del decorsi degli accessori del credito, ancorato alla chiusura della gestione dell’organo di liquidazione. ​​​​​​​Il processo di omologazione tra dissesto degli enti locali e fallimento privatistico si è poi accentuato con i successivi interventi normativi, realizzati con il già citato d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77 (Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali) e il relativo decreto correttivo (d.lgs. 11 giugno 1996, n. 336), con i quali si sono tra l’altro introdotte delle cause di prelazione dei crediti e si è previsto che l’organo straordinario di liquidazione predisponga un primo piano di rilevazione dei debiti recante l’elenco di quelli esclusi dalla massa passiva della procedura, strumentale all’erogazione del mutuo con la Cassa depositi e prestiti e il pagamento in acconto dei debiti inseriti nel piano di rilevazione. ​​​​​​​Con le caratteristiche finora sommariamente tratteggiate, espressive del bilanciamento a livello normativo tra la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e dall’altro lato di tutelare i creditori, il dissesto finanziario è stato infine trasfuso nel Testo unico sull’ordinamento degli enti locali di cui al d.lgs 18 agosto 2000, n. 267. ​​​​​​​Sotto il profilo della tutela dei creditori deve peraltro segnalarsi che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione è stata assoggettata alla normativa sul contrasto ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali, di cui al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), in particolare per effetto delle modifiche introdotte dal d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192 - Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180). ​​​​​​​Il dissesto finanziario degli enti locali si colloca quindi all’interno dell’antitesi Stato-mercato. ​​​​​​​Per la copertura del disavanzo dell’ente locale e per il suo risanamento è previsto un intervento sia pure non illimitato dello Stato, con funzione tipica di “pagatore di ultima istanza” all’interno del sistema di finanza pubblica che da esso promana; a ciò si contrappone un regime dei debiti commerciali dell’ente locale proprio delle transazioni tra imprese, in cui non sono ordinariamente previsti interventi di sostegno pubblico contro l’insolvenza e nel quale, pertanto, la remunerazione dei crediti attraverso gli interessi di mora ai sensi del citato d.lgs. n. 231 del 2002 ne rifletto il relativo rischio. ​​​​​​​Al medesimo riguardo, nel contrapposto ambito della finanza pubblica e del dissesto degli enti locali è ammessa l’ipotesi che l’intervento dello Stato possa non essere sufficiente, ed infatti l’art. 256, comma 12, T.u.e.l. prevede che in caso di massa attiva incapiente, tale «da compromettere il risanamento dell’ente» il Ministro dell’interno «può stabilire misure straordinarie per il pagamento integrale della massa passiva della liquidazione, anche in deroga alle norme vigenti», in questo caso senza tuttavia oneri a carico dello Stato; ​​​​​​​tuttavia, la disposizione ora richiamata, introdotta nel 2016, include tra le misure straordinarie in questione la possibilità che l’ente locale acceda alla «procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall’articolo 243-bis», contraddistinta dall’incapacità solo temporanea di fare fronte al servizio del debito e, al pari del dissesto finanziario, dall’intervento di risorse a carico del bilancio dello Stato, ovvero il Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali di cui all’art. 243-ter T.u.e.l. ​​​​​​​Sulla base della ricognizione normativa finora svolta si ricava quindi che in coerenza con l’obiettivo primario dell’istituto del dissesto finanziario dell’ente locale, consistente nel suo stabile risanamento, un nuovo dissesto costituisce per l’ordinamento giuridico un’evenienza in grado di frustrare le finalità dell’istituto, contro la quale sono pertanto previste soluzioni per quanto possibile in grado di assicurare lo stabile riequilibrio di bilancio.
Enti locali
Giurisdizione – Rifiuti - Ordine di rimpatrio di rifiuti – Impugnazione – Difetto assoluto di giurisdizione                 E’ inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione la controversia proposta avverso l’ordine di rimpatrio di rifiuti adottato dalle competenti autorità tunisine, dovendo il ricorso essere proposto nello Stato di appartenenza delle suddette autorità  (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la Convenzione di Basilea disegna un sistema di relazioni e rapporti imperniati sulle figure degli Stati contraenti, ai quali è demandato il compito di gestire gli affari fra di essi correnti e riguardanti il traffico transfrontaliero di rifiuti. Fra le dinamiche che possono scaturirne, si è disciplinata la fattispecie concernente la possibilità che lo Stato di importazione dei rifiuti ritenga “illecito” l’avvenuto trasferimento di un certo quantitativo di rifiuti e imponga allo Stato di esportazione di riprenderseli. Unica autorità competente ad assumere la determinazione relativa alle sorti dell’avvenuto trasferimento lo Stato di destinazione della spedizione, il quale, nell’esercizio della sua sovranità territoriale, ha libertà di decidere di non accettare il carico. La possibilità di esperire un arbitrato internazionale, previsto dall’art. 20 della Convenzione, si profila come una soluzione rimessa alla scelta politica di ciascuno Stato, rispetto alla quale l’interessato non vanta alcun interesse giuridicamente qualificato. ​​​​​​​Si tratta infatti di attività chiaramente di natura politica, che involge delicati profili correlati ai rapporti internazionali fra gli Stati, di per sé espressione di una funzione sovrana apicale, libera nel fine e perciò sottratta al sindacato giurisdizionale. ​​​​​​​Segnatamente, l’art. 20, paragrafo 2, prevede che “Se le Parti in causa non riescono a risolvere la loro controversia con i mezzi indicati nel paragrafo precedente, il caso, se le Parti ne convengono, è sottoposto alla Corte Internazionale di Giustizia o a una procedura arbitrale nelle condizioni definite nell’allegato VI relativo all’arbitrato. Tuttavia, se le Parti non pervengono ad un accordo per sottoporre il caso alla Corte Internazionale di Giustizia o a una procedura arbitrale, ciò non le esime dalla responsabilità di continuare a tentare di risolvere la controversia con i mezzi indicati nel paragrafo 1.”. ​​​​​​​Anche in questo caso, la relativa disposizione della Convenzione di Basilea, con il suo inequivoco tenore testuale non lascia margine a particolari dubbi. Difatti, l’iniziativa non soltanto è rimessa alla discrezionalità di ciascuna “Parte”, ma ancorata ad un accordo fra le stesse, poiché l’arbitrato è esperibile soltanto se le Parti “ne convengono”. ​​​​​​​Ha aggiunto la Sezione che è rilevante stabilire se viene in rilievo un insieme di procedimenti, ciascuno affidato ad un’autorità che esprime - attraverso i previ atti endoprocedimentali ed il conclusivo provvedimento finale - un’autonoma determinazione, oppure se si tratta di un procedimento unico, nel quale gli atti preparatori e strumentali possono appartenere anche ad autorità diverse, ma la determinazione conclusiva o comunque costitutiva dell’effetto giuridico lesivo è di competenza di una sola autorità. ​​​​​​​Soltanto in tale ultimo caso, non ricorrente nella specie, saranno le autorità giudiziarie dello Stato di appartenenza della suddetta autorità a doversi pronunciare sulla legittimità degli atti del procedimento e sull’atto finale, senza che si radichi una competenza giurisdizionale dei relativi organi di altri Stati, le cui autorità amministrative hanno partecipato al procedimento con funzione meramente preparatoria, strumentale o famulativa. ​​​​​​​Tali principi si possono ricavare, mutatis mutandis, da una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sez., 19 dicembre 2018, C-219/17, §§ 45, 46, 48 e 49), la quale sia pure in tutt’altro contesto normativo e con riferimento a tutt’altra fattispecie concreta, ha però tracciato importanti coordinate teoriche nelle quali inscrivere quelle attività amministrative che si esprimono attraverso procedimenti che coinvolgono le autorità amministrative e gli organi di vari Stati.
Giurisdizione
Cittadinanza – Concessione – Diniego - Vicinanza al radicalismo islamico – Legittimità.        E’ legittimo il diniego di cittadinanza al Cittadino marocchino che da informazioni secretate risulta vicino al radicalismo islamico (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che l’istituto della concessione della cittadinanza italiana è caratterizzato da amplissima discrezionalità, informata anche a criteri di precauzione di profilo oggettivo e di cautela, in quanto atto che attribuisce definitivamente uno status che comporta rilevantissime conseguenze per il patrimonio giuridico del richiedente e sui suoi diritti all’interno dello Stato; tale concessione può però comportare conseguenze altrettanto rilevanti, anche gravemente perniciose per l’interesse nazionale in caso di infelice concessione. Proprio per la rilevanza di tale riconoscimento, l’art. 9, l. n. 91 del 1992 demanda al Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno, la concessione della cittadinanza. A fronte degli importanti interessi della comunità nazionale coinvolti nel procedimento l’interesse del cittadino di altro Stato a conseguire la cittadinanza italiana è inevitabilmente recessivo e sottoposto a severa verifica istruttoria, affidata non solo alle autorità locali di pubblica sicurezza (il Prefetto e il Questore, i quali nella fattispecie, come prospettato dall’appellante, non hanno evidenziato criticità), ma anche agli organismi specificamente preposti ai servizi di sicurezza dello Stato, che invece nella presente fattispecie hanno evidenziato - con modalità compatibili con la riservatezza (pure consentita perché dovuta a esigenze di sicurezza nazionale: si pensi alla tutela delle fonti di informazione) e dunque non soggette ai pieni canoni di trasparenza che debbono caratterizzare l’attività amministrativa ordinaria - possibili criticità. ​​​​​​​Sicché lo stesso obbligo di motivazione del diniego si presta ad essere adeguatamente calibrato in funzione, anche, della delicatezza degli interessi coinvolti. 
Cittadinanza
Processo amministrativo – Competenza - Art. 10, comma 5, d.lgs. n. 373 del 2003 – Interpretazione – Incompetenza dichiarata dal Tar Palermo o Catania – Regolamento di competenza – Decisione del C.g.as. o del Consiglio di Stato – Rimessione all’Adunanza plenaria.                Sono rimesse all’Adunanza plenaria le questioni se l’art. 10, comma 5, d.lgs. n. 373 del 2003 debba essere interpretato come riferito ai soli conflitti di competenza (positivi o negativi) attuali, o anche a quelli virtuali che sono determinati dalla contemporanea pendenza dell’appello sulla competenza davanti al C.g.a. e al Consiglio di Stato; se, nell’ipotesi in cui il Tar per la Sicilia abbia declinato la propria competenza indicando la competenza di un altro Tar, il relativo regolamento di competenza debba essere proposto dinanzi al Consiglio di Stato o al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (1).    (1) Ha ricordato il C.g.a. che l’art. 4, comma 3,  d.lgs. n. 373 del 2003, come detto, stabilisce che, in sede giurisdizionale, “il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”, ma nulla dispone in ordine alla delibazione dei regolamenti di competenza - che costituiscono un diverso mezzo di impugnazione rispetto all’appello - anche nell’ipotesi in cui il Tar per la Sicilia, con un proprio provvedimento, abbia declinato la competenza indicando il giudice competente, per cui le questioni di competenza che vedano coinvolto il Tar Sicilia sono sottoposte alla ordinaria disciplina del codice del processo amministrativo.  In tale ottica, occorre considerare che, attribuendosi al C.g.a. la detta competenza, le pronunce rese da quest’ultimo in materia sarebbero destinate ad incidere anche sulla competenza di Tar diversi da quello siciliano.   Alla fattispecie, di conseguenza, deve applicarsi l’art. 16 c.p.a. che devolve al Consiglio di Stato la pronuncia sulla competenza resa in sede di regolamento.  Tuttavia, ed appare questo il punto connotato da maggiore difficoltà esegetica, per la quale si ritiene opportuno rimettere la questione a codesta Adunanza plenaria, non appare chiaramente percepibile se la norma codicistica abbia inteso riferirsi al Consiglio di Stato nella sua accezione complessiva, vale a dire comprensiva del C.g.a., qualificato dalla fonte normativa come sua Sezione staccata, ovvero al solo Consiglio di Stato, non comprendendo in esso il C.g.a..   In definitiva, occorre chiarire se la competenza a delibare la questione in esame sia individuabile in ragione della natura di organo di appello del Tar adito, che ha declinato la propria competenza, il quale, nel caso di specie, sarebbe il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, ovvero in ragione degli effetti, limitati alla sola Regione siciliana o estesi anche ad altre Regioni, che la pronuncia sul regolamento di competenza è inevitabilmente destinata ad avere, nel qual caso sarebbe competente il Consiglio di Stato. 
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super accelerato - Art. 120, comma 2 bis, c.p.a. – Ambito temporale di applicazione – Individuazione. Circolazione stradale – Contravvenzioni – Notificazione – Liberalizzazione – Condizione. Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di imprese – Appalto servizi – Ati verticale – Condizione.         L’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. trova applicazione con riferimento ad una gara i cui esiti sono stati impugnati con ricorso depositato in data 13 maggio 2019 (1).            La l. 4 agosto 2017, n. 124 ha liberalizzato il mercato delle notificazioni e comunicazioni a mezzo posta degli atti giudiziari e delle notificazioni della violazioni previste dal codice della strada; tuttavia, per divenire effettiva, detta liberalizzazione presupponeva il rilascio agli operatori privati di licenze speciali individuali, la cui disciplina è stata progressivamente definita dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la deliberazione 20.2.2018 n. 77/18/CONS, cui ha fatto seguito il d.m. 19 luglio 2018; ancora la disciplina secondaria di attuazione ha richiesto l’adozione di linee guida elaborate dal Ministero della giustizia inerenti corsi di formazione obbligatori per gli addetti alla consegna e la delibera AGCOM 77/18/CONS è stata ulteriormente aggiornata con la delibera 55/19/CONS. in sistema è andato a regime nel 2019  (2).         In un appalto di servizi la partecipazione in ATI verticale è consentita qualora la legge di gara preveda prestazioni principali ed accessorie; tuttavia, se il testo della legge di gara è ambiguo nel delimitare le due tipologie di prestazioni, non può essere esclusa una concorrente che, avendo legittimamente scelto il modulo dell’ATI verticale, ha attribuito alla mandante l’esecuzione di una prestazione che, secondo il bando, richiedeva uno specifico titolo abilitativo che dichiaratamente poteva essere in possesso del solo soggetto incaricato dell’esecuzione di detta parte del servizio.   (1) Ha ricordato il Tar che il comma 2 bis dell’art. 120 c.p.a. è stato abrogato dall’art. 1, comma 22, d.l. n. 32 del 2019, convertito con modificazioni nella l. 14 giugno 2019, n. 55, con la precisazione, di cui al comma 23 del medesimo articolo, che le disposizioni del comma 22, ivi compresa dunque l’abrogazione, si applicano ai processi iniziati dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto stesso. La legge di conversione è entrata in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, intervenuta in data 17 giugno 2019, dunque il 18 giugno 2019. Il ricorso è stato depositato in data 13 maggio 2019, dunque, per il presente giudizio, l’art. 120, comma 2 bis, deve ritenersi applicabile. La sua interpretazione deve tenere tuttavia conto dell’intenso dibattito giurisprudenziale sviluppatosi in materia. La previsione di decadenza ha superato il vaglio della Corte costituzionale, che si è pronunciata con sentenza n. 271/2019, nonché della Corte di giustizia dell’Unione europea, pronunciatasi con la sentenza CGUE, sez. IV, 14 febbraio 2019, in causa C54/18. Il giudice europeo prima e la Corte Costituzionale poi hanno, in sintesi, negato che la previsione di decadenza integrasse una lesione di sostanziali prerogative difensive a condizione che ai concorrenti onerati dell’impugnativa fosse dato conoscere le effettive ragioni poste a fondamento dei provvedimenti di ammissione ed esclusione censurati. In particolare si legge nella pronuncia della Corte di giustizia che il comma 2 bis dell’art. 120 c.p.a. non contrastava con le direttive 89/665/CEE e 2014/23/UE nella parte in cui imponeva un onere di impugnazione a pena di decadenza dalla pubblicazione/comunicazione dei provvedimenti di esclusione “a condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti tale da garantire che detti interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell’Unione dagli stessi lamentata”.   (2) Ad avviso del Tar nelle more dell’effettiva attuazione della prevista liberalizzazione, appare corretto e pro concorrenziale che il capitolato di una gara per la gestione delle contravvenzioni stradali consentisse che l’aggiudicatario ottenesse la licenza individuale speciale in fase esecutiva, purché prima di effettiva entrata in funzione del servizio, essendo sufficiente, al momento di presentazione della domanda di partecipazione, la dichiarazione di possedere i requisiti prescritti al fine di conseguire detta licenza, secondo le disposizioni sino a quel momento adottate, e l’impegno a presentare tempestivamente la relativa domanda.
Circolazione stradale
Autorità amministrative indipendenti – Autorità garante della concorrenza e del mercato – Pratica commerciale scorretta - Hosting provider – Gestore di una piattaforma di hosting – Fornitura a terzi utenti servizi di annunci di vendita di biglietti per eventi sul mercato secondario – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue.   ​​​​​​​             Sono rimesse alla Corte di Giustizia Ue le questioni se la direttiva 2000/31/CE, e in particolare gli artt. 3, 14 e 15, in combinazione con l’art. 56 TFUE, ostino ad un’applicazione della normativa di uno Stato membro sulle vendite di biglietti per eventi sul mercato secondario che abbia l’effetto di precludere ad un gestore di una piattaforma di hosting operante nella Unione europea, di fornire a terzi utenti servizi di annunci di vendita di biglietti per eventi sul mercato secondario, riservando tale attività ai soli venditori, organizzatori di eventi o altri soggetti autorizzati da pubbliche autorità all’emissione di biglietti sul mercato primario con sistemi certificati; b) se, in aggiunta, il combinato disposto degli artt. 102 TFUE e 106 TFUE osti all’applicazione di una normativa di uno Stato membro sulle vendite di biglietti per eventi che riservi tutti i servizi inerenti il mercato secondario dei biglietti (e in particolare l’intermediazione) ai soli venditori, organizzatori di eventi o altri soggetti autorizzati all’emissione di biglietti sul mercato primario con sistemi certificati, precludendo tale attività ai prestatori di servizi della società dell’informazione che intendono operare come hosting provider ai sensi degli artt. 14 e 15 della Direttiva 2000/31/CE, in particolare laddove tale riserva abbia l’effetto di consentire ad un operatore dominante sul mercato primario della distribuzione di biglietti di estendere la propria dominanza sui servizi di intermediazione nel mercato secondario; c) se, ai sensi della normativa europea ed in specie della direttiva 2000/31/CE, la nozione di hosting provider passivo sia utilizzabile solo in assenza di qualsiasi attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti pubblicati dagli utenti, intesi come indici esemplificativi e che non debbono essere tutti compresenti in quanto da ritenersi ex se significativi di una gestione imprenditoriale del servizio e /o dell'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione, o se sia rimesso al giudice del rinvio l’apprezzamento della rilevanza delle predette circostanze in modo che, pur nella ricorrenza di una o più di esse, sia possibile ritenere prevalente la neutralità del servizio che conduce alla qualificazione di hosting provider passivo (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’hosting provider è disciplinato dal d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, che ha dato attuazione alla direttiva 2000/31/Ce, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico. La nozione di «servizi della società dell’informazione» ricomprende i servizi prestati normalmente dietro retribuzione, a distanza, mediante attrezzature elettroniche di trattamento e di memorizzazione ed a richiesta individuale di un destinatario dei servizi stessi (art. 2, lett. a della suddetta direttiva). Il provider è il soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa. Si distinguono, ai sensi del decreto in esame, tre figure di soggetti che operano nel presente mercato, articolate in ragione della tipologia di prestazione resa a cui corrisponde una specifica forma di responsabilità: i) attività di semplice trasporto – mere conduit (art. 14); ii) attività di memorizzazione temporanea – caching (art. 15); iii) attività di memorizzazione di informazione – hosting (art. 16). In relazione a tale ultima attività la giurisprudenza europea distingue due figure di hosting provider. La prima figura è quella di hosting provider “passivo”, il quale pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi. La seconda figura è quella di hosting provider “attivo”, che si ha quando, tra l’altro, l’attività non è limitata a quanto sopra indicato ma ha ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa (Corte giust.comm.ue 7 agosto 2018, punti 47 e 48; si v. anche Cass. civ., sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708). La Sezione ha già evidenziato come non vi sia una oggettiva incompatibilità tra la figura del professionista, ai sensi della normativa sulle pratiche commerciale scorrette, e quella di hosting provider, ai sensi della normativa sul commercio elettronico. Esse, però, devono essere coordinate nel senso che è possibile sanzionare le condotte che violano le regole della correttezza professionale ma non è consentito che mediante l’applicazione della disciplina sulle pratiche scorrette si impongano all’hosting provider prestazioni non previste dalla disciplina sul commercio elettronico e dallo specifico contratto concluso. In termini di ulteriore approfondimento del ruolo degli internet providers, va evidenziato che, se per un verso, viene riconosciuta l'importanza di questi soggetti sia dal punto di vista economico - essi intermediano la maggior parte delle attività imprenditoriali che hanno luogo in rete - sia dal punto di vista socio-culturale - essi permettono la circolazione e l'accesso all'informazione, per altro verso, da più parti si lamenta che gli illeciti telematici avvengano proprio in virtù dell'attività svolta dagli intermediari di Internet, che devono dunque essere coinvolti nella responsabilità o almeno nelle operazioni di prevenzione e rimozione di tali illeciti. Se si guarda al regime di responsabilità degli Internet service providers oggi in vigore nel nostro ordinamento, la scelta operata dal legislatore europeo e, conseguentemente, nazionale è stata quella di affiancare alle normative già esistenti - la disciplina generale sulla responsabilità da fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c. e, più in generale, le ordinarie regole della responsabilità civile - alcune norme speciali, ad altro contenuto tecnico, sulla responsabilità dei prestatori di servizi nella società dell'informazione. Tali norme, secondo la prospettazione accolta anche dalla giurisprudenza civile (cfr. ad es. Cass. civ., sez. I, 19 marzo 2019, nn. 7708 e 7709), dettano il criterio di imputazione della responsabilità della colpa, che viene ad essere dotato di un contenuto di specificità, e, ad un tempo, conformato e graduato, ex lege, per così dire, ritagliato, a misura dell'attività professionale svolta dai prestatori dei servizi Internet. Secondo tale condiviso orientamento, va esclusa la responsabilità in caso di mancata manipolazione dei dati memorizzati; in tale contesto si valorizza peraltro la varietà di elementi idonei a delineare la peculiare figura dell'hosting attivo, comprendente attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti pubblicati dagli utenti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione. Trattasi all’evidenza, anche dinanzi all’evoluzione tecnologica, di indici esemplificativi e che non debbono essere tutti compresenti. Ciò che rileva è che deve trattarsi, in ogni caso, di condotte che abbiano in sostanza l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti, il cui accertamento in concreto non può che essere rimesso al giudice di merito.   Ha quindi aggiunto la Sezione che quale che sia la qualifica di hosting provider applicata, attivo o passivo, risulta nella sostanza vietato in radice il mercato secondario svolto a fini commerciali. Così intesa la normativa applicata, in termini peraltro imposti dallo stesso chiaro disposto letterale (in claris non fit interpretatio), appare rilevante la questione sollevata, con preliminare rilievo rispetto ai principi di origine sovranazionale, laddove si ritiene la misura restrittiva non idonea a distinguere le condotte o attività economiche lesive da quelle non lesive del bene pubblico dalla stessa tutelato; tale disciplina, non soddisfarebbe il test di proporzionalità ed è quindi incompatibile con le norme fondamentali della UE e costituzionali in materia di divieto di restrizioni alla concorrenza e libera circolazione. Invero, la formulazione della norma è tale da estendersi anche agli intermediari attivi e passivi che siano, ponendo quindi seri dubbi in ordine alla adeguatezza e proporzione rispetto agli obiettivi espressamente dichiarati dalla stessa disposizione (lotta all’evasione fiscale, protezione dei consumatori, tutela dell’ordine pubblico), essendo idonea a colpire egualmente, in astratto, tanto le attività lecite quanto quelle illecite. In altri termini, allo scopo di tutelare i consumatori da imprecisate pratiche dannose e prevenire l’evasione fiscale, si proibisce del tutto l’esercizio di un’attività, sia nelle sue manifestazioni lecite che in quelle eventualmente illecite. Inoltre, la formulazione della norma va confrontata con il principio di cui all’art. 106 TFUE, laddove assegna diritti “speciali o esclusivi” in capo agli operatori del mercato primario, che risulterebbero gli unici soggetti in grado di operare quali intermediari nel mercato secondario. Né appare ostativa la nazionalità extra Ue della società ovvero e la circostanza che la piattaforma sia ospitata sui server Microsoft Azure negli Stati Uniti d’America; infatti, entrambi gli elementi territoriali evocati dalla difesa erariale non incidono su di un elemento dirimente, cioè la piena operatività della società nell’ambito dei paesi europei, attraverso lo svolgimento di servizi della società dell’informazione a favore di utenti e consumatori europei in relazione ad eventi che si svolgono nel territorio Ue. Va altresì evidenziato il contrasto, nelle deduzioni delle parti, in ordine alla qualificabilità dell’attività di parte appellante in termini di hosting provider attivo o passivo, attraverso una serie di indici ed elementi esemplificativi.
Autorità amministrative indipendenti
Pubblica istruzione – Studenti disabili – Studente disabile diciottenne – Esclusione dalla prima classe della scuola superiore – Illegittimità.                          Il diritto all’istruzione delle persone con disabilità, di cui il diritto all’integrazione scolastica costituisce parte integrante, è intrinsecamente connesso allo sviluppo della personalità per il legame esistente tra il principio di solidarietà, di cui all’articolo 2 Cost., ed il diritto all’istruzione, di cui all’articolo 34 Cost.; tali diritti hanno avuto pieno riconoscimento nell’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell’art. 2 del Primo Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’art. 15 della Carta Sociale Europea nonché nella Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone disabili; pertanto è illegittimo un provvedimento di esclusione dalla prima classe della scuola superiore di un disabile ultradiciottenne (1).   (1) In punto di fatto, al ricorrente è stata rifiutata la iscrizione al primo anno del corso di Istituto tecnico economico tecnologico. A sostegno del diniego l’istituto scolastico ha affermato che “le attuali disposizioni prevedono che lo studente diversamente abile che consegue l’attestato di credito formativo comprovante la conclusione del primo ciclo di istruzione, ha titolo a richiedere iscrizione alla classe prima dell’istituto di scuola secondaria di secondo grado, potendo usufruire delle misure di integrazione previste dalla l. n. 104 del 1992. Tale titolo, tuttavia, è riconosciuto purchè lo studente non abbia compiuto il diciottesimo anno di età prima dell’inizio dell’a.s.”. A seguito dell’istanza di riesame, l’Amministrazione ribadiva che: “appare chiaro che uno studente ultra-diciottenne, se a conclusione del I ciclo consegue un’attestazione di frequenza, non ha diritto ad iscriversi, in quanto ormai fuori dall’obbligo formativo. Al contrario, qualora lo stesso consegua la licenza di I grado, esso ha diritto a frequentare per un altro quinquennio la scuola di II grado”. In diritto, giova delineare il quadro normativo entro cui si inscrive la controversia. A fondamento delle disposizioni della l. n. 104 del 1992, di cui si lamenta la violazione e delle altre leggi sulla tutela degli alunni disabili, si pongono i principi costituzionali di cui all’art. 2 (sulla tutela dei «diritti inviolabili dell’uomo» e sui «doveri inderogabili di solidarietà … sociale»), all’art. 3 (secondo cui «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»), all’art. 34, primo comma (sulla apertura della scuola «a tutti») e all’art. 38, comma 3 (sul «diritto all’educazione» anche quando vi sia una disabilità) (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023 del 2017). In particolare, il diritto all’istruzione delle persone con disabilità, di cui il diritto all’integrazione scolastica costituisce parte integrante, ha il suo fondamento nell’articolo 34 della Costituzione, al pari di quello delle persone normo-dotate. Esso è intrinsecamente connesso allo sviluppo della personalità per il legame esistente tra il principio di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., ed il diritto all’istruzione, di cui all’articolo 34 Cost.. L’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituisce fattore fondamentale dello sviluppo della personalità e trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 38 (Corte cost., sentenza n. 215 del 1987, ribadito di recente nella sentenza n. 83 del 2019). Tali diritti hanno avuto pieno riconoscimento anche sul piano europeo nell’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell’art. 2 del Primo Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, primo comma, nell’art. 15 della Carta Sociale Europea. Tali principi hanno trovato altresì riconoscimento nel Piano strategico per le disabilità 2017/2023 del Consiglio d’Europa, che ha esplicitamente indicato la necessità di un approccio basato sulle capacità piuttosto che sulle disabilità. Sul piano internazionale il riferimento relativo ai principi esposti è alla Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone disabili, entrata in vigore il 3 maggio 2008 e resa esecutiva in Italia con la l. 3 marzo 2009, n. 18. Occorre altresì rammentare che la scuola, ed in particolare la scuola secondaria superiore, sono andate modificando le proprie funzioni integrando sempre di più sviluppo dinamico-relazionale e sviluppo cognitivo della personalità, dimensioni entrambe riconducibili al dettato dell’art. 2 Cost.. In tale contesto è divenuta pilastro fondamentale del sistema educativo l’integrazione tra sistemi di competenze e sistemi di conoscenze. L’integrazione scolastica dei disabili persegue un obiettivo alto ma complesso: garantire non solo l’accesso a conoscenze ma anche alle competenze necessarie per l’acquisizione di capacità idonee all’inserimento sociale del disabile. L’apprendimento e l’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituiscono, infatti, una premessa fondamentale della integrazione lavorativa e di quella sociale, che sono alla base di società informate ai principii di solidarietà ed uguaglianza (principii enunciati già da Corte Costituzionale sentenza n. 215 del 1987 e ribaditi di recente nella sentenza n. 83 del 2019). La disciplina costituzionale dell’istruzione dei soggetti portatori di handicap ha avuto la sua concretizzazione nella legislazione ordinaria che definisce il diritto all’integrazione scolastica delle persone con disabilità. In base a quanto disposto dalla legge-quadro n. 104 del 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili e dal d.lgs. n. 297 del 1994, recante disposizioni legislative in materia di istruzione, che sanciscono il diritto del disabile all’integrazione scolastica ed allo sviluppo delle sue potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione e nelle relazioni, per consentirgli il raggiungimento della massima autonomia possibile, gli istituti scolastici sono tenuti ad assicurare l’integrazione configurando percorsi educativi individualizzati (art. 12, l. n. 105 del 1992). Questo, come si vedrà, vale sia per gli studenti minorenni sia per quelli che abbiano raggiunto la maggiore età. L’articolo 24 della Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità, resa esecutiva in Italia con la l. 3 marzo 2009, n. 18, regola il diritto all’istruzione affermando il principio secondo cui (comma 2) “2. Nel realizzare tale diritto, gli Stati Parti dovranno assicurare che: (a) le persone con disabilità non vengano escluse dal sistema di istruzione generale sulla base della disabilità e che i bambini con disabilità non siano esclusi da una libera ed obbligatoria istruzione primaria gratuita o dall’istruzione secondaria sulla base della disabilità; (b) le persone con disabilità possano accedere ad un’istruzione primaria e secondaria integrata, di qualità e libera, sulla base di eguaglianza con gli altri, all’interno delle comunità in cui vivono; (c) un accomodamento ragionevole venga fornito per andare incontro alle esigenze individuali; (d) le persone con disabilità ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fine di agevolare la loro effettiva istruzione; (e) efficaci misure di supporto individualizzato siano fornite in ambienti che ottimizzino il programma scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione.” . Tale disposizione va coordinata con l’art. 13, l. n. 104 in materia di diritto all’integrazione scolastica, dove si individuano le modalità attraverso cui tale integrazione deve essere resa effettiva. Il diritto all’istruzione dei disabili, ascritto alla categoria dei diritti fondamentali, passa attraverso l’attivazione dell’Amministrazione scolastica per la sua garanzia, mediante le doverose misure di integrazione e sostegno atte a rendere possibile ai portatori disabili la frequenza delle scuole e l’insieme delle pratiche di cura e riabilitazione necessarie per il superamento ovvero il miglioramento della condizione di disabilità e per quel che qui rileva anche la coerente acquisizione di competenze - seppur ridotte - scolastiche (Cga n. 482 del 2020). L’integrazione scolastica della persona disabile presuppone, dunque, adattamenti sia logistici che didattici alla singola persona con disabilità, attraverso la definizione di percorsi educativi individualizzati che riflettano le difficoltà specifiche di ciascuno studente con disabilità e le caratteristiche del gruppo in cui l’inserimento deve essere realizzato (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023 del 2017, id. n. 758 del 2018, Corte Europea dei diritti dell’uomo, Cam c. Turchia, 23 febbario 2016, in particolare paragrafi 65,66). Il contenuto del diritto è quindi correlato ad obblighi positivi in capo all’amministrazione. Per questa ragione una serie di strumenti come i piani educativi individuali (PEI) ed i piani di assistenza individuali (PAI) (art. 12, l. n. 104) sono stati definiti dalla legge e vengono impiegati per assicurare un approccio individualizzato ritagliato sulle esigenze specifiche di ciascuno studente. La prospettiva dell’integrazione, normativamente consolidata si concretizza in una didattica differenziata che si attagli alle capacità individuali dei singoli studenti con disabilità, integrando la trasmissione di conoscenze con quella di competenze. Tale approccio consente di coniugare le esigenze di integrazione delle persone con disabilità con quelle degli altri studenti che hanno diritto fondamentale all’istruzione. E’ bene sottolineare che il diritto all’istruzione del disabile non contrasta con quello dello studente normo-dotato. Tali interessi non vanno, pertanto, considerati come confliggenti ma, al contrario, come potenzialmente convergenti. In effetti, l’integrazione scolastica non rappresenta solo l’attuazione dei diritti individuali dei portatori di handicap ma la realizzazione di un progetto sociale coerente con i valori costituzionali della coesione, della solidarietà e del riconoscimento delle differenze quale fonte di ricchezza delle dinamiche sociali. Naturalmente, la convergenza tra interessi delle persone disabili e degli studenti normo-dotati si può realizzare solo se la scuola dispone di risorse necessarie per individualizzare l’istruzione ove e nella misura in cui questo si renda necessario in ragione delle diverse capacità degli alunni. Alla luce di quanto sopra detto appaiono prive di fondamento le deduzioni dell’Amministrazione riguardanti le differenze di età tra gli studenti di prima classe della scuola superiore ed il ricorrente. La possibilità che persone, anche di età diverse, convivano nella stessa comunità va considerata, secondo la moderna pedagogia, una ricchezza, ove accompagnata dalla definizione di percorsi individuali che garantiscano contestualmente l’efficacia dell’apprendimento sia dei soggetti disabili sia di coloro che non hanno disabilità. Non può condividersi, quindi, quanto dedotto dall’amministrazione secondo cui – sostanzialmente - non vi sarebbe un diritto all’integrazione scolastica per studenti disabili che abbiano raggiunto la maggiore età e che, in tal caso, occorrerebbe fare riferimento all’offerta di corsi per disabili adulti. Tali considerazioni sono prive di fondamento normativo ed in contrasto con il sistema costituzionale. In tal modo, infatti, verrebbero scissi il diritto all’istruzione e quello all’integrazione scolastica che l’architettura costituzionale integra indissolubilmente. Come affermato ripetutamente dalla giurisprudenza amministrativa il limite del compimento del diciottesimo anno di età, ritenuto costituzionalmente legittimo, è riferito al (solo) completamento della scuola dell’obbligo. Con riferimento al caso in esame, non si rinviene dal tessuto normativo alcuna disposizione che osti all’iscrizione dell’alunno disabile, il quale abbia già compiuto diciotto anni, alla prima classe della scuola secondaria di II grado. Sotto tale profilo è evidente che nessuna rilevanza può assumere la necessità, dedotta dall’Amministrazione, di ottemperare alla circolare MIUR. n. 14017 del 21 dicembre 2015: diritti fondamentali della persona come quello all’istruzione e quello alla integrazione scolastica non possono certo essere limitati da una circolare ministeriale. Sotto altro profilo, l’amministrazione richiama, a supporto delle proprie affermazioni, la sentenza della Corte cost. n. 226 del 2001. In realtà, come più volte affermato dalla giurisprudenza, la Corte Costituzionale - con riferimento ad un caso nel quale, presso il giudice a quo, si impugnava un provvedimento con il quale il Preside di una scuola media statale aveva respinto la domanda di iscrizione alla classe seconda di un alunno portatore di handicap, in quanto il medesimo aveva già compiuto il 18° anno di età - ha statuito che l’obbligatorietà dell’istruzione di primo grado per gli alunni disabili cessa con il raggiungimento del 18° anno di età e che, superato tale limite, gli stessi hanno il diritto di completare la scuola dell’obbligo frequentando appositi corsi per adulti (cfr. Corte Costituzionale, sentenza del 6 luglio 2001, n. 226). Orbene, il principio affermato dalla Corte Costituzionale (il cui orientamento è richiamato dall’Amministrazione scolastica in casi analoghi) riguarda il caso specifico della frequenza della scuola dell’obbligo da parte di alunni disabili. Viceversa, nel caso in esame, non si tratta dell’assolvimento dell’obbligo scolastico primario, bensì della iscrizione di un alunno maggiorenne disabile ad una scuola di istruzione superiore; con la conseguenza che il limite di 18 anni di età, oltre il quale le persone handicappate sono ammesse a frequentare la scuola dell’obbligo, risulta privo di rilevanza giuridica (Tar Catania n. 707 del 2017). Alla luce dei principi citati, dunque, non solo il limite di età del diciottesimo anno è privo di rilevanza ostativa ma il diritto all’istruzione ed alla integrazione scolastica deve ritenersi violato ove si neghi ad uno studente disabile maggiorenne la possibilità di accedere alla scuola media superiore. Tale diritto comporta che l’integrazione scolastica avvenga considerando adeguatamente sia le necessità dello studente disabile sia quelle del gruppo di studenti della classe in cui questi viene inserito. Il delicato ma necessario equilibrio tra questi interessi deve essere raggiunto distribuendo le ore tra percorsi individuali e percorsi integrati. La definizione di tale percorso spetta al Gruppo di lavoro operativo handicap – (G.L.O.H. »).
Pubblica istruzione
Processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza - Termine di prescrizione decennale – Ambito di applicazione (riferito al diritto sostanziale o processuale) ed interruzione - Dubbi in giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.     Devono essere rimesse all’Adunanza plenaria le questioni se il termine di prescrizione decennale dell’actio iudicati previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. riguardi il diritto di azione o il diritto sostanziale riconosciuto dal giudicato; b) se, ritenuta la prescrizione riferita all’azione processuale, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 114, comma 1, c.p.a., il termine di prescrizione possa essere interrotto esclusivamente mediante l’esercizio dell’azione, come sembra desumersi dall’Adunanza plenaria n. 5 del 1991 resa anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a. (anche davanti a giudice incompetente o privo di giurisdizione e fatti salvi gli effetti della translatio iudicii) o anche mediante atti stragiudiziali volti a conseguire il bene della vita riconosciuto dal giudicato; c) se, pertanto, al di là del nomen iuris di prescrizione utilizzato dall’art. 114, comma 1, c.p.a., il termine di esercizio dell’actio iudicati operi, nella sostanza, come un termine di decadenza, al pari di tutti gli altri termini previsti dal c.p.a. per l’esercizio di azioni davanti al giudice amministrativo, e si presti, pertanto, ad una esegesi sistematica e armonica con l’impianto del c.p.a.; d) se, in subordine, ove si ritenesse che l’art. 114, comma 1, c.p.a. vada interpretato nel senso di consentire atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati, non si profili un dubbio di legittimità costituzionale della previsione quanto meno in relazione agli artt. 111 e 97 Cost., per violazione dei principi di ragionevole durata dei processi e di buon andamento dell’Amministrazione  (1).   (1) Ad avviso del C.g.a. non è convincente la tesi che ammette atti interruttivi stragiudiziali dell’actio iudicati, per plurime ragioni: a) sarebbe una soluzione del tutto eccentrica e distonica rispetto al sistema delle azioni nel processo amministrativo in cui il termine per l’azione è interrotto solo ed esclusivamente dall’esercizio dell’azione e non da atti stragiudiziali; b) l’art. 114, comma 1, c.p.a., laddove afferma che “l’azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza” si riferisce chiaramente alla prescrizione dell’azione e non del diritto sottostante; c) l’art. 2953 c.c., a tenore del quale “i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”, si riferisce ai diritti sostanziali e non all’azione processuale, e non pare applicabile nel processo amministrativo, dato che esiste la norma specifica e speciale dell’art. 114, comma 1, c.p.a.; d) poco rileva che sia previsto per l’actio iudicati un termine di prescrizione e non di decadenza; infatti, gli atti interruttivi della prescrizione dei diritti devono concretarsi in atti di esercizio dei diritti medesimi che siano pertinenti e idonei ad esercitare i diritti stessi; e quando si tratta del diritto di azione processuale, l’unico atto di esercizio del diritto pertinente e appropriato è l’esercizio dell’azione stessa; e) e, invero, la stessa Adunanza plenaria n. 5 del 1991 dà per presupposto che solo  l’esercizio dell’actio iudicati può interrompere il relativo termine; anche il precedente della Cassazione, sez. un. 2.4.2007 n. 8085 non si riferisce al caso di atti interruttivi stragiudiziali del termine dell’actio iudicati; altri precedenti del Consiglio di Stato, pur ammettendo atti interruttivi del termine decennale dell’actio iudicati, si riferiscono ad atti interruttivi giudiziali, mediante azione di ottemperanza o altro tipo di azione processuale (Cons. St., sez. V, 18 ottobre 2011, n. 5558; id. 16 novembre 2018, n. 6470).  f) anche quando l’actio iudicati deve essere preceduta da una previa diffida o da un previo termine dilatorio, non si dubita che tali atti o termini non impediscono il decorso del termine di prescrizione e dunque non hanno effetto interruttivo; g) dirimente parrebbe la considerazione che i termini processuali sono ordinariamente perentori, e come tali, sottratti alla disponibilità delle parti. Pertanto ad avviso del Collegio non è concepibile un atto stragiudiziale interruttivo del termine del diritto di azione processuale. La concezione “estensiva” degli atti interruttivi è stata sovente agganciata a due interessi che l’ordinamento riterrebbe degni di prevalente tutela: le disposizioni del giudice amministrativo devono comunque essere eseguite, la tutela dei diritti del ricorrente è imposta da una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme oggetto del presente scrutinio. Non può sottacersi come sia maturata, anche nella giurisprudenza amministrativa, la consapevolezza della necessità di operare un adeguato bilanciamento tra gli interessi appena enunciati e gli interessi sempre più ritenuti degni di considerazione. Tra questi il più rilevane è certamente quello della certezza e stabilità delle relazioni giuridiche. Ma il primo principio da osservare alla stregua della giurisprudenza costituzionale è il principio di ragionevolezza. Nel caso di specie nell’accedere alla tesi “estensiva” degli atti che provocano l’interruzione, sul piano pratico si esporrebbe un settore in cui le situazioni soggettive sono indisponibili perché è in gioco l’interesse pubblico, al rischio che l’azione amministrativa sia condizionata da iniziative private per un lasso temporale lunghissimo e, nei fatti, nella disponibilità di una sola delle parti processuali. La soluzione che ammette atti stragiudiziali interruttivi dell’actio iudicati può condurre al paradossale risultato di una serie di atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza dello scadere dei dieci anni, reiterati ogni dieci anni, per un tempo potenzialmente indefinito. Una esegesi che conduce a un risultato paradossale è perciò solo da rigettare. Una riflessione similare è stata affrontata anche dalla giurisprudenza civile a proposito del termine in cui si può proporre l’azione revocatoria pervenendo, sui temi generali, a conclusioni che devono condividersi. La riflessione della giurisprudenza del giudice civile in materia di processo del lavoro trae origine dalla sentenza delle Sez. un. civili n. 24822 del 2015. Nella motivazione della sentenza n. 10016 del 2 aprile 2017, poi, si ribadisce “La preclusione, che costituisce diritto vivente, all'utilizzazione di atti interruttivi diversi dalla proposizione dell'azione giudiziale ”. Ad avviso del C.g.a. l’opposta esegesi, che conduce al risultato paradossale sopra evidenziato, esporrebbe l’art. 114, comma 1, c.p.a. a dubbi di legittimità costituzionale quantomeno in relazione agli artt. 111 e 97 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata dei processi e del buon andamento della pubblica amministrazione.
Processo amministrativo
Covid-19 – Vaccino – Personale docente e non docente della scuola – Obbligo - Non va sospeso monocraticamente   ​​​​​​​           E’ legittimo l’obbligo vaccinale, introdotto a decorrere dal 15 dicembre 2021, per “il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e la previsione che, all'inosservanza dell'obbligo consegue l'immediata sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa (1).   (1) Cons.St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045. Ha chiarito la Sezione che le misure contestate da parte appellante si inseriscono nel quadro di una strategia generale di contrasto alla pandemia e non risultano essere sproporzionate né discriminatorie, né lesive dei diritti fondamentali dei destinatari, atteso che il diritto all’autodeterminazione di quanti abbiano deciso di non vaccinarsi è da ritenersi recessivo rispetto alla tutela di beni supremi quali sono la salute pubblica e il diritto allo studio in condizioni di uguaglianza. Ciò tanto più in considerazione del fatto che il diritto alla salute del singolo è garantito dalle previsioni legislative che consentono l’esenzione ovvero il differimento dell’obbligo vaccinale in presenza di situazioni cliniche incompatibili.  
Covid-19
Energia elettrica – Fonti rinnovabili - Titolari di impianti di produzione - Oneri di carattere meramente economico – Nullità – Sanatoria - Art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018 – Violazione artt. 3, 24, 111, e 117, comma 1, Cost., artt. 6 della direttiva 2001/77/CE, 12, d.lgs. n. 387 del 2003, 6 Cedu e 2 del protocollo di Kyoto dell’11 dicembre 1997.           E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 953, l. 30 dicembre 2018, n. 145  – in relazione agli artt. 3, 24, 111, e 117, comma 1, Cost., nonché in relazione ai principi generali della materia della produzione energetica da fonti rinnovabili sanciti dagli artt. 6 della direttiva 2001/77/CE e 12, d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387, e agli obblighi internazionali, di cui agli artt. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e 2 del protocollo di Kyoto dell’11 dicembre 1997 – nella parte in cui prevede una generalizzata sanatoria rispetto ad accordi che abbiano imposto ai titolari di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili oneri di carattere meramente economico, e di cui è stata dichiarata la nullità in sede giurisdizionale (1).   (1) Giova premettere che l’art. 1, comma 953, l. 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), prevede che: «Ferma restando la natura giuridica di libera attività d’impresa dell’attività di produzione, importazione, esportazione, acquisto e vendita di energia elettrica, i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali, nel cui territorio insistono impianti alimentati da fonti rinnovabili, sulla base di accordi bilaterali sottoscritti prima del 3 ottobre 2010, data di entrata in vigore delle linee guida nazionali in materia, restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia. Dalla data di entrata in vigore della presente legge, fatta salva la libertà negoziale delle parti, gli accordi medesimi sono rivisti alla luce del decreto del Ministro dello sviluppo economico 10 settembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 219 del 18 settembre 2010, e segnatamente dei criteri contenuti nell’allegato 2 al medesimo decreto. Gli importi già erogati e da erogare in favore degli enti locali concorrono alla formazione del reddito d’impresa del titolare dell’impianto alimentato da fonti rinnovabili. Afferma la Sezione che l’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018 ha una portata generalizzata di sanatoria rispetto ad accordi che abbiano imposto ai titolari di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili oneri di carattere meramente economico, e di cui è stata dichiarata la nullità in sede giurisdizionale, che non ne consente un’interpretazione conforme alla Costituzione. Aggiunge che il legislatore ha inteso impedire che l’orientamento del giudice amministrativo possa essere confermato e che le amministrazioni locali si trovino pertanto a dovere restituire le somme ricevute in esecuzione di accordi con i gestori di impianti energetici da fonti rinnovabili costituenti mere compensazioni pecuniarie, come nel caso di specie laddove la sentenza di primo grado fosse confermata. Ulteriore effetto derivante dalla norma è quello per cui la sanatoria degli accordi, attraverso la conservazione della loro efficacia, si estenderebbe anche alle somme ancora da versare da parte dei gestori degli impianti. Ciò si ricava dalla sua formulazione, secondo cui «i versamenti restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia». Dalla piena efficacia degli accordi così prevista deriva quindi l’irripetibilità dei versamenti di somme in esecuzione di essi, coerentemente peraltro con il principio di carattere generale per cui ogni spostamento patrimoniale deve essere assistito da una legittima causa giuridica (art. 2041 cod. civ.);
Energia elettrica
Autorità amministrative indipendenti - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente – Dipendenti a tempo determinato – Immissione in ruolo a seguito di concorso – Anzianità maturata come dipendente a tempo determinato – Computo - Rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.             Sono rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali: a) se la clausola 4 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio in data 28 giugno 1999, debba essere intesa nel senso di imporre che i periodi di servizio svolti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente in funzioni coincidenti con quelle di un dipendente di ruolo inquadrato nella corrispondente categoria della stessa Autorità, siano presi in considerazione per determinarne l'anzianità, anche nel caso in cui la sua successiva immissione in ruolo avvenga a seguito di pubblico concorso, pur in presenza delle peculiarità della procedura concorsuale che determina, per quanto si è detto, una integrale novazione del rapporto e la nascita, con soluzione di continuità accettata dal partecipante alla procedura concorsuale, di un nuovo rapporto connotato dall’esistenza di un atto autoritativo di inquadramento e da speciali obblighi e peculiare rafforzata stabilità; b) in caso di risposta affermativa al quesito di cui alla precedente lettera a): se la pregressa anzianità debba essere integralmente riconosciuta o sussista un motivo oggettivo per differenziare i criteri di riconoscimento rispetto al riconoscimento integrale in ragione delle anzidette ricordate peculiarità; c) in caso di risposta negativa al quesito di cui alla precedente lettera b): in base a quali criteri debba essere computata l’anzianità riconoscibile per non essere discriminatoria (1).   (1) ha chiarito la Sezione che l’assunzione del personale delle Amministrazioni indipendenti avviene nel pubblico impiego per concorso ed ha una copertura costituzionale che determina una rilevante differenziazione fra i rapporti di lavoro pubblicistici, soggetti a regime disciplinare e garantistico particolare (che può arrivare, in certe carriere, a prevedere incisive limitazioni alle libertà del lavoratore e l’imposizione di speciali obblighi a fronte di maggiori garanzie di stabilità del rapporto nella specie rileva quanto disposto ad es. dall’art. 2, comma 10, l. n. 481 del 1995 che sancisce che “I componenti e i funzionari delle Autorità, nell'esercizio delle funzioni, sono pubblici ufficiali e sono tenuti al segreto d'ufficio.”). In particolare l’art. 97 Cost. prevede che: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede” mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. L’art. 7 del regolamento del personale dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) (nella versione modificata da ultimo con delibera 19/12/2013, n. 589/2013/A) stabilisce, poi, al comma 1, che: “L'assunzione del personale di ruolo previsto dalla Pianta organica del personale di ruolo dell’Autorità avviene per pubblico concorso …” e, al comma 3, che: “L'Autorità determina di volta in volta i posti da mettere a concorso, secondo le sue specifiche esigenze, e delibera i bandi …”. Ne consegue che, secondo le dette norme, l’assunzione in ruolo non può avvenire che in relazione al posto, alla qualifica e al livello retributivo messo a concorso, mentre nessuna disposizione interna prevede l’automatico riconoscimento, all’atto dell’immissione in ruolo, della anzianità maturata nello svolgimento del precedente rapporto precario. Ha aggiunto la Sezione che l’odierna fattispecie non risulta perfettamente sovrapponibile a quelle già decise dal giudice euro unitario con le citate ordinanze 7/3/2013, in C-393/11 e 4/9/2014 in C-152/14 e con la sentenza 18/10/2012, in C-302/11, atteso che i detti precedenti si riferiscono a ipotesi in cui l’immissione in ruolo era avvenuta attraverso procedure di stabilizzazione, ovvero per effetto di un meccanismo che considera unico il rapporto di lavoro consentendone la trasformazione da precario a stabile, con conseguente rilevanza del periodo di servizio a tempo determinato quale presupposto della procedura assunzionale straordinaria, mentre il caso che occupa si caratterizza per una cesura tra precedente rapporto precario e nuovo rapporto che si instaura a seguito del concorso. Occorre, pertanto, sottoporre alla Corte di Giustizia UE la relativa questione interpretativa concernente la portata della menzionata clausola 4.  
Autorità amministrative indipendenti
Beni culturali – Vincolo – Ville vesuviane.         Le ville vesuviane incluse nell’elenco approvato con d.m. 19 ottobre 1976 costituiscono beni culturali ex lege, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che la l. n. 578/1971, per identità di finalità e funzioni, si pone come normativa speciale rispetto a quella generale, in tema di tutela dei beni culturali, dettata dalla L. n. 1089/1939 e successivamente dai D. Lgs. nn. 490/1999 e 42/2004.  La previsione degli interventi e sussidi pubblici e dei particolari obblighi di fare espressamente contemplati dalla L. n. 578/1971 (artt. 14 e segg.), logicamente presuppone l'insistenza di quelli di non fare di cui alla legge generale e delle specifiche tutele da questa accordate ai beni culturali (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 6/5/2013, n. 2420). Nell'impostazione della menzionata legge speciale, la natura culturale del bene deriva, dunque, direttamente dalle sue qualità intrinseche accertate dall’apposta commissione chiamata, all’uopo, a formulare un apposto elenco delle ville da tutelare da sottoporre all’approvazione del Ministero ai sensi del menzionato art. 13, comma 3.  Dalle esposte considerazioni discende, pertanto, che le ville vesuviane incluse nel suddetto elenco, nella specie approvato con D.M. 19/10/1976 e pubblicato nella G.U. del 7/1/1977, costituiscono beni culturali ex lege, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse.    La Sezione ha poi chiarito che se è vero che lo stato di abbandono e degrado in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a vincolo culturale e non comporta, per ciò solo, il venir meno della relativa tutela (Cons. Stato, Sez VI, 14/10/2015, n. 4747; 16/7/2015, n. 3560; 8/4/2015, n. 1779; 27/11/2012, n. 5989; 11/6/2012, n. 3401), LINK ma ciò non vale nell’ipotesi in cui il medesimo, a causa delle modifiche apportate, abbia oggettivamente perso quelle caratteristiche intrinseche che avrebbero consentito di attribuirgli valenza culturale giustificandone la protezione e, soprattutto, come nella specie, ove non vi sia certezza riguardo il tempo dell’avvenuta trasformazione (che potrebbe essersi verificata anteriormente all’imposizione del vincolo) e l’estensione del vincolo (che pur potendosi logicamente estendere al giardino non è determinato precisamente nella sua estensione e potrebbe – ipoteticamente - esser fatto oggetto di eventuali approfondimenti collegati ad un piano di recupero che esula però dall’oggetto del contenzioso e si proietta in una futura azione amministrativa che non può in alcun modo rilevare nel processo). 
Beni culturali
 Professioni e mestieri - Notaio – Concorso – Requisito di ammissione – Limite di età – Rimessione alla Corte di Giustizia UE         E’ rimessa alla Corte di Giustizia Ue la questione se l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 10 TFUE e l’art. 6 della Direttiva del Consiglio 20007/8/CE del 27 novembre 2000, nella parte in cui vietano discriminazioni in base all’età nell’accesso all’occupazione, ostino a che uno Stato membro possa imporre un limite di età all’accesso alla professione di notaio (1). (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 1, comma 3, lett. b), l. n. 1365 del 1926, come sostituito dall’art. 13, d.lgs. n. 166 del 2006, prevede che per l’ammissione al concorso notarile gli aspiranti non devono avere compiuto gli anni cinquanta alla data del bando di concorso. Non è possibile, ad avviso della Sezione, la disapplicazione della norma interna, in quanto le ragioni dell’eventuale contrasto con il diritto dell’Unione non sono immediate, né sufficientemente chiare, precise ed incondizionate. In primo luogo, la direttiva 2005/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 settembre 2005, sul riconoscimento delle qualifiche professionali, stabilisce all’art. 2 che essa si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che vogliano esercitare, come lavoratori subordinati o autonomi, compresi i liberi professionisti, una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali (comma 1), mentre non si applica ai notai nominati con atto ufficiale della pubblica amministrazione (comma 4). Pertanto, occorre innanzitutto accertare se la disciplina sull’accesso all’esercizio della funzione notarile in uno Stato membro debba essere necessariamente oggetto di armonizzazione tra il diritto nazionale di quello Stato ed il diritto europeo. Inoltre, il richiamato art. 6 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, rubricato “giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età”, stabilisce che gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Tuttavia, la Sezione è dell’avviso che sussistono dubbi sulla compatibilità dell’art. 1, comma 3, lett. b), l. n. 1365 del 1926, come sostituito dall’art. 13, d.lgs. n. 166 del 2006, con il diritto dell’Unione europea rilevante in tema di disparità di trattamento collegate all’età. Infatti, si potrebbe ritenere che la disposizione del diritto interno, nell’ammettere al concorso per il conferimento dei posti notarili i soli aspiranti che non hanno compiuto cinquanta anni alla data del bando di concorso, non si basi su alcuna oggettiva e ragionevole giustificazione ispirata da una finalità legittima. In altri termini, si potrebbe ritenere che la norma di legge dello Stato italiano ponga una discriminazione relativa all’età per il possibile conseguimento delle funzioni notarili, in assenza di una finalità legittima, comportando una disparità non consentita della direttiva CE in materia.
Professioni e mestieri
Urbanistica – Piani insediamenti produttivi – Costi per ablazione di aree – Principio del pareggio di bilancio  - Applicabilità.                      Ai costi sostenuti dall’Amministrazione per l’ablazione e l’infrastrutturazione delle aree da devolvere in favore di soggetti privati, anche a fini di insediamenti produttivi, si applica senza eccezioni il principio ordinamentale di ‘neutralità finanziaria’, cioè di copertura, previsto dall’art. 35, l. n. 865 del 1971, con la conseguenza che dall’operazione non devono derivare sul bilancio dell’ente locale costi o oneri non ripianati; tali costi che rientrano nell’ambito applicativo del principio del pareggio di bilancio (con conseguente loro reversibilità sui privati assegnatari) sono tutti quelli che l’ente ha sostenuto per acquisire – nell’interesse dei concessionari o degli assegnatari - dapprima il possesso e poi il diritto di proprietà, non solo quando sia emanato un formale decreto d’esproprio, ma anche quando l’occupazione sia risultata senza titolo e il diritto di proprietà sia poi acquistato con un ‘atto di acquisizione’, emesso ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, o con una transazione, fermo restando, in tali due casi, che ricade sull’Amministrazioni – e non può essere oggetto del rimborso - quanto pagato all’originario proprietario per l’aumento del dieci per cento per danno non patrimoniale, ai sensi del comma 1 del medesimo art. 42 bis (1).      (1) Ha ricordato la Sezione che il piano per gli insediamenti produttivi (cd. P.I.P.) è uno strumento tipico della pianificazione e della programmazione urbanistica, caratterizzato però dal fatto di essere orientato al perseguimento di esigenze ulteriori rispetto a quelle del mero governo del territorio.  Il P.I.P. assomma e assolve a due funzioni fondamentali, previste dalle leggi statali, che sono: per un verso quella del governo del territorio, secondo la classica impostazione degli usi, delle classificazioni e delle destinazioni da imprimere alle aree che compongono un determinato territorio, per l’ordinato sviluppo dell’antropizzazione; per un altro verso, invece, quella della politica economica, ossia quella di essere uno strumento per incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo politico, previa espropriazione e urbanizzazione, le aree occorrenti per l’impianto o l’espansione delle produzioni commerciali o industriali, garantendo l’armonico sviluppo del territorio all’interno della più ampia cornice della sostenibilità delle produzioni nell’ambiente naturale nel quale l’uomo vive.  Da ciò, derivano due fondamentali corollari.  Il primo corollario è che gli oneri sostenuti dal Comune per l’acquisizione delle aree necessarie per attuare il P.I.P. non hanno natura di mero corrispettivo di diritto privato, bensì natura pubblicistica, perché l’Amministrazione: a) persegue la superiore funzione, che è di interesse generale, di insediare produzioni che creano o innalzano i livelli occupazionali e di benessere di un determinato territorio; b) espropria i beni di terzi soggetti per beneficiare altri privati, e cioè gli assegnatari dei lotti, i quali eserciteranno la propria libertà di iniziativa economica; c) conforma i beni così destinati all’espropriazione, in modo da renderli per destinazione urbanistica, per dimensioni e per caratteristiche strutturali, ivi compresa l’urbanizzazione, idonei e funzionali allo scopo produttivo; d) non dispone dell’entrata, poiché il capitolo previsionale contenente l’entrata non ha natura di diritto disponibile o rinunciabile; ha invece natura imperativa e si inserisce o si sostituisce a clausole invalide, in caso di carenza nei contratti di cessione; la correlativa obbligazione, a carico del primo assegnatario, configura anche un’obbligazione propter rem, perché grava anche sui successivi acquirenti; e) può discrezionalmente introdurre limitazioni al trasferimento di immobili.  Sotto tale ultimo profilo, va rilevato che, prima della riforma dell’art. 35, l.  22 ottobre 1971, n. 865, disposta dall'art. 23, l. n. 179 del 1992, vigeva un vero e proprio obbligo legale di pagamento, a favore dell’ente pubblico assegnante, della somma corrispondente alla differenza tra il valore di mercato dell'area al momento dell'alienazione e il prezzo di acquisizione a suo tempo corrisposto, rivalutato sulla base delle variazioni dell'indice dei prezzi all'ingrosso calcolato dall'Istituto centrale di statistica, allo scopo di evitare indebite speculazioni.  In sede giurisprudenziale (Cass., Sez. Un., 16 settembre 2015, n. 18135), si sono chiarite la natura e la portata applicativa di tali limitazioni al trasferimento dopo l’entrata in vigore della novella in questione, confermando che sussiste la piena discrezionalità dell’Amministrazione pubblica di inserire ancora oggi, nel testo delle convenzioni, i limiti in questione.  Il secondo corollario è che lo spostamento di ricchezza da un privato ad un altro privato ha una causa normativa tipizzata, che è quella di funzionalizzare in senso economico e sociale il sacrificio imposto ad un soggetto determinato per il benessere dell’intera collettività stanziata sul territorio, consentendo all’imprenditore, che assume su di sé il rischio imprenditoriale, di organizzare il capitale e i mezzi della produzione (Cons. Stato, sez. IV, n. 5501 del 2004; id. n. 550 del 2004). L’ordinamento realizza un razionale e soddisfacente punto di equilibrio tra la tutela del diritto della proprietà privata e il sostegno alle produzioni economiche che creano posti di lavoro, redditi e ricchezza, non allo scopo di discriminare il proprietario terriero rispetto all’imprenditore, né di impoverire i bilanci degli enti locali, bensì all’unica finalità di conformare in senso sociale e redistributivo le ricchezze, consentendo il fruttuoso utilizzo di fondi altrimenti inutilizzati o utilizzati per scopi non produttivi o, comunque, per scopi non idonei ad assicurare l’incremento di ricchezza del territorio in generale. Questo determina la nascita, in capo al privato beneficiato da questo grave sacrificio individuale, di una posizione giuridica fonte di responsabilità sociale, rispetto agli oneri e ai costi giuridici, economici e organizzativi sostenuti dall’Amministrazione pubblica per consentire la realizzazione del programma, ad un tempo urbanistico e di politica economica.  Tale responsabilità è condensata nei principi cardine sui quali si regge l’ordinamento di settore (segnatamente, si tratta degli artt. 27, ultimo comma e art. 35, comma 12,   l. n. 865 del 1971; inoltre, dell’art. 3, comma 64, l. n. 662 del 1996, come sostituito dall’art. 11, l. n. 273 del 2002), come interpretati dalla giurisprudenza civile e amministrativa secondo indirizzi consolidati.  Tra questi principi, fondamentale importanza riveste quello del cd. pareggio di bilancio o della sostenibilità finanziaria, perché esso ha ricadute sulla tenuta economica e finanziaria: sia del settore economico nel quale rileva il P.I.P.; sia degli altri settori economico-sociali nei quali il governo del territorio ha la primaria finalità di aumentare i livelli di benessere della collettività (si tratta dei P.E.E.P., ossia dei piani per l’edilizia economica e popolare, o ‘piani di zona’, i quali anch’essi si reggono sul meccanismo dell’esproprio dei terzi in vista dell’assegnazione dei lotti affinché gli assegnatari vi realizzino immobili da adibire a residenze per i non abbienti: si veda, in particolare, la l. 18 aprile 1962, n. 167, recante "disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare", e le successive modificazioni); sia dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, poiché la contabilità degli enti locali, insieme a quella statale in senso stretto, fa parte della più ampia contabilità pubblica, in quanto tale disciplinata dall’art. 81 Cost..  Sussiste dunque il principio ordinamentale di copertura dei costi sostenuti dall’Amministrazione per l’ablazione e l’infrastrutturazione delle aree da devolvere in favore di soggetti privati, nella specie a fini di insediamenti produttivi.  Tale principio è rinominabile anche come della ‘neutralità finanziaria’, perché dall’operazione non devono derivare sul bilancio dell’ente locale costi o oneri non ripianati (cfr. nella diversa ma assimilabile fattispecie degli alloggi popolari, Cass. civ. ord., sez. I, 10 luglio 2020, n. 14782: l'obbligo del cessionario di rimborsare al Comune tutti i costi di acquisizione delle aree Peep, posto dall'art. 35, ottavo e dodicesimo comma, della legge n. 865 del 1971, deve ritenersi esteso a tutte le spese della procedura, ivi comprese le spese legali sostenute dall'ente nel giudizio promosso ai sensi dell'art. 54 del testo unico sugli espropri, mirando la normativa in oggetto ad attuare senza eccezioni il principio dell’integrale pareggio economico tra il corrispettivo di concessione ed i costi dell'acquisizione delle aree).  Occorre però verificare, nel concreto, quando i costi e gli oneri in parola rientrano nell’ambito applicativo del principio del pareggio di bilancio (dal che deriva la loro conseguente reversibilità sui privati assegnatari) e quando, al contrario, vi esulano.  La giurisprudenza civile e quella amministrativa hanno fornito un criterio guida di ordine generale, idoneo a consentire un’esegesi chiara, certa e univoca della previsione in questione.  Il criterio si basa sulla distinzione tra i costi che l’ente ha sostenuto quali conseguenze direttamente ed esclusivamente riferibili ad una propria condotta illecita ed a procedimenti illegittimi che hanno dato luogo a risarcimenti del danno (tali costi non sono riversabili sui privati e sono definitivamente sostenuti dall’ente pubblico) e quelli che l’ente ha sostenuto per portare a compimento le procedure espropriative o per acquisire il diritto di proprietà, poi attribuito ai concessionari o agli assegnatari (tali costi sono, al contrario, integralmente riversabili sul privato).  La Sezione evidenzia che, una volta attivato il procedimento volto alla assegnazione delle aree inserite nel P.I.P. (esattamente come una volta sia stato attivato il procedimento volto all’assegnazione delle aree inserite nel P.E.E.P.), i beneficiari – ovvero coloro che intendano esserne beneficiari – abbiano l’onere di vigilare sul corretto andamento della procedura espropriativa.  Essi hanno specifici rimedi, previsti dall’ordinamento giuridico, e possono sollecitare il Comune alla tempestiva emanazione del decreto di esproprio, perché titolari dell’interesse diretto, concreto, personale e immediato a disporre di un titolo giuridico a giustificazione della materiale disponibilità del bene. Gli assegnatari, in altri termini, così come si giovano dell’immissione nel possesso del bene in via d’urgenza, al contempo hanno l’onere di avere la cura che sia concluso – legittimamente - il procedimento espropriativo.  Inoltre, qualora non sia stato emanato il decreto d’esproprio, essi hanno un interesse diretto, concreto, personale e immediato all’esercizio del potere previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri.  Infatti, quando l’Amministrazione abbia attivato il procedimento espropriativo e l’atto conclusivo del procedimento non sia stato emesso o sia stato annullato in sede giurisdizionale, coloro che sono stati immessi nel frattempo nel possesso dell’area – in applicazione della legge n. 865 del 1971 o della legge n. 167 del 1962 – sono anch’essi legittimati a chiedere (dapprima in sede amministrativa e poi in sede giurisdizionale) che l’Autorità competente eserciti il potere di acquisizione, previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri: tale potere va esercitato d’ufficio, come chiarito dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, ma può anche essere sollecitato sia dal proprietario, sia dal possessore, affinché vi sia l’adeguamento dello stato di fatto a quello di diritto e, se del caso, affinché il possessore diventi proprietario.  Per converso, da ciò deriva che, nel lasso di tempo che intercorre dal primo giorno utile successivo alla scadenza del termine per l’emanazione del legittimo decreto di esproprio e fino al momento in cui lo stato di fatto è adeguato alla situazione di diritto (tramite l’emanazione del provvedimento ex 42 bis o la stipulazione della cessione volontaria o la transazione della lite), anche gli assegnatari rispondono delle conseguenze negative e dei maggiori costi sostenuti per l’acquisizione delle aree.  Del resto, l’ente comunale sostiene tali costi in nome proprio (il diritto di proprietà è trasferito dal patrimonio del privato a quello comunale), ma nel precipuo interesse del privato assegnatario (il diritto di proprietà è successivamente ceduto dal Comune agli assegnatari, secondo l’ordine riportato nel decreto di assegnazione), allo scopo di impedire l’effetto restitutorio, altrimenti inevitabile in base ai giudicati di annullamento dei decreti di esproprio.  Se il Comune non definisse la procedura espropriativa (col decreto d’esproprio o con l’atto di acquisizione previsto dall’art. 42 bis), al proprietario spetterebbe la restituzione delle aree con l’applicazione del principio dell’accessione, con un grave vulnus per gli interessi pubblici coinvolti e con diretto pregiudizio proprio dell’assegnatario, che non conseguirebbe il titolo di proprietà e perderebbe il possesso delle opere da lui realizzate, anche con sacrificio delle risorse pubbliche.  I principi di buona fede e di correttezza nell’adempimento delle obbligazioni (anche quelle di cd. cooperazione nell’adempimento dell’altrui obbligazione) e degli oneri, il principio della compensatio lucri cum damni e il divieto dell’arricchimento senza causa ostano tutti a che il beneficiario di una prestazione pagata con denaro pubblico (l’assegnatario o il concessionario dell’area) si avvantaggi ingiustamente, esimendosi dal sostenere i correlativi oneri o pretendendo di addossarli interamente sull’Ente pubblico e sulla collettività in generale.  Sotto tale profilo, è insostenibile la tesi secondo cui – a seguito dell’annullamento del decreto d’esproprio o della sua mancata emanazione – l’assegnatario o il concessionario, di per sé tenuto a rimborsare quanto spettante al proprietario a titolo di indennità d’esproprio, non debba rivalere l’Amministrazione di quanto pagato allo stesso proprietario per munirsi del titolo di proprietà, sulla base di una transazione o dell’atto di acquisizione ex art. 42 bis. ​​​​​​​
Urbanistica
Informativa antimafia - Contributi e finanziamenti - Clausola di salvaguardia ex art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – Applicabilità – Contrasto di giurisprudenza - Rimessione alla Adunanza plenaria del Consiglio di stato ​​​​​​​         E’ rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la questione se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all'inciso finale contenuto sia nell'art. 92, comma 3, che nell'art. 94, comma 2, d.l.gs. n. 159 del 2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo  (1).   (1) La Sezione ha chiarito che un più restrittivo orientamento sostiene che la pretesa restituzione delle somme erogate è giustificata proprio dal carattere ontologicamente “provvisorio” del beneficio erogato e dal fatto che tale provvisorietà è destinata a protrarsi sino al momento della definitiva chiusura del programma agevolato (Tar Catania n. 2132 del 2017). Il provvedimento di revoca viene infatti adottato in attuazione dell’art. 92, comma 3, 6 settembre 2011, n. 159, stando al quale i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all'art. 67 sono corrisposti sotto “condizione risolutiva” di una eventuale informazione antimafia positiva intervenuta successivamente al pagamento. Poiché, quindi, i contributi risultano “concessi in via provvisoria”, l’atto cd. di “revoca” non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’Amministrazione, nell’esercizio di un potere discrezionale; ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della “condizione risolutiva” afferente al contributo ancora “precario”. Per l’effetto, risulta improprio ogni richiamo agli artt. 21 quinquies e 21 nonies, l. n. 241 del 1990 – che riguardano rispettivamente i provvedimenti di revoca (in senso proprio) e di annullamento adottabili giustappunto nell’esercizio di un potere di autotutela; e altresì inappropriato risulta ogni riferimento al principio dell’affidamento, che mai potrebbe sorgere a fronte dell’originario provvedimento di concessione “in via provvisoria” del contributo (Tar Catania, sez. IV, n. 2132 del 2017). Soltanto rispetto alla produzione in via definitiva degli effetti del provvedimento di concessione e, quindi, solo al compimento di tutte le procedure di contabilizzazione e di chiusura della procedura di finanziamento, potrebbe essere invocato un effetto di “stabilizzazione” del beneficio astrattamente opponibile al potere interdittivo. Dal fronte dell’opposto e più estensivo orientamento si obietta che, anche a voler condividere l'ottica della provvisorietà del beneficio economico, tale condizione iniziale dovrebbe pur sempre avere una durata definita nel tempo, affinché "ciò che nasce provvisorio diventi il prima possibile definitivo; pena, altrimenti, l'impossibilità di qualunque previsione e di qualunque calcolo da parte di cittadini ed imprese". Dunque, il sopraggiungere dell'informativa negativa non potrebbe sortire effetti preclusivi nei confronti di un rapporto di durata che si sia ormai in massima parte dispiegato, raggiungendo gli obiettivi prefissati dalla stessa amministrazione. Questa soluzione viene ritenuta particolarmente calzante al caso dei rapporti cd. “esauriti”, o che tali sarebbero dovuti essere da tempo e che non tali sono divenuti per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione. Sottesa all’impostazione in esame è la preoccupazione che i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa vengano premiati e persino incentivati, andando a ledere le garanzie fondamentali delle parti private. Preoccupazione ben esemplificata dalla pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia n. 3 del 2019, riferita ad un caso in cui la mancata stabilizzazione definitiva del rapporto di finanziamento era dipesa, appunto, dal colpevole ritardo con il quale erano state condotte le operazioni di rendicontazione finale delle spese e di chiusura del finanziamento pubblico. Una seconda prospettiva di analisi riguarda la compatibilità fra le diverse opzioni in campo e l'ordito sistematico delineato dall'Adunanza plenaria con la sentenza n. 3 del 2018. Come è noto, la sentenza in parola (riconducendo ad ulteriori conseguenze quanto già affermato con la decisione n. 19 del 2012) ha stabilito che il provvedimento di c.d. "interdittiva antimafia' determina, in capo al soggetto (persona fisica o giuridica) che ne è colpito, una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto stesso è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall'art. 67, d.lgs. 159 del 2011. ii) Sempre ai sensi della decisione da ultimo richiamata, l'art. 67 del "Codice delle leggi antimafia" - nella parte in cui prevede il divieto di ottenere "contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo.." - va inteso come implicante anche l'impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all'attività di impresa; e ciò anche nell’ipotesi in cui detto diritto si sia consolidato attraverso il passaggio in giudicato della sentenza di condanna al risarcimento. iii) Alla stregua delle richiamate affermazioni di principio, è lecito domandarsi se l'adesione al più estensivo dei richiamati orientamenti giurisprudenziali (che ammette la ritenzione delle somme percepite in forza di un programma di finanziamento interamente realizzato) risulti compatibile con la linea di estremo rigore che caratterizza oramai la giurisprudenza dell'Adunanza plenaria, la quale riconnette all'adozione dell'informativa interdittiva una sorta di incapacità giuridica parziale a carico del soggetto che ne è colpito. A questo proposito, il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, nella recente pronuncia n. 3 del 2019, pur non disattendendo in modo espresso le statuizioni rese dall'Adunanza plenaria, ne sterilizza l’effettiva incidenza, giustificando tale soluzione in ragione della peculiarità del caso di specie esaminato. Secondo i Giudici siciliani, in particolare, i princìpi di diritto di cui alla sentenza n. 3 del 2018 (che prendono le mosse dalla ritenuta incapacità giuridica parziale ad accipiendum in capo all'operatore attinto da un'informativa interdittiva) non potrebbero comunque valere "per i rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione". Se così non fosse il complessivo regime normativo in tema di comunicazioni e informazioni antimafia determinerebbe inammissibili profili di incertezza e insicurezza nei traffici giuridici; e detta incertezza si protrarrebbe di fatto sine die anche laddove - come nel caso scrutinato dalla sentenza n. 3 del 2019 - sia decorso un tempo rilevante e la stessa amministrazione abbia adottato nel tempo informative di carattere liberatorio nei confronti dell'operatore economico. Nonostante la comprensibile cautela mostrata dai Giudici siciliani nel non contrastare in modo espresso e frontale le statuizioni rese dall'Adunanza Plenaria con la sentenza n. 3 del 2018, appare tuttavia evidente che la ratio sottesa alla decisione del giudice siciliano si pone come di fatto alternativa a quella posta a fondamento della decisione n. 3 del 2018. Al netto della oggettiva diversità delle vicende di fatto esaminate, infatti, gli apparati argomentativi spesi nelle due pronunce rimandano a soluzioni concettuali tra di loro divaricate e non armonizzabili. Da un lato (Adunanza Plenaria), si assume che l'adozione di un'informativa interdittiva nei confronti di un operatore determina sempre e comunque in capo allo stesso uno stato di parziale incapacità giuridica, sì da determinare "la insuscettività .. ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinano (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247)" (v. Ad. Plen. 3 del 2008, punto 4.1 della motivazione). Da parte del giudice d’appello siciliano si osserva, di contro, che la forma di incapacità elaborata dall’Adunanza planaria conosce taluni limiti di ordine pubblico economico come, ad esempio, quelli conseguenti all'integrale realizzazione del programma beneficiato, al lungo tempo trascorso ovvero al rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio. Occorre tuttavia osservare che tali limiti di ordine pubblico non risultano adeguatamente tracciati e motivati nei loro presupposti, ma rimessi ad una valutazione “casistica” ed “equitativa” formulabile dal giudice in relazione alle singole fattispecie esaminate. Quanto al carattere “esaurito” del rapporto giuridico, esso, come si è visto, non è predicabile nel caso in cui le risorse siano state impiegate solo in parte ovvero il programma finanziato sia ancora in corso di conclusione. Peraltro, l’eventuale “esaurimento” del rapporto, anche laddove effettivamente sussistente, non dissolverebbe ogni dubbio interpretativo, se è vero che nel ragionamento svolto dall’Adunanza Plenaria l’effetto inabilitante dell’interdittiva è tale da travolgere retroattivamente qualunque utilità promanante dalla pubblica amministrazione, persino se riconosciuta al privato con sentenza passata in giudicato (di per sé insensibile ad ogni sopravvenienza, eccettuate quelle che non si siano verificate prima della sua notifica). Vi è quindi da chiedersi quale possa essere la forza di resistenza attribuibile ad evenienze di minor rilievo, quale quella dell’avvenuta erogazione del contributo o dell’avvenuto suo impiego al fine della realizzazione dell’opera finanziata, a fronte della rigorosa e generalizzata preclusione che deriva dall’interdittiva e, per di più, al cospetto di un dato normativo (l’art. 92, comma 3) che espressamente statuisce il carattere risolubile del finanziamento concesso nelle more del rilascio dell’informativa e l’incidenza retroattiva della revoca motivata da una informativa sopravvenuta. In definitiva, gli argomenti di contrasto all’ipotesi di uno ius retentionis esteso anche all’erogazione di contributi pubblici paiono superabili - a giudizio di questo Collegio - solo a condizione di ampliare la portata della clausola di salvezza delle “utilità conseguite” di cui all’art. 92, comma 3, poiché in questa specifica eventualità l’eccezione al generale effetto “inabilitante” del provvedimento antimafia potrebbe giustificarsi sulla base del dettato normativo e non richiederebbe, pertanto, alcun intervento di ortopedia correttiva dei principi affermati dall’Adunanza plenaria. Nondimeno, una siffatta lettura estensiva appare - oltre che revocabile in dubbio per le ragioni sopra esposte - difficilmente coniugabile con il principio secondo il quale le disposizioni che introducono una eccezione o deroga ad un principio generale devono soggiacere ad una regola di stretta interpretazione. Nell’ambito della normativa antimafia, l’effetto inabilitante conseguente alla interdittiva è regola generale nei rapporti con la pubblica amministrazione – o come tale si connota nella lettura che ne ha reso nel 2018 l’Adunanza plenaria; mentre la salvezza prevista dall’art. 92, comma 3, d.lgs. 159 del 2011 è una eccezione a tale effetto inabilitante oltre che alla regola generale della retroattività della revoca del rapporto in essere tra parte pubblica e parte privata. Ne viene che detta eccezione è apprezzabile nei ristretti e tassativi limiti delle ipotesi in essa espressamente contemplate.
Informativa antimafia
Militari, forze armate e di polizia – Rimozione – Per consumo occasionale di cocaina – Dubbi sulla attendibilità delle analisi di laboratorio – Illegittimità della sanzione.    Militari, forze armate e di polizia – Rimozione – Per consumo occasionale di cocaina – Dubbi sulla attendibilità delle analisi di laboratorio – Sanzione sproporzionata.         E’ illegittima la sanzione disciplinare espulsiva nei confronti di un carabiniere resosi protagonista di un episodio di consumo di cocaina ove gli accertamenti effettuati presentino seri dubbi di attendibilità nella fase di campionamento e trasporto dei campioni utilizzati, essendosi riscontrata l’assenza della catena di custodia, di un verbale di trasporto dei campioni prelevati oltre che dell’unità di misura utilizzata (1).       E’ sproporzionata la sanzione della perdita del grado inflitta - seppur nell’ambito dell’ampia discrezionalità in materia spettante all’Amministrazione in ordine all’apprezzamento della gravità dei fatti e nella graduazione della sanzione – per uso occasionale, da parte del militare, di sostanze stupefacenti  nel caso di incertezza fattuale in ordine all’entità della sostanza riscontrata, all’abitualità o meno del consumo e più in generale alla complessiva attendibilità delle analisi medico legali (2).        (1) Ha chiarito la Sezione che le criticità che hanno indotto ad annullare la sanzione espulsiva hanno determinato - sempre secondo la perizia tossicologica depositata da parte ricorrente - la violazione delle “Linee Guida per le strutture dotate di laboratori per gli accertamenti di sostanze d’abuso con finalità tossicologico-forensi e medico-legali su campioni biologici prelevati da vivente” del Gruppo Tossicologi Forensi Italiani”, n. 5 del 29 maggio 2017 e delle “Linee guida per la determinazione delle sostanze d’abuso nella matrice pilifera” redatte dal Centro Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità, le quali seppur prive di valore normativo assumono valore di best practice in materia a garanzia dell’attendibilità ai fini medico legali delle analisi.  Ciò si pone in contrasto, d’altronde, con le esigenze del “giusto processo” di cui all’art. 6 CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo quale norma costituzionale interposta ex art. 117, c. 1, Cost. (ex multis Corte cost. 13 dicembre 2017, n.263) ritenuto applicabile anche ai provvedimenti sanzionatori di natura afflittiva (sentenze 4 marzo 2014, ric. n. 18640/10 Grande Stevens e altri c. Italia; 29 ottobre 2013, ric. n. 17475/2009 Varvara c. Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia) con particolare riferimento - per quel che qui rileva - ai procedimenti preordinati all’applicazione di sanzioni con valenza disciplinare, attesane la natura punitiva (sent. 28 giugno 1978, ric. n. 6232/73 Konig c. Repubblica Federale Tedesca; 26 settembre 1995. ric. n. 18160/91 Diennet c. Francia) se lesivi di un diritto “civile” del ricorrente, quale la sospensione o la cessazione dell’attività professionale (Tar Bologna, sez. I, 13 ottobre 2020, n. 612). L’esigenza di un procedimento equo comporta il riconoscimento - tra l’altro - per quel che qui rileva della disponibilità di tutte le opportunità di difesa, vanificate dalla complessiva inattendibilità delle analisi effettuate dall’Amministrazione    (2) Ha ricordato la Sezione che sulla questione della sproporzione della sanzione si sono registrati due orientamenti giurisprudenziali.  Ad avviso di un primo orientamento il consumo anche episodico di droga da parte di un militare contrasta con le finalità del Corpo a cui il militare appartiene se tra i compiti a cui questo attende vi è proprio il contrasto al contrabbando e al traffico di stupefacenti, si da legittimare la sanzione espulsiva (Cons. Stato, sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2958; Tar Napoli, sez. VI, 6 settembre 2010, n. 17311). Secondo altra tesi, invece, l'apprezzamento della circostanza di un episodico consumo di sostanze stupefacenti contestata al dipendente in maniera isolata rispetto a tutte le altre circostanze, nell'esclusiva ottica della sua incidenza sugli obblighi assunti con il giuramento e al di fuori di ogni prospettiva di proporzionalità, rende l'impugnata sanzione espulsiva illegittima, in quanto non adeguatamente motivata, non basata su una completa e razionale considerazione del disvalore effettivamente evidenziato dall'illecito disciplinare contestato e conseguentemente sganciata da ogni giudizio di graduazione (Tar Lazio, sez. II, 13 febbraio 2012, n.1389; Cons. Stato, sez. IV, 15 gennaio 2009, n. 173).
Militari, forze armate e di polizia
Processo amministrativo – Covid-19 – Istanza congiunta di passaggio in decisione – Art. 84, comma 2, d.l. n. 18 del 2020 – Istanze separate di tutte le parti – Sufficienza.         L’art. 84, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, nella parte in cui consente il passaggio in decisione della controversia nel periodo dal 6 al 15 aprile 2020 se ne fanno “congiuntamente” richiesta tutte le parti costituite, deve essere inteso nel senso che tale istanza di trattazione, per essere valida, può essere depositata anche da ciascuna parte costituita e non necessariamente essere contenuta in un unico foglio sottoscritto dai difensori di tutte le parti costituite (1). (1) Ha chiarito il Tar che pur dovendosi fornire un’interpretazione tendenzialmente rigorosa e restrittiva delle dirompenti disposizioni processuali introdotte dall’art. 84, d.l. n. 18 del 2020 (le quali in tanto sono compatibili con i principi costituzionali di cui agli artt. 24, 111 e 113 Cost. in quanto emanate nel quadro delle misure ritenute dal legislatore necessarie a fronteggiare la nota emergenza sanitaria e in quanto aventi efficacia temporalmente limitata), tuttavia le stesse vanno pur sempre lette alla luce di altrettanto rilevanti principi generali applicabili a qualsiasi tipologia di processo. Nello specifico viene in rilievo il principio di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c., il quale, come è noto, impone al giudice di verificare se un atto processuale, a prescindere dal rispetto delle forme eventualmente imposte da specifiche norme, abbia o meno raggiunto il proprio scopo (tutti gli atti processuali hanno, tendenzialmente, lo scopo di esprimere chiaramente la volontà della parte e di renderla esplicita al giudice e alle controparti entro un determinato termine - che può essere ordinatorio o perentorio - onde consentire al giudice di adottare gli atti più opportuni per la prosecuzione del giudizio e alle altre parti di esplicare le proprie difese). Pertanto, seppure l’avverbio utilizzato dal legislatore nel secondo comma dell’art. 84, d.l. n. 18 del 2020 (“congiuntamente”) sembrerebbe implicare che l’istanza di trattazione, per essere valida, debba essere contenuta in un unico foglio sottoscritto dai difensori di tutte le parti costituite, nella specie il tenore letterale delle istanze depositate da ciascuna parte non lascia dubbi circa la concorde volontà di tutte le parti costituite di richiedere al Tribunale la decisione collegiale.
Processo amministrativo
Annullamento d’ufficio e revoca – Revoca - Associazione agraria – Adesione - art. 21-quinques, l. n.  241 del 1990  - Applicabilità.        L’adesione ad un negozio di ricostituzione di un’associazione agraria non è destinata ad esaurire i suoi effetti nel momento in cui avviene ma estende e proietta la sua efficacia nel tempo dando vita ad un‘organizzazione che per avere rilevanza pubblicistica (tanto da essere soggetta ad un’approvazione amministrativa) può essere sempre oggetto di una rimeditazione della scelta illo tempore effettuata; ne consegue l’applicabilità della revoca ex art. 21-quinques, l. 241 del 1990  (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che spetta al giudice amministrativo qualificare gli atti amministrativi oggetto di giudizio (Cons. Stato, sez. V, n. 6606 del 2021). Si tratta di un potere ufficioso, il cui esercizio non è vincolato né dell’intitolazione dell’atto, né tanto meno delle deduzioni delle parti in causa (Cons. Stato, sez. V, n. 3387 del 2018). L’esatta qualificazione di un provvedimento va infatti effettuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall’amministrazione (che nel caso di specie ha utilizzato la formula della revoca), con la conseguenza che l’apparenza derivante da una terminologia eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell’atto stesso, non è vincolante né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato (Cons. Stato, sez. IV, n. 4942 del 2012).  Nell’ambito dei provvedimenti “di secondo grado”, tipizzati dalla l. 7 agosto 1990, n. 241, la revoca si configura quale strumento preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc, di un atto avente efficacia durevole, in esito a sopravvenuti motivi di pubblico interesse, al mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento, alla nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (art. 21-quinquies). Provvedimento ad effetto durevole è un provvedimento i cui effetti si prolunghino nel tempo, sino ad una scadenza prefissata o fino a quando sopravvenga un fatto idoneo a farla cessare, autorizzazioni, concessioni, provvedimenti attributivi di qualità o status, piani urbanistici, decreti di occupazione di urgenza. Non sono provvedimenti durevoli un ordine di demolizione eseguito, una concessione ormai estinta, un’autorizzazione ad esportare beni che siano stati esportati. E’ apprezzabile anche la irreversibilità degli effetti prodotti dall’atto, ma i soli motivi tecnico giuridici non sono decisivi. ​​​​​​​Va peraltro tenuto conto che l’art. 21-quinquies al comma 1-bis introdotto ad opera della l. n. 40 del 2007 di conversione del d.l. n. 7 del 2007, tuttora vigente, prevede espressamente anche la revoca dei provvedimenti ad efficacia istantanea. Si deve ritenere che in tali casi (provvedimenti ad efficacia istantanea) si possa trattare sia di atti che abbiano già prodotto i loro effetti sia di atti che non abbiano esplicato la loro efficacia perché la legge non fa alcuna distinzione in proposito. Ha aggiunto la Sezione che, con riferimento alla vicenda controversa, l’adesione ad un negozio di ricostituzione di un’associazione agraria non è destinata ad esaurire i suoi effetti nel momento in cui avviene ma – per quel che qui rileva – estende e proietta la sua efficacia nel tempo dando vita ad un‘organizzazione che per avere rilevanza pubblicistica (tanto da essere soggetta ad un’approvazione amministrativa) può essere sempre oggetto di una rimeditazione della scelta illo tempore effettuata. Va altresì tenuto in debita considerazione lo scopo al quale mira la ricostituzione delle associazioni agrarie che è la restituzione dei terreni, come parte di una fattispecie unica a formazione progressiva. In ultimo va osservato che la revoca del riconoscimento di una persona giuridica (istituto che presenta tratti di analogia con la revoca in questione che riguarda l’approvazione di una ricostituzione di un’associazione agraria di carattere privatistico) è ammessa come figura generale dall’ordinamento e soggiace al controllo per i consueti canoni di legittimità (limiti alla revoca essendo previsti solo per i negozi fondazionali a tutela della volontà del fondatore art. 15 cod. civ.). 
Annullamento d’ufficio e revoca
  Concorso – Categorie riservatarie o protette – Soggetti che hanno diritto al collocamento obbligatorio – Assunzione - Obbligo.    Concorso – Categorie riservatarie o protette – Soggetti che hanno diritto al collocamento obbligatorio – Assunzione - Obbligo.            A fronte della richiesta di un candidato appartenente alle categorie di aventi diritto al collocamento obbligatorio, risultato idoneo ad un concorso pubblico, che rivendichi il proprio peculiare status soggettivo, l’Amministrazione è tenuta ad assumerlo, ove si verifichi la triplice condizione dell’essere la stessa deficitaria delle specifiche quote obbligatorie ex lege, calcolate con riferimento ai dipendenti a tempo indeterminato presenti in dotazione organica, della disponibilità di altri posti di analogo profilo (id est, della non unicità di quello messo a concorso), nonché della assenza di limiti all’assunzione nell’anno di riferimento (1).            La unicità del posto messo a concorso quale condizione ostativa all’utilizzo della graduatoria di concorso per l’assunzione di categorie di aventi diritto al collocamento obbligatorio deve essere desunta dalla dotazione organica complessivamente intesa, e non dalle scelte nominalistiche del bando di concorso (2).  (1) La complessità delle disposizioni normative in materia di collocamento obbligatorio presso le amministrazioni pubbliche consegue alla mancanza di una disciplina unitaria di settore, stante che quella applicabile si è formata in maniera stratificata su una norma di per sé eterogenea al contesto siccome inserita nella l. 12 marzo 1999, n. 68, recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili» (art. 18, comma 2, che introduce un’ulteriore quota di riserva per categorie di soggetti nominativamente indicate, tra le quali rientrano gli orfani e i coniugi superstiti delle vittime sul lavoro e del dovere). Il sistema del collocamento obbligatorio per tali categorie di soggetti, via via esteso dal legislatore quale forma di risarcimento morale ai familiari superstiti di altre situazioni connotate da sicura drammaticità, tali da determinare un obiettivo contesto di difficoltà relazionale e familiare (quali ad esempio gli orfani per crimini domestici, gli orfani di Rigopiano o i testimoni di giustizia), non è incompatibile con l’utilizzo del concorso pubblico, salvo l’Amministrazione abbia già soddisfatto o pianificato di soddisfare la quota obbligatoria con modalità diverse. Le regole sull’assunzione obbligatoria peraltro costituiscono principi generali riconducibili alla materia di cui all’art. 117, comma 2, lettere l) ed m), Cost., che devono pertanto trovare applicazione diretta da parte di tutte le pubbliche amministrazioni, a nulla rilevando la loro mancata inclusione nei bandi di concorso, utile soltanto allo scopo di pubblicizzare in via preventiva l’utilizzo della relativa procedura a fini di rispetto degli obblighi di collocamento.  La presenza di soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio, tuttavia, è una specificazione non essenziale a fini di validità della graduatoria, in quanto attiene non alla correttezza della stesura, ma al suo utilizzo per la copertura del posto messo a concorso o (anche) degli altri disponibili in dotazione organica. A fronte, cioè, della richiesta di un candidato, risultato idoneo, che rivendichi il proprio peculiare status soggettivo, l’Amministrazione è tenuta ad assumerlo, ove si verifichi la triplice condizione dell’essere la stessa deficitaria delle specifiche quote obbligatorie ex lege, calcolate con riferimento ai dipendenti a tempo indeterminato presenti in dotazione organica, della disponibilità di altri posti di analogo profilo (id est, della non unicità di quello messo a concorso), nonché della assenza di limiti all’assunzione nell’anno di riferimento.  Ha inoltre chiarito la Sezione che per l’utilizzo del concorso pubblico, anche senza la “riserva”, alle categorie di soggetti cui il legislatore ha riconosciuto il diritto al collocamento obbligatorio, risponde ad una lettura costituzionalmente orientata della normativa, che non può incontrare una preclusione assoluta nella circostanza che l’art. 18, comma 2, l. n. 68 del 1999 non rinvia specificamente alla previsione di cui all’art. 16, che concerne appunto le quote di riserva per i disabili. Ciò appare da ultimo confermato dall’art. 1, comma 361, l. 30 dicembre 2018, n. 145, così come modificato dall’art. 14 ter, comma 1,  d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, che seppure inapplicabile ratione temporis al caso in esame, nel consentire l’utilizzo di graduatorie pregresse anche per la copertura degli obblighi assunzionali di cui agli artt. 3 e 18, l. n. 68 del 1999, nonché di quelli rivenienti dall’art. 1, comma 2, l. n. 407 del 1998, fornisce interessanti spunti interpretativi in ordine alla possibilità di utilizzo allo stesso scopo di quelle in corso di validità. Il luogo di incontro nel quale far convergere, in posizione di bilanciato equilibrio, la libertà di autodeterminazione - più specificamente, di auto organizzazione - del datore di lavoro pubblico, con il diritto del candidato ad avvalersi dei benefici rivenienti dal proprio status è costituito dagli atti di programmazione che devono connotare anche le scelte di politica del personale delle singole amministrazioni, quale strumento di razionalizzazione e conseguente ottimizzazione delle risorse umane, in funzione dei loro specifici obiettivi. La mancanza di previsione negli stessi, come tipicamente può accadere con riferimento a categorie di soggetti le cui richieste si palesano estemporanee per la peculiarità del relativo status, ove il candidato lo palesi preventivamente l’Amministrazione inadempiente è obbligata all’assunzione.  (2) Ha chiarito la Sezione che la fungibilità dei ruoli a parità di inquadramento che connota necessariamente i profili professionali declinati dalla contrattazione di comparto, se non vieta scelte macro organizzative nel senso di una più precisa caratterizzazione, di certo non consente di far discendere dalle stesse diversificazioni di trattamento giuridico, già a partire dalla fase del reclutamento. Diversamente opinando, si verrebbero a creare profili professionali aggiuntivi rispetto a quelli individuati dal contratto, in quanto connotati di oggettiva specificità professionale comune a tutti i dipendenti del comparto (di vigilanza o tecnici, ad esempio) con intuibili potenziali impatti sulla doverosa fungibilità delle mansioni a parità di inquadramento, ai fini di qualsivoglia operazione di mobilità intersettoriale che si renda necessaria per ragioni di efficienza organizzativa. D’altro canto, il semplice utilizzo di distinzioni nominalistiche non previste dall’ordinamento di settore non può certo essere sufficiente a qualificare come “unica” la professionalità ricercata, così da sottrarla a regole pubblicistiche e come tali cogenti sul collocamento obbligatorio. 
Concorso
Processo amministrativo – Atto impugnabile – Imposte e tasse - Istruzioni per la compilazione del Modello Unico Persone Fisiche – Esclusione.   Imposte e tasse - Criptovalute – Trattamento fiscale – Presupposti.   Gli atti con i quali, nell’approvare le istruzioni per la compilazione del Modello Unico Persone Fisiche 2019, si indicano come da inserire nel quadro RW, tra i redditi finanziari di provenienza estera, anche le valute virtuali, non hanno natura costitutiva della corrispondente obbligazione tributaria, ma sono meramente ricognitivi di obblighi dichiarativi già esistenti, come definiti ai sensi degli artt. 1 e 4, d.l. n. 167 del 1990, convertito in l. n. 227 del 1990 (modificati dal d.lgs. n. 90 del 2017) e nei relativi limiti; come tali non sono lesivi (1).   Nel quadro ordinamentale italiano vigente, l'impiego di moneta virtuale è rilevante ai fini dell'art. 67 del TUIR, ai sensi del quale è soggetto a tassazione laddove (e nella misura in cui) generi materia imponibile.    Con la sentenza in commento, il TAR del Lazio si è pronunciato sui presupposti e limiti della assoggettabilità a trattamento fiscale dell'utilizzo di moneta elettronica (come, tra le più note, i "Bitcoin") o "rappresentazioni digitali di valori" così come di recente definita nella legislazione (d.lgs. n. 90 del 2017 e d.lgs. n. 125 del 2019).  Le parti ricorrenti - associazioni attive nella promozione culturale della diffusione e della valorizzazione della moneta elettronica la cui legittimazione è stata riconosciuta proprio in quanto portatrici di interessi statutari di natura culturale - lamentavano l'ingiustificata inclusione delle monete elettroniche nell'ambito dei redditi finanziari esteri da dichiararsi nel quadro RW del Modello Unico Persone Fisiche 2019, disposta con le Istruzioni diramate dal MEF, che impugnavano sostenendone l'illegittimità in parte qua in quanto nessuna norma primaria ne avrebbe contemplato l'assoggettamento a tassazione quali rendite finanziarie. Il TAR, nel respingere il ricorso, evidenzia che il trattamento fiscale dell'impiego della moneta elettronica non dipende dalla previsione delle istruzioni impugnate, ma inizialmente dalla normativa di settore alla quale esso è ricondotta dalla prassi interpretativa dell'Agenzia delle Entrate e, nel prosieguo, dalle modifiche legislative intervenute anche in corso di causa (come il richiamato d.lgs. n. 125 del 2019). Il TAR ha riconosciuto che, nel quadro ordinamentale italiano vigente, l'impiego di moneta virtuale è rilevante ai fini dell'art. 67 del TUIR, ai sensi del quale è soggetto a tassazione laddove (e nella misura in cui) generi materia imponibile. Il TAR non si è pronunciato su alcune delle questioni dedotte dalle parti ricorrenti che, in subordine, contestavano l'applicabilità dell'art. 67 TUIR alla fattispecie dell'utilizzo della moneta virtuale, in particolare con riferimento alla natura non territoriale di quest'ultima che impedirebbe di ravvisare un elemento di collegamento geografico con il titolare: secondo il TAR, una volta chiarita la natura non provvedimentale e costitutiva delle Istruzioni impugnate, tale aspetto rileva solo entro l'ambito dell'attuazione del rapporto di imposta e deve essere dedotto di fronte al giudice munito di giurisdizione tributaria. In un contesto di giurisprudenza ancora solo iniziale, il TAR si è avvalso dei contributi dell'elaborazione dottrinale, esaminando le diverse e principali teorie ricostruttive della natura giuridica delle monete virtuali, anche in maniera comparativa per cenni con le soluzioni elaborate da altri Ordinamenti. Si è quindi esaminata la più recente legislazione, rilevando come essa si collochi in linea di continuità con tali elaborazioni dogmatiche ai fini definitori della natura giuridica della moneta virtuale. La pronuncia lascia aperto il dibattito in ordine agli aspetti puntuali della disciplina tributaria dell'imposizione fiscale dell'utilizzo della moneta elettronica: una volta ricostruito il quadro giuridico generale entro il quale collocare la fattispecie ai fini di causa (laddove si controverteva in odine alla natura costitutiva o meno delle istruzioni per la compilazione del Modello Unico), il giudice amministrativo si è soffermato solamente - respingendola - sulla principale tesi delle parti ricorrenti, secondo le quali non si sarebbe rinvenuta una "norma di copertura" che abilitava l'Agenzia delle Entrate ad assoggettare a tassazione la moneta elettronica.   Una volta rilevata la infondatezza di tale tesi, è evidente che ogni questione inerente l'applicazione concreta della norma tributaria non può che dipendere dal concreto svolgersi del rapporto di imposta, prima, e dall'eventuale contenzioso successivo. 
Imposte e tasse
Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta dell’aggiudicataria – E’ accessibile. Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Contratti della Pubblica amministrazione – Limiti – Individuazione. Accesso ai documenti - Accesso generalizzato – Limiti - Test del pregiudizio concreto – Operatività – Condizioni.            Non tutta la materia dei contratti pubblici può essere sottratta alla “conoscenza diffusa” di cui al d.lgs. n. 33 del 2013 in quanto materia nella quale è più elevato il rischio corruzione (ricompresa tra le aree più a rischio di cui all’art. 1, comma 16, l. n. 190 del 2012); pertanto, allorquando la gara si è conclusa (e non si ravvisino ragioni di riservatezza in ragione del tipo di appalto o con riguardo ad alcune parti dell’offerta tecnica), l’offerta dell’aggiudicataria, benché proveniente dal privato, rappresenta la “scelta” in concreto operata dall’amministrazione e l’accesso generalizzato costituisce lo strumento da assicurare in generale ai cittadini per conoscere e apprezzare appieno la “bontà” della scelta effettuata inclusi naturalmente e a fortiori i partecipanti alla gara (allorquando non possono più vantare un interesse “qualificato”) nonchè i soggetti in senso lato interessati alla gara, che avranno le cognizioni e le competenze per effettuare un vero “controllo” esterno e generalizzato sulle scelte effettuate dall’amministrazione; l’offerta selezionata diventa, così, la “decisione amministrativa” controllabile da parte dei cittadini.            All’accesso civico generalizzato si applicano, in ragione del rinvio operato dall’art. 5 – bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, solo le puntuali limitazioni di cui all’art. 53, d.lgs. n. 50 del 2016 poste a tutela della gara stessa e dei partecipanti (c.d. limiti assoluti) (1).           Il test del pregiudizio concreto, da applicare per delimitare la conoscenza generalizzata di cui all’art. 5-bis comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, impone che il pregiudizio non deve essere solo affermato, ma anche dimostrato; inoltre, il test del pregiudizio concreto impone che il nesso di causalità che lega questo alla divulgazione deve superare la soglia del “meramente ipotetico” per emergere quale “probabile”, sebbene futuro; pertanto, l’Amministrazione, nel rigettare una richiesta di ostensione, deve dimostrare che la stessa pregiudicherebbe l’interesse da tutelare ovvero che ciò sarebbe “molto probabile” (2).     (1) Con riguardo all’interpretazione dell’art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, e cioè se attraverso questo richiamo il legislatore abbia voluto introdurre un limite assoluto a conoscere gli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, si sono registrati due diversi orientamenti culminati in due pronunce del Consiglio di Stato che si sono susseguite negli ultimi mesi. Da una parte si registra un orientamento di maggiore “apertura” verso la conoscenza dei detti atti che si rinviene nella sentenza della III sez., n. 3780 del 5 giugno 2019, la quale, muovendo proprio dall’interpretazione dell’art. 5-bis, comma 3, chiarisce che ”tale ultima prescrizione fa riferimento, nel limitare tale diritto, a “specifiche condizioni, modalità e limiti” non ad intere “materie”. Diversamente interpretando, significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione. Entrambe le discipline, contenute nel d.lgs. n. 50 del 2016 e nel d.lgs. n. 33 del 2013, mirano all’attuazione dello stesso, identico principio e non si vedrebbe per quale ragione, la disciplina dell’accesso civico dovrebbe essere esclusa dalla disciplina dei contratti pubblici. D’altro canto, il richiamo contenuto nel primo comma, del citato art. 53 Codice dei contratti, alla disciplina del c.d. accesso “ordinario” di cui agli artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 è spiegabile alla luce del fatto che il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 è anteriore al d.lgs. 25 maggio 2016, n. 67 modificativo del d.lgs. n. 33 del 2013…… dal medesimo principio – ricavabile dalla testuale interpretazione dell’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013 come novellato – discende la regola, ben chiara ad avviso del Collegio, per cui, ove non si ricada in una “materia” esplicitamente sottratta, possono esservi solo “casi” in cui il legislatore pone specifiche limitazioni, modalità o limiti. Non ritiene il Collegio che il richiamo, ritenuto decisivo dal primo giudice, all’art. 53 del “Codice dei contratti” nella parte in cui esso rinvia alla disciplina degli artt. 22 e seguenti della l. 241 del 1990, possa condurre alla generale esclusione dell’accesso civico della materia degli appalti pubblici….. Proprio con riferimento alle procedure di appalto, la possibilità di accesso civico, una volta che la gara sia conclusa e viene perciò meno la tutela della “par condicio” dei concorrenti, non risponde soltanto ai canoni generali di “controllo diffuso sul perseguimento dei compiti istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (art. 5, comma 2, cit. d.lgs. n. 33). Vi è infatti, a rafforzare in materia l’ammissibilità dell’accesso civico, una esigenza specifica e più volte riaffermata nell’ordinamento statale ed europeo, e cioè il perseguimento di procedure di appalto trasparenti anche come strumento di prevenzione e contrasto della corruzione….”. Un diverso orientamento si rinviene nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5503 del 2 agosto 2019, la quale - nel negare l’accesso generalizzato agli atti di gara - ha affermato che “La previsione dell’art. 5-bis, comma 3 si distingue da quella dei comma 1 e 2,….perché è disposizione volta a fissare, non i limiti relativi all’accesso generalizzato consentito a “chiunque”, bensì le eccezioni assolute, a fronte delle quali la trasparenza recede. Anche la tecnica redazionale del comma si distingue da quella dei comma precedenti, poiché se è vero che l’art. 5-bis, comma 3, non sottrae al bilanciamento materie direttamente individuate dalla norma medesima (a differenza degli interessi, pubblici e privati, che sono individuati dal primo e dal secondo comma), resta che utilizza l’espressione generica di casi , che fanno eccezione assoluta, in modo da rinviare, per la loro individuazione, ad altre disposizioni di legge, direttamente o indirettamente, richiamate dallo stesso comma 3 (sicché l’ampiezza dell’eccezione dipende dalla portata della normativa cui l’art. 5-bis, comma 3, rinvia). In particolare, sono sottratti al bilanciamento ed esclusi senz’altro dall’accesso generalizzato: i casi di segreto di Stato ed i casi di divieti di accesso o di divulgazione previsti dalla legge, i casi elencati nell’art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990 (che, al suo interno, ricomprende intere materie), i casi in cui “l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”…. la previsione in questione assume significato autonomo e decisivo se riferita alle discipline speciali vigenti in tema di accesso e, per quanto qui rileva, al primo inciso del primo comma dell’art. 53. Ne consegue che il richiamo testuale alla disciplina degli artt. 22 e ss., l.7 agosto 1990 n. 241 va inteso come rinvio alle condizioni, modalità e limiti fissati dalla normativa in tema di accesso documentale, che devono sussistere ed operare perché possa essere esercitato il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici”. Nella pronuncia da ultimo richiamata si fa poi riferimento alla circostanza che l’accesso generalizzato non sarebbe stato introdotto, nell’ambito del codice dei contratti pubblici, nemmeno in sede di correttivo di cui al d.lgs. n. 56 del 2017, come segno evidente della volontà del legislatore di non consentire l’accesso generalizzato in detta materia; inoltre, la sentenza considera che quelli della procedura di gara sono “atti formati e depositati nell’ambito di procedimenti assoggettati, per intero, ad una disciplina speciale ed a sé stante. Questa disciplina attua specifiche direttive europee di settore che, tra l’altro, si preoccupano già di assicurare la trasparenza e la pubblicità negli affidamenti pubblici, nel rispetto di altri principi di rilevanza euro unitaria, in primo luogo il principio di concorrenza, oltre che di economicità, efficacia ed imparzialità. …..”.   (2) La stessa Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiarito sul punto che l’Amministrazione deve valutare che il pregiudizio conseguente alla disclosure sia un evento altamente probabile e non solo possibile (cfr. Delibera Anac n. 1309 del 2016).
Accesso ai documenti
Concorso – Requisiti di partecipazione - Informatica - Mancata conoscenza - Conseguenza.     L’art. 37, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, anche prima della sua novella ad opera dell’art. 17, l. 7 agosto 2015, n. 124, che ne ha reso più esplicito il principio, ha autorizzato le pubbliche amministrazioni a qualificare nei propri concorsi la conoscenza dell’informatica (come pure quella della lingua straniera) indifferentemente come elemento di valutazione al pari delle altre materie di esame ovvero come requisito di partecipazione alla procedura concorsuale; ove l’amministrazione abbia optato per la seconda soluzione, la previsione di esclusione del candidato dalla procedura selettiva è di fatto implicita (essendone in pratica coessenziale) nella qualificazione della conoscenza dell’informatica quale requisito di ammissione alla procedura stessa, il cui accertamento non dà luogo a punteggio ma a giudizio di idoneità; ciò che equivale a dire che chi non è giudicato idoneo, per mancanza di tale conoscenza, per ciò solo deve essere escluso dalla procedura di selezione (1).
Concorso
Urbanistica - Pianificazione – Rapporto con la disciplina regionale - Individuazione.    Urbanistica - Pianificazione – Finalità economico-sociali - Individuazione.                Nel sistema delle fonti pluralistico che governa l’attuale ordinamento, con specifico riguardo al rapporto sussistente fra la funzione di pianificazione urbanistica ed edilizia, di cui è titolare il Comune, e le norme regionali, è improprio assumere a parametro di riscontro il principio di gerarchia, e ciò in quanto la risoluzione degli ipotetici contrasti fra le diverse fonti normative riposa in apicibus sul principio di competenza – costituente il portato giuridico del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost. (1)            La finalità complessiva della pianificazione urbanistica comunale, che è di disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli, persegue finalità economico-sociali variegate per un complessivo ed armonico sviluppo del tessuto urbano; in tale logica le esigenze di natura economica che portano a valorizzare l’insediamento di strutture ricettive di tipo extra alberghiere con le caratteristiche della civile abitazione, possono recedere a fronte di quelle di ripopolamento abitativo del centro storico, preservandone l’originaria morfologia culturale, caratterizzante la “città d’arte” (1).   (1) La Sezione affronta il problema del rapporto tra i diversi livelli di pianificazione territoriale, dall’ottica delle fonti che ne regolamentano l’esercizio, chiarendo come esso non è governato dal principio della gerarchia, ma da quello della competenza, che vede la necessaria valorizzazione della funzione di pianificazione facente capo al Comune nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 della Costituzione.  Ciò consente di dare rilevanza alle scelte restrittive rispetto ad una disciplina regionale di settore che, mossa da contrapposte esigenze di tutela delle categorie economiche di riferimento –nella specie, gli esercenti strutture ricettive- pretenderebbe di imporre un criterio di tipo quantitativo nella valutazione della destinazione d’uso compatibile. Al contrario, lo spopolamento degli abitanti il centro storico ben può costituire un’emergenza socio-economica e culturale a cui il  Comune pone rimedio con la propria pianificazione urbanistica. Alla non omologia di competenza, infatti, corrisponde l’asimmetria assiologica degli interessi sottostanti in grado finanche di capovolgere il principio di gerarchia delle fonti: l’incremento dell’offerta turistica, avuto di mira dalla normativa regionale, nel “conflitto dei valori”, è (se non recessivo certamente) subordinato all’interesse sotteso al (ri-)popolamento abitativo del centro storico, siccome preordinato a preservarne l’originaria morfologia culturale, ancor prima che socio-economica, caratterizzante la “città d’arte”. In definitiva, il paradigma quantitativo della prevalenza, lungi dal configurarsi come ostacolo al pieno dispiegarsi della normativa regionale, rende compatibile l’attività di “case e appartamenti per vacanze” con la tutela abitativa del centro storico: riproduce in nuce la dialettica (hegeliana) dell’et-et anziché quella (kirkegaardiana) dell’aut-aut, più consona al criterio di competenza, disciplinante il rapporto fra le fonti normative di diversa estrazione istituzionale.  D’altro canto il Regolamento edilizio non costituisce tuttavia la fonte normativa idonea a stabilire la destinazione d’uso degli immobili, in quanto a ciò osta il dettato della legge regionale di riferimento, che ne individua i contenuti in maniera cogente, stante che il binomio “titolarità di funzioni amministrative – potestà di regolarne in via astratta l’esercizio”, ellitticamente condensato nel criterio di competenza, è pur sempre assoggettato al principio di legalità sostanziale. La sua adozione, inoltre, non prevede le necessarie garanzie partecipative, di regola previste in materia urbanistica, a tutela delle categorie economiche interessate dal provvedimento.
Urbanistica
Contratti della Pubblica amministrazione – Principio di equivalenza  – Fornitura con caratteristiche equipollenti a quelle indicate nel bando – Prova – E’ onere del concorrente alla gara.     È onere dell’operatore che intenda offrire una fornitura caratterizzata da specifiche tecniche differenti rispetto a quanto previsto dalla lex specialis di gara dimostrare l’equivalenza fra i prodotti  (1).    (1) Ha ricordato il Tar che l’art. 68, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede che la stazione appaltante non possa escludere un’offerta perché non conforme alle specifiche tecniche a cui ha fatto riferimento “se nella propria offerta l’offerente dimostra ... che le soluzioni proposte ottemperano in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”: è conseguentemente doverosa l’esclusione di concorrente qualora la sua offerta non sia conforme alle specifiche tecniche indicate negli atti di gara e nella stessa non venga dimostrata l’equivalenza fra quanto proposto e quanto specificatamente richiesto dalla stazione appaltante. Anche secondo la giurisprudenza l’operatore che intenda offrire una fornitura caratterizzata da specifiche tecniche differenti rispetto a quanto previsto dalla lex specialis di gara avvalendosi della clausola di equivalenza è gravato dell’onere di dimostrare l’equivalenza fra i prodotti, segnalando nella propria offerta la corrispondenza della propria proposta a quanto offerto dalla P.A., non potendo pretendere che di una tale verifica sia onerata la Commissione di gara (Cons. Stato, sez. III, 1 ottobre 2019, n. 6560; id. 5 settembre 2017, n. 4207; id. 13 maggio 2011, n. 2905; Tar Napoli, sez. II, 29 gennaio 2020, n. 413). ​​​​​​​In altre parole l’equivalenza tra i servizi o tra i prodotti oggetto dell’appalto - che trova applicazione indipendentemente da espressi richiami negli atti di gara - deve essere provata in sede di gara dall’operatore che intende avvalersi dell’equivalenza, non potendo essa essere verificata d’ufficio dalla stazione appaltante né tantomeno dimostrata in via postuma in sede giudiziale. ​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
Farmacia – Gestione – Società partecipata da società di capitale di professionisti sanitari – Incompatibilità Condizione.              La nozione di “esercizio della professione medica”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, l. n. 362 del 1991, deve ricevere un’interpretazione funzionale ad assicurare il fine di prevenire qualunque potenziale conflitto di interessi derivante dalla commistione tra questa attività e quella di dispensazione dei farmaci, in primo luogo a tutela della salute; in tal senso deve ritenersi applicabile la situazione di incompatibilità in questione anche ad una casa di cura, società di capitali e quindi persona giuridica, che abbia una partecipazione in una società, sempre di capitali, titolare di farmacia; una società concorre nella “gestione della farmacia”, per il tramite della società titolare cui partecipa come socio, qualora, per le caratteristiche quantitative e qualitative di detta partecipazione sociale, siano riscontrabili i presupposti di un controllo societario ai sensi dell’art. 2359 c.c., sul quale poter fondare la presunzione di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c. (1).    (1) La questione è stata rimessa dalla sez. III con sentenza non definitiva 27 dicembre 2021, n. 8634.   Ha chiarito la Sezione che la riforma del 2017 (l. 4 agosto 2017, n. 124) – quale ulteriore e importante dato da sottolineare – ha disciplinato anche il regime delle incompatibilità, novellando l’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. n. 362/1991 e prevedendo che «La partecipazione alle società di cui al comma 1 (si intendono le società titolari dell’esercizio di farmacie private) è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica. Alle società di cui al comma 1 si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni dell'articolo 8.»  In precedenza, una regola di incompatibilità (solo) parzialmente simile era dettata all’art. 8, comma 1, della medesima legge, prevedendosi che «1. La partecipazione alle società di cui all'articolo 7, salvo il caso di cui ai commi 9 e 10 di tale articolo, è incompatibile:   a) con qualsiasi altra attività esplicata nel settore della produzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco.»   La nuova e più ampia previsione, dunque include ora tra le incompatibilità anche l’esercizio della professione medica e la cui necessità è originata dalla possibilità, introdotta nel 2017, che i soci non siano più farmacisti, laddove in precedenza (anche dopo il 1991) potevano ritenersi sufficienti – quanto all’esercizio della professione medica - i tradizionali divieti posti dal r.d. n. 1256 del 1934 (in specie agli artt. 102 e 112) dettati per i farmacisti persone fisiche titolari ovvero esercenti (da soli o in società di persone) di farmacia. Sono perciò esistenti a ben vedere, in due distinte e separate regole di incompatibilità. La prima, declinata in termini all’apparenza assoluti, definisce la partecipazione (societaria) alle società titolari di farmacie private incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica; la seconda, declinata in termini in tesi meno assoluti, valorizzando l’inciso “per quanto compatibili”, fa rinvio alle disposizioni del successivo art. 8 che, per quanto più rileva in questa sede, definiscono quella medesima partecipazione (societaria) incompatibile, tra le altre cose, “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”.  La distinzione tra queste due regole di incompatibilità – si ribadisce, preesistenti alla riforma del 2017, in quanto parti integranti della disciplina di settore, e che la riforma del 2017 ha mutuato ed “aggiornato”, riferendole ora ad ogni ipotesi di gestione in forma societaria – può forse spiegare l’apparente distonia tra due pronunce della Corte costituzionale che hanno esaminato questo specifico argomento, che le parti del presente giudizio richiamano, naturalmente da prospettive e con finalità differenti, nei loro scritti e che ricevono menzione anche nelle sentenze di primo grado e di appello.  Per un verso, la sentenza, interpretativa di rigetto, n. 11 del 2020, della seconda regola ha dato una lettura evolutiva, in un caso nel quale l’incompatibilità era prospettata tra la partecipazione sociale tout court (ad una società di capitali titolare di farmacia privata) e la titolarità in capo al socio di una docenza universitaria, ed ha ritenuto rilevante una distinzione finendo per a seconda che la partecipazione sia in funzione del solo investimento del proprio risparmio (come nel caso all’origine del giudizio a quo) o comporti invece anche il concorso (attivo) nella gestione della società.  Per altro verso, la sentenza, interpretativa di accoglimento di tipo additivo, n. 275 del 2003 (della quale non è fatta menzione nella n. 11 del 2020), che si era pronunciata in un caso riguardante una farmacia (non privata ma) comunale affidata ad una società mista il cui socio di maggioranza era una società di capitali già operante nel settore della distribuzione del farmaco, ed ha dichiarato allora l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, l. n. 362 del 1991 – nella versione vigente ratione temporis, già prima ricordata - nella parte in cui non prevedeva che la partecipazione a società di gestione di farmacie comunali fosse incompatibile con qualsiasi altra attività nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco.  In questa seconda sentenza il ragionamento della Corte fece leva in particolare sul carattere “di divieto generale” dell’art. 102, r.d. 1265 del 1934, ribadito negli artt. 144, 170, 171 e 372, nonché nell’art. 13, l. 475 del 1968, nel loro insieme (tutti questi divieti e prescrizioni) riassunti e compendiati in quello disposto dall’ art. 8 della legge 362/1991 che, volto ad evitare eventuali conflitti di interesse che possano ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del servizio farmaceutico, irragionevolmente si riferiva testualmente alle sole farmacie private e non anche a quelle comunali (sul tema v., anche, Cons. St. sez. V, n. 7336 del 2010).    Ha aggiunto l’Alto Consesso che punto cruciale attiene al rapporto tra la clinica privata e i medici che in essa (e per essa) svolgono la loro attività. Per quanto indubbiamente peculiare, in ragione della autonomia e libertà di cura del medico anche alla luce delle regole deontologiche di tale professione, tale rapporto vede pur sempre rispondere la struttura a titolo contrattuale per il comportamento dei medici della cui collaborazione si avvale per l’adempimento della propria obbligazione, ancorché possano non essere suoi dipendenti, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costoro effettuata e l’organizzazione aziendale della casa di cura, il che giustifica l’applicazione della regola posta dall’art. 1228 c.c. (come ribadito da ultimo dall’art. 7 della l. n. 24 del 2017).  L’insieme di queste considerazioni debbono quindi condurre a ritenere che anche una persona giuridica, in particolare una clinica privata, possa considerarsi esercitare, nei confronti dei propri assistiti, la professione medica ai fini della previsione di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991.  Va precisato ancora come non si tratta di dare corso ad interpretazioni estensive o analogiche di cause o regole escludenti tassative, quanto, piuttosto, di privilegiare un’interpretazione funzionale e sistematica, coerente con la ratio ispiratrice della veduta regola di incompatibilità che mira ad evitare commistioni di interessi “tra medici che prescrivono medicine e farmacisti interessati alla vendita, in un'ottica di tutela del diritto alla salute di rango costituzionale” (così Cass. sez. III, n. 4657 del 2006, che richiama Cons. St., sez. IV, n. 6409 del 2004)   La ratio, quella originaria, riconosciuta anche da Corte cost. n. 275/2003 – è quella di “evitare eventuali conflitti di interesse, che possano ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del servizio farmaceutico e, quindi, sul diritto alla salute” e,- come si è visto, ha sempre caratterizzato la disciplina in materia, come una delle sue costanti o invarianti, attraversando le diverse “stagioni” della regolazione pubblica delle farmacie. Ciò è dimostrato anche dalle disposizioni penali che ancora puniscono il cd. reato di comparaggio, ossia l’accordo tra medici e farmacisti volti ad agevolare la diffusione di specialità medicinali o di altri prodotti ad uso farmaceutico (artt. 170 ss del r.d. 1265/1934), come anche dalle previsioni del codice deontologico medico.  Oltre a questa prima ragione, più tradizionale ma sempre attuale, si possono rinvenire ulteriori ragioni ispiratrici, che giustificano e rafforzano il permanere, nella nuova dimensione economico-finanziaria delle farmacie, del divieto di commistione tra attività farmaceutica ed esercizio della professione medica, legate, per un verso, alla tutela della concorrenza e, per altro verso, al contenimento del consumo farmaceutico e della spesa sanitaria.  Sul primo versante, il consentire ad una casa di cura, che offre prestazioni mediche composite e nel cui ambito si prescrivono medicinali, di partecipare ad una società che ha la titolarità di una farmacia e che come tale dispensa e rivende medicinali previa prescrizione medica, finirebbe per rendere possibile una integrazione verticale di beni ed attività con una potenziale confusione di ruoli tra domanda ed offerta, passibile di determinare privilegi ed abusi di posizione, oltre che conflitti di interesse.  Sul secondo versante, il rischio è che la commistione tra le due attività in capo al medesimo centro decisionale – eludendo oltre tutto il vincolo dell’oggetto sociale che si vorrebbe esclusivo - possa determinare un esubero nel consumo farmaceutico, con evidenti riflessi anche sulla spesa pubblica (v. su tale aspetto, anche Corte Giust., Grande sez., 19 maggio 2009, in causa 531/06 al punto 57).  8. Una volta rinvenuto nella fattispecie in esame l’elemento dell’esercizio della professione medica, ne consegue che sussiste l’incompatibilità di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, nel senso che la casa di cura non può avere partecipazioni in una società titolare dell’esercizio della farmacia. Non può avere – giova precisare – alcuna partecipazione, ovvero non può esserne socio in nessun modo, senza che occorra distinguere in ragione della natura e della incidenza della singola partecipazione, essendo la disposizione di legge sufficientemente chiara nel legare questa incompatibilità alla partecipazione in quanto tale, nella misura in cui ad essa si correla comunque la prospettiva di ricavarne degli utili.  Diversa può essere la conclusione, sulla scorta di Corte cost. n. 11 del 2020, al cospetto di incompatibilità differenti, segnatamente quella di essere il socio titolare di rapporti di lavoro pubblico o privato, rispetto a cui si può valorizzare la formula “per quanto compatibili” impiegata all’art. 7, comma 2, terzo periodo, senza della quale un’interpretazione rigorosamente letterale finirebbe per consentire la partecipazione solo (o quasi) a studenti, disoccupati o pensionati.  Nella soluzione del caso di specie, invece, non sarebbe a rigore necessario stabilire a quali condizioni la società controllante possa dirsi coinvolta, per il tramite della controllata, nella “gestione della farmacia”.  Tanto più che è evidente come il caso in esame coincida con il massimo del controllo societario ipotizzabile, avendo la casa di cura il controllo totalitario (ovvero il 100% del capitale) della società titolare della farmacia, essendo la prima unico socio della seconda. Si è quindi al cospetto di un fenomeno di riduzione della compagine sociale ad un solo soggetto “sovrano” che ne determina o comunque ne condiziona, attraverso l’organo amministrativo che egli (solo) nomina (e revoca), tutte le principali scelte. Un fenomeno così forte da rendere in questo caso non necessario il richiamo alla categoria dei gruppi di società e all’attività di direzione e coordinamento, concetti non del tutto coincidenti ma nella pratica (e anche nella previsione di legge, cfr. art. 2497 sexies c.c.) ricavabili a partire dalla nozione di controllo, interno od esterno, di cui all’art. 2359 c.c.  Il carattere totalitario del controllo ravvisabile nel caso di specie fa passare in secondo piano anche ulteriori elementi, comunque rilevanti, quali l’identità soggettiva tra il legale rappresentante dell’una e dell’altra società, e la presenza, tra i soci della casa di cura e anche all’interno del suo consiglio di amministrazione, di medici (almeno) teoricamente in grado di esercitare la professione.  Differentemente, in assenza di una società unipersonale e quindi di una partecipazione totalitaria, (ma sempre ragionando in relazione ad un diverso tipo di incompatibilità) dovrebbe assumere rilevanza una partecipazione che comunque permetta di concorrere nella gestione della farmacia, nel senso di influenzarne le scelte aziendali. Non rileverebbe quindi qualunque partecipazione sociale ma quella che possa dare al socio il controllo della società, nei modi gradatamente indicati dal citato art. 2359 e in presenza dei quali, come si è già osservato, opera la presunzione di direzione e coordinamento (ricavabile anche aliunde, in specie dall’essere la società tenuta al consolidamento del proprio bilancio). Soccorrono evidentemente le regole e gli istituti propri del diritto societario, nell’elaborazione offertane in primo luogo dalla giurisprudenza civile. Non è possibile offrire in questa sede soluzioni all’insegna dell’automatismo, apparendo imprescindibile la valutazione del singolo caso rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione cui non a caso va comunicato, a norma dell’art. 8, comma 2, della l. 362/1991, lo statuto della società titolare della farmacia e “ogni successiva variazione, ivi incluse quelle relative alla compagine sociale”.
Farmacia
Giurisdizione – Ordinamento giudiziario – Magistrato collocato a riposo per limiti di età - Permanenza al C..M. – Diniego – Impugnazione – Giurisdizione Ago.       È inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso proposto da un magistrato avverso la determinazione del Consiglio Superiore della Magistratura che ha escluso la sua permanenza quale componente del Consiglio dopo il suo collocamento per raggiunti limiti di età, avendo la situazione giuridica di cui si chiede la tutela consistenza, nonostante la veste provvedimentale assunta dalla delibera del C.S.M. impugnata, di diritto soggettivo  (1).   (1) Un magistrato ha impugnato dinanzi al Tar Lazio la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha escluso la permanenza quale componente del Consiglio dopo il suo collocamento per raggiunti limiti di età, in quanto non sarebbe più possesso di un (pre)requisito necessario per mantenere la carica.  Il Tar Lazio ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, avendo la situazione giuridica di cui si chiede la tutela consistenza, nonostante la veste provvedimentale assunta dalla delibera del C.S.M. impugnata, di diritto soggettivo.  Tale conclusione trova conferma in una pronuncia resa a seguito di regolamento preventivo di giurisdizione dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ord. 6 aprile 2012, n. 5574).  Nel decidere in relazione a una ipotesi di decadenza per incompatibilità di un componente del C.S.M., la Suprema Corte ha statuito che “sono devolute al giudice ordinario le controversie concernenti l'ineleggibilità, la decadenza e l'incompatibilità, in quanto volte alla tutela del diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato passivo; nè la giurisdizione del giudice ordinario incontra limitazioni o deroghe per il caso in cui la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perchè anche in tale ipotesi la decisione verte non sull'annullamento dell'atto amministrativo, bensì sul diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato attivo o passivo”. La Cassazione significativamente ha aggiunto che “Il principio si attaglia de plano ai componenti eletti (dal Parlamento o dai magistrati) del C.S.M. giacchè, ovviamente, anche la posizione soggettiva acquisita da questi ultimi per effetto della scelta compiuta dagli elettori si configura come diritto soggettivo perfetto (cfr., in relazione all'applicazione della l. n. 195 del ​​​​​​1958, la risalente Cass., sez. un., n. 2918 del 1972)”.   Dunque, trova conferma anche nelle statuizioni delle Sezioni Unite l’assunto che, una volta conclusa la fase elettorale, in favore degli eletti presso il C.S.M.  sorgono posizioni di diritto soggettivo, con la conseguente esistenza della giurisdizione del giudice ordinario anche in relazione a una vicenda che riguarda la pronuncia di cessazione dalla carica per collocamento a riposo del magistrato.  La Sezione – premesse le differenze tra la fattispecie sottoposta al proprio esame e la competizione elettorale amministrativa – ha ricordato che nella materia delle elezioni amministrative  l’ordinario riparto della giurisdizione sulla base del criterio del doppio binario (vale a dire, in rapporto alla consistenza della situazione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo della quale si chiede la tutela) trova applicazione nel senso della devoluzione al giudice ordinario delle controversie afferenti questioni di ineleggibilità, decadenza e incompatibilità dei candidati (concernenti diritti soggettivi di elettorato), mentre appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo le questioni afferenti alla regolarità delle operazioni elettorali, in quanto relative a posizioni di interesse legittimo. Ciò in quanto, esaurita la fase elettorale, all’amministrazione spetta il compito di verificare la sussistenza o meno di una causa di incompatibilità ovvero di decadenza correlata alla pregressa nomina, non risultando intaccata dall’esercizio di simili poteri di verifica la natura di diritto soggettivo della posizione sostanziale spettante all’interessato. La sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in simili ipotesi si ricava anche avuto riguardo al petitum sostanziale dedotto in giudizio, che attiene alla pretesa della parte ricorrente ad essere dichiarata eletta ovvero a mantenere la carica: una simile pretesa, si è osservato costantemente nella richiamata giurisprudenza, afferisce direttamente ad una situazione giuridica di diritto soggettivo e non di interesse legittimo (Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3826). Tale conclusione è, ad avviso della Sezione, estensibile al caso sottoposto al proprio esame, a nulla rilevando le differenze con le competizioni elettorali amministrative o politiche, e ciò in quanto, a prescindere dalle funzioni assegnate all’organo, la situazione giuridica del soggetto in possesso dei requisiti per mantenere la carica assunta a seguito delle elezioni è comunque di diritto soggettivo.   Nella specie, in applicazione del criterio di riparto generale della giurisdizione, il petitum sostanziale del giudizio attiene sempre alla tutela di un diritto soggettivo, poiché la verifica svolta dal CSM non è idonea a far “degradare” a interesse legittimo la posizione dell’interessato.   Né rileva, ai fini del riparto di giurisdizione, la circostanza che l’art. 135, comma 1, lett. a), c.p.a. attribuisca al Tar Lazio, sede di Roma, la competenza funzionale inderogabile sulle “controversie relative ai provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari adottati ai sensi dell’art. 17, comma 1, l. 24 marzo 1958, n. 195”, cioè (come recita la norma rinviata) quelle concernenti “Tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati”. L’art. 135 c.p.a., infatti, si limita a individuare talune materie riservate, in deroga alle ordinarie regole di competenza territoriale di cui all’art. 13 c.p.a., alla cognizione del Tar Lazio, sede di Roma, nel presupposto che la relativa controversia sia comunque sottoposta, in base agli ordinari criteri, alla giurisdizione di questo giudice.   Dunque, poiché la fattispecie all’esame della Sezione non riguarda una delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e la situazione giuridica di cui si chiede la tutela ha la consistenza, nonostante la veste provvedimentale assunta dalla delibera del C.S.M. impugnata, di diritto soggettivo, la relativa cognizione deve essere riconosciuta al giudice ordinario. 
Giurisdizione
Processo amministrativo – Eccezioni - Eccezione di parte – Riqualificazione in senso ampliativo da parte del Collegio – Avviso ex art. 73, comma 3, c.p.a. – Necessità.       Sussiste l’onere di dare avviso alle parti ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. laddove il Giudice proceda ad una riqualificazione in senso ampliativo di una eccezione di parte limitata ad un segmento della causa ed in virtù di ciò dichiari inammissibile il ricorso di primo grado (1).    (1) Ha ricordato il C.g.a. che anche il potere riqualificativo può non essere illimitato atteso che la qualificazione degli atti amministrativi impugnati costituisce un potere ufficioso che il giudice amministrativo può esercitare senza essere vincolato né dell'intitolazione dell'atto, né tanto meno delle deduzioni delle parti in causa, sempreché ciò non si traduca in una sentenza a sorpresa ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., ovvero fondata su questioni non oggetto del contraddittorio tra le parti medesime (Cons.Stato, sez. V, 5 giugno 2018, n. 3387). Anche le decisioni della Adunanza Plenaria nn. 10 ed 11 del 30 luglio 2018, quanto all’esegesi dell’art. 105 c.p.a., hanno rilevato che “l'erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione”: ciò però , soltanto laddove “la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale”.  Una volta che la ratio della prescrizione sia rinvenuta nella esigenza di evitare la “sorpresa processuale” in danno di una o di tutte le parti processuali, è evidente che la violazione sottesa alla prescrizione di cui all’art. 73, comma 3, c.p.a., cessa di essere valutabile soltanto sotto il profilo oggettivo, e nella esegesi della fattispecie vanno tenute presenti, anche, le condizioni soggettive delle parti processuali.  La valutazione, quindi, deve di necessità avere un respiro diacronico, essendo ben plausibile che scelte giudiziali idonee, in teoria, ad inverare la fattispecie possano non divenirlo in concreto (ad esempio perché, una parte processuale particolarmente diligente si sia data carico di esaminare un certo argomento, sebbene non emergente, fino a quel momento dal contraddittorio processuale, né sottopostogli motu proprio dal Giudice che lo ha poi fatto proprio) e che, al contrario, possa darsi il caso di una tematica, in teoria appartenente al contraddittorio processuale, ma che in concreto ne sia rimasta avulsa (si immagini l’ipotesi di una problematica in rito, in teoria facilmente individuabile, sulla quale tutte le parti processuali si siano pronunciate nel senso di escluderne il rilievo, e della quale in sentenza il Giudice abbia affermato la rilevanza).  In simile quadro, la retta interpretazione del disposto in esame, dovrebbe seguire canoni prudenziali, tenendo presente che il rispetto della regola di cui all’art. 73, comma 3, c.p.a. invera e contribuisce a rendere effettivo il diritto di difesa.   ​​​​​​​Trasponendo le considerazioni prima sommariamente rassegnate al caso in esame, ritiene il Collegio che la decisione appellata sia viziata, posto che:  a) l’eccezione di carenza di legittimazione non venne mai sollevata, sotto il profilo generale, dall’amministrazione odierna appellata; b) di più: come efficacemente dimostra l’Associazione odierna appellante, quest’ultima non poteva neppure aspettarsi che l’Amministrazione sollevasse siffatta problematica, in quanto l’Associazione era stata espressamente riconosciuta portatrice di interesse rilevante in fase infraprocedimentale; c) l’eccezione di carenza di legittimazione venne sollevata invece dall’amministrazione in riferimento ad un preciso segmento del processo di primo grado (incidente di esecuzione sull’ordinanza cautelare) e limitatamente ad un angolo prospettico specifico dei profili che venivano in quella sede in esame; d) l’avere ritenuto da parte del primo Giudice sussistente una inammissibilità preclusiva della proponibilità del ricorso di primo grado e dei motivi aggiunti di primo grado, esubera e travalica la portata dell’eccezione suddetta, sino a potersi considerare un vero e proprio rilievo ex officio: quest’ultimo, in quanto non preceduto dalla sottoposizione della detta tematica alle parti processuali invera la violazione del disposto di cui all’art. 73, comma 3, c.p.a..  
Processo amministrativo
Militari, forze armate e di polizia - Polizia di Stato – Dispensa dal servizio per inidoneità assoluta al servizio – Già collocato in aspettativa per malattia non dipendente da causa di servizio - Restituzione di eccedenze retributive – Legittimità.             E’ legittimo il provvedimento che dispone, a carico di un poliziotto dispensato dal servizio per inidoneità assoluta al servizio, la restituzione di eccedenze retributive e la rideterminazione del trattamento retributivo spettante durante il collocamento in aspettativa per malattia non dipendente da causa di servizio (1)     (1) Ha preliminarmente chiarito il parere che l’assenza dal servizio dell’odierno ricorrente nel periodo oggetto della controversia è stata determinata da un’infermità non dipendente da causa di servizio, e segnatamente il “persistente disturbo dell’adattamento con ansia”, e che l’interessato non ha fornito la prova che l’aspettativa sia stata a suo tempo in tutto o in parte determinata dall’unica infermità, tra le diverse che ha avuto, successivamente riconosciuta come dipendente da causa di servizio.   Quanto al decorso del termine decadenziale di 24 mesi per il recupero delle somme oggetto della controversia, l’art. 12, comma 3, d.P.R. n. 170 del 2007, nel prevedere che ‘durante l’aspettativa per infermità, sino alla pronuncia sul riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della lesione subita o della infermità contratta, competono gli emolumenti di carattere fisso e continuativo in misura intera’, fa riferimento al ‘personale giudicato permanentemente non idoneo al servizio in modo parziale’, laddove il ricorrente è stato giudicato non idoneo al servizio, in modo assoluto: in disparte la sua ratio (da cogliersi nel permanere del rapporto organico con la P.A., per il personale giudicato non idoneo al servizio in modo parziale), è chiaro che la disposizione non può applicarsi al di fuori dei casi previsti, tra i quali non rientra, evidentemente, quello del ricorrente” (Cons. St., sez. I, n. 1196 del 2020; Tar Salerno, n. 1016 del 2017). Correttamente, quindi, l’amministrazione ha attivato la procedura di recupero delle eccedenze retributive né avrebbe potuto operare diversamente, anche alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “il recupero di somme indebitamente erogate dalla p.a. ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell'art. 2033 cod.civ., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate. Si tratta cioè di atti vincolati, di carattere non autoritativo, di doveroso recupero di somme erroneamente corrisposte dall’amministrazione, rispetto ai quali – nell’ambito del rapporto obbligatorio di reciproco dare avere (paritetico) - resta ferma la possibilità per l'interessato di contestare eventuali errori di conteggio e la sussistenza dell’indebito (Cons. Stato, sez. III, 20 marzo 2019, n. 1852; id., sez. IV, n. 5343 del 2019; id. n. 5342 del 2019; id., sez. I, n. 2530 del 2019). Inoltre, deve pure essere rilevato che, “nel caso di recupero da parte dell’amministrazione di somme erroneamente corrisposte, né l’affidamento del percipiente, né il decorso del tempo sono di ostacolo all’esercizio del diritto-dovere di ripetere le somme, essendo il recupero un atto dovuto, privo di valenza provvedimentale, da adottarsi con il solo dovere di osservare modalità non eccessivamente onerose per il soggetto colpito (Cons. St., sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3516; id., sez. V, 30 settembre 2013, n. 4849). Ne discende che l’amministrazione non è tenuta a fornire una specifica motivazione né sulle ragioni del recupero, né sulla sussistenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies (interesse pubblico, interesse dei destinatari e dei controinteressati, termine ragionevole) per l’esercizio del potere di autotutela amministrativa, dato che il danno prodotto all’amministrazione dalla corresponsione di un beneficio economico senza titolo, con vantaggio ingiustificato per il destinatario, fa sorgere un interesse pubblico in re ipsa al recupero delle somme, nonché un obbligo ex lege rispetto al quale il decorso del tempo non assume rilevanza” (Cons. Stato, sez. IV, n. 379 del 2014; id. n. 3811 del 2017). ​​​​​​​
Militari, forze armate e di polizia
Pesca – Tonno – Contingente – Individuazione – Tonno rosso - Contingente indiviso a tutti gli operatori economici che gestiscono le tonnare fisse – Illegittimità.                Sono illegittimi i provvedimenti ministeriali che hanno fissato un contingente indiviso a tutti gli operatori economici che gestiscono le tonnare fisse per la pesca del tonno rosso, a differenza degli altri operatori economici che praticano la pesca secondo il sistema a circuizione o a palangaro (1).   (1) La Sezione, anche all’esito dell’istruttoria svolta nel giudizio, non ha ravvisato ragioni tecniche o scientifiche che, secondo un plausibile margine di apprezzamento, giustifichino l’irragionevole attribuzione di una quota indivisa al solo settore della tonnara fissa, diversamente dai sistemi a circuizione e a palangaro, e la presunta minore selettività delle tonnare fisse, che si adduce a sostegno di tale scelta, è stata ritenuta una circostanza smentita dallo stesso funzionamento delle tonnare fisse, tradizionalmente riconosciuto come il più selettivo e, peraltro, più ecologico. L’assegnazione della quota indivisa, non sorretta da apprezzabili ragioni giuridiche e/o tecniche, costringe gli operatori del settore ad una corsa alla prenotifica, nella quale ogni impianto cerca di comunicare l’inizio delle operazioni di mattanza per primo al fine di evitare di rimanere bloccato dal contingentamento indiviso di settore e di vedersi sottrarre l’intera quota di pescato. Ciò, peraltro, può comportare una illegittima restrizione dell’attività economica di tutti gli operatori per effetto della sovrastima del pescato effettivo da parte dell’operatore primo notificante, sicché l’esercizio dell’attività economica, da parte dei singoli operatori, è limitato non solo dall’assegnazione di un rigido contingente del settore, conforme alle previsioni sovranazionali a tutela del tonno rosso, ma anche dall’attività degli altri, eventualmente sovrastimata, con obbligo di rilasciare il pescato in eccesso, rispetto alla quota di settore, anche quando poi si dimostri che la stima del singolo operatore era stata eccessiva. Un simile meccanismo, irragionevole e, comunque, immotivato, mortifica l’attività economica degli operatori, senza che ciò corrisponda alla tutela effettiva e proporzionata dell’interesse pubblico alla tutela dei tonni rossi, con un evidente vulnus dell’art. 41 Cost., e con una palese disparità di trattamento, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost., rispetto anche agli operatori dei sistemi a circuizione e a palangaro. Riprova dell’irragionevolezza e dell’iniquità, insite in detto sistema, è del resto data dal fatto che lo stesso Ministero, per l’annualità del 2019, ha previsto il sistema delle quote individuali anche per le tonnare fisse.
Pesca
Processo amministrativo – Giudizio cautelare - Decreto monocratico – Inappellabilità – Limiti.         E’ inammissibile l’appello cautelare contro il decreto presidenziale per il chiaro disposto dell’art. 56 c.p. a., che espressamente ne stabilisce la non appellabilità, fatta salva, nel caso del tutto eccezionale, l’appellabilità qualora abbia un contenuto decisorio tale da definire in maniera irreversibile la materia del contendere, come nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere, come negli eccezionali casi di un decreto cui non segua affatto una camera di consiglio o in cui la fissazione della camera di consiglio avvenga con una tempistica talmente irragionevole da togliere ogni utilità alla pronuncia collegiale con incidenza sul merito del giudizio (di talché residuino al limite questioni risarcitorie), dovendo in tali casi intervenire il giudice di appello per restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Urbanistica – Piano regolatore – Ratio – Individuazione. Urbanistica – Clausole di salvaguardia – Ratio – Individuazione.          Il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale costituisce estrinsecazione del potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità, che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all'organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; esso si articola su vari livelli, secondo i principi di sussidiarietà, così da cercare di assicurare al livello di governo più vicino al contesto cui si riferisce il compito di valorizzare le peculiarità storiche, economiche e culturali locali e insieme il principio di adeguatezza ed efficacia dell’azione amministrativa (1)          Allo scopo di evitare che nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione definitiva di un piano vengano rilasciati provvedimenti che consentono attività edificatorie (o comunque trasformative) del territorio, alla stregua per lo più di norme maggiormente permissive, compromettendo l’assetto per come “progettato” e pensato negli strumenti adottati, in materia urbanistica si utilizzano le “clausole di salvaguardia”; esse si concretizzano nella doverosa sospensione dei procedimenti finalizzati al conseguimento di ridetti titoli, fino all’approvazione del nuovo strumento urbanistico pianificatorio, e in attesa della sua entrata in vigore, alla stregua del quale dovrà assumersi la determinazione definitiva (2).   1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema del rapporto tra i vari livelli di pianificazione territoriale, evidenziando come nella individuazione dei contenuti quelli di maggior dettaglio sono rimessi ai provvedimenti adottati dagli Enti più vicini al territorio, nel rispetto dei principi di sussidiarietà ed efficacia dell’azione amministrativa. Il rapporto intercorrente tra i vari livelli di pianificazione implica uno specifico scrutinio della loro portata e potenzialità immediatamente lesiva della posizione dei singoli, senza attenderne una “specificazione” in ambito territoriale più ristretto. Diversamente, in assenza di indicazioni specifiche nei Piani sottordinati, ovvero, ancor prima, una volta acclarata la correttezza delle stesse, verrebbe meno anche l’interesse all’autonoma impugnativa del Piano sovraordinato.   (2) Sul piano del diritto intertemporale, le cd. “misure di salvaguardia”, in una prospettiva esclusivamente cautelare, sono le regole utilizzate in urbanistica allo scopo di evitare che nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione definitiva di un piano, il rilascio di provvedimenti che consentono attività edificatorie (o comunque trasformative) del territorio, alla stregua per lo più di norme maggiormente permissive, possa comprometterne l’assetto per come “progettato” e pensato negli strumenti adottati. Esse si concretizzano nella doverosa sospensione dei procedimenti finalizzati al conseguimento di ridetti titoli, fino all’approvazione del nuovo strumento urbanistico pianificatorio, e in attesa della sua entrata in vigore, alla stregua del quale dovrà assumersi la determinazione definitiva. L’esigenza sottesa alle misure di salvaguardia è dunque di carattere conservativo e si identifica nella necessità che le richieste dei privati – fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale, in quanto in fieri, e quindi potenzialmente modificata – finiscano per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la programmazione urbanistica, rendendo estremamente difficile, se non addirittura impossibile, l’attuazione del piano in itinere (Cons. St., sez. IV, 20 gennaio 2014, n. 257). 
Urbanistica
Contributi e finanziamenti – Benefici economici - Fondo per gli investimenti nelle isole minori – Criteri di erogazione - Individuazione.              Il regolamento sul Fondo per gli investimenti nelle isole minori, di cui all’art. 1, comma 553, l. 7 dicembre 2019, n. 160  indica i criteri e le modalità per l’erogazione delle somme componenti il Fondo stesso (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che il Fondo per gli investimenti nelle isole minori, di cui all’art. 1, comma 553, l. 7 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), secondo il dettato legislativo, è espressamente destinato a “finanziare progetti di sviluppo infrastrutturale o di riqualificazione del territorio di comuni ricompresi nell’ambito delle predette isole, di cui all’allegato A annesso alla legge 28 dicembre 2001, n. 448”; si tratta, in particolare, di 40 Comuni distribuiti in 56 isole minori dislocate nelle Regioni di Campania, Lazio, Lombardia, Liguria, Puglia, Sardegna, Sicilia e Toscana. L’intervento normativo in esame si situa all’interno del quadro costituzionale, ai sensi dell’art. 119, comma 5, Cost., ove si prevede che lo Stato destini risorse aggiuntive ed effettui interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, e per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona; allo stesso modo, particolare attenzione alle regioni insulari, in ambito europeo, viene posta dall’art. 174, par. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. L’effettiva ripartizione del Fondo tra i Comuni destinatari viene poi demandata dalla norma in esame a un successivo decreto del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere favorevole della Conferenza unificata. Il regolamento all’esame della Sezione, pertanto, ai sensi della citata norma primaria, deve essere rivolto a indicare i criteri e le modalità per l’erogazione delle somme – complessivamente pari a 41,5 milioni di euro nel triennio 2020-2022 – componenti il Fondo per gli investimenti nelle isole minori.   La Sezione si è poi soffermata sulla portata precettiva e sull’ambito oggettivo di operatività del Fondo in questione con riferimento al precedente istituito dall’art. 2, comma 41, l. n. 244 del 2007, denominato Fondo di sviluppo delle isole minori, destinato a finanziare unicamente “interventi specifici” nei “settori dell’energia, dei trasporti e della concorrenza […]”. Al contrario, il Fondo istituito dalla l. n. 160 del 2019 ha una portata operativa evidentemente più ampia – quale risulta dalla stessa sua denominazione (“Fondo per gli investimenti nelle isole minori”) – in quanto, ai sensi dell’art. 1, comma 553, della predetta legge del 2019: a) è destinato a finanziare “progetti” e non più “interventi specifici”; b) i progetti finanziabili non devono più attenere a determinati settori, ma riguardano ora genericamente lo “sviluppo infrastrutturale” o la “riqualificazione del territorio” dei Comuni beneficiari. La Sezione ha, quindi, posto l’attenzione sulla differenza semantica, ai fini giuridici, della parola “interventi”, utilizzata dal Legislatore del 2007, rispetto al lemma “progetti” che compare nella l. n. 160 del 2019. Infatti, se il termine “intervento” indica unicamente l’attività materiale e realizzativa posta in essere a valle per l’esecuzione di un progetto, la parola “progetto” ricomprende invece nel suo perimetro semantico, ai fini che qui interessano, sia la fase progettuale posta in essere a monte, costituita dalla progettazione nei suoi vari livelli di dettaglio, sia la successiva fase esecutiva compiuta a valle, allorché il progetto venga materialmente realizzato mediante interventi. Da ciò ne consegue che l’operatività del Fondo istituito dal Legislatore del 2019, destinato non più a finanziare unicamente “interventi specifici”, ma più in generale i “progetti”, è assai più ampia, nel suo perimetro oggettivo, rispetto all’operatività del precedente Fondo del 2007, non solo perché ora sono parimenti finanziabili le progettazioni, anch’esse come visto facenti parte del “progetto”, ma altresì perché, come sopra evidenziato, i progetti finanziabili sono tutti quelli attinenti allo “sviluppo infrastrutturale” o alla “riqualificazione del territorio” dei Comuni beneficiari, del tutto a prescindere dai settori “dell’energia, dei trasporti e della concorrenza” in precedenza previsti dalla legge del 2007.   Pertanto, al fine di rendere maggiormente conforme il testo del regolamento all’esame della Sezione alla lettera della norma primaria, che parla ora di “progetti” e non più di “interventi”, il parere ha evidenziato la necessità di sostituire, nell’intero testo del regolamento, le parole “intervento” e “interventi”, retaggio del precedente d.P.C.M. del 2010, con i più appropriati termini “progetto” e “progetti”, al fine di evitare evidenti contrasti tra fonti normative e problemi interpretativi in sede applicativa.  
Contributi e finanziamenti
Contratti della Pubblica amministrazione – Lotti – Suddivisione - Limiti.  Alle stazioni appaltanti è vietato suddividere le prestazioni oggetto di una gara d’appalto in lotti distinti laddove ciò non sia giustificato dalla diversità dei servizi o delle forniture oggetto dei vari sub-lotti e/o dalla esigenza di favorire la partecipazione alla gara delle piccole e medie imprese (1).   (1) La Sezione ha ricordato che l’art. 51, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, al comma 1, prevede che “..le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera qq), ovvero in lotti prestazionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera ggggg), in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture” soggiungendo nel successivo periodo che “Le stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell'appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera di invito e nella relazione unica di cui agli articoli 99 e 139”. Al contempo, mette conto evidenziare che tale principio non assume valenza assoluta ed inderogabile. La Sezione ha di recente evidenziato che, in materia di appalti pubblici, costituisce principio di carattere generale la preferenza per la suddivisione in lotti, in quanto diretta a favorire la partecipazione alle gare delle piccole e medie imprese; tale principio come recepito all'art. 51, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, non costituisce una regola inderogabile, in quanto la norma consente alla stazione appaltante di derogarvi per giustificati motivi, che devono però essere puntualmente espressi nel bando o nella lettera di invito, proprio perché il precetto della ripartizione in lotti è funzionale alla tutela della concorrenza (Cons. St., sez. III, 21 marzo 2019, n. 1857).  Tanto premesso, anche sotto tale distinto profilo, il frazionamento in lotti non è funzionale all’esigenza di favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese, non essendo correlata la scelta organizzativa qui in discussione al valore economico della gara in comparazione con gli standard organizzativi e di fatturato delle imprese di settore. D’altro canto, nemmeno può essere sottaciuto che gli effetti della misura in argomento si pongono in plateale contrasto con l’obiettivo di ampliare la platea dei possibili concorrenti. Ed, invero, l’opzione organizzativa qui in discussione limita la partecipazione per ciascun lotto ad una determinata e ristretta categoria di produttori a seconda del tipo di dispositivo utilizzato (penna o siringa) per l’adrenalina da autoiniezione, precludendo agli altri di concorrere a rendere una prestazione funzionalmente equivalente. La Sezione non disconosce affatto, da un lato, il carattere eminentemente discrezionale delle valutazioni affidate in subiecta materia alla stazione appaltante e, dall’altro, le connesse implicazioni quanto alle modalità e limiti di esplicazione del relativo sindacato giurisdizionale, avendo a tal fini espressamente evidenziato che “..la scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico costituisce una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere tecnico-economico. In tali ambiti, il concreto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione circa la ripartizione dei lotti da conferire mediante gara pubblica deve essere funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto e resta delimitato, oltre che dalle specifiche norme sopra ricordate del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza”. L'intero impianto dei lotti di una gara non deve dar luogo a violazioni sostanziali dei principi di libera concorrenza, di “par condicio”, di non-discriminazione e di trasparenza di cui all'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 e s.m.i. (Cons. St., sez. III,  n. 5224 del 13 novembre 2017).  Ciò nondimeno, va qui ribadito che, come qualsiasi scelta della pubblica amministrazione, anche la suddivisione in lotti di un contratto pubblico si presta ad essere sindacata in sede giurisdizionale amministrativa sotto i profili della ragionevolezza e della proporzionalità, oltre che della congruità dell’istruttoria svolta. Orbene, prendendo abbrivio da siffatta premessa, deve qui ribadirsi come le scelte confluite negli atti di gara non riposino su ragioni giustificatrici idonee ad evidenziare, nella comparazione dei valori in campo, le superiori esigenze a presidio delle quali si pone l’opzione organizzativa privilegiata dalla stazione appaltante di frazionare la gara in lotti distinti per singolo dispositivo utilizzato nonostante il sacrificio del favor partecipationis che ad essa si riconnette. Anzitutto, e giusta quanto già sopra evidenziato, l’opzione privilegiata dall’Amministrazione non può dirsi espressione di una scelta strettamente necessitata alla stregua della stessa descrizione delle caratteristiche tecniche delle prestazioni poste a base di gara sì da far ritenere direttamente mutuabili da tale descrizione, e per i profili di intrinseca eterogeneità dei relativi contenuti, le ragioni della disposta frammentazione in lotti distinti quasi ad assecondare una diversa vocazione ontologica dei singoli lotti. Né il divisato assetto organizzativo costituisce la sintesi di un ragionevole bilanciamento degli interessi comparati. L’opzione prescelta, in mancanza di perspicui elementi di segno contrario, si risolve, viceversa, anche in ragione della scarsa concorrenzialità del mercato di riferimento, in un oggettivo fattore distorsivo di una corretta competizione con penalizzanti ricadute per la stessa Amministrazione, anzitutto, sul piano economico per la diversa base d’asta che connota i lotti qui in rilievo e, sotto distinto profilo, anche rispetto alle evidenti esigenze di semplificazione gestionale e di riduzione dei costi che si accompagnerebbero ad una razionalizzazione delle procedure di acquisto con possibili, significative economie di scala.
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Atto impugnabile - Modalità tecniche di emissione della carta di identità elettronica – Impugnazione da parte dell’operatore economico – Inammissibilità.                   É inammissibile il ricorso proposto da un operatore economico contro le nuove modalità tecniche di emissione della carta di identità elettronica (CIE) adottate dal Ministero dell’Interno in attuazione di quanto prevede art. 10, comma 3, d.l. n. 78 del 2015 (1). (1) Ha chiarito la Sezione che la qualificazione dell’interesse vantato dall’operatore economico, al fine di legittimarlo a contestare le scelte adottate dall’amministrazione sul piano tecnico e a conferirgli, quindi, una posizione di interesse legittimo azionabile avanti al giudice amministrativo, presuppone e richiede sul piano ordinamentale una diretta correlazione tra il potere attribuito dalla norma alla Pubblica amministrazione e la posizione del soggetto, di modo che la discrezionalità tecnica non possa essere correttamente esercitata se non dopo aver ponderato anche l’interesse sotteso a questa posizione prima di adottare la soluzione ritenuta migliore, pur nel margine di opinabilità dettato dall’applicazione di discipline specialistiche. Se, come nel caso esaminato dalla Sezione, la norma attributiva del potere prescinde da questa posizione, essendo preordinata al solo interesse pubblico all’adozione della tecnologia più progredita per l’emissione della carta d’identità elettronica (CIE), l’interesse dell’operatore economico a contestare l’adozione di questa tecnologia, in sé, non può dirsi qualificato dall’ordinamento, ancorché esso sia differenziato rispetto alla platea degli altri soggetti destinatari dell’azione amministrativa. Diversamente, ogni operatore nel mercato di riferimento potrebbe contestare qualsivoglia scelta dell’amministrazione che ritenga lesiva del proprio interesse economico per questa sola ragione, mentre detto interesse, in difetto di qualificazione normativa, resta di mero fatto. Nemmeno è sostenibile che l’innovazione delle modalità di emissione, sol perché priverebbero l’operatore della precedente posizione di esclusiva rispetto ad una tecnologia ritenuta dalla pubblica amministrazione ormai obsoleta o non più rispondente alle sue esigenze, conferirebbero all’operatore un interesse qualificato, oltre che differenziato, a contestare le medesime modalità che la pubblica amministrazione, nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica, ha inteso far proprie. Anche la discrezionalità tecnica implica infatti un tratto di apprezzamento decisionale che non è sindacabile, quanto alla scelta delle stesse discipline o tecnologie di fondo, perché è sempre riservato alla pubblica amministrazione un potere/dovere di opzione per l’una o per l’altra nel merito – nel caso di specie l’obsolescenza della pregressa tecnologia – non contestabile da qualsivoglia soggetto dell’ordinamento, per quanto direttamente interessato al mercato di riferimento.
Processo amministrativo
Sanità pubblica – Regione Piemonte – Servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali – Servizio svolto anche dal personale con funzioni di educatore professionale socio-pedagogici – Impugnazione di educatori professionali sanitari in servizio - Inammissibilità per difetto di interesse         E’ inammissibile per difetto di interesse il ricorso proposto da educatori professionali sanitari in servizio avverso la delibera della Regione Piemonte che consente, al fine di assicurare la continuità del servizio svolto presso le strutture ed i servizi socio sanitari, agli educatori professionali socio-pedagogici di esercitare la loro professione svolgendo esclusivamente i servizi socio-educativi presso le strutture socio-sanitarie e della salute territoriali, prevedendo, nel contempo, che gli stessi pedagogisti concorrono “agli standard organizzativi” di tali strutture, nonché che,  in attesa dell’emanazione del DM relativo all’istituzione delle liste speciali ad esaurimento, gli educatori professionali possano continuare a svolgere le attività professionali previste dal profilo delle professioni sanitarie di educatore professionale, purché si iscrivano ai suddetti elenchi speciali entro il 31 dicembre 2019 (1).      (1) Ha chiarito la Sezione che  il difetto di interesse deriva dalla circostanza che i ricorrenti sono già in servizio e non subiscono alcuna lesione alla loro personale sfera giuridica da una delibera che consente la conservazione del posto di lavoro di colleghi non laureati, che a sua volta comporta la mancata assunzione di personale laureato per lo svolgimento dell’attività professional o che consente a personale dotato della qualifica di educatore professionale socio-pedagogico di estendere la propria attività professionale. Tale delibera non arreca, infatti, alcun danno alla personale sfera giuridica di tali soggetti che già prestano servizio in qualità di educatori professionali socio-sanitari. Né può sussistere un interesse morale all’impugnativa, atteso che anch’esso deve riferirsi direttamente alla sfera giuridica personale del soggetto che agisce in giudizio. L’interesse al ricorso non può essere identificato nella (sola) utilità “morale” di agire a tutela della figura professionale dell’educatore professionale per difendere l’appropriatezza e la dignità degli atti in cui si esplicano le loro competenze, in quanto il ricorso giurisdizionale non è un rimedio dato nell’interesse astratto della giustizia o per ottenere la mera enunciazione dei parametri di legalità dell’azione amministrativa, disancorati da un effettivo e non ipotetico vantaggio derivante all’attore nel caso di contestazione. ​​​​​​​Questo tipo di interesse – di tipo collettivo – può ipotizzarsi per un’associazione di categoria, ma non per un singolo professionista in alcun modo leso in modo diretto, concreto ed attuale dalla delibera impugnata. 
Sanità pubblica
Telecomunicazione – Servizio di telecomunicazione - Servizi di comunicazione elettronica - Adeguamento di una rete telefonica – Presentazione di una s.c.i.a. – Pagamento somma denaro a titolo di “diritti di istruttoria” – Art. 93, d.lgs. n. 259 del 2003 – Illegittimità.            Ai sensi dell’art. 93, d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), le pubbliche amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti dalla legge statale (primo comma) e nessun altro onere finanziario, reale o contributo può essere imposto, in conseguenza dell'esecuzione delle opere o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica; è pertanto illegittimo  l’ordine di pagamento di una somma di denaro a titolo di “diritti di istruttoria” per avere presentato una  s.c.i.a. per l’adeguamento di una rete telefonica (1).    (1) Ha chiarito il parere che la Corte costituzionale (26 marzo 2015, n. 47) ha affermato che l’art. 93, d.lgs. n. 259 del 2003 è espressione di un principio fondamentale, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni. In mancanza di un tale principio, ogni Regione potrebbe liberamente prevedere obblighi “pecuniari” a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio di un'ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti. Per queste ragioni, la finalità della norma è anche quella di “tutela della concorrenza”, di garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l'ingresso di nuovi soggetti nel settore. La Corte ha quindi dichiarato incostituzionale l’art. 14, l. della legge reg. Piemonte 3 agosto 2004, n. 19, nella parte in cui impone(va) ai proprietari ed ai gestori degli impianti di telecomunicazione e radiodiffusione il pagamento di spese per attività istruttorie per il rilascio delle autorizzazioni all’installazione e modifica di impianti fissi.  Tale disciplina è espressione di un principio fondamentale dell'ordinamento di settore delle telecomunicazioni, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a loro carico oneri o canoni, posto che - ove ciò non fosse - ogni singola amministrazione munita di potestà impositiva potrebbe liberamente prevedere obblighi pecuniari a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, ai quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti (Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2020, n. 3467). Con parere 23 febbraio 2017, n. 479, la Sezione dal canto suo ha già osservato che dal quadro normativo emerge, con evidenza, che il legislatore ha voluto semplificare per quanto possibile il rilascio delle autorizzazioni in questo particolare settore, certamente di interesse per la collettività. Dal combinato disposto dell’art. 88, comma 10, e dell’art. 93, comma 2, conseguentemente gli obblighi economici gravanti sugli operatori interessati sono quelli di tenere indenne la pubblica amministrazione, l’ente locale, ovvero l’ente proprietario o gestore, dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche specificamente coinvolte dagl’interventi d’installazione e manutenzione e di ripristinare a regola d’arte le aree medesime nei tempi stabiliti dall’ente locale. Nessun altro onere finanziario, reale o contributo può essere imposto, in conseguenza dell’esecuzione delle opere di cui al codice o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, fatta salva l’applicazione della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, oppure del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui all’art. 63, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, calcolato secondo quanto previsto dal comma 2, lett. e) ed f), del medesimo articolo, ovvero dell’eventuale contributo una tantum per spese di costruzione delle gallerie di cui all’art. 47, comma 4, del predetto d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507.  Anche in sede giurisdizionale il Consiglio di Stato (sez. III, 1 giugno 2016, n. 2335) ha assunto decisioni conformi.
Telecomunicazione
Edilizia - S.c.i.a. - Contrasto tra norma regionale e norma statale sopravvenuta – Conseguenza – Automatica abrogazione della norma regionale.              Nel caso di contrasto tra norma regionale e norma statale sopravvenuta in materia di Scia - derivante dalla circostanza che nella prima è più ampio il potere dell’amministrazione di irrogare la misura inibitoria e ripristinatoria pur dopo il decorso del termine di trenta giorni dalla presentazione della SCIA, non soggiacendo il legittimo esercizio dello stesso alla verifica dell’esistenza dei peculiari presupposti dell’annullamento di ufficio – determina  l’automatica abrogazione della preesistente norma regionale in contrasto con essa, derivando l’obbligo della Regione di adeguare la propria legislazione (1).       (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 9, rubricato “Condizioni per l’esercizio della potestà legislativa da parte della Regione” l. 10 febbraio 1953, n. 62 (cd. “legge Scelba”), prevede, al comma 1, che “L’emanazione di norme legislative da parte delle Regioni nelle materie stabilite dall’articolo 117 della Costituzione si svolge nei limiti dei principi fondamentali quali risultano dalle leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”.   Il successivo art. 10, rubricato “Adeguamento delle leggi regionali alle leggi della Repubblica”, dispone, al comma 1, che “Le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma dell’articolo precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse”, aggiungendo, al comma 2, che “I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni”.   Alla luce delle richiamate disposizioni, pertanto, la sopravvenienza di una norma statale di principio in materia di legislazione concorrente (quale è quella del governo del territorio) determina l’automatica abrogazione della preesistente norma regionale in contrasto con essa (Corte cost. 25 giugno 2015, n. 117; 21 giugno 2007, n. 223; 31 dicembre 1993, n. 498), derivando l’obbligo della Regione di adeguare la propria legislazione in modo che la norma statale di principio venga rispettata.  Orbene, non vi è dubbio che l’art. 146, l. reg. Toscana n. 65 del 2014, nella formulazione sopra riportata, sia in contrasto con la sopravvenuta disposizione recata dal comma 4 dell’art. 19, l. n. 241 del 1990, come sostituito dall’art. 6, comma 1, lett. a), l. 7 agosto 2015, n. 124 (in vigore dal 28 agosto 2015). E invero, il suddetto comma 4 prevede che “Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6 bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21 nonies”.  Dunque, a tenore di tale disposizione, l’adozione della misura inibitoria e ripristinatoria è sempre possibile pur dopo il decorso dell’ordinario termine di trenta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., ma ciò è consentito solo adottando le forme ed i presupposti normativi previsti per l’esercizio dell’autotutela annullatoria dall’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990.   Non si tratta, dunque, di annullamento in senso proprio, in quanto manca un provvedimento amministrativo di primo grado da ritirare, considerandosi che la s.c.i.a. non è un provvedimento amministrativo in forma tacita e non dà luogo ad un titolo costitutivo provvedimentale, costituendo piuttosto una dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge (Cons. Stato, sez. VI, 7 luglio 2016, n. 3014; id. 9 maggio 2014, n. 2384).   E’ comunque una forma di intervento amministrativo in autotutela, considerandosi che il potere interviene su di un titolo abilitativo ormai formatosi (sia pur per effetto della dichiarazione di volontà del privato ed in assenza di un provvedimento amministrativo) e una volta decorso il termine ordinario di trenta giorni normativamente previsto per l’esercizio dello stesso in via ordinaria; richiedendo, altresì, la disposizione normativa l’esistenza dei presupposti (sostanziali e procedimentali) necessari per l’annullamento di ufficio.  L’art. 146, l. reg. Toscana n. 65 del 2014, invece, prevede che la misura inibitoria e ripristinatoria possa essere adottata comunque pur dopo il decorso dei trenta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., in maniera generalizzata per gli interventi di ristrutturazione edilizia e, per gli interventi di minore incidenza urbanistico-edilizia soggetti a s.c.i.a, in presenza di altri presupposti, che non sono comunque quelli relativi all’esercizio dell’autotutela decisoria contemplati dall’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990.  La disposizione regionale, dunque, a differenza di quella statale, non subordina l’intervento inibitorio e ripristinatorio tardivo all’esercizio dell’autotutela.  Il contrasto tra norma regionale e norma statale sopravvenuta è, pertanto, evidente, risultando nella prima decisamente più ampio il potere dell’amministrazione di irrogare la misura inibitoria e ripristinatoria pur dopo il decorso del termine di trenta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., non soggiacendo il legittimo esercizio dello stesso alla verifica dell’esistenza dei peculiari presupposti dell’annullamento di ufficio; in particolare, la norma regionale consente l’esercizio del potere inibitorio pur dopo il termine di trenta giorni anche in caso di contrasto dell’intervento con la normativa urbanistica, mentre la sopravvenuta norma statale, generalizzando l’obbligo di autotutela, prevede anche per tale ipotesi l’adozione della misura ripristinatoria solo in presenza dei requisiti previsti dall’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990.   
Edilizia
Processo amministrativo – Sospensione del giudizio – Riavvio d’ufficio – Esclusione.  ​​​​​​​           Qualora, dopo che è stata disposta la sospensione del giudizio, questo venga riavviato d’ufficio in assenza del formale impulso di parte ai sensi dell’art. 80, comma 1, c.p.a., si verifica – non diversamente dall’ipotesi in cui, al contrario, sia omessa la sospensione del giudizio in un caso in cui questa è necessaria a norma dell’art. 295 c.p.c. - una lesione del diritto di difesa idonea a determinare l’annullamento della sentenza con rinvio della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105 del medesimo codice (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la sospensione necessaria del processo è istituto previsto dall’art. 295 c.p.c., oggi codificato nel processo amministrativo all’art. 79, comma 1, c.p.a., con specifica applicazione, in subiecta materia, del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a., e consegue all’ipotesi in cui il giudice stesso o altro giudice “deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. Essa costituisce un’eccezione al principio generale dell’autonomia dei giudizi che ormai informa l’intera giurisdizione, e proprio per tale ragione, determinando un arresto del giudizio che può risolversi in un allungamento, anche notevole, dei tempi processuali, deve essere interpretata in una «accezione restrittiva dei presupposti su cui si fonda» (Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1386). L’art. 295 c.p.c., dunque, postula non un mero collegamento tra due statuizioni emanande, ma un vincolo di stretta consequenzialità, tale per cui l’altro giudizio, oltre a coinvolgere le medesime parti, investe un indispensabile antecedente giuridico, la cui soluzione sia determinante, in tutto o in parte, con effetto di giudicato, per l’esito della causa da sospendere (Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2007, n. 642). Scopo della sospensione necessaria è dunque quello di evitare il contrasto di giudicati, assicurando l’uniformità delle decisioni (v. ex multis Cass. civ., sez. un., ord. 27 luglio 2004, n. 14060; sez. VI, ord. 29 luglio 2014, n. 17235, 8 febbraio 2012, n. 1865, 9 dicembre 2011, n. 26469, 18 febbraio 2011, n. 3059; Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio 2016, n. 640; id., sez. IV, 18 novembre 2014, n. 5662; id., sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1386). Al di fuori di questa ipotesi la sospensione non è mai obbligatoria, perché, come debitamente evidenziato dalla Suprema Corte nella richiamata ordinanza del 27 luglio 2004, n. 14060, essa determina l’arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato «e certamente non breve […] fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale […] onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati» (§ 5.1 della parte “in diritto”), così dilatando i tempi della decisione finale del giudizio e le aspettative ad una sua rapida definizione che le parti che si oppongono alla sospensione legittimamente possono vantare.  Come chiarito da questo Consiglio di Stato (sez. IV, 14 maggio 2014, nn. 2483 e 2484), la pregiudizialità necessaria si pone tra rapporti giuridici diversi, collegati in modo tale per cui la situazione giuridica della causa pregiudiziale si pone come elemento costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo del distinto rapporto dedotto nella causa dipendente, la cui esistenza è dunque necessariamente presupposta dalla prima.  Nel caso di specie, dunque, il giudice di prime cure ha ritenuto di trovarsi al cospetto di tale tipologia di collegamento tra l’azione di accertamento dei confini lacuali e la valutazione di legittimità del diniego di condono che trova il suo unico presupposto motivazionale nel mancato rispetto della distanza da tali confini.  La sospensione di cui all’art. 295 c.p.c. va disposta, secondo il c.p.a., con ordinanza, dichiarata appellabile: in un’ottica di ragionevole durata del processo, infatti, non vi è più spazio per una scelta di sospensione non ex lege sottratta ad ogni successivo sindacato. La giurisprudenza amministrativa anteriore al c.p.a., cui occorre piuttosto fare riferimento ratione temporis, aveva invece negato tale impugnabilità dell’ordinanza de qua, sulla base della sua affermata natura non decisoria (Cons. Stato, sez. V, 10 maggio 2010, n. 2768). La riattivazione del processo sospeso, trova oggi una regolamentazione propria e autonoma rispetto a quella processualcivilistica nell’art. 80, comma 1, c.p.a. che non opera alcuna distinzione tra cause di sospensione, così recependo quell’indirizzo giurisprudenziale, prevalente nel vigore della legge processuale anteriore, che facendo applicazione analogica, ma in maniera chirurgica, degli artt. 297 c.p.c. e 367 c.p.c., richiedeva e nel contempo riteneva bastevole una mera istanza di fissazione dell’udienza entro sei mesi dalla conoscenza legale che era cessata la causa di sospensione (Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2009, n. 3829). Anche in passato, dunque, non si è mai revocata in dubbio la necessità di un’iniziativa di parte per superare il temporaneo stallo del procedimento, salvo discutersi circa la forma di tale iniziativa, ora individuata nella mera istanza di fissazione dell’udienza ora in quella anche di riassunzione, ovvero sulla tempistica della sua proposizione e sull’esatta individuazione del dies a quo per il relativo computo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 5634; id., 17 febbraio 2000, n. 911). Con ciò non consentendosi comunque, rileva la Sezione, un’iniziativa d’ufficio se non funzionale alla declaratoria di perenzione, men che meno a prescindere dall’avvenuto superamento della causa di sospensione (nel caso di specie, la definizione del procedimento per l’accertamento dei confini lacuali). 
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Patrocinio a spese dello Stato – Ammissione – reddito prodotto all’estero – Attestazione consolare – Art. 79, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002 – Violazione artt. 3, 24, 113 e 117, comma 1, Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza - Rimessione alla Corte costituzionale.      È rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 79, comma 2, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in relazione agli artt. 3, 24, 113 e 117, comma 1, Cost., nella parte in cui per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato da parte dei non abbienti richiede, per i redditi prodotti all'estero, che il cittadino di Stati non appartenenti all'Unione europea corredi l'istanza con una certificazione dell'autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato, esulando tale incombente documentale dalla sfera di dominio del richiedente; in tal modo l’esclusione dall’ammissione al patrocinio a spese dello Stato viene a dipendere dall’inerzia di un soggetto pubblico terzo, non sopperibile allo stato con gli istituti di semplificazione amministrativa e de-certificazione documentale previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’Unione europea, con irragionevole vulnus del principio di eguaglianza formale nell’accesso alla tutela giurisdizionale, nella specie da esperirsi contro atti della pubblica amministrazione italiana  (1). (1) Ha chiarito la Sezione che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato avviene a istanza di parte il cui contenuto è disciplinato puntualmente dall’art. 79, d.P.R. n. 115 del 2002: in particolare, si prevede che l’istante alleghi una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell'interessato, ai sensi dell'art. 46, comma 1, lettera o), d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l'ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità indicate nell'art. 76. La disposizione che viene in rilievo è quella recata dal comma 2 dell’art. 79 per cui “per i redditi prodotti all'estero, il cittadino di Stati non appartenenti all'Unione europea correda l'istanza con una certificazione dell'autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato”. L’esegesi letterale porta a concludere che la certificazione in questione deve attestare la veridicità di quanto dichiarato nell’istanza e deve essere rilasciata dall’autorità consolare competente a valle di una attività di accertamento e di controllo la quale, con tutta evidenza, non potrebbe essere utilmente svolta dalle autorità italiane. Nel caso venuto all’esame della Sezione in sede di reclamo, l’esclusione dal patrocinio discenderebbe dalla piana applicazione della citata disposizione in quanto il cittadino indiano richiedente l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato ha mancato di assolvere correttamente all’integrazione documentale richiesta visto che, pur avendo diligentemente richiesto la prevista attestazione consolare, non ha ricevuto risposta alcuna dall’Autorità consolare indiana. L’esclusione, in buona sostanza, viene a dipendere dall’inerzia di un soggetto pubblico terzo, non sopperibile allo stato con gli istituti di semplificazione amministrativa e de-certificazione documentale previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’Unione europea, con irragionevole vulnus del principio di eguaglianza formale nell’accesso alla tutela giurisdizionale, nella specie da esperirsi contro atti della pubblica amministrazione italiana. La Sezione ritiene che la disposizione in parola presenti profili di illegittimità rispetto agli artt. 3, 24, 113 e 117, comma 1, Cost. nella parte in cui subordina l’apprestamento di mezzi per l’accesso alla tutela giurisdizionale da parte dei non abbienti ad incombenti documentali che, pur se pertinenti alla prova delle condizioni reddituali, esulano dalla loro sfera di dominio.
Processo amministrativo
Sanità pubblica – Regione Veneto - Assistenza diretta ai pazienti con prestazioni comprese nei Lea – Conferimento ai medici, anche privi di specializzazione, di incarichi individuali con contratto di lavoro autonomo anche per lo svolgimento di funzioni ordinarie – Art. 1, comma 2, l. reg. n. 48 del 2018 - Artt. 3, 32, 117, comma 2, lett. l), e comma 3, Cost. – Non manifesta infondatezza ​​​​​​​            E’ rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 32, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, l. reg. Veneto 28 dicembre 2018, n. 48 (recante ”Piano socio-sanitario regionale 2019-2023”), nella parte in cui approva, quale parte integrante della legge medesima, il Piano socio-sanitario 2019-2023 limitatamente alla parte in cui questo prevede che “allo scopo di garantire l’erogazione delle prestazioni di assistenza diretta ai pazienti comprese nei Lea, le aziende sanitarie possono, in via eccezionale, conferire a medici incarichi individuali con contratto di lavoro autonomo anche per lo svolgimento di funzioni ordinarie” e che “qualora risulti oggettivamente impossibile il reperimento di medici in possesso della specializzazione richiesta, la selezione potrà essere estesa anche a medici in possesso di diploma di specializzazione in disciplina equipollente o affine. Qualora il reperimento di professionisti risulti infruttuoso anche con l’estensione alle discipline equipollenti o affini, si potrà procedere al reclutamento di medici privi del diploma di specializzazione sulla base di linee di indirizzo regionali che definiscano le modalità di inserimento dei medesimi all’interno delle strutture aziendali e di individuazione degli ambiti di autonomia esercitabili col tutoraggio del personale strutturato. Le Regioni potranno anche organizzare o riconoscere percorsi formativi dedicati all’acquisizione di competenze teorico-pratiche negli ambiti di potenziale impiego di medici privi del diploma di specializzazione” (1).    (1) Ad avviso della Sezione la questione sollevata appare anche non manifestamente infondata per le ragioni di seguito esposte: in relazione all’art. 117, comma 3, Cost., per contrasto con i principi fondamentali posti dal legislatore statale nella materia concorrente della “tutela della salute”, tra i quali devono annoverarsi sia i principi relativi alle modalità di accesso al SSN, sia e soprattutto quelli relativi ai requisiti e ai titoli professionali di accesso al SSN del personale medico affidatario degli incarichi.  Le censurate disposizioni normative regionali del PSSR 2019-2023, invero, consentendo il reclutamento presso il SSR di medici non specializzati, intervengono sui titoli professionali del personale medico affidatario degli incarichi a tempo determinato e si prestano ad incidere sulla qualità delle relative prestazioni rese all’utenza (Corte Costituzionale n. 174 del 2020 e n. 38 del 2020).  In relazione all’art. 117, comma secondo, lett. l), e comma terzo, Cost., per violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile” e per contrasto con le vigenti disposizioni statali costituenti principi fondamentali dell’ordinamento in materia di “coordinamento della finanza pubblica”.  In particolare, il comma 5 bis dell’art. 7, d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che “E' fatto divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. I contratti posti in essere in violazione del presente comma sono nulli e determinano responsabilità erariale. (….)”; il successivo comma 6 dispone che “Fermo restando quanto previsto dal comma 5-bis, per specifiche esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria”, in presenza degli specifici presupposti di legittimità ivi individuati; il comma 1 dell’art. 36 del medesimo decreto dispone che “Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35”; il successivo comma 2 prevede che le amministrazioni possano stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché avvalersi di forme contrattuali flessibili “soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall'articolo 35”, con esclusione, pertanto del ricorso a tale tipologia contrattuale per un fabbisogno ordinario, per una durata indeterminata e soggetta a rinnovo e in relazione a situazioni non caratterizzate da esigenze eccezionali e transitorie.  Le censurate previsioni normative regionali, essendo relative alla fase prodromica e funzionale all’instaurazione del rapporto di lavoro, afferiscono alla competenza esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile” e appaiono in contrasto con le citate disposizioni statali che forniscono coordinate e vincoli per le Pubbliche Amministrazioni che intendono avvalersi di contratti di lavoro flessibile (Corte Costituzionale n. 251 del 2016); in particolare, le ragioni giustificative poste alla base della previsione regionale del PSSR (impossibilità di reperire medici in possesso della specializzazione richiesta ovvero in disciplina equipollente o affine) non appaiono integrare i presupposti cui il comma 6 dell’art. 7, d.lgs. n. 165 del 2001 subordina la possibilità di conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria e che individua ipotesi di progetti specifici e determinati, ovvero specifiche situazioni in cui si richiede che la prestazione abbia natura temporanea e altamente qualificata e comunque di durata preventivamente determinata che, invece, la previsione regionale non contempla.  Le previsioni regionali censurate appaiono, altresì, in contrasto con i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, comma terzo, Cost.) non essendo chiarito se il reclutamento del personale estraneo alla pubblica Amministrazione avvenga nel rispetto delle percentuali previste dall’art.19, comma 6, d.lgs. n.165 del 2001.  Infine, la norma appare incostituzionale in relazione agli artt. 3 e 32 Cost., in quanto il complessivo sistema normativo delineato dalla ricordate disposizioni nazionali (art. 15, comma 7, d.lgs. n. 502 del 1992, art. 24, d.P.R. n. 483 del 1997 e art. 21, d.lgs. n. 368 del 1999) risulta funzionale al perseguimento sull’intero territorio nazionale dei fondamentali principi costituzionali di eguaglianza e di tutela del diritto alla salute e all’assistenza sanitaria, nonché della connessa necessità di garantire l’uniformità del trattamento normativo ed economico del personale sanitario a rapporto convenzionale. ​​​​​​​
Sanità pubblica
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Bonifica – Soggetto obbligato - Trasmissibilità mortis causa    L’obbligo di bonifica del sito inquinato è un obbligo positivo e permanente di ripristinare l’ambiente danneggiato, trasmissibile mortis causa (1)   (1) Ha preliminarmente ricordato la Sezione che la disciplina dettata dall’art. 244, d.lgs. n. 152 del 2006 si inquadra in un contesto di responsabilità da attività produttive e d’impresa (o, con il limite esplicito del valore acquisito dal bene dopo la bonifica, del proprietario, quale soggetto che trae comunque una utilità economica dal bene inquinato) e quindi presuppone, prima ed a prescindere dall’analisi degli ulteriori elementi della fattispecie, che i soggetti che vengono a tale titolo chiamati a risponderne lo siano in quanto abbiano svolto in quell’area attività di impresa, produttive o, nei limiti precisati, in quanto proprietari di beni che traggono dagli stessi una utilità economica. La norma va infatti contestualizzata nell’ambito della complessiva disciplina, di matrice eurounitaria, cui appartiene, ed è epifania di scelte in ottica di analisi costi- benefici (secondo cui il danno si alloca in capo al soggetto più idoneo a sopportarne il costo) ed ancor più è volta ad indurre l’internalizzazione di costi in capo a chi trae guadagno da attività socialmente dannose dal punto di vista ambientale così da, in un’ottica preventivo-precauzionale, indurlo ad adottare possibilmente alla fonte scelte produttive meno inquinanti. Ha aggiunto la Sezione che il citato art. 244, d.lgs. n. 152 si coordina innanzitutto con il successivo art. 253 che, sostanzialmente, trasforma l’inquinamento in un onere reale gravante sul bene sicchè, da una parte, il proprietario, anche non responsabile, ha interesse e diritto ad intervenire per la bonifica, salvo eventuale rivalsa, dall’altra il proprietario non responsabile dell’inquinamento potrà essere comunque chiamato a risponderne ove sia impossibile accertare l’identità del responsabile nei limiti di valore di mercato del sito a seguito della bonifica. In extrema ratio, ove non sia identificabile un responsabile né sufficiente l’intervento del proprietario, subentrano proprio gli enti pubblici competenti in materia. L’art. 244, d.lgs. n. 152 del 2006 nel cui testo si effettua un generico riferimento al “responsabile” è inserito nel titolo V del codice dell’ambiente intitolato “bonifica di siti contaminati” il quale esordisce con l’art. 239 secondo cui: “Il presente titolo disciplina gli interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti contaminati e definisce le procedure, i criteri e le modalità per lo svolgimento delle operazioni necessarie per l'eliminazione delle sorgenti dell'inquinamento e comunque per la riduzione delle concentrazioni di sostanze inquinanti, in armonia con i principi e le norme comunitari, con particolare riferimento al principio «chi inquina paga››.” La disposizione deve dunque armonizzarsi con il quadro di attuazione della direttiva 2004/35/Ce, menzionata nella premessa del d.lgs. n. 152 del 2006 proprio per quanto concerne la “responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”. La citata direttiva attua infatti il principio “chi inquina paga”, cristallizzato nell’art. 175 del trattato CE, oggi 192 TFUE. La direttiva 2004/35, nei considerando, così esplicita il principio chi inquina paga Il principio chi inquina paga si correla quindi inscindibilmente alle attività “degli operatori”, proprio per rendere effettiva la sua finalità ultima di internalizzare i costi sociali delle attività socialmente dannose dal punto di vista ambientale, e quindi scoraggiarle o indurre a scelte maggiormente virtuose. Ai sensi dell’art. 2 della direttiva 2004/35, a questi fini, si definisce “operatore”, “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale oppure, quando la legislazione nazionale lo prevede, a cui è stato delegato un potere economico decisivo sul funzionamento tecnico di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell'autorizzazione a svolgere detta attività o la persona che registra o notifica l'attività medesima” e si definisce attività professionale “qualsiasi attività svolta nel corso di un'attività economica, commerciale o imprenditoriale, indipendentemente dal fatto che abbia carattere pubblico o privato o che persegua o meno fini di lucro.”. In sostanza, a prescindere dalla natura pubblica o privata del controllo e/o della titolarità dell’attività economica, entrano nel campo di applicazione del principio chi inquina paga, come attuato dalla direttiva, i soggetti che traggono utilità dell’esercizio dell’attività economica inquinante e la esercitano essendo titolari di apposita autorizzazione in materia, giammai i soggetti pubblici chiamati al diverso ruolo di rilasciare le eventuali autorizzazioni, effettuare i controlli e, per quanto ad esempio in specifico concerne l’attività di bonifica, gestire la procedura di bonifica stessa. Con riferimento alla questione della trasmissibilità ereditaria dell’obbligo di bonifica del sito inquinato, che interessa la controversia all’esame del Tar Piemonte, ha ricordato la Sezione che antecedentemente al d.lgs. n. 152 del 2006, gli obblighi di bonifica sono stati disciplinati dall’art. 17, d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. Decreto Ronchi) il quale, per la prima volta, ha dato rilievo nel nostro ordinamento alla condotta omissiva del responsabile dell’inquinamento il quale, una volta cessata la condotta commissiva e quindi l’attività inquinante, non si fosse attivato per rimediare alle conseguenze lesive derivanti dal deposito di sostanze inquinanti; pertanto, ancorchè le disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006, esattamente come quelle della presupposta direttiva UE 2004/35, escludessero dichiaratamente una propria retroattività, esse si sono poste nel nostro ordinamento in sostanziale continuità con il d.lgs. n. 22 del 1997.  Ancora la giurisprudenza, e con riferimento a quest’ultimo decreto legislativo e per limitarne la retroattività contestualmente garantendone l’applicazione anche a forme di inquinamento storico lungolatente e/o per accumulo (fisiologicamente le più numerose), e tenuto conto della natura permanente del danno ambientale, ha ritenuto necessario e sufficiente che il soggetto responsabile dell’inquinamento abbia quantomeno continuato ad esistere anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 22 del 1997, ancorchè a quell’epoca non avesse più la disponibilità del sito inquinato (Cons. St., sez. V, n. 6055 del 2008),  e ciò sull’assunto appunto che il cosiddetto decreto Ronchi trovasse applicazione anche ad inquinamenti risalenti ad epoca remota, purchè ancora in essere, ed anche nei confronti dei responsabili che non avessero più la disponibilità delle aree danneggiate. Si legge infatti in Cons. St., sez. VI, n. 5283 del 2007, che la responsabilità per inquinamento, già prevista dall’art. 17, d.lgs. n. 22 del 1997, trova applicazione a qualunque situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dall’epoca, pure remota, alla quale dovesse farsi risalire il fatto generatore; il lungo lasso di tempo non esenta il responsabile dell’inquinamento da tali obblighi e ciò anche qualora il medesimo non avesse più la disponibilità delle aree al momento di entrata in vigore del decreto del 1997. Nella decisione Cons. St., sez. VI, n. 3165 del 2014 si è poi ulteriormente ribadito che la responsabilità è ascrivibile anche per attività risalenti a soggetti quantomeno esistenti fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 22 del 1997. Quanto alla trasmissibilità dell’obbligo di bonifica del sito inquinato, la Sezione ha ricordato che la più recente giurisprudenza ha fornito a questa domanda risposta affermativa (Tar L’Aquila n. 86 del 2019), rilevando come la situazione sia in fondo assimilabile alla già ritenuta trasmissibilità agli eredi degli obblighi di ripristino in materia edilizia.  ​​​​​​​ D’altro canto se la ratio normativa è di far gravare su colui che ha beneficiato economicamente di una attività nociva i costi del ripristino, risulta anche coerente che gli eredi che beneficiano in via successoria dei profitti tratti con tale attività ne sopportino i costi, potendo detti costi sempre essere circoscritti al limite del loro arricchimento con l’accettazione con beneficio di inventario.  
Inquinamento
Farmacia – Pianta organica – Modifica - Competenza - Friuli Venezia Giulia – Individuazione.   ​​​​​​​            Anche nel territorio della Regione Friuli-Venezia Giulia, l’ente competente a pronunciarsi in materia di modifica delle circoscrizioni territoriali delle farmacie è il Comune (sentita l’Azienda sanitaria) e non direttamente l’Azienda sanitaria (1).   (1) Ad avviso del Tar che esaminando  il tenore letterale dell’art. 5, comma 4, lett. d) l. reg. Friuli-Venezia Giulia n. 43 del 1981, l’attribuzione della funzione di “decentramento” è accompagnata dal riferimento alla norma statale (art. 5, l. n. 362 del 1991) che detta la relativa disciplina e che attribuisce il compito di rideterminare le circoscrizioni delle sedi farmaceutiche esistenti (comma 1), all’ente territoriale (oggi il Comune) “sentita l’unità sanitaria locale (oggi Azienda sanitaria) competente per territorio”. La disposizione di fonte regionale, secondo un’interpretazione più lineare del suo dettato, può quindi considerarsi volta – non ad attribuire all’Azienda sanitaria funzioni propriamente deliberative/decisiorie, quanto piuttosto – a confermare la permanente esistenza delle funzioni consultive riconosciute all’Azienda sanitaria in materia di decentramento dalla l. n. 362 del 1991, espressamente richiamata. Non è affatto necessario, del resto, ricercare nella legge regionale una portata innovativa rispetto alla legge statale, per il solo fatto di essere intervenuta su materia già compiutamente disciplinata da quest’ultima. Al contrario, la riformulazione della l. reg. n. 43 del 1981 appare dettata proprio dalla volontà di conformarsi al nuovo quadro di competenze delineato dalla riforma del 2012, cui il comma 1 dell’art. 5 fa espresso riferimento (“Ai sensi dell'articolo 11 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 … i Comuni …”), e non mancano disposizioni riformulate in senso del tutto conforme a quelle statali (es. i commi 1 e 2). Non vi è, in definitiva, alcuna ragione che porti a rinvenire nella l. reg. n. 33 del 2015 una volontà di modificare l’impianto normativo in materia di programmazione delle sedi farmaceutiche risultante dal d.l. n. 1 del 2012 per quanto attiene al ruolo dell’Azienda sanitaria, trasformandone le attribuzioni da meramente consultive a deliberative. Dal punto di vista sistematico, si evidenzia che la modifica delle circoscrizioni territoriali è collocata dalla l. n. 362 del 1991 nel contesto del procedimento di revisione della pianificazione (“in sede di revisione di revisione della pianta organica delle farmacie”), di cui rappresenta un esito possibile e “normale” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 19 settembre 2017, n. 4387).  L’interpretazione fatta propria dalla ricorrente, dunque, contrasterebbe con la l. n. 362 del 1991 per il fatto di comportare la fuoriuscita dal generale procedimento di revisione (di competenza del Comune) delle determinazioni in materia di modifica delle circoscrizioni territoriali (che sarebbero di competenza delle Aziende sanitarie). Non vi sono però ragioni per ritenere che la riforma del 2012 (recepita dalla legge regionale) abbia inteso incidere in senso limitativo sull’ampiezza del potere di revisione della pianificazione farmaceutica.   Rimane invece fermo il principio, chiaramente espresso dalla l. n. 362 del 1991, di corrispondenza soggettiva e contestualità procedimentale tra la revisione dello strumento pianificatorio e la rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, che della revisione rappresentano una possibile declinazione.
Farmacia
Processo amministrativo – Appello - Nuove eccezioni e nuove prove – Divieto – Giudizio di ottemperanza – Condizione.  Energia elettrica - Fonti rinnovabili – Impianti - Autorizzazione unica - Determinazione conclusiva della conferenza di servizi – Sopravvenienze - Fra il momento della conclusione della conferenza e quello in cui deve essere rilasciata l’autorizzazione unica –Vanno considerate.               Il divieto di nuove eccezioni e nuove prove in appello, di cui all’art. 104 c.p.a., assume tratti peculiari in sede di appello nel giudizio di ottemperanza, quando sia in contestazione fra le parti l’esistenza o meno di margini di valutazione in capo all’Amministrazione in fase di attuazione del giudicato (1).               Nell’ambito del procedimento inteso al rilascio dell’autorizzazione unica alla realizzazione di impianti energetici da fonti rinnovabili, ai sensi dell’art. 12, d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387, la determinazione conclusiva della conferenza di servizi ha valore di atto istruttorio endoprocedimentale a contenuto consultivo, ben distinto dal provvedimento di autorizzazione unica che deve essere poi rilasciato dalla Regione; ne discende che, ove mai fra il momento della conclusione della conferenza e quello in cui deve essere rilasciata l’autorizzazione unica intervengano sopravvenienze fattuali o normative, di queste l’Amministrazione deve tenere conto ai fini del decidere, in virtù del principio tempus regit actum (2).       (1) Ha chiarito la Sezione che in tale ipotesi, l’allegazione di nuove ragioni ostative non coperte dalla decisione cognitoria giudicato non può considerarsi alla stregua di una nuova eccezione in senso proprio, costituendo piuttosto - anche alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione (sez. VI, 30 giugno 2020, n. 12980; sez. III, 15 novembre 2019, n. 29714) - una semplice argomentazione difensiva a sostegno della tesi dell’Amministrazione medesima, che pertanto può essere anche supportata da nuova documentazione specie quando, come nella vicenda in questione, la tesi dell’Amministrazione appellante si fondi su asserite sopravvenienze successive al giudicato.       (2) Cons. Stato, sez. IV, 2 aprile 2020, n. 2235; id., sez. V, 12 novembre 2018, n. 6342; id.  23 dicembre 2013, n. 6192.
Energia elettrica
Covid-19 – Esercizi commerciali – Esercizi di ristorazione - Apertura – Dal 4 maggio 2020 – Esclusione ex d.P.C.M. 26 aprile 2020 – Non va sospeso.      Non deve essere sospeso, mancando i presupposti ex art. 56 c.p.a., il d.P.C.M. 26 aprile 2020, nella parte in cui non prevede la riapertura, dal 4 maggio 2020, degli esercizi di ristorazione in considerazione della diffusione del virus Covid-19 su base territoriale
Covid-19
L’Adunanza plenaria si pronuncia sull’autonomia, sui presupposti e sui limiti del riconoscimento, da parte del Ministero dell’istruzione, dell’abilitazione all’insegnamento acquisita in Stati membri UE Unione europea - Riconoscimento qualifiche professionali – Accesso alla professione di insegnante –Valutazione del percorso di formazione. ​​​​​​​ In conformità con quanto statuito dalla Corte di giustizia UE (sentenza 8 luglio 2021, C166/20, resa in una vicenda analoga a quella oggetto della presente controversia, in cui il ricorrente aveva maturato la qualificazione professionale necessaria in parte in Patria ed in parte all’estero), il Ministero dell’istruzione è tenuto: a) ad esaminare «l’insieme dei diplomi, dei certificati e altri titoli», posseduti da ciascun interessato; non dunque a «prescindere» dalle attestazioni rilasciate dalla competente autorità dello Stato d’origine, come invece hanno ipotizzato le ordinanze di rimessione; b) a procedere quindi ad «un confronto tra, da un lato, le competenze attestate da tali titoli e da tale esperienza e, dall’altro, le conoscenze e le qualifiche richieste dalla legislazione nazionale», onde accertare se gli interessati abbiano o meno i requisiti per accedere alla ‘professione regolamentata’ di insegnante, eventualmente previa imposizione delle misure compensative di cui al sopra richiamato art. 14 della direttiva 2005/36/CE. (1)   ● La questione era stata deferita da Cons. Stato, sez. VII, ord. n. 5519, 5520, 5521, 5522, 5523 e 5524 del 2022. L’ordinanza n. 5519 è stata oggetto di News US n. 79 del 2 agosto 2022.
Unione Europea
Edilizia – Abusi – Lottizzazione abusiva – Sindacato – Giudice amministrativo e giudice penale – Differenza.                In tema di lottizzazione abusiva il sindacato dell’Amministrazione non è completamente sovrapponibile a quello svolto dal Giudice penale relativamente alla fattispecie criminosa di cui all’art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, seppure in ipotesi avente ad oggetto i medesimi fatti storici, mira ad accertare la responsabilità penale dell’imputato, con le relative conseguenze sulla sua libertà personale e che, pertanto, sul piano processuale esige la dimostrazione della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio del reo (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 30, d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina due diverse ipotesi di lottizzazione abusiva. Ricorre la lottizzazione abusiva cd. “materiale” con la realizzazione di opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, sia in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, approvati o adottati, ovvero di quelle stabilite direttamente in leggi statali o regionali, sia in assenza della prescritta autorizzazione. Si ha invece lottizzazione abusiva “formale” o “cartolare” quando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne sono già realizzati i presupposti con il frazionamento e la vendita - o altri atti equiparati - del terreno in lotti che, per le specifiche caratteristiche, quali la dimensione dei lotti stessi, la natura del terreno, la destinazione urbanistica, l’ubicazione e la previsione di opere urbanistiche, o per altri elementi, evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio. ​​​​​​​L’interesse protetto dalla norma è quello di garantire un ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte pianificatorie dell’amministrazione.  ​​​​​​​Al riguardo, deve ricordarsi che le scelte espresse nel piano urbanistico generale di un Comune, di regola, non possano essere attuate mediante il diretto rilascio di permessi di costruire agli interessati, ma richiedano l’intermediazione di uno strumento ulteriore, rappresentato dai piani attuativi. Il piano attuativo, infatti, ha la funzione di “precisare zona per zona”, con i dettagli necessari, “le indicazioni di assetto e sviluppo urbanistico complessivo contenute nel piano regolatore”, e quindi di attuarle “gradatamente e razionalmente” e di garantire che ogni zona disponga di “assetto ed attrezzature rispondenti agli insediamenti”, ovvero delle opere di urbanizzazione, e tutto ciò, all’evidenza, trascende il possibile contenuto di un singolo permesso di costruire. ​​​​​​​In tale contesto, la lottizzazione abusiva sottrae all’amministrazione il proprio potere di pianificazione attuativa e la mette di fronte al fatto compiuto di insediamenti in potenza privi dei servizi e delle infrastrutture necessari al vivere civile; ciò, com’è notorio, è fra le principali cause del degrado urbano e dei gravi problemi sociali che ne derivano (cfr. Cons. St., sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3381 e 19 giugno 2014, n. 3115, nonché Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 2013, n. 51710). ​​​​​​​La giurisprudenza ha delineato anche un ulteriore ipotesi: la cd. lottizzazione mista, caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali individuate dalla predetta norma (Cass. n. 6080 del 26 ottobre 2007: “integra il reato di lottizzazione abusiva anche la cosiddetta lottizzazione “mista”, consistente nell’attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso”; cfr. anche Cass. 20 maggio 2015, n. 24985). ​​​​​​​Ha aggiunto la Sezione che il sindacato della Amministrazione non risulta completamente sovrapponibile a quello svolto dal Giudice penale relativamente alla fattispecie criminosa di cui all’art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, seppure in ipotesi avente ad oggetto i medesimi fatti storici, mira ad accertare la responsabilità penale dell’imputato, con le relative conseguenze sulla sua libertà personale e che, pertanto, sul piano processuale esige la dimostrazione della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio del reo (art. 533 c.p.p.). ​​​​​​​Infatti, procedimento amministrativo e procedimento penale, anche se sono destinati ad incidere sullo stesso bene giuridico, procedono comunque su binari paralleli: il giudizio penale ha riguardo alla responsabilità dell’imputato (e, di conseguenza, alla confisca del bene), mentre il giudizio amministrativo attiene alla legittimità del provvedimento disposto dall’amministrazione, del quale l’acquisizione dell’area è semplicemente una conseguenza automatica (Cons. St., sez. VI, 23 marzo 2018, n. 1878). ​​​​​​​Esclusa la connotazione penalistica delle conseguenze derivanti dal provvedimento impugnato (né le parti hanno prospettato la natura sostanzialmente penale della sanzione amministrativa in discorso alla stregua dei criteri individuati dalla giurisprudenza della Corte EDU “Engel”), deve ribadirsi che il sindacato di questo Giudice attiene alla piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione, al fine di verificare l’esattezza materiale degli elementi di prova invocati dall’amministrazione, la loro affidabilità e la loro coerenza, e se essi sono idonei a corroborare le conclusioni che la stessa amministrazione ne ha tratto, non secondo il canone di valutazione dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, proprio del giudizio penale avente direttamente ad oggetto le condotte e la responsabilità personale dell’imputato, ma di credibilità razionale della decisione amministrativa alla luce degli elementi posti dall’amministrazione a giustificazione della stessa, essendo poi onere del ricorrente, tramite il ricorso, quello di contestare la veridicità dei fatti, o di rappresentate circostanze atte ad incrinare la credibilità del processo intellettivo sottostante la decisione dell’amministrazione.  ​​​​​​​In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che i principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato possono al più essere spesi al fine dell’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l’art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: Grande Chambre, 28 giugno 2018, n. 1828), nel mentre l’argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune, contemplata dall’art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato (Cons. St., sez. VI, 23 marzo 2018, n. 1878; id., sez. II, 17 maggio 2019, n. 3196; id. 24 giugno 2019, n. 4320, C.g.a. n. 93 del 8 febbraio 2021).
Edilizia
Risarcimento danni - Danno da lesione di interesse legittimo pretensivo – Peresupposti.                Ai fini del giudizio prognostico di spettanza del bene della vita, che presiede alla pronuncia sulla domanda risarcitoria da lesione di interessi legittimi pretensivi, la cognizione del giudice è estesa a tutti gli aspetti che avrebbero potuto o dovuto essere esaminati dall’amministrazione per provvedere sull’istanza del privato e non è limitata ai soli profili esaminati nel precedente giudizio di annullamento del diniego illegittimo, sui quali si sia formato il giudicato (1).   (1) In termini Cons. Stato, sez. II, 30 marzo 2020, n. 2161.   Ha ricordato la Sezione che nelle controversie risarcitorie, il principio dispositivo non è temperato dal metodo acquisitivo e trova integrale applicazione la regola sancita dall’art. 2697 c.c., con la conseguenza che spetta al danneggiato fornire la prova del danno ingiusto e delle conseguenze pregiudizievoli che ne siano derivate, oltre a quella dell’elemento soggettivo rappresentato dal dolo o dalla colpa dell’amministrazione procedente. Le eventuali carenze istruttorie, nelle quali l’amministrazione sia incorsa nell’ambito del procedimento illegittimamente definito con il rigetto di un’istanza, non tolgono pertanto che, nel giudizio promosso per il risarcimento del danno, il difetto di prova in ordine alla sussistenza delle condizioni che avrebbero imposto il rilascio del provvedimento richiesto comporti il rigetto della domanda.  ​​​​​​​Ha aggiunto che l’accoglimento della domanda risarcitoria riferita alla perdita certa del risultato utile, che il ricorrente avrebbe conseguito dal rilascio del provvedimento illegittimamente negato, richiede la dimostrazione di tutte le condizioni che avrebbero imposto all’amministrazione di riconoscere la spettanza di quello specifico bene della vita. A fronte della prova che il provvedimento non avrebbe potuto essere rilasciato nei termini richiesti, per accertata assenza delle condizioni occorrenti, non rilevano peraltro gli esiti alternativi favorevoli che, in ipotesi astratta, il procedimento avrebbe potuto avere se l’amministrazione avesse invitato l’interessato a conformare la sua istanza per renderla assentibile, giacché il giudizio di spettanza non può ridursi a una valutazione puramente congetturale.   La Sezione ha poi chiarito che la domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, vale a dire da perdita certa del bene della vita correlato al provvedimento oggetto di un illegittimo diniego, è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da perdita della chance di conseguire comunque un qualche ipotetico vantaggio attraverso il rilascio di un provvedimento positivo, ancorchè dal contenuto diverso da quello in concreto negato. La prima domanda non può, pertanto, considerarsi contenuta nella seconda e il giudice non può farsene carico neppure in via subordinata, pena la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato.  
Risarcimento danni
Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Principio di alternatività – Impugnazione in sede straordinaria dell’occupazione d’urgenza e in sede giurisdizionale del decreto di esproprio – Inammissibilità del ricorso giurisdizionale.   La regola di alternatività opera anche quando, dopo l’impugnazione in sede straordinaria dell’atto presupposto, venga gravato in sede giurisdizionale l’atto conseguente, al fine di dimostrarne l’illegittimità derivata dalla dedotta invalidità dell’atto presupposto; cosicché il giudizio già pendente avverso l’atto presupposto esercita una vis attractiva su ogni altro atto ad esso oggettivamente connesso e fa escludere che la contestazione rivolta agli atti connessi possa aver luogo attraverso separato ricorso in diversa sede; è pertanto inammissibile l’impugnazione in sede giurisdizionale del decreto di esproprio se con precedente ricorso straordinario al Presidente della Repubblica era stata impugnata l’occupazione d’urgenza dei terreni (1). (1) La Sezione ha richiamato l'interpretazione estensiva del principio di alternatività fra ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e ricorso giurisdizionale, enunciato dall’art. 8, comma 2, d.P.R. n. 1199 del 1971. Nel prestare adesione all’orientamento maggioritario, la Sezione ha osservato che si tratta di un indirizzo teleologico fondato su una nozione di alternatività di carattere sostanziale che privilegia le esigenze di economia dei giudizi e persegue la finalità di evitare contrasti fra giudicati sede” (Cons. St., sez. II, 23 agosto 2019, n. 5856).  Quanto alla possibile obiezione che attiene al vulnus al diritto di difesa che deriverebbe, nella fattispecie, dalla predetta interpretazione, che renderebbe di fatto impossibile la proposizione della domanda di risarcimento danni, ha chiarito la Sezione che se è vero che per consolidato orientamento la natura impugnatoria del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ammesso contro atti amministrativi definitivi e per soli motivi di legittimità (art. 8, d.P.R. n. 1199 del 1971), esclude che con lo stesso possano esercitarsi azioni differenti rispetto a quella di annullamento (Cons. St., sez. I, 19 luglio 2019, n. 2104; id. 4 luglio 2019, n. 1984; id. 7 gennaio 2019, n. 77; id., sez. III, 6 maggio 2015, n. 2273), tuttavia la domanda risarcitoria era ammissibile in sede giurisdizionale, dove la stessa è proponibile anche in via autonoma e indipendentemente dalla rituale impugnazione dell’atto lesivo (art. 30 c.p.a.).
Ricorso straordinario al Capo dello Stato
Giurisdizione – Associazioni e fondazioni – Dichiarazione di appartenenza ad associazione massonica – Lesione della libertà di associarsi e del diritto alla riservatezza – Controversia – Giurisdizione Ago.     Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sul ricorso promosso a tutela del diritto costituzionale alla libertà di associazione e a tutela della riservatezza (1).    (1) La Sezione ha ricordato che sebbene sia ormai acquisito che anche il giudice amministrativo, al pari del giudice ordinario, possa assicurare una tutela piena anche dei diritti fondamentali, è altrettanto noto che, a tal fine, è necessario rinvenire una disposizione che attribuisca a tale giudice la giurisdizione esclusiva, e che si riscontri l’esercizio di un potere autoritativo.  Poste tali coordinate, nel caso in esame – e in relazione al petitum e alla causa petendi come sopra delineati – non è invocabile a radicare la giurisdizione esclusiva del G.A. l’art. 133, co. 1, lett. a), n. 6, cod. proc. amm., il quale attribuisce al giudice amministrativo le (diverse) controversie in tema di diritto di accesso ai documenti e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa.   Ha aggiunto che l’art. 152, d.lgs. n. 196 del 2003 attribuisce all'autorità giudiziaria ordinaria tutte le controversie “comunque riguardanti l'applicazione della normativa in materia di protezione dei dati personali” (oltre che le controversie che attengono ai ricorsi ex art. 79 del regolamento CE 2016/679, per violazione, a seguito di trattamento, dei diritti di cui gode ogni interessato) e che a tale categoria di controversie deve essere ricondotto il ricorso proposto dai ricorrenti a tutela della propria sfera di riservatezza, oltre che del proprio diritto ad associarsi liberamente. ​​​​​​​
Giurisdizione
Covid-19 - Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo per gli alunni di 6-11 anni              Deve essere riesaminata in tempi brevi la disposizione del d.P.C.M. 14 gennaio 2021 (che, nelle more, non è sospeso), che impone l'uso delle mascherine in classe ai bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni, avendo rilevato vizi dell'istruttoria  (1).        (1) La Sezione ha chiarito che la misura impugnata è stata imposta, per la prima volta, con il d.P.C.M. 3 novembre 2020, il quale richiama i verbali nn. 122 e 123 delle sedute del CTS, rispettivamente, del 31 ottobre e del 3 novembre 2020.  Il primo (n. 123) non ha riguardato le misure relative alla didattica in “presenza” e, nel secondo (n. 124) il CTS, chiamato ad esprimere un parere sulla bozza dell’adottando d.P.C.M., si è limitato a valutare “congruo l’impianto generale del DPCM relativo all’adozione di ulteriori misure volte al contenimento del contagio dal virus Sars – coV-2 commisurate all’attuale fase epidemiologica” senza nulla indicare sullo specifico punto dell’uso delle mascherine a scuola.  Nel verbale n. 124 dell’8 novembre 2020, successivo alla data del suddetto d.P.C.M., nel rispondere ad alcuni quesiti posti da vari Ministeri, il CTS dopo aver riportato il testo della disposizione impugnata ha rilevato che “il medesimo d.P.C.M. non indica per il contesto scolastico eccezioni correlate al distanziamento” aggiungendo che “anche in considerazione dell’andamento della contingenza epidemiologica, il CTS ritiene auspicabile e opportuno confermare la misura adottata in coerenza con la scalabilità delle misure previste dalle “Misure di prevenzione e raccomandazioni per gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado per la ripresa dell'anno scolastico 2020-2021” approvate nella seduta del CTS del 31 agosto 2020”.  Nel suddetto verbale n. 104, dedicato esclusivamente alla tematica della imminente riapertura di tutte le scuole, si legge: “Il riavvio delle attività scolastiche, pertanto, dovrà continuare a tenere conto dell'evoluzione dell'andamento epidemiologico, anche prevedendo una modularità e scalabilità delle azioni di prevenzione inclusa quella in esame [NDR l’uso della mascherina]. In particolare, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, in un recente documento del 21 agosto fornisce indicazioni rispetto all'uso delle mascherine in ambito scolastico differenziandole per fasce di età: - Fra 6 e 11 anni: uso condizionato alla situazione epidemiologica locale, prestando, comunque, attenzione al contesto socio-culturale e a fattori come la compliance del bambino nell'utilizzo della mascherina e il suo impatto sulle capacità di apprendimento; - Dai 12 anni in poi: utilizzare le stesse previsioni di uso degli adulti”.  Sempre nel medesimo verbale il CTS afferma: “Rimarcando l'importanza dell'uso di dette mascherine, si specifica che: -Nell'ambito della scuola primaria, per favorire l'apprendimento e lo sviluppo relazionale, la mascherina può essere rimossa in condizione di staticità (i.e. bambini seduti al banco) con il rispetto della distanza di almeno un metro e l'assenza di situazioni che prevedano la possibilità di aerosolizzazione (es. canto)”.  Dunque, nello specifico documento in cui il CTS si è espresso in ordine alla tematica dell’uso delle mascherine a scuola, in via preventiva rispetto all’adozione di atti amministrativi (verbale n. 104 del 31 agosto 2020), tale organo tecnico-scientifico non ha consigliato di imporne l’uso, in modo indiscriminato, ai bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni, affermando viceversa che “la mascherina può essere rimossa in condizione di staticità (i.e. bambini seduti al banco) con il rispetto della distanza di almeno un metro e l'assenza di situazioni che prevedano la possibilità di aerosolizzazione (es. canto)”. Sempre nel verbale n. 104, il CTS ha specificato che il riavvio delle attività scolastiche dovrà continuare a tenere conto dell'evoluzione dell'andamento epidemiologico, anche prevedendo una “modularità e scalabilità delle azioni di prevenzione” inclusa quella dell’uso delle mascherine, dunque escludendo una imposizione indiscriminata dell’uso delle mascherine ma suggerendo di modulare e scalare le misure in pejus o in melius in considerazione sia dell'evoluzione dell'andamento epidemiologico sia dell’oggettivo “rispetto della distanza di almeno un metro” fra i banchi.  Nel verbale in rassegna il CTS ha ribadito “che il distanziamento fisico (inteso come distanza minima di 1 metro tra le rime buccali degli alunni e, a maggior tutela degli insegnanti, di due metri nella zona interattiva della cattedra tra l'insegnante stesso e i banchi) rimane uno dei punti di primaria importanza nelle azioni di prevenzione del contenimento epidemico ed è da intendersi nel contesto scolastico, in linea generale, sia in condizione statica che in movimento”.  - che, nel verbale n. 133 del 3 dicembre 2020, richiamato nel successivo d.P.C.M.  3 dicembre 2020, il CTS ha valutato congruo l’impianto generale della bozza di d.P.C.M.  sottoposta alla sua attenzione, ma non ha espresso alcunchè in ordine all’imposizione delle mascherine ai bambini durante l’orario scolastico.  Infine, anche nel verbale n. 144 del 12 gennaio 2021, richiamato nel d.P.C.M. 14 gennaio 2021, il CTS non ha svolto alcuna osservazione sulla misura in parola, oggetto di impugnazione;  Sulla scorta della ricostruzione fin qui effettuata, il d.P.C.M. 3 novembre 2020 pare essersi discostato dalle indicazioni preventive e specifiche fornite dal CTS nel verbale n. 104 citato, senza tuttavia motivare alcunchè sulle ragioni del diverso opinamento e senza addurre o richiamare evidenze istruttorie di diverso avviso, in ipotesi ritenute prevalenti rispetto al parere tecnico-scientifico del CTS.  I due verbali del CTS (n. 122 e n. 123) richiamati nel d.P.C.M. 3 novembre 2020 che, per la prima volta, ha imposto l’uso incondizionato della mascherina ai bambini infradodicenni, nulla esprimono sullo specifico punto oggetto di doglianza, sicchè appare sussistere il dedotto difetto di motivazione e di istruttoria.  Il medesimo vizio appare perpetuato nei successivi d.P.C.M., nella parte in cui hanno reiterato la censurata misura senza prevedere la possibilità di rimuovere la mascherina “in condizione di staticità (i.e. bambini seduti al banco) con il rispetto della distanza di almeno un metro e l'assenza di situazioni che prevedano la possibilità di aerosolizzazione (es. canto)”, come consigliato dal CTS nel verbale n. 104, in assenza di un supporto istruttorio differente e/o prevalente.  Al fine di dare copertura ad una misura, che i ricorrenti ritengono fortemente invasiva e potenzialmente lesiva della salute psico-fisica dei minori, non pare sufficiente la mera valutazione di congruità dell’impianto generale dei successivi d.P.C.M.  espressa dal CTS.  Appare perplessa la posizione del CTS che, nel verbale n. 124 relativo alla seduta dell’8 novembre 2020, “ritiene auspicabile e opportuno confermare la misura adottata” ma “in coerenza con la scalabilità delle precauzioni” previste dalle “Misure di prevenzione e raccomandazioni per gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado per la ripresa dell’anno scolastico 2020-2021”, approvate nella seduta del CTS n. 104 del 31 agosto 2020. Invero, poiché il suddetto documento indicava espressamente la possibilità di rimuovere la mascherina in condizione di staticità e con il distanziamento, appare intrinsecamente contraddittoria l’affermazione di auspicare la conferma di una misura che si era posta in distonia con il documento “Misure di prevenzione e raccomandazioni per gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado per la ripresa dell’anno scolastico 2020-2021”, continuando tuttavia a rinviare e, sostanzialmente, a confermare la piena validità di tale documento.  Infine, la nota del Ministero della Salute - Direzione Generale della Prevenzione del 29 dicembre 2020, non indica che determinate evidenze scientifiche siano state assunte a fondamento tecnico-scientifico dell’imposizione della misura impugnata, ma si limita a riferire di varia letteratura scientifica in cui si affronta la tematica delle possibili ricadute sulla salute psico-fisica dei bambini derivanti dall’uso prolungato della mascherina, in cui è stato rilevato il disagio psicologico provocato da tale uso ed è stato ritenuto “che i disagi percepiti e gli atteggiamenti negativi associati all'uso delle mascherine durante la pandemia COVID-19 possano essere almeno parzialmente spiegati dai tentativi di soddisfare tre bisogni psicologici di base (autonomia, relazione e comprensione), piuttosto che con un disagio fisiologico reale”.  Il CTS, nel verbale n. 143 dell’8 gennaio 2021, non ha “fatto proprio” l’avviso espresso dal Ministero della Salute nella nota prot. n. 42458 del 29 dicembre 2020 ma si è limitato ad acquisirla e a ritrasmetterla al Servizio del Contenzioso del Dipartimento della Protezione Civile per i seguiti di competenza, senza fornire alcuna autonoma risposta alla richiesta istruttoria in funzione della quale tale nota era stata predisposta.
Covid-19
Covid-19 - Sicilia – Palermo - Orari di vendita e somministrazione di bevande alcoliche - Ordinanza del Sindaco di Palermo di modifica degli orari -  Per prevenire situazioni di aggregazione serale/notturna – Estensione del divieto anche ai distributori automatici di bevande alcooliche - Va sospesa    Deve essere sospesa in via monocratica l’ordinanza n. 66 del 12 giugno 2020 del Sindaco di Palermo non contingibile ed urgente ai sensi dell'art. 50 comma 7 bis, d.lgs. n. 267 del 2000, che ha disposto, nella fase di emergenza Covid-19, la modifica degli orari di vendita e somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche di qualsiasi gradazione per prevenire situazioni di aggregazione serale/notturna e il conseguenziale disturbo della quiete e del riposo, essendo condivisibili i profili che evidenziano, in sostanza - in relazione alla finalità essenziale perseguita dall’impugnata ordinanza - la non ragionevole estensione del previsto divieto anche ai distributori automatici di bevande alcooliche.
Covid-19
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio - Mascherine chirurgiche – Prezzi – Ordinanza che calmiera i prezzi delle mascherine chirurgiche – Non va sospesa              Non deve essere sospesa in via monocratica l’Ordinanza n. 11 del 2020 emessa dal Commissario Straordinario in data 26 aprile 2020, con la quale è stato imposto il prezzo massimo di vendita al consumo delle mascherine facciali (standard UNI EN 14683), non superiore ad euro 0,50 per ciascuna unità, da indossare per fronteggiare i rischi sanitari da emergenza Covid-19, avuto riguardo alla natura della pretesa dedotta e al rilievo, nella necessaria comparazione dei più interessi pubblici e privati coinvolti, da annettersi all’esigenza di calmieramento del prezzo di un bene utile a fronteggiare l’emergenza sanitaria in atto, quali appunto le cd. mascherine “chirurgiche”.
Covid-19
Contratti della pubblica amministrazione – Offerta - Costo della manodopera - Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Verifica di congruità – Contenuti - Parametro ANCE – Utilizzabilità ex se – Esclusione.       Ai fini della verifica della congruità dell’offerta presentata in sede di gara non assume rilevanza il parametro ANCE che, se può costituire un utile riferimento per corroborare le valutazioni di congruità del costo del lavoro, quale canone riferito a dati generali e aggregati (percentuale generale del costo del lavoro per singola tipologia di lavorazione), non può costituire unico fondamento dell’analisi condotta dalla Stazione appaltante (1).   (1) La verifica del costo della manodopera di cui all’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 mira ad accertare la congruità del valore dichiarato non sulla base dell’affermato rispetto delle garanzie retributive dei lavoratori, ma delle caratteristiche specifiche dell’impresa e dell’offerta, considerando in concreto il numero di lavoratori impiegati per l’esecuzione delle opere previste in contratto, distinti per inquadramento e ore di utilizzo, al fine di determinare il costo orario delle maestranze destinate all’esecuzione dell’appalto e verificare così il rispetto dei parametri salariali di riferimento indicati nelle tabelle ministeriali di cui all’art. 23, comma 16, del d.lgs. n. 50/2016, richiamato dall’art. 97, comma 5, lett. d, del medesimo decreto (disposizione questa a cui fa rinvio l’art. 95, comma 10, ai fini della verifica del costo della manodopera condotta contestualmente o separatamente da una verifica di congruità complessiva dell’offerta).  Come nella verifica di anomalia, devono essere forniti alla Stazione appaltante tutti gli elementi necessari alla ricostruzione del costo della manodopera sopportato dall’impresa per l’esecuzione di quanto proposto con l’offerta prodotta in gara, eventualmente anche non strettamente relativi a tale costo ma utili alla ricostruzione dello stesso. Tale analisi non può limitarsi semplicemente alla verifica dell’incidenza percentuale del costo complessivo della manodopera sulle singole lavorazioni, confrontandola con quella riscontrabile nell’ambito del mercato di riferimento, ma deve andare a considerare anche le particolarità della singola impresa e della singola offerta al fine di accertare che il costo complessivamente indicato inglobi effettivamente trattamenti salariali non inferiori ai minimi previsti per i singoli lavoratori impiegati. ​​​​​​​Non può pertanto assumere rilevanza il parametro ANCE che, se può costituire un utile riferimento per corroborare le valutazioni di congruità del costo del lavoro, quale canone riferito a dati generali e aggregati (percentuale generale del costo del lavoro per singola tipologia di lavorazione), non può costituire unico fondamento dell’analisi condotta dalla Stazione appaltante. Il documento ANCE è infatti legato alla finalità di contrastare il lavoro sommerso e irregolare e reca indici meramente convenzionali per una verifica ex post della incidenza del costo del lavoro sul valore dell’opera, indici che non possono essere “utilizzati ad altri fini o comunque quali indicatori per i prezzi degli appalti”. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Giustizia amministrativa – Interesse ad agire – Rifiuti. Ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. p), c.p.a., rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati, comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere. (1) Rifiuti – Tassa – Piano economico finanziario – Funzione – Costi – Individuazione – Parte fissa – Parte variabile – Copertura – Tariffa – Determinazione. La tassa sui rifiuti (TA.RI.), che ha sostituito i preesistenti tributi, rappresenta il prelievo fiscale destinato alla copertura integrale del costo del servizio per la gestione dei rifiuti solidi urbani ed assimilati. In relazione ad essa, ciascun Comune è tenuto a calcolare, mediante l’approvazione del piano economico finanziario, i costi che devono essere coperti con la TA.RI. e, con la delibera di determinazione delle tariffe, a ripartire i suddetti oneri tra gli utenti. Le tariffe TA.RI. assicurano la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti e si compongono di una parte fissa, in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio - segnatamente, investimenti per le opere e per ammortamenti - e di una parte variabile, riconducibile alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito ed all’entità dei costi di gestione. (2) Rifiuti – Tassa – Piano economico finanziario – Costi – Ripartizione – Ambito – Comunale – Legittimità – Sovracomunale – Squilibrio – Illegittimità. In materia di tassa sui rifiuti (TA.RI.), è illegittima la disposizione del piano economico finanziario della competente autorità d’ambito che ripartisca i costi complessivi per lo svolgimento del servizio tra gli utenti privati, tenendo conto dell’intero ambito sovracomunale e non di quello comunale, determinando uno squilibrio in danno del singolo ente locale ed in favore di altri. (3) (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 1 aprile 2019, n. 2128; idem, sez. V, 3 gennaio 2020, n. 43. (2) Precedenti conformi: T.a.r. per la Puglia, sez. I, 6 settembre 2022, n. 1391; T.a.r. per la Campania, sez. I, 12 settembre 2022, n. 5680. (3) Precedenti conformi: T.a.r. per la Campania, sez. I, 19 dicembre 2019, n. 6040
Giustizia amministrativa
Contratti della Pubblica amministrazione - Società mista - Limite minimo del 30% della partecipazione del socio privato – Criterio di computo – Partecipazione del socio privato inferiore al 30% - Conseguenza – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue.      Devono essere rimesse alla Corte di giustizia UE le questioni pregiudiziali: a) se sia conforme al diritto eurounitario ed alla corretta interpretazione dei considerando 14 e 32, nonché degli artt. 12 e 18 della Direttiva n. 24/2014/UE e 30 della Direttiva n. 23/2014/UE, anche con riferimento all’art. 107 TFUE, che, ai fini della individuazione del limite minimo del 30% della partecipazione del socio privato ad una costituenda società mista pubblico – privata, limite ritenuto adeguato dal legislatore nazionale in attuazione dei principi eurounitari fissati in materia dalla giurisprudenza comunitaria, debba tenersi conto esclusivamente della composizione formale/cartolare del predetto socio ovvero se l’amministrazione che indice la gara possa – o anzi debba – tener conto della sua partecipazione indiretta nel socio privato concorrente; b) in caso di soluzione positiva del precedente quesito se sia coerente e conforme con i principi eurounitari, ed in particolare con il principio di concorrenza, proporzionalità e adeguatezza, che l’amministrazione che indice la gara possa escludere dalla gara il socio privato concorrente, la cui effettiva partecipazione alla costituenda società mista pubblico privata, per effetto della accertata partecipazione pubblica diretta o indiretta, sia di fatto inferiore al 30%  (1). (1) La controversia trae origine dalla gara, bandita da Roma Capitale, a doppio oggetto per la scelta del socio privato e per l’affidamento del servizio scolastico integrato di competenza di Roma Capitale a società per azioni mista pubblico – privata, fissando al 51% la partecipazione di Roma Capitale e al 49% quella del socio privato e stabilendo che a carico di quest’ultimo fosse posto l’intero rischio operativo. Ha quindi ricordato la Sezione che la scelta di una pubblica amministrazione di costituire una società mista pubblico - privata è tipica manifestazione della discrezionalità che la legge attribuisce alla stessa amministrazione per il raggiungimento degli interessi pubblici attribuiti alla sua tutela; la legittimità di tale scelta postula il perseguimento di finalità di interesse pubblico o generale una gara a doppio oggetto, la scelta del socio privato a mezzo di gara ad evidenza pubblica. Il socio privato deve essere operativo e non un mero socio di capitale, stante la specificità del ruolo che deve assumere nell’attuazione dell’oggetto sociale: del resto, il coinvolgimento del socio privato per il perseguimento di fini di interessi generali si giustifica proprio per la carenza in seno alla amministrazione pubblica delle competenze necessarie di cui ha la disponibilità il socio privato. La partecipazione del socio privato operativo deve essere adeguata, idonea cioè a rendere possibile l’attuazione dell’oggetto sociale; tale adeguatezza è stata fissata dal legislatore nazionale, proprio ai fini del rispetto dei principi eurounitari, nella soglia minima di partecipazione del 30%; con la conseguenza che una partecipazione inferiore a tale soglia, secondo la valutazione insindacabile e non irragionevole del legislatore, è di per sé inidonea a rendere effettivamente conseguibile il perseguimento dell’oggetto sociale cioè lo scopo che giustifica la stessa costituzione della società mista pubblico - privata; la partecipazione pubblica alla società mista pubblico - privata non deve superare il 70%. Sotto altro profilo deve osservarsi che la società mista pubblico - privata è destinata a svolgere servizi di interesse generale (ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2016), in realtà un’attività di impresa, da erogare dietro corrispettivo e capace di produrre lucro. Tuttavia al riguardo occorre (precisare e) distinguere lo scopo (di lucro) della società mista pubblico - privata da quello dall’amministrazione pubblica che è indiscutibilmente pubblico, con la conseguenza che l’attività della società mista pubblico - privata ed i servizi che essa offre sono sottoposti a condizioni di accessibilità che un soggetto di natura esclusivamente privata riterrebbe non vantaggiose. Il limite massimo del 70% della partecipazione pubblica alla società mista pubblico - private finisce in definitiva con l’individuare il punto oltre il quale l’attività della predetta società altererebbe la concorrenza sul mercato, poiché non solo renderebbe inappetibile quel determinato settore del mercato, ma consentirebbe al socio privato della società mista pubblico - privata di limitare eccessivamente (al di sotto del 30%) il rischio economico della partecipazione all’impresa stessa. Così fissate le coordinate della controversia, per la sua soluzione occorre stabilire se, ai fini del rispetto della giusta soglia di partecipazione alla costituenda società mista pubblico - privata (non più del 70% per quanto riguarda la partecipazione pubblica, non meno del 30% per la partecipazione del socio privato) debba farsi riferimento alla sola natura giuridica del socio privato oppure, qualora esso sia partecipato da capitale pubblico, se debba tenersi conto anche di quest’ultima. Com’è intuitivo la questione non riveste un carattere meramente formale. Se si tiene conto infatti della sola veste giuridica del socio privato in quanto tale, privilegiando, come in definitiva sostengono nella fattispecie in esame le appellanti, la parità di trattamento dei concorrenti (al procedimento di scelta del socio privato della costituenda società mista pubblico - privata) ed il principio di non discriminazione, oltre che il più generale principio di libertà dell’iniziativa economica privata, sarebbe da ritenere rilevante e decisivo il solo fatto che nel caso di specie Roma Multiservizi s.p.a., in quanto società per azioni è un soggetto privato, indipendentemente dalla effettiva composizione della sua compagine sociale e dalla natura del suo capitale. Considerando al contrario l’aspetto sostanziale della configurazione sociale di Roma Multiservizi s.p.a. ed in particolare il fatto che essa è partecipata al 51% da AMA s.p.a., che a sua volta è interamente detenuta da Roma Capitale, si giunge a considerare che nella costituenda società mista pubblico - privata la partecipazione pubblica sarebbe solo formalmente pari al 51%, ma di fatto ascenderebbe al 73,5%, e correlativamente la partecipazione del socio privato, formalmente del 49%, si attesterebbe al 26,5%, inferiore al limite di legge del 30%: ciò non solo eluderebbe il dettato normativo nazionale (oltre alla stessa effettiva previsione della lex specialis), per quanto – e soprattutto – realizzerebbe o potrebbe realizzare una situazione di inefficienza del mercato e violerebbe il principio di concorrenza, in quanto consentirebbe ad un socio privato (della costituenda società mista pubblico - privata) di godere ingiustamente dei vantaggi della partecipazione pubblica, dando vita ad una sostanziale rendita di posizione capace di impedire l’accesso proficuo di altri soggetti allo specifico segmento del mercato concernente la stessa attività economica. D’altra parte sotto tale ultimo profilo dovrebbe ritenersi coerente con i principi di legalità (sostanziale), imparzialità e buon andamento, predicati dall’art. 97 della Costituzione, e con quelli di efficienza, efficacia, adeguatezza e proporzionalità, in relazione al principio di concorrenza, parità di trattamento e non discriminazione, propugnati dai principi eurounitari, la decisione di una pubblica amministrazione (quale nella specie Roma Capitale) che, dando puntuale applicazione ed attuazione ai fondamentali indirizzi stabilità dal proprio organo di indirizzo politico-amministrativo (l’Assemblea capitolina), valuti in concreto la composizione dei partner che intendano concorrere alla selezione per la scelta del socio di una costituenda società mista pubblico - privata e decida motivatamente di escludere un concorrente, di cui la stessa amministrazione partecipi al capitale in misura significativa, tale da superare il limite della partecipazione pubblica ammessa nella costituenda newco, correlativamente limitando di fatto la partecipazione del privato ad una soglia inferiore al 30% ritenuta dal legislatore nazionale adeguata per il rispetto dei ricordati principi eurounitari. La scelta dell’una o dell’altra opzione interpretativa è idonea a determinare la soluzione della controversia in un modo, ovvero nel suo esatto opposto e ciò rende rilevante la questione di interpretazione pregiudiziale da sottoporre alla Corte di giustizia.
Contratti della Pubblica amministrazione
Elezioni – Voto – Espressione – Ricorso illecito al sistema della c.d. scheda ballerina – Omessa prova – Operazioni elettorali – Non vanno annullate.      Non possono essere annullate le operazioni elettorali per presunto ricorso al sistema della c.d. scheda ballerina ove la reale esistenza di irregolarità sostanziali nelle operazioni di voto oltre a essere meramente congetturale, in quanto non suffragata da indici oggettivi e riscontri esterni di un eventuale deficit di libertà e genuinità nell’espressione del voto (le cui operazioni si svolgono, peraltro, sotto un diffuso controllo sociale), è contraddetta da interpretazioni alternative delle risultanze elettorali  (1).   (1) Ha ricordato il C.g.a. che la regola fondamentale nella materia elettorale è quella del rispetto della volontà dell'elettore e dell'attribuzione, fin tanto che si possa, di significato alla consultazione elettorale, che pertanto le regole formali contenute nella normativa e nelle istruzioni ministeriali sono strumentali, e la loro violazione è significativa soltanto se dimostra una sostanziale inattendibilità del risultato finale  (Cons. St., sez. III, 21 novembre 2016, n. 4863). Invero, il principio di strumentalità delle forme nel procedimento elettorale, coniugato con i generali principi di conservazione dell'atto, comporta l'applicazione dell'istituto dell'illegittimità non invalidante nel procedimento elettorale, in cui ha preminente rilievo l'interesse alla stabilità del risultato elettorale (Cons. St., sez. III, 19 dicembre 2017, n. 5959). Onde è che, in applicazione dei canoni della strumentalità delle forme e del favor voti, nelle operazioni elettorali vanno quindi considerate irrilevanti le mere irregolarità, ossia quelle inesattezze della procedura rispetto alla disciplina normativa che tuttavia non incidono sulla sincera e libera espressione del voto, in quanto rispetto a tali inesattezze deve prevalere l'esigenza di preservare la volontà espressa dal corpo elettorale (Cons. St., sez. V, 27 giugno 2011, n. 3829), senza che possa bastare, in contrario, addurre vagamente che le schede mancanti "potrebbero" essere state utilizzate per "voti di scambio" (Cons. St., sez. V, 19 gennaio 2013, n. 297). Come è stato puntualizzato nell’ambito della medesima giurisprudenza, pertanto, il semplice sospetto dell'utilizzo di un sistema fraudolento, se non corroborato da specifici elementi oggettivi non raggiunge la soglia contenutistica necessaria per sostanziare una censura meritevole di un esame giurisdizionale. E, proprio con riguardo al sistema delle c.d. schede ballerine, è stato confermato, appunto, che il solo sospetto di un utilizzo fraudolento delle schede rinvenute, in assenza di riscontri oggettivi, costituisce censura generica inidonea ad entrare nel processo (Cons. St., sez.  III, 30 gennaio 2017, n. 368). Anche in un caso in cui si era rivelato impossibile chiarire quale sorte abbia avuto il notevole numero di schede che risultano consegnate alle sezioni e non utilizzate, è stato quindi affermato che tale circostanza avrebbe potuto portare all'annullamento delle operazioni elettorali solo ove fosse stata dimostrata la sua concreta incidenza sul risultato elettorale, non essendo sufficiente un mero dubbio. E' palese, infatti, che la volontà espressa dagli elettori può essere sovvertita laddove si riscontrino positivi elementi circa l'irregolarità della sua ricostruzione da parte delle sezioni elettorali, in mancanza dei quali la volontà popolare deve essere rispettata (Cons. St., sez. III, 30 giugno 2016, n. 2950). Analogamente, in assenza di particolari indizi di inquinamento del voto municipale è stato ritenuto che la scomparsa di un numero limitato di schede (nella specie due, del che lo stesso verbale sezionale dà atto), essendo certamente compatibile con il possibile prodursi di comuni, innocue - per quanto non commendevoli - distrazioni individuali o disfunzioni burocratiche, non può assurgere a causa di invalidità ex se delle operazioni, ma può inficiare queste ultime solo se in grado di incidere effettivamente sullo scarto di preferenze registrato tra i due contendenti alla nomina a Sindaco (Cons. St., sez. V, 19 gennaio 2013, n. 297). Ferma restando, dunque, la potenziale rilevanza di un dato come quello della non coincidenza tra il numero delle schede autenticate e la somma di quelle votate e autenticate non utilizzate, è stato affermato che, per potersi effettivamente giustificare in casi siffatti un’invalidazione dell’elezione, occorre che il detto difetto di coincidenza si accompagni ad altre irregolarità che facevano supporre un comportamento illecito delle commissioni elettorali, o, quantomeno, si collocava in un contesto nel quale l'irregolarità non trovava altra plausibile spiegazione che quella, appunto, della pratica della c.d. scheda ballerina, ossia il meccanismo del far uscire illecitamente dal seggio una scheda elettorale vidimata ma non votata per farla poi di volta in volta utilizzare, dai singoli elettori, al posto delle schede in bianco loro consegnatale dal seggio, al fine di guidarne il voto (Cons. St., sez. III, 21 novembre 2016, n. 4863). E parimenti si è detto, dinanzi agli analoghi casi di una erronea oppure mancante verbalizzazione del numero di schede autenticate e non utilizzate, che ai fini di un’invalidazione fosse necessario quantomeno un principio di prova che la relativa carenza avesse anche comportato (o fosse l'indice rivelatore di) una effettiva irregolarità delle operazioni elettorali che hanno visto la lista avversaria riportare un numero maggiore di voti (Cons. St., sez. III, 19 dicembre 2017, n. 5959). Fatta questa premessa il C.g.a. ha ricordato che il personale assegnato ai seggi elettorali –presidenti e scrutatori- non svolge le relative funzioni in via continuativa e professionale, ma solo -e nella migliore delle ipotesi- del tutto episodicamente. In più, le esigenze proprie del procedimento elettorale lo costringono a un impegno intensivo lungo un consistente arco di tempo continuativo, e questo, sovente, sotto una certa pressione, e senza la possibilità di pause di riflessione o momenti di approfondimento dinanzi alle difficoltà che possano insorgere. D’altro canto, la normativa della materia ha sicuramente un certo grado di complessità, che le istruzioni ministeriali non potrebbero eliminare. Gli oneri di verbalizzazione sono, inoltre, cospicui, e non sempre, né per chiunque, può essere chiara l’utilità delle molteplici indicazioni che figurano di volta in volta prescritte. In un contesto simile, dopo ogni appuntamento elettorale un successivo controllo sistematico potrebbe, perciò, frequentemente far emergere la presenza nei verbali di omissioni di singoli dati, o l’esistenza, come in alcune delle sezioni appena viste, di minime divergenze numeriche (dove, per quanto esposto, la presenza di occasionali ed esigue discrepanze nella ricognizione di dati può invece essere considerata tutto sommato fisiologica). Orbene, se davvero bastassero irregolarità di tal fatta a inficiare la validità delle operazioni elettorali, pressoché qualsiasi consultazione sarebbe condannata in partenza al serio rischio di una vanificazione dei suoi effetti, con le conseguenze esiziali di un enorme dispendio di tempi e mezzi, e di gravi pregiudizi per la continuità amministrativa degli enti e, soprattutto, per la credibilità dei poteri pubblici. Gli adempimenti formali di cui si tratta, tuttavia, costituiscono un mezzo, e non un fine: il che conduce a restare doverosamente aderenti alla radicata elaborazione giurisprudenziale nota come canone della strumentalità delle forme, e, pertanto, a muovere da un principio di rispetto per la volontà popolare che ha trovato espressione attraverso la singola consultazione che viene posta sub iudice. Il C.g.a., tutto ciò posto, rileva che nella presente vicenda la reale esistenza di irregolarità sostanziali nelle operazioni di voto, come si è premesso, oltre a essere meramente congetturale, in quanto non suffragata da indici oggettivi e riscontri esterni di un eventuale deficit di libertà e genuinità nell’espressione del voto (le cui operazioni si svolgono, peraltro, sotto un diffuso controllo sociale), è anche ampiamente contraddetta dalle interpretazioni alternative delle risultanze disponibili. Dal che si desume la necessità di concludere nel senso del rispetto della volontà espressa dal corpo elettorale nel segno del principio di conservazione, non essendo emerse risultanze sostanziali che possano giustificare un esito opposto.
Elezioni
Covid-19 – Calabria – Ordinanza del Sindaco di Praia a Mare – Prescrizioni per locazione case di villeggiatura – Non vanno sospese      Deve essere respinta, per mancanza del requisito del danno grave e irreparabile, l’istanza di sospensione monocratica dell’ordinanza del Sindaco di Praia a Mare che ha disposto, dal 3 giugno 2020 fino al 30 settembre 2020, tra l'altro, l'obbligo, per i proprietari /usufruttuari/titolari di diritti reali di abitazione/d'uso o di diritti personali di godimento delle “seconde case”, di comunicazione del periodo di permanenza 10 giorni prima dell'arrivo, allegando relativa autodichiarazione di non essere sottoposto alla misura della quarantena ovvero di non essere risultati positivi al COVID – 19 o in mancanza abbiano eseguito due tamponi rino-faringei negativi consecutivi, consentendo ai soli membri del nucleo familiare del titolare dei diritti reali sull'immobile la possibilità di utilizzare lo stesso, senza alcuna eccezione; nonché il permesso, per i proprietari/usufruttuari di “seconde case”, nel caso vogliano concedere le stesse a titolo oneroso o gratuito a persone non residenti nel Comune di Praia a Mare, di locarle per massimo 3 persone oltre i minori e i disabili, con l'obbligo di comunicare, almeno 15 giorni prima dell'arrivo degli ospiti: il periodo di permanenza di quest'ultimi, la composizione del nucleo familiare, che non può eccedere il numero di 3 persone, e l'autocertificazione di non essere sottoposti alla misura della quarantena o di non essere risultati positivi al Covid – 19 o che, se risultati positivi, siano stati effettuati due tamponi rino – faringei negativi.
Covid-19
Contratti della Pubblica amministrazione - Appalto servizi - Principio di equivalenza – Applicabilità.          Il principio di equivalenza di cui all’art. 68, d.lgs. n. 50 del 2016 trova applicazione ex lege anche negli appalti di servizi (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che il principio di equivalenza di cui all’art. 68, d.lgs. n. 50 del 2016 trova applicazione ex lege anche negli appalti di servizi, come ad abundantiam reso evidente dall’allegato XIII, comma 1, lett. b), del medesimo d.lgs., ove si precisa che, “nel caso di appalti pubblici di servizi o di forniture”, per “specifiche tecniche”, dizione utilizzata nella rubrica dell’art. 68 cit., si intendono “le specifiche contenute in un documento, che definiscono le caratteristiche richieste di un prodotto o di un servizio, tra cui i livelli di qualità, i livelli di prestazione ambientale e le ripercussioni sul clima, una progettazione che tenga conto di tutte le esigenze (compresa l’accessibilità per le persone con disabilità) e la valutazione della conformità, la proprietà d’uso, l’uso del prodotto, la sicurezza o le dimensioni, compresi i requisiti applicabili al prodotto quali la denominazione di vendita, la terminologia, i simboli, il collaudo e i metodi di prova, l’imballaggio, la marcatura e l’etichettatura, le istruzioni per l’uso, i processi e i metodi di produzione ad ogni stadio del ciclo di vita della fornitura o dei servizi, nonché le procedure di valutazione della conformità”. ​​​​​​​Il principio di equivalenza trova applicazione anche in assenza di un’espressa previsione del bando, in quanto principio generale della materia degli appalti pubblici. Tale circostanza non è pleonastica, ma riveste un rilievo oggettivo. Anche in virtù di tale richiamo, infatti, trae ulteriore conferma la conclusione secondo cui le “caratteristiche minime stabilite nella documentazione di gara” non debbono intendersi come vincolanti nel quomodo, ma soltanto quoad effectum: le offerte, in altre parole, rispettano la lex specialis ove comunque capaci di conseguire il fine ultimo (e, a ben vedere, esclusivo) dell’affidamento, consistente nel miglioramento delle percentuali di raccolta differenziata. L’apprezzamento operato in proposito dalla stazione appaltante ha natura tecnico-discrezionale ed è, come tale, sindacabile in sede giurisdizionale solo ab externo in presenza di macroscopiche abnormità, afferendo al margine di valutazione ex lege riservato all’Amministrazione. Tale apprezzamento, inoltre, non deve esternarsi un una specifica dichiarazione (invero non richiesta da alcuna norma), ma è implicito nell’attribuzione di punteggio al concorrente.
Contratti della Pubblica amministrazione
Edilizia - Abusi – Ordinanza di demolizione – Immobile sequestrato in sede penale – Nullità – Esclusione.                L’ordinanza di demolizione che abbia per oggetto un immobile sequestrato in sede penale non è nulla, ma perfetta e valida, seppur temporaneamente priva di esecutività e, quindi, non suscettibile di esecuzione finché mantiene efficacia il sequestro (1).      (1) Il C.g.a. ha chiarito di non condividere la tesi che reputa nulla, nella sostanza per impossibilità dell’oggetto, l’ordinanza comunale a demolire un manufatto abusivo in pendenza del predetto sequestro penale. L’oggetto di un’ordinanza siffatta, anche perdurante il vincolo penale, esiste nella sua materialità e spiega per intero la sua antigiuridicità. Non si è in presenza insomma di un oggetto “impossibile”. Semmai, questo sì, stante quanto sopra considerato in merito all’inesistenza di un obbligo o di un onere di collaborazione contra se con l’autorità amministrativa, per tutta la durata del sequestro l’ordinanza di demolizione non potrà essere eseguita (in assenza della collaborazione dell’interessato nei modi sopra precisati). La provvisoria mancanza dell’esecutività dell’ingiunzione a demolire non può però riverberarsi, a ritroso, sulla validità giuridica del provvedimento. In altri termini, anche qualora ricada su un immobile sequestrato in sede penale, l’ingiunzione a demolire è un provvedimento perfetto e giuridicamente valido, in quanto avente un oggetto individuato e possibile; la medesima ordinanza, invece, è carente di esecutività in ragione di un vincolo esterno rappresentato dal sequestro penale e fintanto che duri l’efficacia del sequestro. Allorquando tale efficacia venga a cessare l’esecutività dell’ordinanza di demolizione, precedentemente sospesa, si riespanderà automaticamente e l’ingiunzione potrà essere eseguita, senza alcuna necessità di un riesercizio dello specifico potere repressivo.  La riespansione dell’esecutività dell’ordinanza di demolizione in precedenza adottata, dopo la cessazione del provvedimento di sequestro, non può però conculcare il diritto del soggetto ingiunto di eseguire spontaneamente la demolizione, prestando ottemperanza al relativo ordine, entro il termine di legge. Onde tutelare questo diritto, pertanto, il Comune, una volta acquisita notizia della cessazione del sequestro, dovrà notificare nuovamente l’ordinanza di demolizione già in precedenza adottata all’interessato, a questi concedendo un nuovo termine per l’eventuale ottemperanza.
Edilizia
Pubblica istruzione – Studenti disabili – Esame conclusivo del primo ciclo di istruzione – Ammissione senza Pei o redatto a fine anno – Illegittimità.            É illegittima l’ammissione all’esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione di un alunno disabile senza avere prima seguito il percorso normativamente previsto per la sua disabilità e quindi in violazione del suo diritto ad acquisire abilità e miglioramenti e soprattutto in assenza del PEI, mancanza alla quale va equiparato la sua redazione solo a fine anno, e quindi certamente non utilizzato per lo scrutinio dell’alunno (1).   (1) Ha ricordato il C.g.a. che il diritto all'istruzione è parte integrante del riconoscimento e della garanzia dei diritti dei disabili, per il conseguimento di quella pari dignità sociale che consente il pieno sviluppo e l'inclusione della persona umana con disabilità e che l’alunno disabile ha diritto a seguire il corso degli studi obbligatori utilizzando una serie di strumenti previsti come obbligatori ed inderogabili al fine di garantire l’effettiva integrazione e l’effettiva partecipazione all’apprendimento. Il diritto all’istruzione dei disabili, ascritto nella categoria dei diritti fondamentali, passa attraverso l’attivazione dell’Amministrazione scolastica per la sua garanzia, mediante le doverose misure di integrazione e sostegno atte a rendere possibile ai portatori disabili la frequenza delle scuole e l’insieme delle pratiche di cura e riabilitazione necessarie per il superamento ovvero il miglioramento della condizione di disabilità e per quel che qui rileva anche la coerente acquisizione di competenze-seppur ridotte- scolastiche. Tra le misure di integrazione e sostegno previste dal legislatore per garantire l'effettività del diritto all'istruzione del disabile vi è la somministrazione delle ore di insegnamento attraverso un docente specializzato e il supporto di ulteriori figure specializzate di sostegno, tutte parimenti necessarie, non intercambiabili e costanti nella durata del percorso scolastico. L’art. 11, d.l.gs. n. 62 del 2017 prevede infatti per gli studenti che la valutazione debba essere riferita “al comportamento, alle discipline e alle attività” svolte sulla base del PEI e che l’ammissione all’esame di Stato va fatta sempre con riferimento al PEI; mentre la l. n. 104 del 1992 ha la finalità di garantire e promuovere l’integrazione del disabile non solo nella famiglia, ma, anche nella scuola, attraverso mezzi adeguati.
Pubblica istruzione
Professioni e mestieri – Cartomanti – Esercizio non truffaldino – Liceità.             Non è vietata, ai sensi dell’art. 121 T.U.L.P.S., l’attività di cartomanzia che non sia esercitata con modalità truffaldine o comunque idonee ad abusare della credulità popolare (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che sulla base della definizione semantica del termine, dopo averlo opportunamente sfrondato da soverchi relitti storico-letterario (come quello inteso a rievocare la figura romantica del venditore girovago di pozioni miracolose o filtri magici), tale può considerarsi, nel contesto storico attuale, chi non si limita ad offrire al pubblico un servizio o prodotto, per quanto di scientificamente indimostrata ed indimostrabile utilità ed efficacia, ma ne esalta le proprietà e le virtù con il ricorso a tecniche persuasive atte ad indebolire e vincere le capacità critiche e discretive dei possibili acquirenti. Deve invero osservarsi che nell’ambito di un ordinamento giuridico imperniato, come quello vigente, sul principio di libera determinazione degli individui, in cui lo Stato ha pressoché dismesso ogni funzione latamente paternalistico-protettiva e di orientamento etico nei confronti dei consociati, anche le dinamiche di mercato sono tendenzialmente affidate, dal lato della domanda e dell’offerta, alla libera interazione dei suoi protagonisti, i quali, con le loro scelte, determinano l’oggetto dello scambio, ne apprezzano, secondo insindacabili valutazioni di carattere soggettivo, l’utilità e ne determinano, infine, il valore (economico): sempre che, naturalmente, non vengano compromessi beni e valori di carattere superiore (come l’ordine pubblico, il buon costume, la salute dei cittadini ecc.), di cui lo Stato conserva l’irrinunciabile funzione di tutela. In tale contesto, anche un servizio che, in apparenza, sia oggettivamente privo o comunque di indimostrabile utilità, quale può essere considerata l’attività divinatoria propria del cartomante, in quanto riconducibile alle cd. scienze occulte o esoteriche (per definizione non sottoponibili a prove di verificabilità), può rappresentare un bene “commerciabile”, perché idoneo a rispondere ad una esigenza, per quanto illusoria ed opinabile, meritevole di soddisfacimento e, in quanto tale, suscettibile di generare, in termini mercantili, una corrispondente “domanda”. Tale può essere, appunto, quella di chi cerchi l’alleviamento dei suoi dubbi esistenziali o la rassicurazione delle sue certezze nei “segni” ricavabili, attraverso la mediazione del cartomante, dalla lettura ed interpretazione delle “carte”. Del resto, proprio la complessità del mondo attuale, generatrice di incertezza e smarrimento, fa sì che la cartomanzia, con la sua aspirazione a trovare un ordine invisibile in una realtà frammentata e incoerente, assuma una funzione (non solo non dannosa, ma) anche - socialmente o individualmente - utile, fornendo (o tentando di fornire), a chi non sappia o voglia trovarlo su più affidabili terreni, riparo dalle paure e dalle contraddizioni della modernità. Inoltre, è evidente che se in un contesto sociale di bassa alfabetizzazione, quindi di maggiore esposizione del pubblico alle lusinghe di spregiudicati imbonitori, quale era quello degli inizi del secondo ventesimo, la soglia della difesa sociale era opportunamente fissata ad un livello inferiore, questa non potrebbe che attestarsi ad un punto più avanzato una volta che la stessa società, grazie al processo di diffusione culturale realizzatosi nei decenni successivi (fino a raggiungere l’acme nel tempo attuale), ha generato gli “anticorpi” necessari a proteggere i suoi componenti dalla tentazione di cedere alle fragili quanto illusorie speranze di precognizione del futuro: ciò che induce a ritenere che chi si rivolge al cartomante non è necessariamente mosso da ingenua credulità (ma, ad esempio, da semplice curiosità o desiderio di svago) né fatalmente abdica al proprio spirito critico, abbandonandosi remissivamente alle sue suggestioni. In tale quadro, di cui non può non tenere conto l’interpretazione di disposizioni nate in un diverso e ben più risalente (dal punto di vista socio-economico ed istituzionale) contesto, deve rilevarsi che, come anticipato, la stessa fattispecie regolamentare pone l’accento sulle specifiche modalità di svolgimento dell’attività del cartomante, disponendo che essa, per non tracimare nella sfera operativa del divieto, non debba tradursi nella “speculazione sull’altrui credulità” ovvero nello “sfruttamento o alimentazione dell’altrui pregiudizio”. Ebbene, premesso che anche il servizio cartomantico implica l’impegno di energie (materiali ed intellettuali), e quindi ha una sua concreta tangibilità economica, atta a fungere da elemento corrispettivo del contratto stipulato con il richiedente (sebbene nelle forme semplificate proprie del contatto telefonico o comunque “a distanza”), e che i concetti stessi di “speculazione” e di “sfruttamento” implicano la ricerca ed il conseguimento di un utile sovradimensionato rispetto alle risorse impiegate o all’effettivo valore economico del bene e/o servizio scambiato, ciò che assume non secondario rilievo, per i fini de quibus, è appunto la sussistenza di un rapporto di proporzione tra il “servizio” divinatorio offerto ed il prezzo richiesto e pagato per riceverlo: con la conseguenza che, a segnare il discrimine tra attività di cartomanzia e ciarlataneria, ovvero al fine di identificare la connotazione “speculativa” o “profittatrice” della stessa, sono proprio i mezzi e le modalità impiegate al fine di offrire al pubblico la “prestazione” profetica. Da tale punto di vista, lo sconfinamento nell’area della “ciarlataneria” si verifica appunto quando il “messaggio” commerciale che accompagna l’offerta del servizio tende a rappresentare la prestazione divinatoria non nella sua impalpabile valenza predittiva, ma come strumento realmente efficace ed infallibile per la preveggenza del futuro, con la connessa richiesta di una contropartita commisurata al maggior valore che la prestazione, per come artatamente rappresentata, assumerebbe, ovvero quando, per le modalità e/o le circostanze in cui si svolge la relazione tra cartomante e cliente, essa denota l’approfittamento da parte del primo della eventuale situazione di particolare debolezza psicologica del secondo. In altre parole, finché la prestazione cartomantica viene offerta nella sua reale essenza ed il corrispettivo pattuito conserva un ragionevole equilibrio con la stessa, non è dato discutere di “speculatività” dell’attività del soggetto erogatore; laddove, invece, alla stessa vengano attribuite proprietà prodigiose o taumaturgiche e, facendo leva su di esse, sia richiesto un corrispettivo sproporzionato rispetto alla sua valenza meramente “consolatoria”, potrà dirsi integrata l’ipotesi (vietata) della “ciarlataneria”.
Professioni e mestieri
Contratti della pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Provvedimenti interdittivi amministrativi – Periodo – Massimo tre anni. In sede di gara pubblica, ai provvedimenti interdittivi amministrativi, salvo che essi rechino una maggiore durata della inibizione a contrarre, può riconoscersi valenza ostativa per un periodo in ogni caso non superiore a tre anni, “decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo” (1). (1) L’art. 80, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016, delimita e circoscrive l’efficacia temporale della valenza ostativa delle sentenze di condanna e degli atti di “accertamento definitivo”; si è in presenza, in questi casi, del fenomeno, ben noto alla teoria generale, della cd. digressione dell’atto in fatto: la sentenza o il provvedimento amministrativo di accertamento della violazione sono presi in considerazione da altra norma, e ad altri fini, per inferirne un giudizio normativo di “incapacità” o di “inaffidabilità” per un determinato periodo temporale. Di talchè, ai provvedimenti interdittivi amministrativi, salvo che essi rechino una maggiore durata della inibizione a contrarre, può riconoscersi valenza ostativa per un periodo in ogni caso non superiore a tre anni, “decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo”. In questo caso la potenziale rilevanza di tali provvedimenti, ai fini dell’esercizio della discrezionale potestas di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, è effettuata in via generale ed astratta dalla norma ed è, pertanto, pienamente percepibile e conoscibile dall’operatore professionale; di qui la esigibilità del relativo obbligo dichiarativo. Al di fuori delle dette circostanze – tipizzate dalla legge in quanto irrimediabilmente ostative, ovvero potenzialmente rilevanti ai fini della valutazione discrezionale circa la esistenza di gravi illeciti professionali - la chiara delimitazione delle ulteriori informazioni necessarie alla formulazione del giudizio di piena “affidabilità” ed “integrità” del partecipante non può che essere effettuata dalla medesima stazione appaltante con la legge di gara, in guisa: – da preventivamente apprestare, secondo la qualificata diligenza esigibile anche dalla Amministrazione ed in ossequio al principio di autoresponsabilità, i “mezzi adeguati” per acquisire un compiuto patrimonio informativo; – poter consapevolmente ed effettivamente assolvere all’onere, in capo ad essa Amministrazione gravante, di dimostrare la esistenza di quelle gravi violazioni professionali, idonee ad incrinare il giudizio di affidabilità ed integrità della impresa; – consentire a tutti i concorrenti di percepire, ex ante e secondo la professionale diligenza da loro esigibile, la effettiva portata degli obblighi di informazione “ulteriori” di cui la stazione appaltante abbisogna (ulteriori rispetto a quelli naturaliter discendenti dalle prescrizioni di legge ed afferenti alle circostanze che ex se valgono ad integrare i motivi di esclusione tipizzati all’art. 80 del d.lgs. 50/16). Le informazioni da fornire alla stazione appaltante – ed i correlati obblighi gravanti in capo ai concorrenti- sono quelle che, anche solo in linea di principio, l’Amministrazione dovrebbe ottenere per poter esplicare appieno, plena cognitio, la propria potestas di conduzione della gara e di aggiudicazione della pubblica commessa all’offerente “migliore”, anche perchè pienamente affidabile sotto il profilo della onorabilità e professionalità. In questa ottica l’art. 80, comma 5, lett. f-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 munisce di espressa sanctio iuris, il generale obbligo di clare loqui – a sua volta espressione dei canoni fondamentali di buona fede e correttezza che devono sempre e comunque informare i rapporti tra le parti, sin dal momento del loro primo “contatto”- allo scopo di rendere effettivo il flusso di informazioni che deve pervenire alla stazione appaltante ad opera dei partecipanti, sancendo l’autonoma rilevanza escludente della veridicità delle dichiarazioni rese nella domanda di partecipazione. La natura “non veritiera” o “falsa” di una dichiarazione rilevante ex art. 80, comma 5, lett. f-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 può realizzarsi anche attraverso la omissione o la incompletezza (reticenza) delle informazioni fornite, quando l’informazione omessa o resa in modo parziale o incompleto attribuisce al tenore della dichiarazione un senso diverso, così che l’enunciato descrittivo venga ad assumere nel suo complesso un significato contrario al vero o negativo dell’esistenza di fatti rilevanti”; e tuttavia ciò presuppone la esistenza: – a latere oggettivo, di un obbligo di informazione e di dichiarazione, sufficientemente specifico e determinato, e relativo a fatti (e non già a giudizi o “qualificazioni”); – a latere soggettivo, della coscienza e volontà di rendere una dichiarazione falsa e, dunque, il dolo generico dell’agente e non già il dolo specifico, irrilevanti essendo le concrete intenzioni dell’agente, non essendo richiesto l’animus nocendi o decipiendi; Gli obblighi di collaborazione (e di dichiarazione) del partecipante alla gara non possono che attestarsi alle soglie della ragionevole “esigibilità” del contegno, da escludersi in nuce nel caso in cui la esistenza stessa dell’obbligo sia oggettivamente non percepibile, in quanto non discendente dalle norme né, tampoco, individuata o lumeggiata nella lex specialis. Oltrepassata tale soglia, invero, si entra nel terreno: – della scusabilità della condotta, in quanto indotta dalla scarsa chiarezza ovvero dalla equivocità delle prescrizioni di gara, suscettibili di diversa significanza e interpretazione; – del potere-dovere per la stazione appaltante di consentire ai partecipanti –indotti in incolpevole errore dalla equivocità delle prescrizioni- di “presentare, integrare, chiarire, o completare le informazioni o la documentazione asseritamente incomplete, errate o mancanti entro un termine adeguato” (CGUE, 2 maggio 2019, C-309/18, cit., § 23, con il pregnante richiamo ivi contenuto all’art. 56, par. 3, della direttiva 2014/24/UE).
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Utile di impresa – Raggiungimento del maggior utile possibile – Interesse protetto del concorrente – Esclusione.             Non sussiste un interesse protetto dell’operatore economico a che un bando sia formulato in termini tali da garantirgli il maggior utile possibile o il minor spreco di risorse, poiché l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione è volto a garantire la migliore gestione dei servizi in termini di efficienza, efficacia ed economicità, interesse fisiologicamente diverso da quello dell’operatore economico, volto a conseguire un utile d’impresa (1).      (1) La Sezione ha pronunciato sul ricorso proposto dal concorrente ad una gara per l’affidamento del servizio di vitto ai detenuti di un penitenziario.  Quanto all’immediata impugnazione della lex specialis di gara ha ricordato che il Collegio che, alla luce dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 26 aprile 2018, n. 4 (che ha richiamato propri precedenti in termini: 29 gennaio 2003, n. 1 e 17 aprile 2011, n. 4), “le clausole non escludenti del bando […][vanno] impugnate unitamente al provvedimento che rende attuale la lesione (id est: aggiudicazione a terzi), considerato altresì che la postergazione della tutela avverso le clausole non escludenti del bando, al momento successivo ed eventuale della denegata aggiudicazione, secondo quanto già stabilito dalla decisione dell'Adunanza plenaria n. 1 del 2003, non si pone certamente in contrasto con il principio di concorrenza di matrice europea, perché non lo oblitera, ma lo adatta alla realtà dell'incedere del procedimento nella sua connessione con i tempi del processo”.  L’elaborazione giurisprudenziale sul tema ha più volte chiarito che la regola generale è quella per cui soltanto colui che ha partecipato alla gara è legittimato ad impugnarne l'esito (essendo titolare di una posizione differenziata) e che i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi a identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento e a rendere attuale e concreta la lesione. Le eccezioni, che impongono l’onere di immediata impugnazione, possono essere ricondotte alle ipotesi in cui (i) si contesti in radice l'indizione della gara, (ii) si contesti che una gara sia mancata, avendo l'amministrazione disposto affidamento in via diretta del contratto, (iii) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le stesse siano immediatamente escludenti (Cons. Stato, sez. V, 29 aprile 2019, n. 2732). Devono, in altre parole, essere immediatamente impugnate le sole clausole immediatamente escludenti o che impediscono la partecipazione alla gara e la presentazione di un’offerta.  Come riconosciuto dalla citata Adunanza plenaria n. 4 del 2018, la giurisprudenza ha poi fatto rientrare nel genus delle “clausole immediatamente escludenti” anche le fattispecie di (a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale; (b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; (c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara, ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta; (d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente; (e) clausole impositive di obblighi contra ius; (f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (come, ad esempio, quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbito dall’aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di 0 pt.); (g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso” (Cons. Stato, sez. V, 29 aprile 2019, n. 2732; id., sez. III, 28 settembre 2020, n. 5705).​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Appello – Estensione del contraddittorio – Ai controinteressati pretermessi in primo grado - Possibilità - Condizione.        Per economia processuale è possibile integrare il contraddittorio in appello nel caso in cui i controinteressati pretermessi non avrebbero potuto ottenere in primo grado, con la reiezione del ricorso, un esito diverso e più soddisfacente della loro sfera giuridica (1).    (1) La Sezione ha affermato di condividere pienamente gli arresti dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (30 luglio 2018, nn. 10 e 11; 5 settembre 2018, n. 14; 28 settembre 2018, n. 15) secondo cui l’esigenza di evitare inutili e defatiganti allungamenti dei tempi del processo (oggi ancor più rilevante alla luce dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo) assume un ruolo centrale per evitare interpretazioni dell’art. 105 c.p.a. non consentite dalla sua puntuale portata letterale. “L’enfatico e suggestivo richiamo al doppio grado del giudizio, anche in chiave costituzionale, non risolve, quindi, il problema del rapporto tra la decisione del primo giudice e quella del secondo giudice. Questo rapporto deve trovare soluzione solo in una rigorosa e tassativa analisi dell’art. 105 c.p.a. e delle altre disposizioni, sopra richiamate, in materia di appello. Proprio l’esegesi puntuale dell’art. 105 non consente di includere tra i casi di annullamento con rinvio l’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione, in cui il giudice di primo grado abbia erroneamente dichiarato il ricorso inammissibile (ed identiche considerazioni valgono con riferimento all’erronea dichiarazione di irricevibile e di improcedibilità)”.  E’ proprio la richiamata esigenza di economicità del giudizio – peraltro particolarmente avvertita nelle controversie, come quelle in materia di accesso, nelle quali è stato il legislatore a ritenere ancora più necessaria la rapida definizione della causa – che induce, nel caso in esame, a ritenere possibile integrare il contraddittorio nella fase di appello, senza rimandare, annullando la sentenza, di nuovo la questione al Tar.  Ed infatti, ancora richiamando l’insegnamento dell’Adunanza plenaria, la “mancanza del contraddittorio” è così essenzialmente riconducibile all’ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento.  Peraltro, in applicazione del principio della ragione più liquida, l’art. 49, comma 2, c.p.a. consente al giudice di pronunciare anche a contraddittorio non integro quando il ricorso risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato. È evidente in tale previsione la ratio di economia processuale che consente di prescindere da incombenti inutili (l’integrazione del contraddittorio o il rinvio al primo giudice affinché disponga l’integrazione del contraddittorio) quando le risultanze già acquisite consentono di definire il giudizio in senso sfavorevole per la parte ricorrente (Cons. Stato, ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5; id., sez. IV, 1 giugno 2016, n. 2316). Ed invero, opinare diversamente – e cioè ritenere che la mancata integrazione del contraddittorio in primo grado, nel caso in cui il ricorso sia respinto (o dichiarato irricevibile, inammissibile, improcedibile), comporti in ogni caso l’annullamento con rinvio – finirebbe per vanificare la portata acceleratoria del comma 2 dell’art. 49 perché il giudice di primo grado sarebbe portato, prudenzialmente, a disporre sempre l’evocazione in giudizio di tutte le parti, anche se ritenga di dover respingere il ricorso, per evitare il rinvio della causa da parte del giudice di appello.  Giova aggiungere – ed il rilievo assume carattere assorbente di ogni altra considerazione – che se è vero che, nel caso all’esame del Collegio, ai controinteressati pretermessi sarebbe stato tolto un grado di giudizio, è altresì certo che il primo grado si è concluso con una pronuncia favorevole agli stessi, cosicché nessun ulteriore apporto avrebbero potuto portare.  Corollario di tale premessa è che non è configurabile una lesione del diritto di difesa nel caso in cui la causa sia stata definita con una sentenza del tutto conforme alla posizione giuridica della parte non evocata, che non risulta pertanto lesa dalla decisione del Tar. A conclusione diversa si deve pervenire, invece, nel caso in cui la sentenza contenga, anche nella motivazione, spunti che possano essere pregiudizievoli alla parte alla quale non è stato consentito di costituirsi in giudizio.  ​​​​​​​Privilegiando una lettura rigida del principio del doppio grado del giudizio, si onererebbe la parte vittoriosa a tornare avanti al primo giudice, a seguito dell’annullamento con rinvio, per ottenere auspicabilmente una decisione di identico tenore, il tutto in grave spregio del principio di economicità dei mezzi processuali e di ragionevole durata del processo (Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77).    
Processo amministrativo